Orfeo secondo Pausania
Pausania (10, 30,6-8) descrive gli affreschi di Polignoto nella Lesche dei Cnidi a Delfi. Nell’oltretomba che il pittore vi aveva raffigurato più di sei secoli prima, trova Orfeo. Non è l’Orfeo che si reca nell’aldilà per riprendersi Euridice, ma è un morto tra gli altri. Sta accanto a Patroclo «su quello che sembra una specie di tumulo; ha nella sinistra un’arpa e con la destra tocca un salice» a cui si appoggia.
Tutto regolare per Pausania: l’arpa è ovvio che serva a definire l’arte di Orfeo; il salice definisce altrettanto ovviamente il luogo infernale, ossia «il bosco di Persefone dove crescono pioppi neri e salici», secondo l’opinione di Omero (Od. 10, 510) puntualmente citato. Ma una cosa sorprende Pausania: «la figura di Orfeo è greca, né la sua veste né il suo copricapo sono traci.» Noi però non ci meravigliamo, ma constatiamo: all’epoca di Polignoto Orfeo non era un trace, mentre all’epoca di Pausania deveva essere un trace; tant’è che Pausania 5 volte su 13, quando parla di lui, ritiene necessario definirlo «il trace». Forse è un caso, ma potrebbe trattarsi anche di una specificazione intesa a rilevare un particolare aspetto di Orfeo, se non proprio a distinguere un Orfeo greco da un Orfeo trace.
A seguire questo eventuale indizio, parrebbe che l’attributo di trace toccasse l’Orfeo «mago» e non l’Orfeo poeta-cantore. Almeno quando Pausania riporta l’opinione di un egiziano, il quale sosteneva che «Anfione e Orfeo, il Trace, fossero maghi eccezionali (μαγεῦσαι δεινόν)» (6, 20, 18).
Un altro passo (3, 13, 2) suona così: «Di fronte al tempio di Afrodite Olimpia i Lacedemoni hanno il tempio della Kore Soteira: dicono che l’abbia fatto Orfeo il Trace, altri Abaris di ritorno dagli Iperborei». La doppia attribuzione equivale ad una equiparazione; e notiamo: questo Orfeo trace viene equiparato al «mago» Abaris e non ad un mitico poeta-cantore (per es. a Museo come Pausania fa in un paio di occasioni: 1, 14, 3; 10, 7, 2).
Ed ecco un terzo passo (2, 30, 1): «Tra gli dèi, gli Egineti venerano soprattutto Hekate, in cui onore ogni anno celebrano una cerimonia (τελετὴν) che dicono istituita da Orfeo, il Trace.» Hekate era appunto la dea degli operatori magici, come diremmo per un orientamento di massima, con riferimento più all’epoca di Pausania che non all’età classica.
In una quarta occasione (5, 26, 3) Pausania nomina Orfeo specificandolo come trace, ma questa volta senz’ombra di «magia». Si tratta di un elenco di statue divine offerte a Olimpia da Mikytos di Reggio esiliato in Arcadia; ne parla Erodoto (7, 170), ricordando anche che «dedicò molte statue ad Olimpia». In questo caso Pausania, trovando Orfeo tra Zeus e Dioniso, avrà forse voluto rilevare la sua «umanità» rispetto alla «divinità» degli altri due: l’avrebbe fatto fornendo la «nazionalità» di Orfeo, cosa possibile per un uomo ma impensabile per un dio.
Infine la quinta volta in cui ricorre la specificazione di trace: è il lungo passo (9, 30, 4-12) dove Pausania raccoglie tutte le notizie che possiede su Orfeo. Diremmo che qui non ha potuto fare a meno di definirlo trace, dato che, come vedremo, egli intende contestare l’immagine che di Orfeo avevano i Greci, quasi contrapponendo una realtà «tracia» ad una mitizzazione «greca».
Quanto all’Orfeo «greco», ovvero l’Orfeo che Pausania non ritiene di designare come trace, esso compare in funzione di fondatore di culti o semplicemente di cantore-poeta.
Semplicemente? Intanto la stessa concezione greca di cantore-poeta è tutt’altro che semplice, incontenibile com’è nella pura dimensione artistico-letteraria; ma poi, quando si tratta di Orfeo, c’è di più. C’è la sua mitica azione fondante la realtà che diremmo globalmente mistica; è una realtà che egli, con l’attendibilità che i Greci attribuivano ai poeti, rivelava agli iniziati e non doveva fuoriuscire dall’ambito rigorosamente cultuale a cui era destinata.
Così l’Orfeo «greco» di Pausania, quando compone un poema su Eros, la fa perché «venisse cantato dai Lycomidi nei loro dròmena» (9, 27, 2) e non semplicemente per poetare. Tant’é che lui non si mette in gara con gli altri poeti. Lo fa rilevare Pausania quando parla dei giochi pitici e dice che la più antica delle gare da essi contemplate era una gara di poesia; ma a questa gara «Orfeo rifiutò di sottoporsi, per la serietà di un discorso sulle teletài o anche per superbia» (10, 7, 2).
Tutto sommato, la funzione poetica e la funzione iniziatica si fondono e si confondono in questo Orfeo «greco», o piuttosto del quale Pausania, forse volutamente o forse no, comunque tralascia di specificare la nazionalità tracia. Ma potremmo aggiungere: entrambe le funzioni si prolungano fino a toccare anche l’Orfeo «trace»; il che ci costringe a riconsiderare ogni cosa per accedere ad un ulteriore livello interpretativo.
Muoveremo dal fatto che la qualifica di mago, ovvero di possedere la capacità di mageuein, deriva ad Orfeo dall’opinione di un egiziano circa una tradizione ellenica. In fondo l’egiziano in questione cercava di spiegare in termini non greci una valutazione tipicamente greca del poeta-cantore. Diremmo: un sistema di valori, quello rappresentato dall’egiziano, cercava di ridurre a sé un valore d’altro sistema, quello espresso dalla cultura greca classica e attestato da Pindaro, da Simonide, da Eschilo, da Euripide. Naturalmente non intendo dire che l’egiziano portato in causa da Pausania rappresentasse la cultura egiziana in contrapposizione alla cultura greca. Intendo invece contrapporre la cultura greca classica alla cultura ellenistico-romana, ovvero alla cultura mediterranea comune alla quale appartenevano tanto Pausania quanto il suo interlocutore egiziano.
Simonide (frg. 40) aveva detto che, quando Orfeo cantava, gli uccelli volteggiavano sulla sua testa. Dice Egisto al coro, nell’Agamennone di Eschilo (vv. 1629, sg.): «Tu hai una lingua opposta a quella di Orfeo; lui otteneva tutto col fascino della voce…» E il coro delle Baccanti di Euripide (vv. 562, sgg.): «Orfeo, suonando la cetra, trascinava alle Muse gli alberi, trascinava le bestie selvagge.» E ancora Euripide fa dire a Ifigenia (in Aulide; vv. 1211, sgg.): «Se io avessi la parola di Orfeo e col canto persuadessi le pietre a seguirmi.» Si tratta in ogni caso di una valutazione della mousiké e non della magèia.
Sappiamo quale fosse il posto della mousiké nel sistema di valori greco: era la «cultura» stessa, donde mousikòs non era soltanto il cantore, il musico, ma anche il dotto, il colto, l’istruito, il raffinato, persino lo scienziato, in contrapposizione all’ àmousos, cioè il rozzo, l’ignorante, 1’inelegante, il goffo. La mousiké proverbialmente e miticamente rendeva «culturale» il «naturale»: «trascinava alle Muse» prima di tutto gli uccelli, gli esseri più «musicali» del regno animale, ma poi anche belve feroci e, perché no?, anche gli alberi; infine persino le pietre. Tutto poteva essere «cosmicizzato», ossia riscattato alla cultura.
Far muovere le pietre col canto non era dimostrazione di poteri magici; significava invece la capacità che la mousiké-cultura aveva di ridurre a sé quanto di più naturale (= di meno umano) potesse trovare: non gli animali, che erano zôa, cioè «viventi» come l’uomo; non le piante che, come l’uomo, nascono, crescono, si riproducono e muoiono; ma le pietre. Gli animali e le piante si addomesticano, si usano come nutrimento; e le pietre? Le pietre in questo contesto hanno evocato la contrapposizione tra la «cultura» rappresentata dalla città e la «natura» rappresentata dalle pietre: la forma della città data dalla sua cinta muraria e la materia della cinta muraría stessa.
Abbiamo così il mito di Anfione che con la mousiké mette in movimento le pietre e le ordina fino a formare le mura di Tebe (che avevano sette porte, tante quante erano le corde della lira che accompagnava il suo canto). Tutto questo aveva un senso all’epoca classica e ne ebbe un altro all’epoca di Pausania; l’altro senso è appunto quello che Pausania coglie nell’opinione di un egiziano: Anfione, come Orfeo che ugualmente smuoveva le pietre, era un grande mago; il loro non era un cantare (ᾄδειν), ma un incantare (ἐπᾴδειν). Era finita l’epoca dei mousikòi, e al loro posto adesso operavano theourgòi e thaumatourgòi. I prodigi che la cultura classica attribuiva agli eroi del mito, adesso si trovavano all’angolo della strada.
Non che in epoca classica mancassero maghi, fattucchieri e simili; ma erano culturalmente emarginati. Costituivano — per così dire — un anti-modo o un’anti-cultura. A questo livello erano equiparabili a coloro che nei misteri cercavano una realtà oltremondana e perciò anche anti-mondana. Orfeo, o piuttosto il nome di Orfeo che inti-tolava la produzione letteraria dell’anti-mondo, conferiva ad essa una autorità «culturale»: collegava la cultura dei mousikòi con la cultura dei theurgòi-thaumatourgòi. Una ricerca in tal senso potrebbe cominciare con le parole che Euripide mette in bocca a Teseo contro Ippolito (Hipp. vv. 953 sgg.): «Prenditi per signore Orfeo e baccheggia venerando i fumi dei suoi molti scritti; sei un invasato; io raccomando a tutti di rifuggire da costoro: essi adescano con santi discorsi, ma macchinano turpitudini.»
Da Euripide a Pausania, il quale afferma: «Molte son le cose non vere che i Greci credono, tra l’altro che Orfeo sia figlio della musa Calliope e non di Calliope la figlia di Piero; che le belve lo seguivano affascinate dal suo canto e che sia andato da vivo nell’Ade per riavere la moglie dagli dèi di laggiù» (9, 30, 4). Insomma, per lui Orfeo era un uomo, e come tale aveva una nazionalità: era un trace della Pieria (geografia mitica !); siamo ben lontani da Pindaro, il quale affermava: «Da Apollo citaredo venne il padre dei canti, l’illustre Orfeo» (Pyth. 4, 177).
Comunque Pausania non è un «egiziano» e attribuisce ad Orfeo, ancor ché trace, una grandezza innanzitutto poetica, secondariamente teurgica, ma non anche magica. Dice nel luogo citato: «A parer mio Orfeo deve aver superato per la bellezza dei suoi versi tutti quelli che lo hanno preceduto, ed è giunto a tanta grandezza (ἐπὶ μέγα ἦλθεν ἰσχύος; l’espressione è ripresa da Tucidide, 2, 97, 4) in quanto ritenuto l’inventore di culti iniziatici (τελετάς θεῶν), purificazioni di peccati (ἔργων ἀνοσίων ϰαθαρμοὺς), rimedi per malattie e sistemi per scongiurare lo sdegno degli dèi.»
Quanto alla discesa nell’Ade per recuperare Euridice, Pausania evemeristicamente (ma in coerenza con l’umanità di Orfeo) la riduce ad una seduta spiritica, nel corso della quale si sarebbe messo in comunicazione con la morta in un nekyomantêion della Thesprotide (Epiro); poi «pensava che l’anima di Euridice lo avrebbe seguito, ma restò deluso quando si voltò a guardare» (9, 30, 6).
Euridice: un elemento della leggenda di Orfeo che recepiamo come fondamentale; eppure non spunta dal tronco orfico che a metà strada tra Euripide e Pausania. E’ Virgilio che lo mette in corso, forse attingendo al contemporaneo Diodoro Siculo (o forse viceversa). Prima, Euridice fu un nome utilizzato da Sofocle per la moglie di Creonte (nell’Antigone), nonché da principesse macedoni (tra cui la moglie di Tolomeo Lago).
Può darsi che ne sapesse qualcosa anche Euripide che nell’Alcesti fa dire ad Admeto: «Se io avessi la dolce lingua di Orfeo, così da strapparti all’Ade ammaliando con gli inni la figlia di Demetra e il suo sposo» (vv. 357 sgg.). Ma può darsi anche che nell’intenzione di Euripide le implacabili divinità dell’Ade prendessero semplicemente il posto che le fiere e le pietre avevano nel modello tradizionale. E magari che, proprio da un contesto in cui un marito (Admeto) vorrebbe essere un Orfeo per sottrarre alla morte la moglie (Alcesti), sia derivata la vicenda di Orfeo che placa le divinità infere e ottiene da loro di recuperare la propria sposa Euridice.