Sulla «filologia dei papiri virgiliani»: I P. Ness. II 1 E P. Ness. II 2
Più che il rigore paleografico e filologico, erano l’entusiasmo di una scoperta inaspettata in quel ripostiglio della chiesa dei Santi Sergio e Bacco nel forte di Auja el-Hafir e l’inspiegabilità del perché in una città bizantina della frontiera araba si leggesse Virgilio invece di Platone o Euripide ad animare la curiosità e gli interrogativi di Harris Dunscombe Colt: i P. Ness. II 1 e 2 erano l’espressione di un legame dell’antica Nessana con il fronte occidentale? O forse si trattava del Virgilio letto come anticipatore della cristianità? O qualcuno aveva portato con sé da una metropoli i suoi libri di scuola? O, ancora, i preti di quella chiesa tenevano delle lezioni di latino per i ragazzi della loro parrocchia? «Who read Vergil in the Wilderness of Zin?»2.
I P. Ness. II 1 e 2 rappresentano due documenti di singolare importanza nel campionario papiraceo virgiliano non solo per il contesto di rinvenimento – un deposito di documenti in greco, siriaco, aramaico, arabo nella Palestina meridionale – ma soprattutto perché si tratta dei più lunghi esemplari noti delle rispettive categorie librarie contenti il testo dell’ Eneide: da un lato, il P. Ness. II 1 è il più consistente tra i cosiddetti glossari digrafici bilingui, dall’altro il P. Ness. II 2 contiene il maggior numero di versi in un tipo di codice in cui c’era il solo testo latino3.
Espressione di un ambiente didattico, i P. Ness. II 1 e 2 meritano di essere analizzati l’uno indipendentemente dall’altro: l’aver trasmesso il testo di Virgilio e l’essere stati rinvenuti nello stesso contesto hanno, peraltro, costituito alcuni dei fattori che li hanno fatti spesso considerare insieme. Nell’editio princeps del 1950, ad esempio, Lionel Casson e Ernest L. Hettich avevano ritenuto che non fosse «too romantic» ipotizzare che le correzioni di una seconda mano intervenuta sul P. Ness. II 1 fossero state apportate a partire dal manoscritto del P. Ness. II 24. Più che romanzesca, si tratta, di un’ipotesi suggestiva, ma contro la quale vanno a deporre non solo il poter collazionare non più che una ventina di versi di cui sono latori entrambi i documenti ma anche l’impossibilità di rintracciare analogie sulle seconde mani che, a livello diverso, vi sono intervenute, e la non unilateralità di emendamenti nelle colonne greche e latine del P. Ness. II 15.
Conservati in dodici doppie lastre di vetro alla Pierpont Morgan Library di New York, dei 20 frammenti del P. Ness. II 1 dell’editio princeps ne sono rimasti solo 17, dal momento che i fr. III, VII e IX non sono più reperibili, forse dispersi per la loro esiguità: sulle lastre in luogo dei frammenti, disposti in base alla loro numerazione, ci sono etichette adesive «Piece xxx not found/June 1981». A questi, perὸ, sono da aggiungerne quattro inediti in una tredicesima lastra etichettata come «P. Colt 1, fragments», in cui sono rintracciabili circa sessanta frammentini appartenenti a diversi documenti: tentare un’identificazione dei frammenti riconducibili al P. Ness. II 1, per colore e fibra di papiro e per tipo di ductus ed inchiostro della pur scarsa quantità di scrittura, è, allo stato attuale, impossibile a causa delle loro dimensioni esigue e delle pressoché inconsistenti tracce di lettere. Da precisare, perὸ, è come questa lastra di inediti contenga almeno otto frammenti che fanno parte con certezza del P. Ness. II 2, dei quali soltanto quattro hanno un numero di lettere tale da consentirne l’identificazione ed il ricollocamento nella sequenza; ma non è questione sulla quale qui soffermarsi.
In realtà, parlare di «frammenti» è riduttivo se si pensa che, al di là di sezioni di pochi centimetri – è il caso, ad esempio, del fr. I, di 3,8 x 3,5 cm –, sono rimasti anche bifogli pressoché integri appartenenti all’originario codice, come è per il fr. XIX, di 39 x 27,2 cm; che il codice contenesse soltanto alcuni libri dell’Eneide o l’intera opera non è dato saperlo, per quanto una ricostruzione codicologica sia stata tentata nell’editio princeps6.
Esaminare analiticamente le 1036 linee del P. Ness. II 1 non è il fine di questa relazione7; ma ci si propone di passare in rassegna solo alcune particolarità del testo, dello scriba che lo ha vergato e della seconda mano che è intervenuta ad emendarlo.
Nell’editio princeps la quantità di errori ed imperfezioni del P. Ness. II 1 è considerata troppo alta perché attribuibili tutti al medesimo scriba: è possibile, infatti, che il codice si presenti come ricettacolo e «the end product of a long tradition»8. Senza dubbio, il numero di imperfezioni è elevato, ma la loro matrice risiede per lo più in fattori che possono essere in buona dose legati allo scriba, che, innanzitutto, è un parlante di una determinata area dell’Impero in un determinato momento storico e che doveva avere del latino e del greco una specifica percezione fonica. Si puὸ, dunque, tentare una differente lettura degli «errori» e smontare quella tripartizione proposta da Casson ed Hettich (12), i quali avevano distinto errori inclassificabili «wild and inconsequential» da quelli incanalabili in tipologie ricorrenti anche altrove, e, ancora, da quelli dettati dal desiderio di emendare il testo, questi ultimi soltanto attribuibili allo scriba.
Le scritture latina e greca, un’ogivale con elementi semionciali e una maiuscola ogivale entrambe inclinate e databili al VI d. C., sono tracciate dalla stessa mano con prevalenza della norma greca9: in questa direzione volgono lo stesso ductus per lettere dei due sistemi scrittori e le confusioni che emergono dal latino. Limitare le osservazioni alle imperfezioni delle colonne latine non significa che quelle greche ne siano immuni, ma deliberata è la scelta di soffermarsi solo su queste. Ad aυtem (563; Aen. 2, 101), in cui, in luogo di u c’è il suono equivalente concretizzato nella lettera υ e a cernec per cernas (857; Aen. 4, 401) dove c è piuttosto da intendere come c (sigma), bisogna ora accostare non solo aρtant (661; Aen. 4, 289), ma anche, al greco, omßpω (604), con una m dove ci si aspetterebbe un μ (Aen. 4, 249) ed il più «stravagante» f̣α̣χ̣χαι̣ (689; Aen. 4, 302)10.
È la non piena padronanza dei due alfabeti la causa di una serie di imperfezioni dello scriba: ruer per puer (120; Aen. 1, 475), inors per inops (685; Aen. 4, 300), incertis per inceptos (712; Aen. 4, 316), saere per saepe (955; Aen. 4, 463), paraver per papaver (1000; Aen. 4, 486) sono il segno di una confusione tra p e p, confusione che non è necessario astrarre dal copista e relegare al suo antigrafo. Segno dell’incomprensione della scrittura dell’antigrafo – e spia di elementi che dovevano caratterizzarne il tipo scrittorio – è anche la confusione fra e e c, nata forse – oltre che dalla non padronanza della lingua da parte del copista – da un antigrafo in cui dovevano essere simili: è il caso di Teueri per Teucri (325; Aen. 2, 48) e nune per nunc (404; Aen. 2, 65), poi corretti, e degli incorretti sacvit per saevit (684; Aen. 4, 300), carcat per careat (905; Aen. 4, 432) e illine per illinc (918; Aen. 4, 442). Se, perὸ, la confusione tra e e c è di tipo visivo e legata al ductus, quella tra r e p/ρ, implicando la trascrizione di un suono in un alfabeto differente da quello della lingua che si stava utilizzando, è piuttosto da inquadrare nella fase, se pure non della dettatura propriamente detta, di quel delicato passaggio dall’autodettatura alla trascrizione di una stringa.
La fotografia dell’antigrafo del copista del P. Ness. II 1 esce, dunque, spesso intorpidita da quelle imperfezioni da legare alla meccanicità della copia: errori di aplografia11; saut du même au même12; erroneo stacco delle sequenze13; mancata trascrizione dell’ultima lettera delle parole o della prima14; ma anche omissioni di lettere nella parola stessa15. Che la libertà che lo scriba del P. Ness. II 1 si permetteva fosse tale da attingere lezioni dall’ antigrafo e cambiarle in base ad una conoscenza della lingua latina che forse non aveva è più difficile ad ipotizzarsi: alcune imperfezioni meritano di restare isolate nella loro complessità, nell’impossibilità di stabilire se risalissero all’antigrafo. È il caso, ad esempio, di baccenatur per bacchatur (687; Aen. 4, 303), furtim per furto (753; Aen. 4, 337) o miserandus est per miseratus (799; Aen. 4, 370) ed altre occorrenze per cui ipotizzare errate trasposizioni alla copia dall’antigrafo è riduttivo, tanto più che spesso fanno fronte altrettanto errate traduzioni in greco. Spesso, poi, è aggiunta l’enclitica -que: oroque per oro (così tradotto in greco alla l. 717; Aen. 4, 319), coleremque per colerem (760; Aen. 4, 343). Singolare è il caso del Thyias (689; Aen. 4, 302) reso dallo scriba come Tyrias – con mancata registrazione dell’aspirata: forse che al copista si presentava, come lectio facilior, la Tiro di Didone o quella dei suoi tempi? È un caso che implica una più approfondita analisi, che potrebbe risultare tanto faticosa quanto rischiosa, come si puὸ constatare per altre occorrenze, delle quali ci si limita a fare menzione: blandire per ambire (652; Aen. 4, 283); matere per parens (787; Aen. 4, 365); paratae per peragat (934; Aen. 4, 452); sacra per festa (950; Aen. 4, 459); funalia per ferali (954; Aen. 4, 462). A proposito di alcune di queste ultime Casson ed Hettich si limitano a constatare – in riferimento all’edizione critica di Hirtzel – che «the text of poets like Vergil is singularly liable to mutations of this sort through inaccurate quotation»16. Nei casi, perὸ, di sacra per festa e di matere per parens è verisimile pensare ad una glossa: l’antigrafo avrebbe potuto contenere anche spiegazioni di alcune espressioni meccanicamente, e erroneamente, copiate dallo scriba, che deve averle considerate parte del testo dell’Eneide.
Rispetto al panduntur (222; Aen. 2, 27) di Casson ed Hettich, è da leggere pagduntur: che sulla terza lettera della parola gli editori fossero incerti è chiarito dal fatto che la prima n è puntata; per quanto in questa sezione il papiro sia danneggiato, è chiaro un tondino dal quale si dipartire un tratto obliquo facendo riconoscere una g, accanto alla quale si vede un segno che potrebbe essere un tentativo di emendamento. La g in luogo della n è un’imperfezione non poco significativa, perché, più che alla meccanicità della copia, potrebbe essere legata a peculiarità dello scriba in quanto parlante e ad un fenοmeno di gutturalizzazione della nasale o, più verisimilmente se si pensa al greco, nasalizzazione della gutturale.
C’è un ulteriore caso che merita attenzione per il tipo di correzione e per l’errore in sé: il correttore nota l’imperfezione di sig (305) e fa un trattino sulla consonante errata, aggiungendo nell’interlinea una c e restituendo sic (Aen. 2, 44). Ma l’errore dello scriba deve essere messo in parallelo con gui per cui (429; Aen. 2, 71) e erice per erige (1017; Aen. 4, 495): a metà fra il paleografico ed il fonetico, infatti, si colloca la confusione tra le due occlusive velari sorda /k/ e sonora /g/: c e g sono simili dal punto di vista grafico, ma la loro confusione potrebbe essere legata a problemi di pronuncia dei due suoni, uguali in tutto ma con una differente sonorità17.
Una determinata categoria di errori del P. Ness. II 1 è riconducibile alla dimensione orale, in particolare per quanto riguarda le vocali18: è nelle vocali delle sillabe non accentate che, per lo più, si osservano confusioni. Attestata è la confusione tra ae ed e e tra a ed e, né sono insolite le confusioni tra la vocale centrale aperta e le anteriori medio-alta e medio-bassa19; il cospicuo numero di casi in cui lo scriba utilizza il dittongo ae dove non è necessario potrebbe essere espressione di ipercorrettismo, ed anche della confusione tra i suoni a ed e, il papiro ha casi notevoli20.
Ci sono, poi, due casi in cui la confusione è tra il dittongo ae ed a – quae per qua (50; Aen. 1, 418) e Aneas per Aeneas (62; Aen. 1, 421) –, cosa questa da legare ad un’incomprensione fonetica, ma anche ad un errore meccanico e legato alla copia. Attestato è lo scambio tra e ed i21; tra a ed i22; e, in tutte le occorrenze, la vocale mal interpretata si trova sempre in una delle sillabe non accentate, forse per la problematica resa fonologica connessa all’uso dell’accento intensivo. Più di un caso attesta incertezza tra u ed o23; in tre soli casi sono confuse u ed i24; in pochi a ed u25; ed anche la confusione tra a ed o è motivabile più per ragioni fonetiche che paleografiche26. Pochi, poi, sono i casi in cui c’è la resa della i lunga con la forma ii27. Del resto, si tratta di particolarità che mettono il P. Ness. II 1 in parallelo con altri papiri virgiliani – si pensi, ad esempio, al P. Oxy. VII 1099.
Differenziata è la percezione dell’aspirazione: se si legge alant per halant (46; Aen. 1, 417), ausurum per hausurum (823; Aen. 4, 383) e aut per haut (925; Aen. 4, 447)28, tutti esempi in cui non è graficamente resa l’aspirazione, non mancano casi in cui questa è data, come hortatur (253; Aen. 2, 33), o addirittura casi in cui viene resa per quanto non necessaria, come his per is (813; Aen. 4, 379)29; ed ora, haut per aut (312; Aen. 2, 46). Anche la percezione fonica di alcuni fenomeni consonantici si riflette nella grafia del P. Ness. II 1. Il ph, ad esempio, in più di un caso è reso nella forma f: Pafium è corretto in Pafum dallo scriba, che lascia inalterata la forma in f piuttosto che sostituirla con il corretto Paphum (32; Aen. 1, 415); si legge Frygia per Phrygia (416; Aen. 2, 68). Come in molti altri esemplari papiracei virgiliani, anche qui molto frequente è lo scambio tra b, p e v30. Scempiamento delle consonanti doppie e raddoppiamento consonantico sono spesso attestati: ad esempio, si legge, in luogo di referret, referet (740; Aen. 4, 329; possibile, ma non in questo contesto); e molliri per moliri (73; Aen. 1, 424), in cui c’è rafforzamento della consonante semplice, artificialmente raddoppiata. Più complesso è, invece, il caso del Rhesi (106; Aen. 1, 469): a proposito, infatti, di questo nome proprio, la tradizione – e gli editori – si divide tra la forma Rhesi e quella con il raddoppiamento Rhessi.
In molti casi, perὸ, in particolare nella prima macrosezione del papiro – quella con versi di primo e secondo libro – sono registrate correzioni, ad opera dello scriba stesso o di una seconda mano che interviene nel testo a più livelli, e di queste si offrira un’esemplificazione soltanto minima.
In scribendo è l’emendamento dello scriba alla l. 445 (Aen. 2, 74): resosi conto che hortamuis era errato, ha depennato le ultime due lettere e vi ha apposto una r, restituendo, così, il corretto hortamur. È un errore legato alla meccanicità della copia, cui va ad aggiungersi un’incomprensione dell’archetipo, la cui r doveva essere realizzata in modo tale da innescare la confusione per il gruppo -is-: lo scriba avrebbe potuto leggere ic, e dunque is. In questa stessa direzione è da collocare l’errore della l. 948 (Aen. 4, 458): l’autopsia ha permesso, infatti, di restituire solebat e non il colebat letto da Casson ed Hettich e conforme alla tradizione; questo solebat è motivabile a partire dal fatto che la c dell’antigrafo è stata interpretata come un c e, dunque, come s.
Differente è il caso della l. 251 (Aen. 2, 33): all’in dello scriba, una seconda mano ha apposto, con inchiostro e calamo differenti e con lettere più piccole di quelle dello scriba, la sequenza tra, restituendo, così, intra, emendando un’imperfezione che lo scriba potrebbe aver commesso all’atto di copia dall’antigrafo, anche se non è da escludere che fosse dello stesso antigrafo. L’intervento è evidente: si percepisce il tipo di scrittura di gran lunga differente da quella dello scriba; inoltre è da smentire l’ipotesi dei primi editori, per cui, tra le tre lettere, non fosse stata vergata una r ma un ρ, dal momento che è visibile il terzo tratto della r di una tipologia vicina a quella della capitale. Che lo scriba, perὸ, si fosse reso conto dell’imperfezione commessa e che il testo aveva intra e non in è chiaro dall’individuazione della sequenza ṭrạ nell’interlinea superiore della linea immediatamente successiva, la cui grandezza è pressoché dimezzata rispetto a quella del testo, prima del muros dello stesso verso. Lo scriba, dunque, cercὸ di intervenire: poco chiaro è il motivo per cui non lo abbia fatto accanto all’errato in, tanto più che c’era uno spazio abbondantemente sufficiente per l’aggiunta prima dell’inizio della stringa della colonna greca. È ipotizzabile, perὸ, ancora una volta, che questo scriba poco avvezzo con la lingua latina abbia mal interpretato l’archetipo e pensato che la sequenza tra dovesse far corpo con muros, generando un impensabile tramuros, e che la consapevolezza dell’errore sia nata solo dopo aver copiato muros, sequenza che rispetta l’inquadramento nello specchio scrittorio; questa ipotesi, del resto, risulta rafforzata se si pensa ad un modello in scriptio continua o che, comunque, non avesse un’organizzazione del testo analoga a quella dell’apografo.
A primo impatto, la stessa motivazione potrebbe essere legata a dolos (392; Aen. 2, 62), corretto dalla seconda mano in dolo: si tratta, perὸ, di un caso che ha implicazioni anche nel campo più strettamente ecdotico. Quale doveva essere la lezione dell’antigrafo dal quale avrebbe attinto lo scriba del P. Ness. II 1? In questo caso specifico, lo scriba ha ricopiato la lezione dell’antigrafo, mentre il correttore ha emendato la stringa latina e quella greca perché l’esemplare con il quale stava operando la sua collazione aveva una lezione differente: egli, infatti, ha corretto, attraverso il solito depennamento con trattino obliquo sulla consonante ritenuta errata, dolos in dolo e, al greco, ha scritto al di sopra dell’uscita -oυc di δολουc (senza depennarla) una ω. L’esemplare con cui il correttore ha collazionato, dunque, doveva avere quello stesso dolo di parte della tradizione diretta ed indiretta (b, d e Non. 418, 34), frutto di una banalizzazione o di una aplografia, laddove, invece, il P. Ness. II 1 – e con lui il suo antigrafo – aveva il dolos dei maggiori testimoni manoscritti (M, P, R) e del P. Berol. inv. 21138, accolto da tutti gli editori. Lo stesso papiro, dunque, attraverso le sue due mani e le sue due vite, si fa testimone della circolazione della doppia lezione virgiliana.
È lecito interrogarsi sul tipo di manoscritto dal quale dovette attingere il correttore del P. Ness. II 1: sono diversi gli elementi che sembrano ricondurre ad un tipo di manoscritto che, come quello corretto, fosse bilingue, ed in questa direzione è esemplifica-tivo il caso della l. 389 (Aen. 2, 61). La stessa mano, infatti, non solo interviene tanto nelle colonne latine quanto in quelle greche, ma interviene ad emendare errori che vanno al di là di mere imperfezioni foniche o di copia dello scriba; non è da escludere, perὸ, che il correttore potesse utilizzare più di un testo o addirittura correggere ope ingenii.
La tradizione testuale della quale si fa portavoce il papiro, limitatamente al testo vergato dallo scriba e non a quello modificato dagli interventi correttori, è quella dei codici più rilevanti (in particolare M e P); la seconda macrosezione, quella con il quarto libro, dal punto di vista ecdotico, perὸ, va tenuta in considerazione in modo attento a non confondere quanto ha di formalmente corretto e quanto, invece, ha di erroneo, in particolare in relazione alle imperfezioni paleografiche e a quelle legate alla trasmissione nella dimensione dello scritto di peculiarità della pronuncia e fonetiche, elementi questi che meritano senz’altro una più approfondita analisi31.
Diversa da questa vivace del P. Ness. II 1 è la situazione del P. Ness. II 2, 15 (+ 4), frammenti di un codice che doveva abbracciare i primi sei libri dell’Eneide, in cui il testo latino è disposto in modo tale che ogni linea di scrittura comprenda un intero esametro, in una semionciale antica con elementi onciali e databile al V d. C.32
Irrilevante la quantità di confusioni tra vocali, alcune peculiarità nell’ortografia, invece, costituiscono la spia del fatto che lo scriba del P. Ness. II 2 doveva avere una buona familiarità con la scrittura greca, ma non con la lingua e la fonetica greca: i nomi propri derivanti dal greco sono tutti, nel papiro, erroneamente trascritti.
Vale la pena soffermarsi soltanto su uno di questi: alla l. 89 si legge ]oeth.eia: l’atteggiamento dei primi editori è stato banalizzante, dal momento che hanno integrato la lacuna con le lettere rh e espunto la h, dando l’idea della lettura Rhoeteia nel papiro; la situazione è, perὸ, meno semplice. È preferibile leggere R]oetheia, lezione attestata anche in R, forma erronea per il Rhoeteia di Aen. 5, 646. L’aggettivo, infatti, è calco del greco Ῥοíτειοc e non è da escludere possa esserci stato un fraintendimento nella collocazione dell’aspirazione (del resto, difficoltà della resa del gruppo rh si riscontrano anche altrove nei frammenti).
Per quanto non assimilabile a nessuno dei codici noti, la tradizione testuale della quale il P. Ness. II 2 si fa testimone non è da trascurare, con molti elementi in comune con la tradizione di R, per lo più per coincidenze in lezioni errate, e di γ: molti sono i luoghi controversi, in cui i codici si dividono, per i quali il papiro presenta le varianti della migliore tradizione manoscritta33.
Anche nel P. Ness. II 2 si coglie la presenza di una seconda mano correttrice, che opera con inchiostro chiaro e calamo dalla punta fine: al Priamden dello scriba (121; Aen. 6, 494) viene, infatti, aggiunta la i funzionale a rendere corretta la forma. In effetti, un solo chiaro intervento emendativo è troppo poco per avanzare ipotesi di contatto con le correzioni del P. Ness. II 1 e verifícarne i tipi di scrittura.
In entrambi i documenti, perὸ, non è da collocare in secondo piano che le rispettive seconde mani abbiano lasciato traccia anche di altri segni di fruizione, e cioè segni di accentazione. Il numero dei segni nel P. Ness. II 2, infatti, alla luce dell’esame autoptico, è uscito sensibilmente differenziato dal quadro monolitico dell’editio princeps: accanto al trattino orizzontale e al segno di diastole – chiamato comma da Casson ed Hettich – di certa mano dello scriba, è da porre l’archetto dalle punte rivoltate verso il basso vergato con un tipo di inchiostro più chiaro da quello del testo e con un ductus sottile, di seconda mano. Nel P. Ness. II 1 il quadro è ulteriormente complesso, se lo stesso tipo di archetto con le punte in basso – l’accentus circumflexus delle Artes dei grammatici latini tardoantichi – è nella pressoché totalità dei casi dello scriba, così come dello scriba sono i trattini orizzontali – il longus – e quelli di diastole, mentre i soli accenti acuti sono di seconda mano.
Quello che ci si sarebbe potuto aspettare sarebbe stato qualche punto di contatto, non certo tra gli scriptoria o tra gli antenati, ma tra la tipologia di fruizione dei due documenti, senza ipotizzare che l’uno fosse stato corretto a partire dall’altro, ma immaginando che possano essere stati tra le mani di uno stesso fruitore. La diversità grafica e nelle funzioni dei segni nei due documenti potrebbe andare, con l’insufficienza di analogie paleografiche, in direzione dell’impossibilità di legare ad uno stesso proprietario-fruitore i due manoscritti, ipotesi suggestiva e, certo, romantic, «romanzesca». Non è di scarso peso, ad esempio, che – con una serie di casi singolari in un manoscritto e nell’altro – il fruitore del P. Ness. II 2 utilizzi il solo accentus circumflexus per marcare le vocali tanto da acuere quanto da circumflectere tonalmente, mentre quello del P. Ness. II 1 cerchi di rendere con il segno la diversità tonale dell’acuere da quella del circumflectere.
Conclusione
Considerare i P. Ness. II 1 e 2 nelle loro singolarità e particolarità è necessario allo stato attuale di una ricerca che merita, senz’altro, di andarne a scandagliare non solo i dettagli codicologici o paleografici ma anche – e, forse, soprattutto – quelli ecdotici e lessicale-fonologici che, in un rapporto osmotico con la scrittura nella sua dimensione empirica, potrebbero illuminare ulteriormente sugli errori e le imperfezioni – «spellings, particularly misspellings», con Adams – che, in mole preponderante, segnano il codice bilingue34: forse che un approfondimento delle componenti linguistiche che emergono dagli errori dello scriba e le confusioni vocaliche e consonantiche possano non solo arricchire il quadro del latino di area provinciale del VI secolo, ma anche entrare in relazione con una scrittura definita «eccellente esempio di una produzione digrafica non egiziana, ma palestino-siriaca»35? Questa ipotesi viene avanzata in sordina, ma potrebbe avere eco in un esame che punti ad intersecare competenze multiple – diacronicamente e diatopicamente – papirologiche, paleografiche, filologiche, linguistiche, fonetiche, lessicologiche.
La valutazione del testo di cui i due papiri – ma tutti quelli del Corpus – si fanno testimoni deve essere ulteriormente ponderata attraverso il possibile incasellamento delle diverse letture, che possono avere o non avere specifico peso ecdotico: non vale la pena ritornare sul noris del P. Ness. II 1 (893; Aen. 4, 426).
L’acquisizione del dato papirologico nel processo di recensio virgiliana è dato piuttosto recente: se Mynors ha collazionato il solo membranaceo Palin. Ambr. L 120 sup. e, ancora prima, nel 1935, per la sua edizione del libro quarto dell’Eneide, Arthur Stanley Pease aveva tenuto presenti PSI I 21 e P. Oxy. VIII 1099, è solo nel 1973 che, con la prima edizione di Mario Geymonat, i 18 papiri allora noti – e che saliranno a 29 nella riedizione del 2008 – entrano in apparato e nella Textkritik in quanto testimoni della Textgeschichte ed indipendentemente dalla loro rilevanza ecdotica. Il sistema di sigle dei papiri verrà mutuato anche nella recente edizione critica dell’équipe spagnola e dell’ultima teubneriana di Gian Biagio Conte, il quale, perὸ, al di là dei frammenti dell’Ambrosiana, includerà nella sua recensio i soli P. Ness. II 1 e 2.
Che i P. Ness. II 1 e 2 debbano essere presi in considerazione nella recensio virgiliana per la quantità dei versi che tramandano è indubitabile, ma che debbano esserlo per un fattore eminentemente qualitativo puὸ essere discusso: se Tyche è stata con loro benevola, forse lo è stata meno con i frammenti del P. Oxy. VIII 1098 o del P. Ant. I 30; ma questo non significa certo che quei frammenti non siano appartenuti a codici qualitativamente migliori. Come valutare, del resto, singole perle di altri papiri? Come giudicare quel moeniet nel P. Cairo inv. 85644, il solo che abbia tramandato una variante ortografica che pure Geymonat ha preferito al muniet dei codici (Aen. 1, 271)? I frammenti dei due codici papiracei virgiliani della Morgan, del resto, vanno valutati per quello che primariamente – come tutti gli altri documenti del Corpus – dovettero essere: testi di scuola, di una determinata area dell’Impero, di un determinato tempo.
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1 È nel corso del mio secondo soggiorno alla Fondation Hardt pour l’étude de l’Antiquité classique (Genève/Vandœuvres) – che ringrazio vivamente – che questa relazione è stata messa a punto.
2 Cf. Colt (1947) 23.
3 LDAB 4166 = MP3 2939 = ChLA XI 1652 = CPL 8 = Seider, Pal. Lat. II.1, 44 = Geymonat (2008) Π5; LDAB 4164 = MP3 2945 = ChLA XI 1653 = CPL 16 = Seider, Pal. Lat. II.1, 46 = Geymonat (2008) Π10. La numerazione delle linee dei papiri è qui data – per comodità del lettore – secondo l’editio princeps, per quanto l’esame autoptico ne implichi una differente; del P. Ness. II 2 è in corso di stampa la riedizione in Scappaticcio (2011). È opportuno, inoltre, precisare che le lezioni non sempre sono state restituite tenendo presente la loro effettiva condizione nei papiri (presenza di lacune, lettere integrate e parzialmente leggibili).
4 Cf. Casson/Hettich (1950) 16.
5 Alla luce della riedizione del P. Ness. II 2, comuni ai due papiri sono Aen. 4, 385-390; 417-422; 450-457; 482-490.
6 Cf. Casson/Hettich (1950) 8-10.
7 Il P. Ness. II 1 contiene: Aen. 1, 256-257, 262-263, 331-332, 336-337, 413-426, 457-459, 462-465, 468-470, 473-476, 598-599, 602-606, 607-610, 613-615, 618-619, 624-625, 627-628, 662-664, 667-669, 673, 678; 2, 24-102, 717-718, 723-724, 764-767, 783, 788-789; 4, 248-362, 364-497.
8 Cf. Casson/Hettich (1950) 11.
9 Cf. Casson/Hettich (1950) 10; Cavallo-Maehler, GB 102 propendono piuttosto per il VII secolo.
10 Sul c = sigma, cf. Casson/Hettich (1950) 45 e 58.
11 Quid quid est per quidquid id est (326; Aen. 2, 49); peget per pigebit (749; Aen. 4, 335).
12 Dedut per deducunt (249; Aen. 4, 398); dedit per dederit (908; Aen. 4, 436); orat per orabat (911; Aen. 4, 437); tractalis per tractabilis (913; Aen. 4, 439).
13 Basti quid etemere per quid de te merui (714; Aen. 4, 317).
14 Ultima lettera: aufer per aufert (834; Aen. 4, 389); cunctante per cunctantem (835; Aen. 4, 390); mis per misi (896; Aen. 4, 426); cumulata per cumulatam (909; Aen. 4, 436). Per i casi in cui, perὸ, è omessa la m finale è anche lecito ipotizzare un mancato scioglimento di eventuali abbreviazioni, in questo testimone o nei suoi antenati. Prima lettera: vinctum per revinctum (370; Aen. 2, 57), dove, perὸ, è possibile che ci sia un uso del simplex pro composito; coperit per operit (773; Aen. 4, 352), in cui la c si potrebbe spiegare tenendo presente che la parola precedente è nox, la cui x avrebbe potuto creare difficolta ed essere interpretata come c: analogo è eictera per extera (771; Aen. 4, 350); efello per refello (818; Aen. 4, 380), aedet per taedet (929; Aen. 4, 451); st per ast (1004; Aen. 4, 488).
15 Duat per ducat (731; Aen. 4, 326); horres per horrens (791; Aen. 4, 366), in cui si puὸ anche ipotizzare un mancato scioglimento di un’eventuale abbreviazione interna alla parola; adgessa per adgressa (982; Aen. 4, 476).
16 Cf. Casson/Hettich (1950) 20.
17 Si confronti Adams (2007) 471-472.
18 Casson/Hettich (1950) 12 osservano, perὸ, che «on the whole it seems more probable that the scribe of 1 was working alone».
19 Lena per laena (631; Aen. 4, 262); oblitae per oblite (638; Aen. 4, 267); praemebat per premebat (745; Aen. 4, 332); quaerellis per querellis (783; Aen. 4, 360); aegentem per egentem (805; Aen. 4, 373); fuge per fugae (855; Aen. 4, 400); formice per formicae (860; Aen. 4, 402); callae per calle (866; Aen. 4, 405); Aulidae per Aulide (895; Aen. 4, 426); quaeri per queri (956; Aen. 4, 463). Diversa attenzione merita, invece, certae alla l. 393: il dittongo è segno di una lezione che va a contrapporsi al certe di altri testimoni (Aen. 2, 62).
20 Tura per ture (42; Aen. 1, 417); Thymoetas per Thymoetes (250; Aen. 2, 32); Chalcanta per Chalcante (poi corretto, 560; Aen. 2, 100); iaspida per iaspide (629; Aen. 4, 261); ettonitus per attonitus (650; Aen. 4, 282); aptant per aptent (661; Aen. 4, 289: con il congiuntivo al greco); robore per robora (853; Aen. 4, 399: si tratta di uno dei rari casi in cui la forma errata è tradotta al greco, per cui è probabile che l’imperfezione fosse già dell’antigrafo).
21 Peteris per peteres (705; Aen. 4, 312); monites per monitis (741; Aen. 4, 331: con ῡπομνηcθηcιν al greco), consedere per considere (770; Aen. 4, 349); operi per opere (872; Aen. 4, 407); terribile per terribili (960; Aen. 4, 465). A questi, si affianca la sequenza alla l. 681,.]. pẹ[ laddove nell’editio princeps è restituito [i]ṃpiạ: è verisimile, che nel papiro ci fosse non impia (Aen. 4, 298) ma impea.
22 Noris per noras (893; Aen. 4, 423); stipate per stipite (924; Aen. 4, 444); relinqua per relinqui (964; Aen. 4, 466).
23 Muritura per moritura (698; Aen. 4, 308); maiura per maiora (794; Aen. 4, 368); quietus per quietos (816; Aen. 4, 379); imus per imos (832; Aen. 4, 387); nolli per nulli (943; Aen. 4, 456); oltima per ultimus (990; Aen. 4, 482).
24 Ad orbus per orbis (12; Aen. 1, 331) e oculus per oculis (415; Aen. 2, 68) va ora aggiunto obnuxius per obnixius (per obnixus; 743; Aen. 4, 332).
25 Uxorias per uxorius (637; Aen. 4, 266); ignotus per ignotas (704; Aen. 4, 312); eandem per eundem (722; Aen. 4, 321).
26 Prafatur per profatur (786; Aen. 4, 364); sequor per sequar (825; Aen. 4, 384); arcanas per arcanos (889; Aen. 4, 422).
27 Subiectiisque, corretto in subiectisque (273; Aen. 2, 37: la maggior parte dei codici e degli editori hanno subiectisque: la tradizione è, perὸ, scissa tra subiectisque e subiectisve, forma per la quale propende, sotto l’influsso di Servio, Heyne); iit per it (864; Aen. 4, 404); ii per i (893; Aen. 4, 424).
28 Il papiro ha haut, contro l’haud della maggior parte dei manoscritti; differentemente che in altri papiri virgiliani, nel P. Ness. II 1 la confusione tra dentale sorda e sonora non è attestata. L’unico altro caso rilevante, infatti, è aput (430; Aen. 2, 71), di una tradizione testuale opposta a quella che ha apud.
29 Rilievo ha anche la forma Xanthumque (113; Aen. 1, 473) e in cui l’aspirata è trascritta.
30 Innubtae poi corretto in innuptae (242; Aen. 2, 31); Imvri per Imbri (604; Aen. 4, 249); deventur per debentur (643; Aen. 4, 275); ebanuit per evanuit (646; Aen. 4, 278); vene per bene (714; Aen. 4, 317); parbulus per parvulus (737; Aen. 4, 328); sperabi per speravi (755; Aen. 4, 338); turvida per turbida (777; Aen. 4, 354); davis per dabis (829; Aen. 4, 386); tavefactus per labefactus (847; Aen. 4, 395; in questo caso, è possibile ipotizzare una doppia matrice: da un lato, quella paleografica, per cui la l dell’antigrafo, con il tratto orizzontale non particolarmente discendente ed allungato come doveva essere altrove, è confusa dalla scriba con una t; dall’altro, quella semantica, poiché tabefacio è verbo esistente); ferbet per fervet (875; Aen. 4, 409; a sua volta fervet sta per il fervere: la traduzione greca, perὸ, rende la terza persona singolare, per cui è lecito ipotizzare che l’imperfezione fosse già dell’antigrafo); carvasus per carbasus (884; Aen. 4, 417); repelli per revelli (899; Aen. 4, 427); exubiasque per exuviasque (1020; Aen. 4, 496).
31 Al di là della presenza di errori non corretti e la quasi totale assenza di segni di accentazione, da segnalare sono, da un lato, l’assenza di parole in ekthesis all’inizio di un nuovo esametro – pratica pressoché sistematica nella prima macrosezione –, dall’altro, salti ed inversioni del testo rispetto alle sequenze virgiliane.
32 Aen. 2, 296-304, 328-338; 3, 559-564, 591-595, 630-633, 662-666; 4, 450-457, 482-490, 516-523, 551-560, 647-651, 681-686; 5, 8-11, 43-46, 644-648, 676-681; 6, 425-434, 459-468, 492-503, 526-537, 561-573, 596-607, 631-643, 665-677, 701-711, 735-745, 769-780, 804-814, 838-845, 874-880. Per la ricostruzione del codice originario, si vedano Casson/Hettich (1950) 66-67 e Seider (1976) 154-155, n. 110.
33 Il papiro ha «lezioni di un certo interesse, che attendono un più compiuto e attento scrutinio» secondo Gigante (1986) 41.
34 Cf. Adams (2007) 624.
35 Cf. Radiciotti (1997) 126.