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P.Tebt. II 476: Ancora una petizione

Simona RUSSO

UC inv. n. 1435 cm8,1 x 22,9 cmTebtynis post 27.12.30p

Su una lunga striscia di papiro scritta sul recto e col verso bianco, è contenuto un documento completo, come mostrano chiaramente i margini superstiti (superiore 1,8 cm; sinistro 1 cm; destro 0,7 cm; inferiore 5,3 cm), che appare solo descritto nel secondo volume dei Tebtunis Papyri (1907), ed è ora identificabile anche con la sigla TM 13578 nella catalogazione online Trismegistos. Il frammento è conservato alla Bancroft Library della University of California di Berkeley, che qui ringrazio, nella persona di Todd Hickey, per il permesso accordatomi alla pubblicazione e alla riproduzione dell’immagine (cf. infra).

Come altri pezzi della medesima collezione, anche questo frammento contiene due indicazioni scritte da mano moderna: sul recto, in alto a sinistra, compare in inchiostro rosso la cifra 476, evidentemente riferita al numero progressivo che il testo avrebbe poi avuto nella pubblicazione in P.Tebt. II. Sul verso, invece, in basso a sinistra si trova l’indicazione T314, scritta in inchiostro nero e in posizione capovolta rispetto al recto; il significato di questa sigla resta ancora incerto, e anche l’ipotesi che essa indichi T (ebtynis) + il «packing number» dato al momento della spedizione ad Oxford, non è esente da dubbi1. Le indagini di O’Connell consentono di ipotizzare che anche T314 sia stato recuperato intorno al 17 dicembre 1899, probabilmente in città, come gli altri papiri della prima età romana che offrono un «T-number» posto fra «late 200s and 300s»2. Quanto, invece, alle aspettative di Hanson (2001) 604 sulla possibilità di trarre utili notizie dalle indagini incrociate fra informazioni papiracee e relativi «T-numbers», esse mi hanno suggerito una breve indagine attraverso il database Papyri.info in relazione ai dati prosopografici, toponomastici e contenutistici del nostro T314, indagine che perὸ ha prodotto risultati piuttosto deludenti: dal punto di vista prosopografico, le persone qui citate non sono identificabili, e, per di più, i papiri che citano omonimi sono distanti dal T314 cronologicamente e anche come «T-number», ad eccezione di P.Tebt. II 382 recto, 31 (= T316), di età augustea, che menziona un Kastor figlio di Apollonios; quanto ai dati topografici, un solo testo menziona Kerkethoeris, P.Tebt. II 400, 12 (= T304), anch’esso della prima età romana; e in relazione ai dati contenutistici (s.v. εὐτύχει) non risultano presenti punti di contatto specifici.

La superficie del papiro in esame è purtroppo interessata da molteplici lacune, la più grande delle quali ha fatto perdere, nella metà inferiore, una parte più o meno ampia di ben sei righi; sopravvivono anche segni di frattura del foglio ortogonali all’andamento delle fibre, e, quindi, anche della scrittura, ma la loro disposizione è tale da non permettere di ricostruire l’eventuale piegatura del foglio con certezza.

Contenutisticamente si tratta di una petizione redatta secondo i canoni tradizionali di questo tipo di documento, cioè in forma ipomnematica (τῷ δεῖνι παρὰ τοῦ δεῖνοc). Secondo la consuetudine, offre, nell’ordine, le seguenti informazioni: autorità cui è rivolta la petizione; indicazione del denunziante; dati cronologici; indicazione del denunziato; descrizione del reato; supplica di intervento; richiesta finale di soddisfazione.

In questo caso l’Autorità cui ci si rivolge è l’ἐπιcτάτηc φυλακιτῶν, figura già nota in età tolemaica, che sopravvive, all’avvento del potere romano, solo fino alla metà del I secolo (l’ultima testimonianza documentata è P.Ryl. II 152, del 42p, dove l’epistates è insignito anche della carica di stratego): su di essa si veda anche Russo (in progress). Purtroppo, nella lacuna di cui si è fatto sopra cenno, è andato perduto, oltre a parte del racconto del fatto, il petitum finale. Inoltre, in questa istanza mancano con certezza alcuni altri elementi che talvolta compaiono nelle petizioni: la sottoscrizione con i dati del petente; la risposta dell’Autorità – tracciata da una seconda mano e spesso rivolta all’archephodos, almeno nelle petizioni del I secolo – con le indicazioni sul da farsi; la data, relativa all’atto di denunzia o alla risposta dell’Autorità.

I documenti su papiro che contengono petizioni di vario genere sono numerosi: fra i più recentemente pubblicati si ricordino, a solo titolo di esempio, per la prima età romana, P.Bingen 58, P.Oxy. LXXIII 4953-4954, P.Sijp. 14 e 15. Altrettanto numerosa è la bibliografia su questo argomento: oltre agli studi più spesso citati (cf., per es., i rimandi nell’introduzione di P.Dub. 18, p. 100), si possono ricordare, ancora una volta a puro titolo esemplificativo, anche molteplici lavori realizzati sotto differenti punti di vista, come, per es., quelli su base cronologica: cf., per l’età tolemaica, l’ormai classico Di Bitonto (1968), preceduto da Di Bitonto (1967), e seguito da Di Bitonto (1976); per l’età più tarda, la serie di saggi editi da Feissel/Gascou (2004); oppure secondo l’Autorità adita: si vedano, in particolare, Whitehorne (2004) e M. Peachin, in P.Sijp. 15, 79-97, entrambi sul Centurione, o Haensch (1994), sul ruolo del Prefetto in questo ambito; o ancora in base all’oggetto della denunzia, Lukaszewicz (1983) per i furti, e la raccolta online «Pétitions et rapports médicaux avec bibliographie», curata da A. Ricciardetto all’interno del sito del CEDOPAL di Liège, centrata sugli aspetti medico-legali; o, ancora, con scopi sociologici e comportamentali, come è il caso, da ultimo, dello studio di Bryen (2008); o con l’attenzione particolarmente rivolta agli aspetti stilistici e di lingua, come in Luiselli (2010).

C-εραπίωνι [ἐπ]ι̣cτάτῃ φυλ(ακιτῶν)

παρὰ Ḳά̣c̣τ̣ο̣ροc τοῦ Λύκου

τῶν ἀπὸ Τεβτύνεωc

τῆc Πολέμ̣ωνοc μερίδο(c).

5 ὀψίτερον τῆc ὥραc τῇ ͞α

τ̣ο̣ῦ Ṭυβ̣ὶ τοῦ ιζ̣ (ἔτουc) Τ[ιβ]ερίου

Kαίcαρoc [Cε]β̣α̣cτοῦ καταπερι-

cτάc με̣ C̣α̣μβᾶc̣ Ἰ[ουδ]α̣ῖοc

τῶν ἀπ̣[ὸ] Κερκεθουήρε̣ω̣c̣

10 καταγειν̣όμενο̣c̣ ἐ̣ν̣ [

Ṭεβτύ̣ν̣[ει] trace

πληγάc̣...... καὶ ἐ̣τραυμά-

τιcέν μ̣ε̣ [       ]...[

tracce

15 tracce

].η..[          ]...

..νδ...[

............[              ἵ]να

ὦι εὐεργετη̣μέ̣νοc

20 (εὐτύχεί)

_____ _____

A Serapion, epistates dei phylakitai, da parte di Kastor, figlio di Lykos, di quelli di Tebtynis della meris di Polemon. A tarda ora del 1° di Tybi del 17° anno di Tiberio Cesare Augusto, Sambas, Giudeo, di quelli di Kerkethoeris, ora residente a [       ] Tebtynis, aggredendomi [mi dette parecchie] botte e mi ferὶ [... Perciὸ chiedo che ...], perché io riceva soddisfazione. Con buona sorte.

P.Tebt. II 476 (Courtesy of the Center for the Tebtunis Papyri, University of California, Berkeley)

1. Paleograficamente sono da osservare due punti: dopo l’omega di Cεραπίωνι, compare, prima di una breve lacuna, un tratto arcuato che potrebbe corrispondere sia alla legatura di ny ed iota, tracciata molto rapidamente, sia ad un segno di abbreviazione veloce delle due lettere. Analogamente, alla fine di quanto resta di ἐπιοτάτῃ, il tratto finale fra il tau e il phi iniziale di φυλ(ακιτῶν) potrebbe corrispondere sia ad un eta tracciato in modo rapido e incompleto, sia ad un segno di abbreviazione, sia pure dell’ultima lettera soltanto.

Sulla figura dell’epistates, cf. sopra, introd. Questo stesso Cεραπίων è destinatario di altre cinque petizioni, tutte provenienti dallo stesso gruppo, da Euhemeria (cf. BL XI 112 s.v. P.Lond. III 895): P.Ryl. II 125, 1 (28/29p); P.Lond. III 895, 1 (p. 129; 28-30p: cf. BL XI 112 per l’esatta lettura del nome e la più precisa datazione); P.Ryl. II 127, 1 (29p); P.Ryl. II 128, 1 (circa 30p); SB XX 15182, 1 (= P.Lond. III 891) (28-30p). Nella descrizione del documento qui edito (P.Tebt. II 476, p. 310) il nome era dato come Sarapion, ma la lettura Sera-, già confermata nelle altre attestazioni di questo epistates, mi pare la più probabile anche per questo caso; il fatto che questa variante corrisponda alla forma usuale in latino, come è evidenziato in Clarysse/Paganini (2009) 77, puὸ rappresentare un ulteriore segnale del legame fra la figura dell’epistates e i dominatori Romani?

5-7. Si ricordi che nelle petizioni la data finale del documento non è frequente; talvolta essa è apposta al messaggio di risposta dell’Autorità scritto in calce sul medesimo foglio. Spesso, perὸ, come in questo caso, nel corpo del testo è espressamente indicata la data dell’atto criminoso, e questo consente, insieme ad alcune ulteriori informazioni cronologiche, talora indirette, di restringere l’arco cronologico degli avvenimenti trattati: sull’argomento, cf. anche l’extrait di Bureth (1979) 75-89 «La date du délit».

A titolo di esemplificazione ho analizzato il gruppo compatto delle petizioni dell’ «archivio dell’archephodos di Euhemeria», edito come P.Ryl. II 124–152 e coevo al P.Tebt. II 476, e ho tratto le seguenti osservazioni. Su 29 petizioni solo 9 contengono una datazione puntuale della denunzia o della postilla: in particolare, in 4 casi (P.Ryl. II 136, 138, 139 e 148) troviamo la data relativa alla denunzia, mentre negli altri 5 casi abbiamo la data della risposta dell’Autorità (P.Ryl. II 132, 145, 150, 151, 152). Inoltre nella maggior parte dei casi (in ben 21 su 29), viene esplicitato il riferimento cronologico al momento del reato, e, in particolare, la presenza del participio ἐνεcτώc riferito al mese (12 casi: P.Ryl. II 126, 127, 130, 133, 134, 137, 140, 141, 142, 144, 146, 147) o all’anno (P.Ryl. II 131, 135, 148, 149, mentre in P.Ryl. II 125 si fa riferimento al mese Mesore, l’ultimo dell’anno precedente cioè διεληλυθώc) permette di stabilire una cronologia relativa del periodo intercorso fra reato e denunzia. Che il lasso di tempo sia piuttosto breve, come del resto è logico aspettarsi, viene confermato anche da quei tre casi che presentano esplicitamente una doppia datazione, quella del reato e quella della denunzia: P.Ryl. II 136 (nel quale il periodo intercorso è al massimo di 9 giorni), 139 (che presenta invece un periodo di 4 giorni), e 148 (di un solo giorno). Un unico caso, invece, ci permette di conoscere il periodo di tempo intercorso fra reato (ma non denunzia) e risposta dell’ Autorità: in P.Ryl. II 132 il 16 di Epeiph si dà risposta su un reato compiuto nel mese di Payni del medesimo anno, quindi dopo che sono passati al massimo 46 giorni dall’avvenimento. In generale, sui termini di scadenza nella documentazione papirologica si veda anche Litinas (1999).

In P.Tebt. II 476 è presente anche un’ulteriore specificazione riferita alla suddivisione cronologica della giornata, sebbene essa non sia troppo precisa; a questo proposito, infatti, è bene osservare che la divisione del giorno e della notte in 12 + 12 ore con il riferimento all’ora precisa, era nota già a partire dal IV/IIIa, e, a quanto risulta dalla documentazione di provenienza egiziana, era utilizzata per lo più in ambito cultuale, militare e «tecnico», per es. nell’organizzazione del servizio postale militare, oltre che nella disposizione dei dati astrali dell’oroscopo: sull’argomento, si vedano, oltre alle note generali di New Pap. Primer, p. 34, Robertson (1940), e, soprattutto, Remijsen (2007).

Così, come nei numerosi casi di reati compiuti di notte (per rimanere all’esemplificazione delle petizioni edite in P.Ryl. II, sono 7 i casi che fanno esplicito riferimento alla notte col termine νύξ), anche qui il buio aveva favorito l’azione delittuosa; l’espressione ὀψίτερον τῆc ὥραc indica l’ora «tarda», ed è di uso non frequentissimo: Papyri.info riporta 11 casi, tutti contenenti petizioni per lo più relative a violenze e/o furti, provenienti soprattutto dall’Arsinoite, e cronologicamente appartenenti all’età tolemaica o, in epoca romana, limitate alla metà del IIp. Nella documentazione papirologica, perὸ, sono attestati anche l’avverbio ὀψέ e il genitivo del sostantivo, cioè ὀψίαc/ὀψείαc, entrambi usati come sinonimi dell’espressione qui presente.

6-7. La titolatura di Tiberio qui utilizzata è la più frequentemente attestata: cf. Bureth (1964) 25-28.

7-8. Il verbo καταπεριίcτημι è estremamente raro, giacché questa risulta essere la terza attestazione dopo P.Dryton 33, 18-19 (= SB I 4638; 136a), e P.Sijp. 14, 6-7 (22p), anche esse due petizioni. Curiosamente in tutti i tre casi il verbo è sempre al participio aoristo, e risulta scritto a cavallo fra due righi con la radice verbale separata dalla doppia preposizione.

8-11. In questi righi vengono forniti i dati identificativi del denunziato: nome, individuazione etnica, provenienza e residenza. Cαμβᾶc è nome giudaico, anche se non risulta attestato solo in ambiente strettamente ebraico: cf. particolarmente Nagel (1974), oltre alle osservazioni di CPJ III, particolarmente p. 44 su Cαμβᾶc, e in generale p. 43-87, e Stern (2010), anche se presenta argomenti e finalità diversi. L’etnico Ἰουδαῖc, ben documentato in età tolemaica (cf. Pros. Ptol. X, p. 106-115), è attestato ancora nel I secolo d. C.: cf., per es., SB XX 15189, 13 (Hawara, 24/25p), e SB XX 14525, 44, 49-50, 55, 57 e 59 (Philadelphia, 57p), due esempi nei quali esso qualifica, come in P.Tebt. II 476, il nome di un individuo senza il relativo patronimico. Sulle molteplici caratteristiche dell’uso di questo termine, cf. anche Hanson (1992) particolarmente 136-140, e Williams (1997). In questo caso specifico, pero, non è chiaro se l’indicazione servisse solo per una più immediata identificazione («il Sambas della comunità ebraica»), o se avesse in sé, se non una connotazione antisemita, almeno una sfumatura di significato negativo, essendo stato scritto questo testo in un momento molto delicato e di forti tensioni per quel che riguarda la cosiddetta «questione ebraica». Fra i numerosi studi che affrontano questa tematica da diversi punti di vista – cf., a solo titolo di esempio, i contributi generali di Foraboschi (1988) 818-823, e Modrzejewski (1997), particolarmente 161-183 –, rimando qui in particolare a Hanson (1989) 437 e n. 37 e a Clarysse (1994) 202-203 per alcune particolari osservazioni relative ai rapporti fra Greco-Egiziani e Giudei, rispettivamente nella prima età romana e in quella tolemaica.

9. Kerkethoeris è villaggio della Polemonos meris: cf. da ultimo Calderini, Diz. geogr., Suppl. 5°, 51. La medesima variante grafica, -θου-, si ritrova anche in PSI XV 1516, 5, SPP X 91, 3, e forse SPP III2 450, 2.

10 καταγεινόμενοc (1. -γιν-). Per quanto non sia del tutto certa, la penultima lettera sembra proprio un omicron di dimensioni ridotte (simile a quello finale di 2: Kάcτοροc, per es.), cosicché pare trattarsi più probabilmente di un participio nominativo singolare, piuttosto che di un genitivo plurale, che pure troverebbe un puntuale parallelo in P.Polit. Iud. 9, 5-6; in questo caso, infatti, si dovrebbe ammettere l’esistenza di una «colonia» di originari (specificamente Giudei?) di Kerkethoeris trasferiti poi a Tebtynis, cosa di cui non ho trovato conferma. Per l’uso del termine, sia pure in contesti più tardi, si veda anche la nota di P.Oxy. LXVIII 4681, 7.

Dopo εν il papiro è talmente malridotto da non permettere neppure la certezza che la superficie fosse realmente scritta: tenendo conto che certamente 11 comincia con Τεβτύνει. si puὸ pensare alla preposizione ἐν, cui potrebbe seguire spazio bianco per il resto del rigo, perché le possibili integrazioni ἐν τῇ κώμῃ, ἐν τῇ προκιμένῃ/προγεγραμμένῃ κώμῃ, ἐν τῇ αὐτῇ κώμῃ, mi sembrano tutte troppo estese, a meno che non fossero state scritte in forma abbreviata; in alternativa la forma avverbiale ἐνταῦθα seguita dal dativo (come nel caso di P.Oxy. LXVIII 4681, 8), che, perὸ, mi sembra paleograficamente più improbabile per il sia pur piccolo spazio vuoto che sembra seguire il ny di εν.

11-12. Viene spiegato qui il danno subito: sebbene anche in questo rigo nella metà destra la superficie sia ridotta molto male e sopravvivano solo esili tracce di inchiostro, doveva essere qui presente il verbo reggente l’accusativo del rigo successivo, πληγάc. Il più frequentemente usato è l’aoristo di δίδωμι ἔδωκα (cf. anche P.Sijp. 14, 8), ma in alcuni casi si trovano anche altre forme verbali come, per es., ἐπήνεγκον (P.Athen. 32, 21), o anche ἐπέθηκα (P.Sarap. 1, 13). Dopo πληγάc (12) un aggettivo che potrebbe essere πλείουc, il più frequentemente attestato, sebbene siano documentati anche πλείcταc, πλήρειc, e πολλάc.

Quanto al verbo τραυματίζω, è usato talvolta in forma assoluta, ma per lo più è seguito dall’indicazione delle parti del corpo rimaste ferite: cf. particolarmente tre petizioni, due del IIa (P.Tebt. I 39, 30-31 e P.Tebt. III.1 797, 16-18), e una della prima età romana (SB XVIII 13087, 21), che attestano la compresenza del sostantivo πληγή e del verbo τραυματίζω, come qui; questi due radicali, pero, sono documentati insieme anche altrove, sebbene in differenti forme grammaticali, verbale, nominale o aggettivale. Sul termine πληγή, cf. anche Di Bitonto (1968) 76, e le note di P.Oxy. XLV 3245, 16; su τραῦμα, cf. anche Bryen (2008) 192.

13 ss. Non possiamo dire con esattezza dove finisse il racconto dei fatti e dove avesse inizio il petitum finale, che, tuttavia, doveva essere introdotto, come di consueto, da διὸ ἀξιόω. Il confronto con numerose petizioni coeve già edite mi aveva suggerito qualche ipotesi: per es. che in 13-14 fosse andata perduta un’indicazione relativa all’aggressione (l’esatta parte del corpo colpita e ferita, o il riferimento alle conseguenze che sarebbero potute derivare, cioè, per es., il pericolo di vita corso dalla persona aggredita); oppure che l’eta, unica lettera leggibile di 16, potesse appartenere ad un verbo all’infinito passivo (come ἀχθῆναι?) spesso presente nel petitum; o ancora, che a 17 si potesse leggere τὸν δηλούμενον, da riferirsi al denunziato, anche se il verbo appare raramente nelle petizioni in confronto al ben più frequente ἐγκαλούμενοc: cf., per es., CPR XVIIA 24, 10-11 (321/322p), τοὺc ἐξῆc δηλουμένουc ἀχθῆναι, mentre P.Tebt. II 283, 18-20 ha τὸν προγεγραμμένον Πατῦνιν ἀcφαλίcαcθαι. Per il medesimo inizio di 17, Todd Hickey avanza la proposta di lettura, ο̣υ̣ν δο̣ξ̣, in base alla quale si potrebbe pensare a ἐὰν] οὖν δόξῃ. Tuttavia lo stato del frammento è tale che nessuna di queste ipotesi pare sostenibile con qualche attendibilità.

18. Il primo segno visibile corrisponde ad un tratto curvilineo verticaleggiante che potrebbe essere un segno di abbreviazione, oppure uno xi, seguito da una lettera e poi forse da un lambda: da qui l’ipotesi di leggere ἐπεξελθεῖν che potrebbe dipendere dal verbo principale ἀξιόω. Il verbo, sia pure non frequentemente, risulta testimoniato in petizioni di età tolemaica (P.Fay. 12, 26; SB VI 9065, 20) e romana: si vedano SB VI 9458, 25, di cui cf. anche la nota relativa dell’ed. pr. curata da Welles (1957) 107, n. 1, e P.Oxy. XXXIII 2672, 21, in base al quale si potrebbe immaginare, per P.Tebt. II 476, una ricostruzione del tipo διὸ ἀξιῶ… (18) καὶ ἐπεξελθεῖν αὐτῷ ἵνα (19) ὦ εὐεργετημένοc, cioè «perciὸ chiedo (…), e di procedere contro di lui, affinché io riceva soddisfazione»; ma, ancora una volta, le tracce superstiti non mi consentono una lettura certa.

19 ὦι εὐεργετηένοc (1. ὦ εὐεργετηέυοc). La presenza di uno iota adscriptum, che pure è del tutto erroneo in questo caso, non sorprende affatto, giacché appare anche altrove frequentemente attestato, soprattutto nei primi due secoli d.C., non solo in questa particolare forma verbale (cf. M.Chr. 68, 20; SB I 5232, 40; P.Merton III 104, 24; P.Mich. IX 524, 15; P.Leid. Inst. 34, 18), ma anche, per es., nella prima persona singolare dell’indicativo presente del verbo ἀξιόω, ἀξιῶι, anch’esso frequentemente attestato nelle petizioni: cf. anche Gignac, Gramm. I, 183 e 185.

20. Il segno posto all’estremità destra del rigo sta per εὐτύχει ed è probabilmente una specie di sigla, piuttosto che un’abbreviazione come, invece, si trova, per es., in P.Oxy. II 324 descr. (= SB X 10244), secondo la nuova edizione di Piccolo (2003) 202-204.

Sotto il rigo, sia sulla destra che sulla sinistra, sono visibili due paragraphoi di «chiusura» del documento, come spesso si trova in documenti di questo genere.

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1 Cf. Hanson (2001) 601-602; O’Connell (2007) 815-816.

2 Cf. O’Connell (2007) 816-819, e n. 54, nella quale essa sottolinea come l’indicazione «house» offerta dal database dei papiri di Tebtynis (APIS), nel nostro caso «Notes on Custodial History: House at Tebtunis T314», «is misleading».