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Nuove letture in P. HERC. 1004 col. 58

Margherita ERBI

Il P. Herc. 1004, che contiene un libro incerto della Retorica di Filodemo, è oggi sistemato in 14 cornici e conservato per un’ampia parte1. Sudhaus, autore dell’edizione di riferimento della Retorica, nel primo dei suoi Volumina Rhetorica, fondandosi esclusivamente sugli apografi napoletani, a proposito del P. Herc. 1004, dà notizia di 12 frammenti e delle ultime 112 colonne del rotolo, ma stampa il testo dei frammenti V-XII e di quanto resta di 104 colonne2. Sudhaus, infatti e, prima di lui, i disegnatori non hanno trascritto le parti di difficile lettura. Si tratta di pezzi che presentano una situazione stratigrafica complessa o che certo dovevano risultare di difficile lettura, ma che ora, anche grazie all’ausilio dei microscopi odierni e delle immagini multispettrali, appaiono più chiari3. Anche l’Accademico Salvatore Cirillo, i cui manoscritti con gli studi preparatori per la sua edizione del papiro mai pubblicata sono oggi consultabili presso l’Officina dei Papiri, lavorὸ su quella parte del papiro che per lo più coincide con quella disegnata negli apografi napoletani4.

Notevoli possono essere i progressi a cui puὸ portare lo studio di questo papiro, sia nella ricostruzione del rotolo e nell’individuazione di nuove porzioni di testo non ancora edite, sia nella riconsiderazione delle parti già pubblicate. Infatti le immagini e i microscopi, con le cautele necessarie che l’impiego di queste impone, si rivelano particolarmente preziosi, tanto più che il colore assai scuro del supporto ha attenuato il contrasto con l’inchiostro. Ma mai deve essere sottovalutato il fatto che la quantità di testo conservata per ciascuna colonna corrisponde a circa la metà del testo originario. Infatti, benché non possediamo tutti i dati per ricostruire la mise en page del rotolo, la larghezza delle colonne che si mantiene costante di 5 cm nonché la misura dell’intercolumnio di 1,1 cm suggeriscono che il nostro papiro rientra nei parametri standard dei rotoli di Ercolano, parametri secondo i quali l’altezza di una colonna è stimata di circa 16 cm5. Pertanto ciὸ che resta di ciascuna colonna del nostro testo, l’altezza delle quali è di circa 8 cm, corrisponde approssimativamente a metà della colonna originaria: sono andate perdute più o meno dieci linee dalla parte superiore e dieci dalla parte inferiore di ciascuna colonna. È impossibile pertanto la ricostruzione di un testo continuo.

Nella sezione del libro dedicata alla polemica contro Diogene di Babilonia, Filodemo, impegnato nel tentativo di contrastare l’accusa indiscriminata alla retorica contemporanea, in quanto esercitata da retori corrotti unicamente interessati ad ingannare le folle, alla colonna 58 (I 352 Sudhaus) fa il nome di Aristofane6. Benché lo stato di conservazione del testo non consenta purtroppo di ricostruire la parte iniziale della colonna, la revisione del papiro ha permesso di fare alcuni progressi.

[…]α..ι̣…[…]

[…]с̣.[.]ο̣ιτετ̣υ…

[…]ταc[.]τιονεс̣. α̣.

[…] πιοτεύεοθαι πάν-

5 [ταο το]ὺc ῥήτοραc […]το

[…].νατ̣.να προαγε

[…]… αλλα

τ̣α̣χ̣έωc ἕκαcτον τα-

ράττεοθαι καὶ πᾶν με-

10 [τεω]ρίζεοθαι, διὸ καὶ

[κι]ν̣άδοιο Ἀριοτοφά-

[νηc] αὐτοὺο εἰκάζει…

[…]ο̣cα γε δύνανται

[…] τ̣ ιουοι.[……]

15 .[…].τ̣… [……]

… […]… [………]

1 P: αν̣cιλι… N Sudhaus     2 P: cευ.οιτειυ… N Sudhaus     3 P:… τ.c. τιονε κα N Sudhaus     4 πιcτεύεοθαι legi: πιc[τεύ]εcθ̣αι Sudhaus: πιc[τεύεc]θαι Cirillo     4-5 πάν|[ταc] Sudhaus: πάν|[τα] Cirillo     5 το]ύc Cirillo Sudhaus ῥήτοραc legi: ῥήτ[ο]ραc Cirillo Sudhaus [.]α̣λ̣[.]το P (α̣λ̣ in supraposito): [.]καιτο N: [εἰ] καὶ τὸ Cirillo: [ἤ] καὶ τὸ Sudhaus     6 […].νατ̣ν. α P:.νατ.νο N: [γε δυ]νατ[εῖ]ν ὁ Cirillo:. ινατ.ν, ὃ Sudhaus     6-7 προάγε|[ται] Cirillo Sudhaus     7 P:]λουcαλλα N: [τοὺc κα]λοὺc ἀλλὰ Cirillo: [εἰc πολ]λούc, ἀλλὰ Sudhaus     8 τ̣α̣χέωc legi:].ωc Capasso:]ωc tantum N: [πάνθ’] ὡc Cirillo: [τὸ ἰδί]ωc Sudhaus     8-9 τα|ράττεcθα̣ι̣ Capasso: τα|ράττεcθ[α]ι Cirillo Sudhaus     9-10 π̣ᾶν με|[τεω]ρίζεcθαι Capasso: [εἶτα μ]ε|[τεω]ρίζεcθαι Cirillo: [cυμ]με|[τεω]ρίζεcθα[ι] Sudhaus     10-11 διὸ καὶ | [κι]ν̣άδοιc legi: δι[ὸ κιν]|άδοιc Von Arnim: [δ]ιοίcαι (?) | [γὰρ τ]άδ’ οἷc Cirillo: [ἄλλ]οιc δ̣ι|[ὸ κιν]α<ί>δοιc Sudhaus: [.]ο̣ιс̣ αἰ|[εὶ κι]ν̣αίδοιc Capasso     11-12 Ἀριcτοφά|[νηc] Cirillo Sudhaus Capasso: Ἀριcτοφά|νηc Von Arnim 12 αὐτοὺc εἰκάζει.[. Capasso: α[ὐ]τοὺο ε[ἰ]κά[ζ]ει. Sudhaus Von Arnim     13 […]ο̣cα γε δύνανται κ̣α̣ P (κ̣α̣ in supraposito): …]ο̣cα γε δύναντ̣αι… Capasso: καθ]ό̣οα [δ]ὲ δύνα[ντ]αι? Sudhaus     14 […].τ.ιουcι.[.]χ̣̣ο… P (χ̣̣ο… in subposito):… τι.ιουcι. αο. N Sudhaus     15.[…] τ… [.]φυεcπ̣ P (φυεcπ̣ in subposito):… ει.αι.α φυε N Sudhaus     16.[.]… […].ηδοκ P (.ηδοκ in subposito): ηδ. κ N Sudhaus

(…) essere ritenuto che tutti i retori (…) che rapidamente ciascuno viene turbato e tutto viene esaltato, perciὸ Aristofane li paragona anche a volpi (…) possono e (…)

All’inizio della colonna (1-3), nonostante l’identificazione di alcune tracce di inchiostro non registrate dai disegnatori e la riconsiderazione di alcune letture del disegno che non corrispondono con le tracce conservate nel papiro, il testo appare ancora poco comprensibile7.

La lettura πιοτεύεcθαι (4) conferma la congettura di Sudhaus. Benché rimanga oscuro il senso del nesso πιcτεύεcθαι πάν|[ταc το]ὺc di 4-5, è certo che questo costituisce per noi il primo indizio utile per capire: troviamo qui una riflessione sui retori. La sequenza προαγε alla fine di 6 è quanto rimane di una forma da προάγω. Sudhaus – e prima di lui Cirillo – integravano προάγε|[ται], ma non possiamo escludere la presenza qui di προάγε|[cθαι] retto da πιcτεύεcθαι, forse con το]ὺc ῥήτοραc come soggetto: in tal caso προάγω, con il significato di «esortare» quindi «convincere», indicherebbe l’azione dei retori qui messa sotto accusa da Diogene8. Dopo il nesso το]ὺc ῥήτοραc, και registrato in N, trascritto anche da Cirillo e stampato da Sudhaus, non trova conferma in nessuna delle tracce conservate oggi nel papiro. L’unica traccia di inchiostro visibile tra ῥήτοραc e το, ed a prima vista compatibile con un κ, è un sovrapposto da ricollocare a col. 60, 7-8 (I Sudhaus 353) in corrispondenza della parte iniziale delle linee stesse. E nella traccia solo apparentemente simile al tratteggio di un κ è possibile individuare la parte sinistra inferiore di α e la parte destra inferiore di λ della sequenza ἀλλ’ ἔτι di col. 60, 7 oltre al tratto sinistro del calice di υ tracciato a col. 60, 8 proprio sotto il punto in cui si incontrano il tratta sinistro di α e il tratto destro di λ.

È assai difficile ricostruire le tracce prima della sequenza αλλα di 7. Una frattura delle fibre impedisce di decifrare le poche tracce di inchiostro rimaste, che, diversamente da come appaiono nell’immagine, all’esame autoptico del papiro non sembrano confermare la sequenza λουc registrata in N, integrata da Cirillo con κα]λούc e da Sudhaus con πολ]λούc.

A partire dalla fine di 8, il testo è meglio conservato e diventa più facile capire. Probabilmente in opposizione a quanto detto sopra, come pare suggerire la successione di lettere αλλα, forse ἀλλά (8), è la sequenza τ̣α̣χ̣εωc ἕκαcτον τα|ράττεcθαι καὶ πᾶν με|[τεω]ρίζεcθαι di 8-10: con rapidità ciascuno viene turbato e tutto è esaltato. La responsabilità delle azioni espresse dai due infiniti, τα|ράττεcθαι, «essere turbato» e με|[τεω]ρίζεcθαι «essere esaltato», potrebbe essere qui attribuita all’esercizio della retorica. Infatti il punto di vista sembra qui quello di Diogene: la retorica in mano di uomini non saggi puὸ diventare uno strumento di inganno in grado di turbare ogni persona e esaltare ogni cosa. All’inizio della linea la lettura ωc fa pensare ad una forma di avverbio come aveva già proposto Sudhaus: le tracce conservate non sembrano adattarsi perὸ alla sequenza τὸ ἰδί]ωc integrata da Sudhaus. Lo spazio e le poche tracce paiono compatibili con τ̣α̣χεωc, avverbio che potrebbe qui sottolineare proprio la grande rapidità con la quale i retori sono in grado di turbare ogni persona ed esaltare ogni cosa.

Dunque gli infiniti τα|ράττεcθαι e με|[τεω]ρίζεcθαι sembrano descrivere qui l’abilità dei retori che, attraverso l’abile uso della parola, turbano ogni persona e esaltano ogni cosa. Filodemo impiega anche altrove ταράττω e μετεωρίζω, ma mai in relazione all’abilità dei retori9. Con lo stesso significato che assumono nel nostro testo troviamo invece i due verbi proprio in Aristofane. Il verbo ταράccω, assai frequente nelle sue commedie, indica almeno in un caso lo sconvolgimento dovuto alle parole: negli Acarnesi (685) il νεανίαc, che ha trescato per fare il procuratore, turbando, ταράττων (688), chi si sottopone ad interrogatorio, lo colpisce con espressioni forbite e gli tende trappole di parole. Nelle Nuvole (1037) il Discorso Peggiore desidera travolgere, cυνταράζαι, le affermazioni del Discorso Migliore con argomenti contrari. Aristofane impiega μετεωρίζω solo tre volte e negli Uccelli (1447) con lo stesso valore figurato che με|[τεω]ρίζεcθαι ha nella nostra colonna: Pisetero afferma che dai discorsi la mente è innalzata, ὑπὸ γάρ λόγων ὁ νοῦc <τε> μετεωρίζεται10.

Alla fine di 10 διὸ καί, una nuova lettura che in parte conferma, in parte perfeziona la lettura [δ]ιοίcαι (?) di Cirillo, introduce il richiamo al passo di Aristofane offerto qui a sostegno di quanto detto fino ad ora. Un progresso nella comprensione del testo è stato possibile a partire dalla lettura e dall’interpretazione del termine di paragone al quale Aristofane assimila, εἰκάζει, i retori. Sudhaus, in base a N che registra [---]αδοιc, pensa ad un errore dello scriba e stampa κι]να<ί>δοιc, Capasso legge la sequenza ν̣αιδοιc e integra κι]ν̣αίδοιc: i cinedi sarebbero quelli a cui Aristofane paragona i retori11. Ma la presenza qui dei cinedi si spiega con difficoltà e il termine κίναιδοc non compare mai in Aristofane. La lettura della sequenza ]ν̣αδοιc conferma κιν]άδοιc di Von Arnim. Anche la ricostruzione di Cirillo τ]άδ’ οἷc, in effetti, conferma ναδοιc, senza la presenza di ι tra α e δ. Poco si puὸ dire sulla traccia curva visibile dopo εἰκάζει forse quanto rimane di ε o di c, ο quanto resta della parte sinistra di θ. Impossibile è decifrare la piccola traccia che segue.

Ma come interpretare κι]ν̣άδοιc? È possibile ricondurre questo dativo plurale κι]ν̣άδοιc al sostantivo κίναδοc della terza declinazione? La parola κίναδοc, oltre a significare «bestia», è il nome siciliano della volpe12. In attico κίναδοc è impiegato unicamente con il significato metaforico di «astuto», «capace di ingannare» e anche «malvagio»13. Non a caso Sofocle nell’Aiace (103) definisce Odisseo τοὐπίτριπτον κίναδοc, una furba canaglia14. E non è certo un caso che nella paretimologia di κίναδοc che offrono gli scolii a Teocrito, Idillio 5, 25 (163 Wendel), emerga il tentativo di scovare nel termine la spiegazione della natura ingannevole della volpe: κίναδοc deriva dall’abitudine dell’animale a muoversi, τὸ κινεῖcθαι, nella vergogna o spudoratamente, ἐν αἰδοῖ ἢ ἀναιδῶc, oppure nell’inganno, ἐν δόλῳ15.

Aristofane impiega il termine due volte: nelle Nuvole (448) e negli Uccelli (430)16. Nelle Nuvole κίναδοc è all’interno di una lunga serie asindetica (444-451) costituita da espressioni idiomatiche e metafore di derivazione colloquiale, espressioni che Strepsiade pronuncia nel momento in cui è in procinto di consegnarsi alle Nuvole per diventare un oratore capace di superare i Greci nell’eloquenza, di volgere la giustizia a suo vantaggio e di liberarsi dai creditori. Strepsiade è disposto a sopportare anche percosse, fame, sete, arsura, freddo purché alla gente appaia κίναδοc, cioè furbo come una volpe, capace con la furbizia della volpe di ingannare attraverso i discorsi17. Gli scolii (448 f-g Koster) precisano che qui κίναδοc ha il valore di ἀπατητικόc, ingannevole, πανοῦργοc, malvagiamente scaltro, κακοῦργοc, capace di fare del male.

Negli Uccelli (430-431), Upupa rivolgendosi al coro definisce Pisetero la più astuta delle volpi, πυκνότατον κίναδοc, intrigante, cόφιcμα, truffatore, κύρμα, scaltro perché consumato, τρῖμμα, un furbo di tre cotte, παιπάλημ’ ὅλον18. Qui le capacita riconosciute a Pisetero coincidono con quelle che Strepsiade spera di acquisire dall’educazione sofistica impartita nel Pensatoio: non è un caso che all’interno della lunga serie asindetica delle Nuvole (444-451), Strepsiade si auguri, tra l’altro, di sembrare, oltre che κίναδοc, anche περίτριμμα, consumato (447).

Dunque Aristofane, sia nelle Nuvole (448), sia negli Uccelli (430), impiega κίναδοc per indicare chi dimostra astuzia nell’ingannevole uso della parola. Certo l’immagine del retore quale κίναδοc che troviamo sia nelle Nuvole (448) sia negli Uccelli (430) ben esprimeva l’associazione tra retorica e inganno e altrettanto bene rappresentava l’idea di Diogene di Babilonia di una retorica che ha proprio l’inganno come unico fine: non stupisce dunque che Diogene possa aver sfruttato questa immagine a sostegno della sua accusa contro la retorica a lui contemporanea.

Non solo: oltre che nella commedia, κίναδοc, è termine caratterizzato negativamente anche nell’oratoria19. La parola κίναδοc è usata proprio dagli oratori come violento insulto contro gli avversari. Per esempio Demostene per ben due volte nel discorso Sulla Corona definisce Eschine con il termine κίναδοc: la prima volta (162) lo apostrofa con ὦ κίναδοc accusandolo di essere stato un subdolo adulatore; in seguito (242) lo definisce φύcει κίναδοc, una perfida volpe per natura. Ma prima ancora Eschine nella Contro Ctesifonte (167) si era rivolto a Demostene con il vocativo ὦ κίναδοc. Dinarco inoltre, nella Contro Demostene (40, 3), inserisce proprio Demostene tra i κινάδη che non hanno operato per il bene della città20.

Ma se è plausibile che Filodemo qui richiami il passo, o i passi di Aristofane citati da Diogene, come giustificare il dativo κινάδοιc? È possibile ipotizzare che κίναδοc/-ουc, sostantivo della terza declinazione, sia stato declinato come un sostantivo della seconda? Che già nell’antichità fosse incerta la declinazione di κίναδοc, termine raro e per lo più poetico, è ben documentato. Il genitivo κιναδέων attestato in Democrito 68B 259 (D-K) suggerisce una declinazione in -ευc. E forse traccia di una declinazione in -ευc per κίναδοc è presente in Teocrito 5, 25. Lecone rivolgendosi a Comata lo appella con il vocativo del termine. La maggior parte dei codici ha κιναδεῦ’ o κίναδ’ εὖ. Ma κίναδ’ εὖ non restituisce senso al verso e κιναδεῦ implica una declinazione κιναδεύc ritenuta improbabile da gran parte della critica che tende a correggere il testo21. Gli scolii al passo (a-d 163 Wendel) non aiutano a sciogliere il problema ma offrono a noi un’ulteriore testimonianza dell’oscillazione nella declinazione del sostantivo: 25 a. καὶ πῶε ὦ κίναδ’εὖ: Cικελιῶται τὴν ἀλώπεκα οὕτωc. ἔcτι δὲ ἀντὶ τοῦ πανοῦργε· τοιοῦτον γὰρ τὸ ζῷον. (KGEA) [b.] γράφεται ὦ κιναδεῦ: Cικελιῶται τὴν ἀλώπεκα οὕτωc. (Kr) c. κίναδοc ἡ ἀλώπηξ παρὰ τὸ κινεῖcθαι ἐν αἰδοῖ ἢ ἀναιδῶε ἢ παρὰ τὸ κινεῖεθαι ἐν δόλῳ. (KGEAT) d. ὦ κίναδε: ἤτοι ὦ πανοῦργε· Cικελιῶται γὰρ τὴν ἀλώπεκα κίναδον προcαγορεύουcιν. (PT). Dunque, gli scolii confermano κιναδεῦ’ dei codici, attestano un vocativo κίναδε e un accusativo κίναδον.

Non solo: nel frammento di Democrito 68B 300,7a (D-K) il sostantivo è declinato come un nome maschile della prima declinazione. Nel frammento è presente sia il nominativo ὁ κινάδηc, che già Diels considerava una forma costruita sul genitivo κιναδέων di Democrito 68B 259 (D-K), sia il genitivo τοῦ κινάδου nonché il dativo τῷ κινάδῳ22.

Dunque oltre al neutro τὸ κίναδοc è attestato un maschile della terza declinazione ὁ κιναδεύc, un maschile della seconda ὁ κίναδοc e anche un maschile della prima ὁ κινάδηc. Segno evidente di un’oscillazione o di un’incertezza nella declinazione del termine23. Non si puὸ neanche escludere che κίναδοc si comportasse come i sostantivi per i quali sono attestati fenomeni di mutamento di tema, genere e declinazione e che alternasse a forme in c forme in ο24. Pertanto alla luce di queste considerazioni appare plausibile anche un dativo κινάδοιc da ricondurre al sostantivo κίναδοc/-ου. E tanto più appare plausibile se si considera che il sostantivo che significa «danno» e per il quale è ampiamente attestata un’alternanza di forme neutre della terza declinazione in -oc con forme femminili della prima declinazione in -η, in Filodemo è sempre declinato come femminile ἡ βλάβη. Ma anche i sostantivi che presentano sia forme maschili della seconda sia neutre della terza in Filodemo sono per lo più declinati come nomi maschili della seconda: per esempio nella Retorica troviamo l’accusativo singolare ἔλεον (I 65, 17 Sudhaus), il genitivo singolare ἐλέου (I 264, 7 Sudhaus) da ὁ ἔλεοc e il genitivo singolare ἤχου (II 258, 1 Sudhaus) da ὁ ἦχοc25.

Dunque Filodemo nel nostro testo richiamerebbe proprio l’associazione dei retori a volpi, κι]νάδοιc (11) intese come paradigmi di malizia e furbizia, quella stessa associazione che Aristofane offre sia nelle Nuvole sia negli Uccelli, e che Diogene di Babilonia pare riprendere. Non stupisce infatti che Diogene si sia rivolto ad Aristofane quale schernitore di retori per trarre immagini e citazioni da impiegare nella sua accusa contro la retorica. Poco prima del nostro passo a col. 51, 1-5 (I 348 Sudhaus), infatti, con il richiamo alle parole di Prassagora nelle Ecclesiazuse (112-113), Filodemo testimonia che Diogene riprendeva il passo di Aristofane come prova del comportamento dissoluto dei retori: i più abili a parlare tra i giovani sono quanti si dimostrano soliti ad abitudini indecorose. Forse un altro richiamo ad Aristofane dalla prospettiva di Diogene si trova anche a col. 59, 10-14 (I 352-353 Sudhaus). Qui il riferimento alla βλαcφημία dei κωμῳδοποιοί nei confronti dei retori è generico, ma è certo possibile che tra questi Diogene comprendesse anche Aristofane26. Dunque per il Diogene conservatoci da Filodemo, Aristofane, fonte da cui attingere immagini e citazioni che sostenessero o dimostrassero le sue posizioni, è stata anche la fonte da cui trarre la suggestiva immagine dei retori assimilati a volpi, quali animali che si muovono con agilità nell’inganno27. Forse dalla produzione comica, proprio da Aristofane, Diogene puὸ aver ripreso anche l’uso di ταράccω e di μετεωρίζω28. Purtroppo non è conservata la parte di testo che doveva contenere la replica di Filodemo a Diogene, una replica che possiamo immaginare tesa a dimostrare che la retorica non ha come unico fine l’inganno e che non tutti i retori tendono, come si augura invece Strepsiade delle Nuvole, o come fa Pisetero negli Uccelli, ad esercitare l’ingannevole astuzia delle volpi.

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1 Sulle caratteristiche del rotolo e del testo conservato, cf. Cappelluzzo (1976) 69. Un’analisi del contenuto del libro è in Erler (1994) 306. A proposito della collocazione del libro conservato nel P. Herc. 1004 all’interno dell’intera opera, cf. Dorandi (1990) 72-73. Sull’ipotesi suggerita da Longo Auricchio (1996) 170-171 di identificare questo libro con il libro X della Retorica, cf. Di Matteo (2000) 84-85. Più recente è l’ipotesi di Privitera (2007) 56-58 che ritiene si tratti del VII libro.

2 Benché l’edizione di Sudhaus (1892) 325-385 sia a tutt’oggi l’edizione di riferimento, non mancano tuttavia edizioni parziali del testo o contributi a singole colonne, per i quali cf. Del Mastro (2005).

3 Questo dato si ricava dalla nota degli stessi disegnatori della quale dà notizia anche Sudhaus (1892) XIII.

4 A proposito dell’«Illustrazione inedita del P. Herc. 1004 conservata (AOP XXI Ba fasc. II)» di Cirillo, cf. Janko/Blank (1998) 174-184, nonché Farese (1999) 83-94.

5 Cf. Cavallo (1983) 14-23.

6 A proposito della riflessione di Diogene sulla retorica nella polemica di Filodemo, cf. Erbi (2009) 119-121. Dopo Cirillo (AOP XXI Ba fasc. II) e Sudhaus (1892) 352, il testo è stato edito da Von Arnim (1903) 238 e da Capasso (1990) 48-51. La citazione da Aristofane si trova all’interno di una sezione (I 351-355 Sudhaus) dedicata all’inganno della retorica; cf. Erbì (2010) 65-74.

7 Alla fine di 2, Sudhaus (1982) 352 legge οιτειυ…, ma già N registrava il secondo ι con un piccolo segno verticale sopra la lettera. Dopo υ è ben visibile una tratto verticale compatibile con l’asta verticale di ρ ο γ. Seguono assai incerte tracce di inchiostro. A 3, ταc[…]τιονεс̣ suggerisce l’integrazione di τὰc βελτίονεc, ma anche in questo caso l’incertezza del testo conservato non consente di capire.

8 Con il significato di impello, προάγω è impiegato da Filodemo in Retorica I 139, 7 (Sudhaus). Cf. Vooys/Van Krevelen (1941) 69.

9 Cf. Vooys/Van Krevelen (1941) 15 e 108.

10 Già Gomperz (1866) 705, n. 24, stabiliva una relazione tra il nostro passo e Aristofane (Uccelli 1447), dove, come sottolinea Dunbar (1995) 682-683, il verbo impiegato nelle sequenza «sollevare la mente», assume per la prima volta il significato di «esaltare» quindi «eccitare».

11 Capasso (1990) 50 ritiene plausibile che nell’accusa rivolta ai retori di un deviato comportamento sessuale Aristofane intendesse sintetizzare il suo disprezzo per i retori a lui contemporanei e per quella retorica insegnata nelle scuole.

12 Esichio (κ 2711 Latte) glossa il termine con θηρίον e con ὄφιc. E con il significato di «fiera», «mostro» il termine è impiegato da Democrito 68B 259 (D-K) e da Arriano, Indica (8, 8). Ed è proprio il senso che il termine ha in Democrito e in Arriano a suggerire a Renehan (1969) 229 che tale valore fosse specificatamente di uso ionico. Riconoscono in κίναδοc il nome siciliano della volpe Arpocrazione (κ 58 Keaney), Suda (κ 1629 Adler), Etymologicum Magnum (514, 12-14 Gaisford), ΣTheocr. 5, 25 a, [b], d (163 Wendel).

13 Sulla presenza della volpe quale simbolo di astuzia nella produzione paremiografica antica, cf. Tosi (2010) 1591-1592. Proprio quale emblema della furbizia e della malvagità umana, la volpe è sfruttata nella letteratura greca, come dimostra Taillardat (1965) 227-228. In particolare, sulla proverbiale associazione della volpe all’astuzia nella poesia, cf. Lelli (2006) 200.

14 Cf. a proposito Stanford (1979) 71 e Kamerbeek (1963) 39.

15 Anche nell’Etymologicum Magnum (514, 12-14 Gaisford) l’etimologia di κίναδοc è ricondotta, non senza un’allusione oscena, al movimento incessante, ἅδην, dell’animale: con κίναδοc vengono insultati coloro che si muovono molto, i πολυκινήτοι. Incerta è la reale etimologia del termine: Frisk (1960) 854 e Chantraine (1968) 532, con cautela, suggeriscono un contatto con κνώδαλον. Secondo Beeks (2010) 698, κίναδοc sembrerebbe richiamare piuttosto κίδαφοc. Riconduce l’origine e la formazione del termine ad un sostrato «indomediterraneo» Mastrelli (1965) 113-115.

16 Callia nell’Atalante (2 PGC) impiega il termine per indicare una fiera pericolosissima, la cui pelle veniva utilizzata per fabbricare gli elmetti. Cf. Imperio (1998) 201-202. In Menandro, Epitrepontes (29 = 165 Sandbach), κίναδοc compare con un valore attenuato.

17 Offre un’analisi puntuale dell’espressioni idiomatiche e delle metafore impiegate da Aristofane nella costruzione comica della scena Guidorizzi (1996) 250-251.

18 Spiega le scelte lessicali del passo Dunbar (1995) 298-299.

19 Cf. Wankel (1976) 161-162.

20 Andocide, Sui misteri (99, 1) impiega la definizione che Sofocle, Aiace (103) dà di Odisseo, ἐπίτριπτον κίναδοc, rivolgendola al suo avversario; cf. MacDowell (1962) 137.

21 Già Meineke (1856) 232 segnalava le difficoltà di accettare le lezioni dei codici, e valutando, tra le diverse correzioni proposte dalla critica, quella di Wordsworth, κίναδοc τύ, la migliore, la accoglieva nel testo. Di recente anche Gow (1952) 99, negando la possibilità di una declinazione κιναδεύc, stampa nel testo κίναδοc τύ. Conserva invece la lezione dei codici κιναδεῦ e stampa ὦ κιναδεῦ’, Gallavotti (1993) 30.

22 Nel frammento, considerato spurio da Diels/Kranz (1952) 214-215, il termine è impiegato con il significato di «bestia» per indicare ὁ βαcιλίcκοc; ma cf. Barbara, (2005) 17-34.

23 Riconduce a κίναδοc i nomi propri Κινάδηc e Κινάδων Bechtel (1917) 582. In particolare su Κινάδηc, cf. Fraser/Matthews (1987) 255, e su Κινάδων Fraser/Matthews (1997) 241.

24 I termini per i quali è attesta nei papiri una oscillazione della declinazione sono raccolti da Gignac (1981) 92-102.

25 Cf. Crönert (1903) 175-176

26 Un’analisi dei passi si trova in Capasso (1990) 50-51.

27 Filodemo, De musica (col. 128, 30-31 Delattre) documenta, inoltre, per Diogene, la ripresa di Aristofane Tesmoforiazuse (162-167) al fine di dimostrare che la musica e alcune melodie hanno un potere diseducativo tale da corrompere i giovani. Cf. Delattre (2007) 244.

28 È possibile scorgere qui un’unica scena comica, forse dello stesso Aristofane, con un retore paragonato ad una volpe che crea scompiglio e turbamento.