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Non è Lucrezio

Mario CAPASSO

Con la presente comunicazione torno, senza spirito polemico e con l’intento di ristabilire il reale stato delle cose, sull’identificazione negli esili frustoli di un papiro ercolanese di resti del De rerum natura di Lucrezio proposta nel 1989 da Knut Kleve1: questa identificazione non ha ragion d’essere, perché contrasta con ciò che ancora si legge sul papiro, perché viola le leggi fondamentali della papirologia ercolanese e, come se questo non bastasse, perché si oppone a consolidate norme della paleografia latina. Malauguratamente a nessuna di queste tre più che decisive motivazioni hanno mai risposto sia il Kleve sia altri studiosi: si è preferito, almeno fino a pochi anni fa, ribadire, non senza superficialità, l’identificazione lucreziana.

Nel 1989 Kleve, al quale rivolgo un pensiero riconoscente per le benemerenze da lui acquisite nell’àmbito della papirologia ercolanese, annunciò di avere individuato in sei frustoli di papiro, tutti di estensione ridottissima, porzioni minime di 38 versi (fr. A-P) appartenenti ai libri I, III, IV, V di Lucrezio. I sei frustoli, che, apparentemente privi di numero di inventario, erano conservati nel cassetto CXIV dell’Officina dei Papiri Ercolanesi, furono fatti risalire a sei diversi papiri, tre dei quali, in quello stesso anno, furono poi inventariati rispettivamente come P.Herc. 1829, 1830 e 18312. In realtà, come abbiamo dimostrato io e Paolo Radiciotti, quei sei frustoli appartengono ad uno ed un solo papiro, il P.Herc. 395, un rotolo aperto nel 1805 da F. Casanova e G. Braibanti in 23 pezzi attualmente conservati in 17 cornici3.

Sono pezzi in cattive condizioni, caratterizzati da estese irregolarità stratigrafiche, che ne rendono oltremodo disagevole la lettura ed impediscono il recupero di parti di apprezzabile lunghezza del testo. Con questi 23 pezzi, che i due svolgitori aprirono con la macchina del Piaggio, si uniscono gli 11 pezzi attualmente custoditi nel cassetto CXIV e che costituiscono il risultato della pulizia preliminare del papiro, indispensabile, secondo il ben noto procedimento della scorzatura parziale, per l’applicazione del metodo del Piaggio alla porzione continua del volumen. Dunque i 23 pezzi delle cornici rappresentano il midollo del rotolo, mentre gli 11 pezzi del cassetto sono le porzioni esterne, porzioni che, essendo estremamente compatte e corrugate, non furono mai sfogliate e percio rimasero dimenticate nel cassetto. È fondamentale, per non perdere l’orientamento nella vicenda dello pseudo-Lucrezio ercolanese, tenere ben presente la connessione tra il midollo e i gusci esterni del cassetto, vale a dire che siamo in presenza di un unico rotolo, il P.Herc. 395.

Secondo Kleve nella biblioteca della Villa ci sarebbe stata un’edizione completa del De rerum natura, costituita da sei rotoli, ciascuno dei quali sarebbe stato alto 20 cm e avrebbe avuto colonne alte 15 cm e larghe 20 cm: ciascuna avrebbe contenuto 15 versi. Questa l’articolazione del poema nei presunti sei rotoli ercolanesi secondo lo studioso:

– libro I (1117 versi): 75 colonne in un rotolo lungo m 15

– libro II (1174 versi): 79 colonne in un rotolo lungo m 15,80

– libro III (1094 versi): 73 colonne in un rotolo lungo m 14,60

– libro IV (1287 versi): 86 colonne in un rotolo lungo m 17,20

– libro V (1457 versi): 98 colonne in un rotolo lungo m 19,60

– libro VI (1286 versi): 86 colonne in un rotolo lungo m 17,20

Ci sono molti punti deboli nei procedimenti del Kleve. Innanzitutto le sue ricostruzioni sono basate sul disegno delle porzioni di testo che lui legge su macroslides, cioè su fotografie di parti minime di testo, e non sulla visione dell’originale; tuttavia le macroslides presentano necessariamente un testo inevitabilmente «appiattito», nel senso che non consentono di distinguere le irregolarità stratigrafiche, che sconvolgono la naturale successione dello strato di base; di conseguenza ciò che Kleve legge e disegna dalle macroslides molto facilmente non corrisponde a ciò che effettivamente è nel papiro.

Infatti nella ricostruzione da lui proposta nel 1989 egli si basava su un testo che la mia autopsia dell’originale ha dimostrato non genuino, sia perché lo studioso attribuiva a strati diversi cio che invece è su uno stesso strato o, viceversa, considerava su uno stesso strato cio che appartiene a strati diversi, sia perché le stesse minime sequele di lettere, che egli leggeva e che a suo avviso si sovrapponevano al testo lucreziano, non corrispondono a quelle che sono sul papiro4.

In particolare il Kleve sorvolava con eccessiva disinvoltura su una difficoltà papirologica insormontabile e che, a mio avviso, è stata gravemente trascurata dagli altri sostenitori della sua identificazione. Mi riferisco al fatto che, pur di sovrapporre esilissimi resti di testo ai versi del De rerum natura, egli è costretto a considerarli su strati diversi; tuttavia si tratta di sequele di lettere o parti di lettere che sull’originale sono vicinissime tra di loro e, soprattutto, poggiate su strati privi di un minimo dislivello reciproco; ora, dal momento che lo studioso le considera porzioni di testo distanti tra di loro un centinaio di versi, vale a dire, in un caso, ben sette colonne e, in un altro, sei colonne e mezza, corrispondenti, rispettivamente, a m 1,54 e m 1,46 di superficie papiracea, vale a dire porzioni molto estese, ci dovrebbe necessariamente essere tra di esse un dislivello di molti strati, dislivello che invece non esiste affatto5. Kleve risolve la difficoltà presupponendo, in maniera assai poco credibile, che i rotoli fossero stati fabbricati con carta di papiro molto sottile, la charta regia di cui parla Catullo 22, 6.

Altra difficoltà è costituita dalla eccessiva lunghezza dei sei rotoli nei quali si sarebbe articolata l’edizione ercolanese di Lucrezio. Considerando in ciascun rotolo l’agraphon iniziale, lo spazio della subscriptio e l’agraphon – complessivamente uno spazio di non meno 40 cm del tutto dimenticato dal Kleve – la lunghezza dei sei rotoli dovrebbe essere maggiore di quella ipotizzata dallo studioso. In particolare: libro I: m 15,40 ca.; libro II: m 16,20 ca.; libro III: m 15 ca.; libro IV: m 17,60 ca.; libro V: m 20 ca.; libro VI: m 17,60 ca. Si tratta di lunghezze notevoli, alquanto inconsuete e scomode. W. Suerbaum, che ha accolto l’identificazione del Kleve, si è avveduto della difficoltà e, ritenendo inverosimile che i rotoli fossero fabbricati con charta regia, pensa che almeno i più lunghi dei sei libri sarebbero stati delineati ciascuno in due rotoli, vale a dire, tra quelli sicuramente identificati dal Kleve, il I, il III e il V6. In realtà, se ammettessimo una soluzione del genere, la dovremmo ammettere per tutti e sei i libri, dovremmo, in ultima analisi, pensare che l’edizione ercolanese di Lucrezio si articolasse in 12 rotoli.

Altra difficoltà insita nella ricostruzione di Kleve è rappresentata da una palese, grossa contraddizione in cui egli cade a proposito della scrittura del papiro. A suo avviso siamo in presenza di una edizione di un certo pregio del De rerum natura, come mostrerebbe anche la scrittura, una early Roman script, che lo studioso ritiene di far risalire «presumibilmente» alla metà del I sec. a. C.7; egli definisce tale scrittura «una rozza capitale rustica», «spesso corsiva, spesso leggermente inclinata a destra», realizzata da uno scriba che ha la «tendenza a sovrapporre le linee», a delineare una stessa lettera ora in un formato ora in un altro e, in genere, a delineare lettere abbastanza grandi, più grandi di quelle del papiro contenente il De bello Actiaco e di altri papiri latino-ercolanesi, ma anche di tutti gli altri papiri greco-ercolanesi8. Questa circostanza, secondo il Kleve, dimostrerebbe l’importanza che il De rerum natura aveva nella biblioteca della Villa9. Ma, possiamo chiederci, sulla scia di Radiciotti: come è possibile presupporre un’edizione pregiata, di Lucrezio – un testo definito centrale nella biblioteca della Villa – realizzata in una scrittura fortemente corsiva ed estremamente dimessa, riservata solitamente a testi non librari10 ?

Pur avendo io dimostrato nel 2000 che i sei frustoli resi noti dal Kleve appartenevano al P.Herc. 395 e che quanto si leggeva sui 23 pezzi di quest’ultimo non rientra nel poema lucreziano, nel 2001 il Kleve presentò una comunicazione al XXIII Congresso Internazionale di Papirologia di Vienna, nella quale annunciò di avere individuato nel P.Herc. 395 resti del secondo libro del De rerum natura11. Lo studioso sorvolava con disarmante disinvoltura su tutte le obiezioni e i rilievi con i quali avevo dimostrato l’inaccettabilità della sua ricostruzione e, per cosi dire, facendo di necessità virtù, rilanciava la questione, attribuendo il P.Herc. 395 al secondo libro lucreziano, slegando completamente questa sua nuova identificazione da quella precedente. Anzi mi lodava per il fatto che, avendo individuato la connessione tra il P.Herc. 395 e i sei frustoli, avevo «inavvertitamente» confermato la scoperta del Lucrezio ercolanese. Kleve però, intuendo facilmente che quella connessione era perniciosa per le sue identificazioni, la liquidava, definendola «difficilmente soddisfacente».

Questi i punti principali della sua argomentazione. 1. Su alcune porzioni custodite nelle cornici 4, 5 e 17 del P.Herc. 395 sono rintracciabili frammenti del II libro del poema. 2. Alcune sequenze di lettere che io avevo lette nei pezzi delle cornici 11, 12 e 13 e che a mio avviso non si incastonavano nel De rerum natura sono invece ben inseribili nel II libro12. 3. Il P.Herc. 395 è più vecchio di 800 anni rispetto ai due principali codici lucreziani, l’Oblongus e il Quadratus; ma non è ancóra il manoscritto originale di Lucrezio, come mostrano alcuni «errori metrici (ma non grammaticali)», sicuramente presenti in alcune delle sequenze individuate, errori che dimostrerebbero che il testo fu trascritto da un altro esemplare, non sotto dettatura: nihil al posto di nil in 2, 224 (fr. 4 E); e tum al posto di nunc in 2, 748 (fr. 5 E). Un altro errore, non classificabile come metrico, potrebbe indicare che lo scriba era forse «un Graeculus con una scarsa conoscenza del latino»: graemina al posto di gramina in 2, 663 (fr. 5 C). 4. La colonna di scrittura del P.Herc. 395 conteneva un numero di versi che oscilla tra 19 e 22; è quindi da rivedere il calcolo fatto in precedenza dallo studioso sulla colonna dei sei frustoli lucreziani, secondo il quale essa avrebbe contenuto 15 versi13. 5. Il «beneficio più grande» che si ricava dalla «sicura» scoperta di Lucrezio ad Ercolano è che «ora diviene finalmente accettabile lo studio della relazione tra lui ed il gruppo filodemeo nella Villa dei Papiri».

Devo dire che questo secondo lavoro del Kleve sul presunto Lucrezio ercolanese è ancóra più sconcertante e fuorviante del primo, essendo farcito di errori, incongruenze, forzature più o meno clamorose. Qui mi limito a segnalarne alcuni. Osservo preliminarmente che ancóra una volta, per sua stessa ammissione, egli presenta delle sequenze di lettere da lui ricavate dalle microslides e non dal controllo dell’originale. Lo studioso sorvola del tutto su un dato che è di una evidente, fondamentale importanza: vale a dire che sia i sei frustoli, che nel 1989 egli ha ricondotto ai libri I, III, IV, V di Lucrezio (cioè i P.Herc. 1829, 1830, 1832 e i tre sine numero), sia il P.Herc. 395, in cui egli ha rintracciato resti del II libro, appartengono ad uno stesso, unico rotolo; questo vuol dire che in esso erano contenuti tutti i sei libri del poema e doveva essere mostruosamente lungo circa 100 m.

Non credo, inoltre, di mancargli di rispetto se dico che alcune sue affermazioni sono, certo involontariamente, ingannevoli. In questa occasione faccio un solo esempio. Nel mio articolo del 2000 tra i frammenti che assolutamente non possono rientrare nel poema lucreziano, inserivo tale sequenza da me letta al centro del pezzo della cornice 11 e costituita da due linee consecutive14: ]IL[.]Ṇ[.]Ṇ[ - - - | - - - ]ỤEֹ FUGI . [ . Ed era ben chiaro dalla mia trascrizione che si trattava effettivamente di due linee consecutive. Ora secondo lo studioso «abbastanza curiosamente» proprio queste lettere dimostravano quello che io negavo, vale a dire che il P.Herc. 395 contenesse il II libro del poema: a suo avviso la sequenza rinvierebbe rispettivamente a Lucr. 2, 69: et quasI LoNgiNquo fluere omnia cernimus aevo e a Lucr. 2, 45: EF̣FUGIỤnt animo pavidae, mortisque timores.

Il Kleve, pur ammettendo, ancora una volta, di non aver controllato l’originale e pur di incastonare nel poema le serie di lettere da me lette sul papiro, le cambia secondo le sue esigenze. Rilevo, tra l’altro, che a linea 2 dopo FUGI è ben visibile un tratto verticale che non può assolutamente essere ricondotto alla lettera U. Ma ritengo del tutto fuorviante il fatto che egli consideri separate e distinte due linee che invece sono consecutive. Allo stesso modo lo studioso altera arbitrariamente le altre serie di lettere da me lette nello stesso P.Herc. 395.

Da respingere anche la lettura che il Kleve dà di alcuni gruppi di lettere da lui lette, con il solo ausilio delle microslides, nelle cornici 4, 5 e 17. La situazione dell’originale, da me controllato direttamente, è infatti ben diversa.

1. Il Kleve, pur di mettere insieme gruppi di lettere che in qualche modo potrebbero rientrare nei versi lucreziani, sposta a proprio piacimento gli strati che egli ritiene contengano questi gruppi; in tal modo mostra di ignorare il meccanismo della formazione delle irregolarità stratigrafiche e le regole del ripristino di sovrapposti e sottoposti. Nel caso del testo 17 C considera l’insieme delle 12 linee un sovrapposto, ma sappiamo che un sovrapposto per poter tornare ad occupare la sua posizione originaria deve essere spostato di due sezioni (corrispondenti allo spazio di due semivolute del rotolo quando era chiuso) in avanti; invece lo studioso non sposta per niente le prime sette linee. Non solo, ma, dal momento che le residue cinque linee sono sensibilmente più a destra, e dunque, più avanti, per poterle connettere con le prime sette, le sposta, contro ogni principio della stratigrafia ercolanese, più indietro. Ma, come già si è detto, un sovrapposto deve guadagnare la sua posizione originaria con uno spostamento in avanti: è legittimo spostare indietro solo uno strato sottoposto, che invece qui, nella ricostruzione di Kleve, è del tutto assente.

Ancóra sono costretto a rilevare che, dal momento che la parte centrale delle prime due linee si trova sensibilmente più in basso rispetto alla parte finale delle stesse, egli la sposta più in alto, pur di mettere entrambe sulla stessa linea di base; ma, poiché lo srotolamento dei papiri ercolanesi avveniva sempre e soltanto in senso orizzontale, e mai verticale, eventuali irregolarità stratigrafiche che l’operazione comportava erano sempre nel senso della lunghezza del rotolo, e mai dell’altezza, quindi gli strati fuori posto vanno spostati avanti o indietro ma mai in basso o in alto. Solo in un caso possiamo ammettere uno spostamento verso l’alto o verso il basso, quando siamo sicuri che il rotolo, sottoposto allo svolgimento, era stato originariamente avvolto in maniera irregolare, cioè obliqua, vale a dire con le estremità delle volute non combacianti. Si tratta di una circostanza teoricamente possibile, anche se poco probabile; ma, anche ammettendo che cosi fossero andate le cose, il ripristino dovrebbe essere fatto mediante uno spostamento non totalmente verso l’alto o verso il basso, vale a dire in senso verticale, come proposto dal Kleve, ma in senso obliquo; e in questo senso obliquo dovrebbe avvenire il ripristino di ogni irregolarità stratigrafica in un rotolo cosi avvolto irregolarmente, e non in senso ora verticale ora obliquo, a seconda delle nostre contingenti esigenze di ricostruzione del testo.

2. La lettura delle 12 linee data dal Kleve è imprecisa. Mi soffermo sulle linee 3-6 (i presunti versi 2, 1080-1083), da cui egli è partito per l’attribuzione al poema lucreziano. Questo è quanto legge Kleve:

2, 1080 [sint genere in primis a]ṇ[i]ṃạlịḅ[us i]ṇdịce m[e]ṇ[te]

2, 1081 [inuenies sic montivag]uṃ g̣eṇụ[. esse fera]ṛum |

2, 1082 [sic hominum geminam pr]ọḷ[em sic] deṇ[i]q̣uẹ m[u]tas |

2, 1083 [squamigerum pecudes et corpora cunct]. ụọḷạṇtum |

Ecco quanto ho letto sul papiro:

3 tracce confuse

4 ]IAEM[

5 tracce P.Ḥ[ ]TAS_[

6 ] Ạ [ + - 9]˗UM.[

A l. 3 ci sono residui di inchiostro molto confusi, che è impossibile far risalire alle lettere individuate dal Kleve. Non è sicuro che la l. 4 sia sullo stesso strato della l. 5. A l. 4 nessuna traccia di UṂG̣EṆỤ dato dallo studioso; la prima lettera non è U, ma una I, seguita da AE ed M incerta. A l. 5, sulla sinistra, ci sono tracce estremamente confuse, che certamente non fanno ipotizzare OL visto dal Kleve; nella parte centrale non esistono DEN e QUEM visti dallo studioso; dopo la S si intravede sul rigo di base un cortissimo tratto orizzontale legato alla sua estremità destra ad un altrettanto corto tratto verticale: si tratta sicuramente di una lettera e non del tratto obliquo che indica fine di verso. La l. 6 potrebbe non appartenere allo stesso strato della l. 5, ma essere sottoposta ad essa; dopo la M c’è una traccia tondeggiante, che appartiene ad una lettera e non al tratto obliquo che indica fine di verso.

Il Kleve non può proporre le sue identificazioni partendo da esili tracce di inchiostro per ricostruire, senza il controllo dell’originale, le lettere che gli servono per quelle identificazioni; non puo sorvolare sulle differenze di strati, per cui singole lettere o gruppi di lettere, che a lui sembra di leggere, in realtà sono parti di lettere o lettere appartenenti a più strati e quindi a colonne diverse; non può cambiare, di volta in volta, a seconda delle esigenze, la forma delle lettere che crede di leggere; non puo violare le meccaniche leggi che presiedono alla formazione delle irregolarità stratigrafiche e al ripristino della normale successione del testo.

Per questo guardo con estremo scetticismo alle altre sue identificazioni degli Annali di Ennio e della commedia Obolostates di Cecilio Stazio. Malauguratamente egli, di fatto, non ha mai risposto alle tante obiezioni di natura tecnica che sono state avanzate alle sue funamboliche ricostruzioni lucreziane. Ne è un esempio una breve nota da lui pubblicata nel 2009 con l’eloquente titolo Futile Criticism, nella quale rispondendo ad alcuni rilievi indirettamente mossigli da Radiciotti, egli ha osservato che «there may be mistakes in my deciphering of the papyrus texts, but none so serious as to discredit the Lucretius discovery. My readings are profitably used in recent Lucretius editions»15. Difendendo la sua triplice classificazione delle scritture latino-ercolanesi contestata dal Radiciotti, ribadisce che la copia ercolanese di Lucrezio è effettivamente delineata in una scrittura corsiva, che ritroviamo anche nel papiro di Ennio ed in quello di Cecilio Stazio e che continuo ad essere usata anche successivamente, per testi documentari, privati ed ufficiali.

In una breve, efficacissima risposta, emblematicamente intitolata «Per Knut Kleve. Riflessioni sulla paleografia», il Radiciotti ha spazzato via gli equivoci che sono alla base della classificazione fatta dal Kleve delle scritture latine più antiche16. Si tratta a suo dire di una concezione abnorme della storia della scrittura latina, priva di qualsiasi fondamento scientifico, ma ancorata al convincimento espresso prima da F. Brunholzl e sulla scia di questi dal Suerbaum, che i classici latini possano aver conosciuto una fase in cui erano delineati in corsiva antica17. «Che alcuni testi letterari latini», osserva Radiciotti, «abbiano conosciuto copie in corsiva antica, eseguite per uso personale da qualcuno abituato a leggere questa scrittura, non costituisce certo un problema. Tutti i paleografi ben sanno che scritture usuali e documentarie abbondano nei libri di età antica (e non solo), ma questo non significa affatto che la corsiva antica preceda cronologicamente la capitale libraria e che tutta la letteratura arcaica e classica debba avere conosciuto uno stadio di trasmissione in corsiva antica.»

Secondo Radiciotti, inoltre, che alcuni storici della filosofia antica abbiano accolto l’identificazione di Kleve, circostanza che egli addita a sostegno delle proprie tesi, si spiega col fatto che si tratta di studiosi non esperti degli aspetti papirologici e paleografici della dimostrazione del Kleve, aspetti di natura tecnica, che essi non hanno esaminato direttamente. Per Radiciotti resta il fatto che la lettura proposta dal Kleve delle pochissime lettere individuabili sui frustoli dei P.Herc. 1829, 1830, 21831, s.n. I, I e III, e del P.Herc. 395 non è condivisa da tutti e che, contrariamente a quanto da lui ritenuto, è impossibile sostenere contemporaneamente la presenza del II libro del poema nel P.Herc. 395 e degli altri libri in quei sei frustoli, a meno di ipotizzare l’esistenza di un unico volumen contenente tutto il De rerum natura (più di 7000 versi) ed aventi dimensioni straordinarie, fin qui mai attestate.

Per fortuna l’improponibilità delle ricostruzioni del Kleve sta progressivamente diventando sempre più nitida. Serena Ammirati in una ricerca sulla storia del libro latino nel periodo compreso tra il I sec. a. C. e la fine del I e gli inizi del II sec. d. C. ha avanzato «due fondamentali ragioni di diffidenza» nei confronti delle ricostruzioni del Kleve18.

1. I gruppi di lettere individuabili, spesso con l’aiuto delle immagini multispettrali, sui papiri ercolanesi latini, in generale pervenuti in cattive o pessime condizioni, sono «poco significativi e l’attribuzione univoca di essi a un determinato testo è impossibile», anche per la diffïcoltà di accertare il rapporto stratigrafico di un gruppo rispetto all’altro.

2. Alla notevole varietà delle scritture latino-ercolanesi corrisponde, alquanto coerentemente, una decisa varietà bibliologica, circostanza che permette di stabilire un rapporto diretto, da un lato, fra l’alta qualità della carta impiegata per fabbricare il rotolo e la realizzazione calligrafica del testo in esso contenuto e, dall’altro, tra una minore cura nella realizzazione del manufatto e il grado di corsività della scrittura con cui è delineato il testo. Dal momento che scritture diverse coesistono in uno stesso periodo, «non è opportuno stabilire un criterio distintivo cronologico-evolutivo. La distinzione di Kleve (…) tra early Roman script e classical capital, interpretate come estremi di un processo appunto evolutivo, rappresenta un deplorevole passo indietro nelle acquisizioni sulla paleografia dei papiri latini di Ercolano.»

Molta chiarezza sulla questione del Lucrezio ercolanese ha fatto un articolo di Beate Beer apparso nel 2009, di cui i punti salienti sono i seguenti19. 1. L’attribuzione a Lucrezio dei frustoli dei P.Herc. 1829, 1830, 1831 e degli altri 3 s.n. è «altamente improbabile», dal momento che, come è occorso anche a me di dimostrare, le sequele di lettere lette dal Kleve su quei frustoli (sequele che peraltro la studiosa giudica troppo corte perché possano sostenere una credibile ricostruzione) sono inesatte e sorvolano su una serie di difficoltà di natura papiro-logica. 2. L’individuazione del II libro lucreziano nei magri resti del P.Herc. 395 è altrettanto fragile, per i seguenti motivi: a) è fondata su una serie di «adattamenti ad hoc» di quei resti: su 20 frammenti lo studioso è costretto ad ammettere tre errori di trascrizione, di cui due di metrica; b) la lettura di una serie di lettere conservate nelle cornici 5 e 17 fatta dal Kleve, comprese quelle nei quali lo studioso vede i residui di II 1080-1083 (fr. 17 C) è da respingere, come mostrano l’esame delle foto digitali e l’autopsia dell’originale. 3) Il testo contenuto nel P.Herc. 395, delineato in corsiva antica plausibilmente nella seconda metà del I sec. a. C., è di natura poetica, come inducono a ritenere i tratti obliqui apposti alla fine delle linee nel fr. 5 vi e nella cornice 16. 4. Esso potrebbe essere stato acquisito tra i libri della Villa nel corso del medesimo secolo, una circostanza che potrebbe autorizzare a cercarne l’autore nella cerchia dei letterati romani che frequentavano Filodemo, in particolare Lucio Vario Rufo, i cui rapporti con il Gadarese sono ormai ben attestati. 5. Il quoziente di testo conservatosi del P.Herc. 395 è troppo esiguo per permettere un’identificazione convincente del contenuto, tuttavia una serie di mezze parole individuabili in fr. 5 iv 1 (dei), 5 v 1 (Graeco[), 3 (pr]. duci[bus) potrebbe far pensare alla tragedia Thyestes che secondo Quintiliano, Inst. 10, 1, 98 Vario avrebbe scritto e sarebbe stata tale da poter competere con qualsiasi tragedia. La Beer ha il merito di avere confermato l’inesattezza di molte delle letture del Kleve e con essa l’improponibilità dell’identificazione lucreziana.

Molto significativa anche la posizione assunta di recente da Dirk Obbink, secondo il quale quanto il controllo dell’originale del P.Herc. 395 consente di leggere non è assolutamente compatibile con il testo di Lucrezio20. Obbink è costretto allora a rifugiarsi nei minuscoli frammentini dei P.Herc. 1829, 1830 e 1831, nei quali a suo avviso l’identificazione lucreziana è ammissibile, per cui essi conterrebbero «resti di quattro, e, più verosimilmente, due o tre libri del De rerum natura, da due o tre differenti rotoli di papiro»21. Egli è tuttavia costretto a riconoscere che nel caso di uno di questi frammentini (P.Herc. 1831, fr. H) la lettura data dal Kleve, e di conseguenza l’individuazione di parti dei versi 874, 873 + un nuovo verso del libro I, da lui proposta, non è confermata dal controllo dell’originale22.

L’individuazione nel P.Herc. 395 di resti del De rerum natura di Lucrezio non è né fragile né altamente improbabile: è assolutamente da respingere; nel papiro il poema lucreziano non è mai stato scritto. A mio avviso il pessimo stato in cui esso ci è pervenuto impedisce di avanzare un’ipotesi fondata sul suo contenuto; non è nemmeno del tutto escluso che esso contenga un testo documentario.

Bibliografia

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1 Cf. Kleve (1989) 5-27.

2 Cf. Capasso (1989) 263-264.

3 Cf. Capasso (2003) 77-107. In questo contributo è una trascrizione dei magrissimi frammenti presi in considerazione dal Kleve, fondata sul controllo degli originali.

4 Cf. Capasso (2003) 77-107.

5 Nel primo caso : P.Herc. 1829 = P.Herc. 395, pz 1a, fr. A (Lucr. 5, 1301-1302) e fr B (5, 1408-1410) ; e l’altro caso : P.Herc. 1831 = P.Herc. 395, pz 1, fr. H (Lucr. 1, 874, 873 + un nuovo verso) e fr. I (Lucr. 1, 973-974).

6 Cf. Suerbaum (1992) 153-173, sp. 163-164 ; Suerbaum (1994) 1-21.

7 Cf. Kleve (1994) 315.

8 Cf. Kleve (1989) 5-6.

9 Cf. Kleve (1994) 315.

10 Cf. Radiciotti (2000) 367-368.

11 Cf. Capasso (2003) ; Kleve (2007) 347-354.

12 Cf. Capasso (2003) 84-91.

13 Cf. Kleve (1989) 9-10.

14 Cf. Capasso (2003) 99.

15 Cf. Kleve (2009) 281-282 ; Radiciotti (2006) 259. Kleve si riferisce a Rouse (1992), Flores (2002) e Flores (2004).

16 Cf. Radiciotti (2008) 51-60.

17 Cf. Brunholzl (1962) 97-104 ; Suerbaum (1992) 153-173 e Suerbaum (1994) 1-21.

18 Cf. Ammirati (2010) 29-45, sp. 29-33.

19 Cf. Beer (2009).

20 Cf. Obbink (2007).

21 Cf. Obbink (2007) 34.

22 Malauguratamente Obbink sorvola del tutto, tra l’altro, sulle obiezioni di natura papirologica da me mosse alle ricostruzioni proposte dal Kleve nel 1989 e sull’incontestabile dato di fatto che tutti i frammenti presi in considerazione da parte di quest’ultimo risalgono ad un solo rotolo.