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Nel segno di Circe

La politropia di Odisseo

Franco FERRARI

Scuola Normale Superiore di Pisa

1. Le vie della politropia

Circe, come abbiamo imparato dagli studi di Radermacher, di Germain, di Page1, appartiene, in quanto strega che trasforma gli uomini in animali, a una sfera di rappresentazioni magiche di cui troviamo molteplici riscontri in ambiti antichi e moderni.

D’altra parte, come nota Heubeck nel suo commento a Odissea IX-XII2, «di vera e propria magia si puo veder traccia solo nei pochi versi che riguardano la trasformazione e la ritrasformazione dei compagni di Odisseo. Se e come l’erba moly esplicasse il suo potere su Circe non sappiamo. Il poeta ha fatto di tutto per sottrarre il racconto al mondo della fantasia e della stranezza magica e irrazionale per ricondurlo sul piano delle possibilité reali».

Heubeck riassume anche molti degli aspetti che legano l’episodio ai temi generali dell’Odissea e alla possibile presenza di Circe nell’antico epos argonautico, ma sorvola su un dato che può suggerire alcune considerazioni relative al ruolo della maga nella vicenda del nostos di Odisseo.

Si tratta del dato per cui il momento dell’incontro/scontro fra il protagonista e Circe è l’unico passo (X 330) in cui Odisseo sia definito πολύτροπος dopo il primo verso del poema.

Esaminando i vv. 1-4 del proemio

Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰ

πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερόν πτολίεθρον ἔπερσε

πολλῶν δ’ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω,

πολλὰ δ’ ὃ γ’ έν πόντῳ πάθεν ἄλγεα ὃν κατὰ θυμόν

L’uomo dai molti percors, o Musa, tu cantami, colui che molto vagò dopo avere abbattuto la rocca sacra di Troia: di molti uomini vide le città, scrutò i pensieri e molti dolori sul mare patὶ nel suo cuore per guadagnare a sé la vita, il ritorno ai compagni…

Rudolf Pfeiffer, nella sua Storia della filologia classica (1968)3, affer-mava con decisione che «l’attributo di ἄνδρα è ‘spiegato’ dalla frase relativa che segue e non significa l’uomo di versatile ingegno (versutum), ma uno dai molti movimenti, πολλὰς τροπάς ἔχοντα (versatum, πολύπλαγκτον), e per simili clausole ‘epesegetiche’ richiamava casi come XI 490 άνδρι παρ’ ἀκλήρῳ, ᾧ μὴ βίοτος πολὺς εἴη4.

Ε in sintonía con l’interpretazione sostenuta da Pfeiffer potremmo aggiungere che, se il composto πολύτροπος non compare altrove nei poemi omerici, esso si pone in evidente relazione con άπότροπος (XIV 372) e ὑπότροπος (XX 332, XXI 211, XXII 35, cfr. Il. VI 367 e 501).

Si è notato per contro5 che poeti e prosatori posteriori hanno generalmente inteso πολύτροπος come «ingegnoso», dall’omerico Inno a Hernies (vv. 13 e 439) a Tucidide III 83 e Platone, Ippia minore 364e 3 etc. Passi a cui possiamo aggiungere, anche perché si tratta probabilmente della più antica di tali ‘esegesi’, Teognide 213-18:

Θυμέ, ϕίλους κατὰ πάντας ἐπίστρεϕε ποικίλον ἦθος,

ὀργὴν συμμίσγων ἥντιν’ ἕκαστος ἔχει·

πουλύπου ὀργὴν ἴσχε πολύπλοκου, ὃς ποτὶ πέτρῃ

τῆι προσομιλήσῃ τοῖος ἰδεῖν ἐφάνη.

νῦν μὲν τῇδ’ ἐϕέπου, τοτὲ δ’ ἀλλοῖος χρόα γίνου.

κρέσσων τοι σοϕίη γίνεται ἀτροπίης.

Mio cuore, porgi a tutti gli amici variegato carattere, temperando la tua indole a quella che ha ciascuno: adotta l’indole del polpo dai molti tentacoli, che alla roccia a cui si attacca sa mimetizzarsi. Ora segui questa via, ma poi cambia colore alla tua pelle. Saggezza val più che intransigenza.

Il neologismo ἀτροπίη (che tornerà in Ap. Rh. IV 387 e 1047) presuppone palesemente polytropos e la stessa immagine del polpo riusa ad altro fine il paragone fra Odisseo e il polpo strappato alla sua tana in Od. V 432 s.6

E ancora, è molto probabile che la variante πολύκροτον in luogo di πολύτροπον – registrata dagli scoli ad Ar., nu. 260 – risalga ad età arcaica («varia lectio antiquissima» annotava in apparato P. Von der Mühll), come suggerisce il confronto con Hes., fr. 198, 3 M.-W., dove proprio Odisseo è detto «figlio di Laerte che ha pensieri astuti (μήδεα πολύκροτα)»7.

Infine, e soprattutto, nella stessa ottica di Pfeiffer secondo cui l’epiteto è ‘spiegato’ da ciò che segue, perché mai si dovrebbe tener conto solo del segmento verbale ὃς μάλα πολλὰ | πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ιερόν πτολίεθρον ἔπερσε e non anche della sequenza πολλῶν δ’ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω, legata alla frase precedente e a quella seguente, all’interno dello stesso periodo, dall’iterazione di forme di πολυ-? In effetti una lettura non selettiva suggerisce che Odisseo è presentato come colui che ha molto vagato e ha visto moite città di uomini (πολύπλαγκτος)8 ma, nel contempo, come colui che di questi uomini «ha scrutato la mente (νόον ἔγνω)».

Egli ha perlustrato luoghi fisici e recessi mentali sfruttando le proprie risorse e il proprio ingegno per adattarsi agli orientamenti mentali e alle intenzioni operative delle figure con cui di volta in volta gli è capitato di venire a contatto.

Sembra allora verosimile che l’aedo, come in quel proemio della versione ‘classica’ della saga di Gilgamesh in cui si dice che l’eroe del Vicino Oriente

andò alla ricerca dei paesi più lontani

e in ogni cosa raggiunse la completa saggezza9,

abbia voluto esprimere sulla soglia del suo poema qualcosa di essenziale in merito all’antico eroe itacese, e cioè, oltre alla sua esperienza di ramingo, l’attitudine della sua mente a modificarsi (a voltarsi incessantemente in altra direzione) in relazione agli eventi10.

Ma che cosa intende annunciare il proemio o, più precisamente, quale prospettiva temporale vuole definiré?

Di per sé il proemio parrebbe strano per la nostra Odissea. Copre solo un terzo dell’opera (V-XII) e dà un rilievo eccessivo a un singolo episodio, quello relativo all’uccisione delle vacche del Sole. E inoltre, con l’eccezione dei Feaci, le peripezie portano Odisseo non tanto fra città abitate quanto lontano dal consorzio umano.

D’altra parte l’episodio di Trinachia, insieme con la successiva tempesta che elimina gli ultimi compagni superstiti (cfr. XII 413-19), rappresenta l’ultima tappa delle peregrinazioni di Odisseo prima dell’approdo in quell’isola di Calipso dove appunto troviamo l’eroe, che vi ha trascorso un settennato senza storia, all’inizio del poema (vv. 13 ss.). La funzione di I 5-9 parrebbe allora quella di situare nel tempo l’incipit del racconto, collocandolo alla fine delle peregrinazioni di Odisseo.

Insomma, qualcosa come «Raccontami, O Musa, di quell’uomo a partire da quando aveva perso tutti compagni…». Da questo punto di vista la risposta all’ ἁμόθεν («da un punto qualsiasi») del v. 10, con cui l’aedo chiede alla Musa di cominciare il suo racconto da un certo momento all’interno del continuum narrativo offerto dalle vicende tradizionali di Odisseo e di altri eroi del ritorno da Ilio, è già stato implicitamente suggerito alla dea dallo stesso poeta nei versi precedenti, tanto che il narratore può dare avvio alla storia, al v. 11, con ἔνθα.

Piuttosto, bisogna riconoscere che dicendo πολλῶν δ’ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα il poeta occulta, come una sorpresa da riservare a momenti più favorevoli, le fantastiche peripezie del nostro eroe e ripete il linguaggio della tradizione depistando l’ruditorio, quasi stesse per riproporgli quelle che dovevano essere State più realistiche narrazioni delle peregrinazioni di Odisseo, destinate in parte ad essere recuperate nell’ambito dei falsi racconti (le cosiddette Trugreden o «bugie cretesi») che il protagonista improvvisa nella seconda parte del poema.

«Vide moite città degli uomini» è infatti solo la comune, generale esperienza di chi solca il mare per ragioni commerciali o in cerca di onore intrattenendo relazioni con altre genti, come mostra IX 126 ss., dove i Ciclopi sono caratterizzati per via negativa come figure che «non hanno fra loro calafati capad di fabbricare navi dai solidi ponti che percorrano ogni rotta arrivando alle città dei mortali (ἄστε’ ἐπ’ ανθρώπων ἱκνευμεναι)»11.

Non guarda certo al passato, invece, il nostro πολύτροπον, che non è epiteto tradizionale di Odisseo e che é posto in enfasi ritmico-sintattica grazie all’iperbato per cui la giuntura ἄνδρα… πολύτροπον si protende a cavallo della pausa segnata dalla cesura mediana del verso.

La πολυτροπίη dell’eroe dell’Odissea non é una caratteristica permanente della sua personalità né tanto meno della saga che lo aveva immortalato come astuto guerriero e come consigliere di principi a Troia, ma il punto d’arrivo di una serie di esperienze maturate a partire «da quando distrusse la rocca sacra di Troia» (v. 2).

La cosa é tanto più significativa se consideriamo che gli epiteti relativi all’intelligenza, astuzia, accortezza di Odisseo (πολύμητις, πολύϕρων, πολυμήχανος, ποικιλομήτης)12 restano congelati in sequenze formulari logorate dall’uso e rievocano l’Odisseo iliadico o comunque tradizionale, il guerriero che ha conquistato Troia con lo stratagemma del Cavallo di legno e che pertanto potrà dire di se stesso, tanto più dopo aver ascoltato il canto celebrativo di Demodoco (IX 19 s.):

εἴμ’ ᾽Oδυσεὺς Λαερτιάδης, ὃς πᾶσι δόλοισιν

ἀνθρώποισι μέλω

Sono Odisseo figlio di Laerte, chiaro nella mente degli uomini per ogni sorta di astuzie.

Questi epiteti rimandano a una copia di risorse intellettuali e pratiche e in tal modo identificano un’attitudine comportamentale che ha si al proprio interno il dono della duttilità e della mobilitá ma si esprime pur sempre entro le frontiere sancite al personaggio da una somma di condizionamenti oggettivi: figlio di Laerte e padre di Telemaco, guerriero conquistatore di Troia, sovrano di un’isola in pace e condottiero di un equipaggio di dodici navi alla volta di Troia. Ancora ben lontano dall’Odisseo/Nessuno che affronta un gigante monocolo, dall’amico di maghe e di ninfe, dal solitario che ha perduto per via tutti i compagni, dall’interlocutore dei defunti nell’Ade.

2. Il riconoscimento di Circe

Ma come si articola nel poema il nesso fra le peregrinazioni di Odisseo e quella versatilità intellettuale della sua mente che viene espressa dall’epiteto πολύτροπος?

Proviamo a ripercorrere rapidamente i modi del comportamento dell’eroe lungo le stazioni toccate a partire dalla partenza da Troia fino al momento in cui πολύτροπος ricompare per la seconda e ultima volta.

I Ciconi (IX 39-61). Partito da Troia, Odisseo incendia la città dei Ciconi e la saccheggia. Poi incita i compagni a fuggire, ma questi non gli ubbidiscono. Il contrattacco dei Ciconi porta alla perdita di sei compagni per ogni nave. E’ un caso di razzia frequente anche al tempo della colonizzazione e si svolge in uno scenario realistico (in Tracia, presso il fiume Ebro, oggi Maritza)13. La battaglia è descritta con materiale e moduli tipici dell’Iliade e Odisseo si comporta come un vero guerriero iliadico pur se dimostra scarsa autorità sui suoi uomini.

I Lotofagi (IX 82-104) sono invece già rimossi da una geografía definita (sappiamo solo che Odisseo vi arriva dopo «nove giorni»). Odisseo manda tre uomini a informarsi che tipo di gente viva sulla terra dove sono approdati. Gli abitanti danno loro del loto da mangiare invitandoli a restare e a «scordare il ritorno» (νόστου λαθέσθαι 97 e νόστοιο λάθηται 102). Allora Odisseo ordina di salire in fretta sulle navi. L’offerta di loto sembra una manifestazione di buone maniere ospitali e Odisseo, dopo 1’infortunio presso i Ciconi, è sollecito a un contatto formalmente ineccepibile, come mostra la presenza di un araldo all’interno della delegazione incaricata della missione esplorativa. Inoltre egli sembra aver migliorato la sua presa sui compagni, che questa volta gli obbediscono abbastanza prontamente. Qui la sua adattabilità alla situazione si affaccia per la prima volta, ma solo in chiave negativa: è l’immediato rifiuto di quella seduzione dell’oblio di cui il ‘loto’ appare portatore.

Polifemo (IX 105-564). Messo piede in un ambiente pre-culturale con l’eccitazione di un colonizzatore, Odisseo con i compagni dapprima caccia (vv. 154 ss.) in un isolotto antistante l’isola dei Ciclopi, poi, il giorno seguente, va, ma con la sua sola ciurma, in esplorazione, dunque – in contrasto con quanto fatto presso i Lotofagi – partecipa personalmente al tentativo di presa di contatto con gli stranieri.

L’isoletta – come ha scritto G.A. Privitera14 – «rivela le capacità deduttive di Odisseo, che la decifra come un archivio di sapere e scopre in essa una catena di indizi sui vicini Ciclopi», in particolare che essi non praticano né caccia né pastorizia né agricoltura e non costruiscono navi (IX 120 ss.)•

Inoltre Odisseo porta un grande otre colmo di vino rosso e un cesto pieno di cibi: «congetturὸ (όΐσατο) subito il mio cuore altero che avremmo trovato un uomo vestito di poderoso vigore, selvaggio, ignaro di giustizia e di leggi» (vv. 213-15).

Odisseo e i suoi entrano nell’antro e qui, con rovesciamento rispetto a quanto verificatosi presso Ciconi e Lotofagi, sono i compagni a esortare Odisseo alla ritirata. Ma egli rifiuta – «e sarebbe stato assai meglio» (ἦ τ’ ἂν πολύ κέρδιον ἦεν 22815) – «per vederlo di persona, se mi facesse doni ospitali (ξείνια)».

Dal Ciclope Odisseo cerca di ricevere onori e doni ospitali in nome della propria gloria di eroe iliadico e del proprio rango. Non sa ancora di essere posto a confronto, in un mondo ignaro del codice eroico, con un essere per il quale le azioni e i diritti degli eroi non hanno alcun valore. Le sue parole pateticamente orgogliose, inadeguate in modo grottesco alla situazione, sono vanificate dalla reazione di Polifemo, che ignora ciὸ che Odisseo gli ha detto della sua nobiltà, delle sue imprese e della sua fama. Di Troia e di Agamennone evidentemente non ha mai sentito parlare.

Nonostante il ricordato ‘presentimento’ dei vv. 213 ss., il nostro eroe non é stato molto pronto a ‘riconoscere’ il nóos di Polifemo, ma dopo la risposta del Ciclope cambia registro e si rivela «moho esperto» (v. 281). Mente dichiarando di esser giunto con una sola nave fracassatasi contro gli scogli.

A questo punto Polifemo fa a pezzi due compagni dell’eroe e subito sopravviene in Odisseo l’impulso a una risposta operativa – sguainare la spada da lungo la coscia secondo la prassi del guerriero –, ma lo trattiene «un altro impulso (ἕτερος… θυμός 302) perché riflette sulla presenza di un masso che ostruisce l’ingresso dell’antro. Di qui l’ideazione dello stratagemma del palo da conficcare nell’occhio di Polifemo in un momento in cui il masso d’ingresso sia già stato spostato dal gigante. L’impulso eroico ha bisogno di essere represso dalla coscienza dell’inadeguatezza pratica del comportamento guerresco tradizionale.

L’elaborazione di una nuova via di comportamento è marcata al v. 316 dal verbo βυσσοδομεύω, il cui significato «medito in segreto» deriva dalla combinazione del senso etimologico, «costruisco nel profondo», con l’idea di spazio mentale16 e che non compariva mai nell’Iliade ma che incontriamo ben sette volte, e per lo più in relazione a Odisseo, nell’Odissea (cfr. IV 676, VIII 273, IX 316, XVII 66, 465 e 491, XX 184)17.

D’altra parte le espressioni di scherno all’indirizzo del Ciclope verso la fine del canto ripropongono il modello delle ‘aristie’ dell’Iliade, nelle quali il vincitore rivolgeva parole di vanto all’avversario, ancora vivo o già morto. In tal modo, col rivelare la propria identità, Odisseo rende possibile la successiva maledizione (vv. 528-35): in questo non c’è nessuna arroganza (ὕβρις) né alcuna violazione di una norma ma certo vi è imprudente leggerezza. Qui Odisseo sacrifica la sua vittoria sul Ciclope, l’aristia della sua metis, alla passione eroica del suo thymós18.

Presso Eolo (X 1-75) tutto procede invece per il meglio, ma da ultimo riemergono il dato, già affacciatosi presso i Ciconi, della scarsa presa di Odisseo sui suoi uomini e la rivelazione, annunciata nel proemio, della loro stoltezza (cfr. X 27 αὐτῶν γὰρ ἀπολώμεθ’ ἀφραδίησιν con I 7 αὐτῶν γὰρ σϕετέρῃσιν ἀτασθαλίῃσιν ὄλοντο).

Così, dopo l’incauta liberazione dei venti, allorché si ridesta Odisseo é preso da un impulso suicida (X 50-54):

έγρόμενος κατὰ θυμὸν ἀμύμονα μερμήριξα,

ἠὲ πεσὼν ἐκ νηὸς άποφθίμην ἐνὶ πόντῳ,

ἦ ἀκέων τλαὶην καὶ ἔτι ζωοῖσι μετείην.

ἀλλ’ ἔτλην καὶ ἔμεινα, καλυψάμενος δ’ ἐνὶ νηΐ

κείμην·

… svegliatomi, nel mio nobile cuore esitai se gettandomi giù dalla nave dovessi uccidermi in mare, o soffrire in silenzio e restare ancora fra i vivi, ma giacevo avvolto nel mantello in fondo alla nave.

Il senso delle scene iliadiche di riflessione appare trasformato nel profondo: non si tratta piú di una scelta fra due linee d’azione, ma fra una soluzione autolesionistica e quella che Archiloco chiamerà τλημοσύνη (cfr. ἔτλην 53).

Presso i Lestrigoni (X 80-132) Odisseo perde tutte le navi tranne la propria e la relativa ciurma perché, come nel caso dei Lotofagi e diversamente che in quello dei Ciclopi, manda una missione esplorativa guidata da un araldo (X 100-102 = IX 88-90). Odisseo salva se stesso e la sua nave tagliando con la spada la gomena e facendo rotta verso il mare aperto. La decisione di fuggire è presa lucidamente, in una desolata accettazione dei dati oggettivi.

Eccoci infine all’episodio di Circe (X 153-574), la cui umanità è solo nella voce visto che ella è definita sistematicamente (4x) δεινὴ θεὸς αὐδήεσσα.

L’avventura inizia come nel paese dei Lestrigoni (cfr. X 97). Odisseo vuole raccogliere una prima informazione da un’alta vedetta e, come primo segno di insediamento umano (ἔργα… βροχῶν 147), scorge un filo di fumo levarsi nell’aria.

Ma qui, diversamente che nell’avventura presso i Lestrigoni, egli sottolinea una situazione senza via d’uscita in cui si è perduto completamente l’orientamento – non si sa più dov’è l’occidente e dov’è l’aurora –, e dunque confessa apertamente il proprio smarrimento (vv. 190-97). Eppure da questo smarrimento non consegue uno stato di frustrazione, bensì l’impulso a cercare una via di salvezza profittando del 1’unica informazione promettente: quel fumo che significa se non altro che l’isola è abitata. Ma poiché ai compagni, che comprendono le intenzioni del loro capo, il discorso suscita la memoria di altre infauste missioni, quelle presso i Ciclopi e i Lestrigoni (vv. 198-201), nuova è la strategia che Odisseo mette in atto (vv. 203-9): divide i compagni in due gruppi di 22 membri ciascuno con a capo rispettivamente se stesso ed Euriloco e tira a sorte per decidere quale gruppo dovrà andare in missione esplorativa. E’ una promozione inedita dei compagni (e specialmente di Euriloco) a pares, un modo nuovo di rapportarsi ad essi.

D’altra parte nei confronti di Circe il comportamento eroico non risulta vano, a differenza che nell’incontro col Ciclope: Odisseo muove con la spada all’attacco della maga (vv. 321 s.):

ὣϛ ϕάτ’, ἐγώ δ’ ἄορ ὀξὺ ἐρυσσάμενος παρὰ μηροῦ

Κίρκῃ ἐπήϊξα ὥς τε κτάμεναι μενεαίνων.

Diceva così, ma io, tratta la spada affilata da lungo la coscia, mi avventai su Circe con impulso assassino.

E tuttavia si tratta di un attacco marziale assolutamente atipico, diretto contro una donna che non è certo un’Amazzone e, soprattutto, di un’aggressione física del tutto subalterna rispetto al vero strumento con cui l’eroe rintuzza gli incantesimi della maga.

Se infatti dal punto di vista dell’azione presupposta dal racconto dobbiamo immaginare che Odisseo tenga in mano o, piuttosto, ingerisca quell’antidoto che Hermes gli ha appena offerto (vv. 302-06) e che entri nella casa di Circe – come dirà Ovidio (Met. XIV 293) – «rassicurato dall’erba e dai consigli divini» (tutus eo monitisque simul caelestibus), il poeta articola l’episodio in modo che ciò che turba e soggioga la maga al momento del loro contatto non sia né la minaccia della spada né il possesso dell’erba moly (di cui neppure più si parla in questo contesto) quanto piuttosto la constatazione della peculiare attitudine della mente di Odisseo: un nóos che, unico al mondo, sa dimostrarsi refrattario agli incantesimi.

Ed ecco appunto in questo ambito (X 327-32) il ritorno di πολύτροπος nella stessa collocazione metrica che in I 1:

οὐδὲ γὰρ οὐδέ τις ἄλλος ἀνὴρ τάδε ϕάρμακ’ ἀνέτλη,

ὅς κε πίῃ και πρῶτον ἀμείψεται ἕρκος ὀδόντων·

σοὶ δέ τις ἐν στήθεσσιν ἀκήλητος νόος ἐστίν.

ἦ σύ γ’ ᾿Oδυσσεύς ἐσσι πολύτροπος, ὅν τέ μοι αἰεὶ

ϕάσκεν ἐλεύσεσθαι χρυσόρραπις ᾿Aργεϊφόντης,

ἐκ Τροίης ἀνιόντα θοῇ σὺν νηῢ μελαίνη.

Nessuno, nessun altro resistette a questo farmaco, chiunque lo bevve, una volta che gli varcò la chiostra dei denti. A te sta in petto una mente refrattaria agli incanti. Certo tu sei Odisseo dai molti percorsi di cui sempre l’Argifonte dalla verga d’oro mi diceva che saresti venuto salpando da Troia con la scura nave veloce.

Rintracciamo agevolmente il modello del v. 329

σοὶ δέ τις ἐν στήθεσσιν ἀκήλητος νόος έστίν

nell’elogio che Paride rivolgeva a Ettore in Il. III 63:

ὣς σοὶ ἐνὶ στήθεσσιν ἀτάρβητος νόος έστί.

Senonché, sostituendo un hapax con un altro (ἀτάρβητος con ἀκήλητος), il poeta applica al mondo della magia e degli incantamenti e non più della guerra la resistenza di cui il nóos di un eroe deve dar prova.

D’altra parte anche dei compagni di Odisseo si diceva che, nonostante la trasformazione in porci, il loro nóos restava ἔμπεδος (X 240): un parallelismo fra i due passi che disturbava Aristarco di Samotracia al punto da indurlo a sospettare il v. 329. E si tenga conto che in X 493-95 Circe dice di Tiresia che, a differenza degli altri morti ridotti a «ombre», «le sue phrénes sono salde (ἔμπεδοι): a lui soltanto Persefone concesse di avere anche da morto mente sagace»19.

Qual è allora la differenza fra il νόος di Odisseo e quello dei suoi compagni? Questa differenza si coglie solo se si riconosce che Circe è una maga radicalmente reinterpretata da Omero: una artefice di illusioni che usa una tecnica capace di interferire su voce, capelli e figura solo a patto che il nóos della vittima designata si mostri suggestionabile dai suoi filtri. I compagni di Odisseo restano lucidamente coscienti del proprio stato, tanto che piangono (X 241 κλαίοντες) mentre vengono chiusi nel porcile, e tuttavia, a differenza del loro capo, sono stati soggiogati dalla pozione magica e privad della loro volontà.

Realizzando una sorta di dissolvenza per cui il potere di produrre effetti illusionistici trapassa in stregoneria, e la suggestione in realtà tangibile, Omero antepone nel suo racconto l’apparenza alla realtá (la dóxa alla alétheia), l’eclissi della memoria (vv. 235 s.: «intrideva il cibo di filtri funesti perché si scordassero completamente della patria») ai procedimenti della metamorfosi.

Quanto alla profezia che Circe si ricorda di aver udito un tempo da Hermes, si tratta di un motivo che era già stato toccato in relazione al Ciclope (IX 507 ss.), ma in quel caso Polifemo aveva riconosciuto nel nemico solo «un mingherlino, un essere insignificante e debole» (IX 515) in contrasto con l’eroe grande e bello che si sarebbe aspettato di incontrare (IX 513).

Il nesso fra il ritorno dell’epiteto πολύτροπος e il νόος di Odisseo come capace di tener testa alle insidie di Circe ha invece il sapore di un riconoscimento. Non a caso i primi due cola metrici del verso che esprime questa agnizione (X 330)

ἦ σύ γ’ ’Oδυσσεύς ἐσσι πολύτροπος

ci appaiono sintatticamente e fonicamente simili a quelli del verso che marca il riconoscimento da parte di Euriclea (XIX 474)

ἦ μάλ’ ’Oδυσσεύς ἐσσι, ϕίλον τέκος

e anche a quelli del verso in cui Telemaco dichiara (un’agnizione mancata) che il mendico improvvisamente reso bello da Atena non può essere suo padre (XVI 194)

ού σύ γ’ ’Oδυσσεύς ἐσσι πατὴρ ἐμός.

Ecco allora che la dea cancella immediatamente la propria ostilità, propone all’eroe un incontro d’amore e si trasforma da antagonista in adiuvante.

Sventando l’effetto dei filtri di Circe Odisseo si è reso degno di condividere una nuova dimensione: d’ora in poi tutto ciò che farà sulla via del ritorno sarà la puntuale messa in atto delle istruzioni meticolosamente fomitegli dalla maga. Dopo un anno di immersione nelle dolcezze dei piaceri l’itacese potrà recarsi all’Ade a interrogare Tiresia, ascoltare il canto insidioso delle Sirene, schivare gli attacchi di Scilla e Cariddi, assistere alla rovina di tutti i compagni, applicando con scrupolosa solerzia le indicazioni di Circe, autentica sceneggiatrice della seconda parte degli Apologhi.

Certo, il successo non è sempre immediatamente assicurato, come quando i compagni vogliono sbarcare a tutti i costi in Trinachia e l’eroe é costretto a cedere (XII 297 λανθανόμην). Né manca qualche aggiunta personale al ‘programma’ elaborato dalla maga, come quando, in attesa di Scilla, Odisseo dimentica (XII 227) il divieto di vestire le armi e, in un riemergere impulsivo delle sue attitudini di guerriero, afferra due aste che per altro a nulla gli servono (XII 228 ss.). E tuttavia – a parte umanissimi scoramenti, ansie, sussulti d’orgoglio – Odisseo ha imparato, dalla lezione dei fatti e dalla lezione della maga, ad adattarsi alle situazioni di un mondo popolato da mostri, incantatrici, spiriti defunti.

Segno eminente della nuova ‘politropia’ del protagonista dell’Odissea rispetto al suo stesso passato eroico è il modo come il poeta ha tematizzato l’incontro con le Sirene, che vorrebbero instaurare un contatto con l’eroe sfruttando il suo profilo di guerriero troiano.

L’apostrofe πολύαιν’ ’δυσεῦ μέγα κῦδος ’Aχαιῶν (XII 184) con cui esse gli si rivolgono ricorre solo qui nell’Odissea, ma era riferita due volte a Odisseo nell’Iliade (da Agamennone in IX 673 e da Nestore in X 544), e l’epiteto polyainos («dai molti ainoi», e cioé «celebrato» o «narratore di molte storie»)20 compare altrove un’altra sola volta, e di nuovo per Odisseo, nell’apostrofe di Soco in Il. XI 430.

La scelta da parte delle Sirene di questo tipo di allocuzione ci assicura che esse identificano Odisseo con il guerriero troiano piuttosto che con l’eroe dell’Odissea: esse gli pongono davanti uno specchio che riflette il suo passato eroico ma da cui Odisseo non si lascia irretire non solo perché si è fatto legare all’albero della sua nave ma perché ha maturato nel proprio nóos la percezione della differenza fra ciò che è nel presente e ciò che era stato a Troia.

3. Oltre il ritorno

Ma diventare polytropos, attraversare l’irreale vincendo l’orrore della morte dei compagni, la solitudine, l’ira degli dei, il confronto con i defunti ha il suo problematico rovescio. Per Odisseo significa non solo separare se stesso dal proprio passato familiare e sociale ma annegare la propria fisionomia intellettuale nella cangiante varietà dell’esperienza, sfruttando come una risorsa per sopravvivere il dato, di per sé sconfortante, per cui tutti gli uomini sono ‘effimeri’, esseri che mutano ogni giorno atteggiamento e pensiero dato che, come dice Odisseo stesso ad Anfinomo in XVIII 136 s.,

τοῖος γὰρ νόος ἐστιν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,

οἷον ἐπ᾿ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε.

la mente dei mortali sopra la terra si uniforma al giorno che ad essi manda il padre degli uomini e degli dei21.

La ‘politropia’ rischia insomma di rappresentare la negazione delle radici biografiche di Odisseo come guerriero, cioè della sua formazione come Odysseus in quanto Uomo dell’odio, ñipóte di quell’Autolico («Vero Lupo») padre di Anticlea che «eccelleva fra gli uomini nel furto e nello spergiuro» (XIX 395 s.)22 e che un tempo, dopo essere giunto alle pendici del Parnaso «covando odio per molti, uomini e donne» (XIX 407 s.), appunto in memoria della sua vicenda di transfuga iroso (ὀδυσσάμενος) aveva voluto assegnare al neonato il nome di ᾿Oδυσ(σ)εύς23.

Lì, nel nuovo insediamento di Autolico, Odisseo adolescente aveva superato la sua prova di iniziazione cacciando con gli zii materni un grande cinghiale che egli stesso aveva abbattuto con l’asta (XIX 448), ma non senza che l’animale gli lasciasse, strappando con una zanna un lembo di carne, quella cicatrice che sia per Euriclea che per Laerte funzionerà da segno certo di identità.

In effetti Odisseo ha ricevuto la prima educazione alla caccia, e dunque alle opere della guerra, dal nonno materno, mentre dal padre Laerte, che pure già ragazzo imbracciava lo scudo (XXII 185), ha appreso – come si ricorderà in XXIV 336-44 – le opere della pace e dell’agricoltura; anzi, era stato lo stesso Laerte a spedirlo presso Autolico (XXIV 333 ss.), e dunque aveva inteso delegare al suocero la trasmissione dei valori competitivi già compendiati nel nome’ Οδυσ(σ)εύς.

Sperduto per sette anni, dopo le peregrinazioni narrate negli Apologhi, in un’isola al centro dell’Oceano, segregato dal commercio con gli uomini per volere di una ninfa che vorrebbe farlo immortale, l’Odisseo reduce dalle sue esperienze di polytropos si è da ultimo trasformato in un querulo fantasma affondato in uno stato di inerzia da cui può trarlo solo un intervento esterno (divino) – la sollecitudine di Atena e la missione di Hermes presso Calipso –, risospingendolo al ‘ricordo’ operativo della patria. Eppure, nonostante la recuperata destrezza artigianale che gli consente di costruire una zattera capace di traversare immense distese marine, l’uomo che approda a Scheria è un derelitto che, trovato riparo vicino alla costa, non appena si desta all’udire un grido di fanciulle apre il suo perplesso monologo («Di che uomini arrivo alla terra? Forse selvaggi, senza giustizia…?») con un desolato «ahimé» (VI 119)24.

Abbrutito dalla salsedine, soffre uno stato di degrado ferino che lo fa assimilare a un leone sospinto dallo stimolo della fame (VI 130-34):

βῆ δ’ ἴμεν ὥς τε λέων ὀρεσίτροϕος, ἀλκὶ πεποιθώς,

ὅς τ’ εἶσ’ ὑόμενος καὶ ἀήμενος, ἐν δέ οἱ ὄσσε

δαίεταν· αὐτὰρ ὁ βουσὶ μετέρχεταν ἢ ὀΐεσσνν

ἡὲ μετ’ ἀγροτέρας ἐλάϕους· κέλεταν δέ έ γαστήρ

μήλων πενρήσοντα καὶ ἐς πυκννòν δόμον ἐλθεῖν.

Si mosse come un leone cresciuto sui monti, fiero della sua forza, che avanza battuto dalla pioggia e dal vento, con gli occhi che ardono, e assale buoi o pecore o cervi selvatici, e il ventre lo incita a penetrare anche in solido stazzo a caccia di greggi.

Un dato, quello del cibo reclamato dal ventre, che non compare in nessuna delle altre similitudini ‘leonine’ dell’Odissea (IV 335-40 = XVII 126-31, IV 791-94, XXII 402-06) e che, fra le numerose similitudini analoghe che troviamo nell’Iliade25, ne rinnova una, quella riferita a Sarpedone in XII 299 ss., di cui ripete alla lettera alcune tessere testuali (Il. XII 299a = Od. VI 130a, Il. XII 301 = Od. VI 134), ma con la significativa sostituzione, al v. 133, del più nobile κέλεταν δέ ἑ θυμὸς ἀγήνωρ con un più realistico (e unico nei poemi) κέλεταν δέ έ γαστήρ.

La macchia sulla riva di Scheria in cui si è nascosto è gemella della macchia sul Parnaso in cui un giorno cacciò il cinghiale insieme con i figli di Autolico, tanto che i vv. 440-42 del canto XIX sono pressoché uguali ai vv. 478-80 del canto V26:

V 478-480

τοὺς μὲν ἄρ’ οὔτ’ ἀνέμων διάη μένòς ὑγρὸν ἀέντων,

οὔτε ποτ’ ἠέλνος ϕκέθων ἀκτῖσιν ἔβαλλεν,

οὔτ’ ὄμβρος πεοάκσκε διαμπεοές· ὣς ἄρα πυκνοὶ

ἀλλήλοισιν ἔϕυν ἐπαμοιβαδίς·

(I due cespugli cresciuti insieme da un ceppo di oleastro e da uno di olivo) Non li attraversava la furia dei venti che spirano umidi, mai li feriva con i suoi raggi il fulgore del sole né vi penetrava la pioggia, tanto intrecciati l’uno all’altro erano cresciuti.

XIX 440-442

τὴν μὲν ἂρ’ οὔτ’ ἀνέιχων διάη μένος ύγρὸν ἀέντων.

οὔτε μιν ἠέλιος ϕαέθων ἀκτῖσιν ἔβαλλεν,

οὔτ’ ὄμβρος πεοάασκε διαιπερές ὣς ἄοα πυκνοὶ

ἦεν…

(La macchia in cui si era acquattato il cinghiale) Non la attraversava la furia dei venti che spirano umidi, mai la feriva con i suoi raggi il fulgore del sole né vi penetrava la pioggia, tanto era folta…

Per intraprendere la via della reintegrazione fra gli uomini Odisseo deve immergersi in un analogo anfratto al riparo dai venti, dal sole, dalla pioggia. Alla prova di iniziazione sul Parnaso, che gli aveva procurato i doni del nonno e il ritorno a Itaca quale potenziale successore di Laerte, corrisponde l’ingresso in una città di navigatori che di li a poco gli garantiranno il ritorno alla sua casa e al suo ruolo di sovrano, padre, marito.

Questo ritorno egli potrà realizzare solo ridiventando ciò che giá era stato, l’uomo dell’odio e della cicatrice, il guerriero «distruttore di città» che un giorno era entrato in Troia e che ora, rimesso piede nel palazzo avito, saprà sterminare con l’aiuto di una sparuta accolta di seguaci un folto stuolo di giovani principi di Itaca e delle isole vicine.

La duttilità del polpo deve rientrare negli argini al cui interno è uno stmmento operativo, la destrezza dell’arciere che coglie il bersaglio e che, al momento opportuno, conosce la dura impassibilità di chi persegue il suo fine senza smarrirsi di fronte ai moti dell’animo altrui.

Così, se per due volte Odisseo aveva ceduto al pianto ascoltando il racconto di Demodoco e se, prima di entrare nella sua casa, ha bisogno di detergersi una lacrima per sfuggire allo sguardo di Eumeo notando lo scodinzolio del cane Argo (XVII 304), al contatto con la prorompente commozione che il proprio falso racconto suscita in Penelope prova sì profonda pietà, ma i suoi occhi restano tranquilli dietro le palpebre immobili, «quasi fossero como o ferro» (XIX 211 s.)27.

Simulatore a oltranza, perfino di fronte al padre Laerte, che per l’assenza del figlio si è ridotto a un pezzente consunto dalla vecchiaia, Odisseo riesce a occultare la sua pena fermandosi a piangere, per non essere visto, sotto un altissimo pero e, piuttosto che gettargli le braccia al collo, preferisce «metterlo alla prova con parole provocatrici (κερτομίοισ’ ἔπεσιν)» (XXIV 240).

Una drastica, forse troppo drastica terapia per debellare l’apatia del vecchio, un modo – si è detto28 – per destare gradualmente l’attenzione e la curiosità dell’interlocutore, ma altresì il pieno recupero di meccanismi di autocontrollo che, proprio perché esercitati così inflessibilmente di fronte agli stessi phíloi, si dimostrano retaggio di lunga data, inclinazione radicatasi fin dagli albori della maturità.

Rientrato nello spazio della sua casa, ritornato fin dall’approdo a Scheria ad essere il protetto di Atena piuttosto che di Circe (le istruzioni di Atena nel canto XIII sono il pendant di quelle di Circe in XII 37 ss.), il πολύτροπος dei Canti del Ritorno si trasforma in un unidirezionale ὑπότροπος, che é l’unico composto in -τροπος che ricorra nel poema a partire dal momento in cui Odisseo si è reintrodotto nel suo palazzo29.

In XX 332 Taggettivo viene usato da uno dei pretendenti (Agelao Damastoride) all’interno di un contesto negativo che vorrebbe smentire la possibilità del ritorno dell’eroe (Agelao ricorda a Telemaco che ormai è passato il tempo in cui lui e sua madre potevano aspettarsi che Odisseo «giungesse reduce a casa»); in XXI 211 è impiegato dallo stesso Odisseo, nel momento in cui si fa riconoscere da Eumeo e da Filezio, per dichiarare che nessun altro dei servi al di fuori di loro ha pregato che egli tomasse a casa (ὑπότροπον… ἱκέσθαι); infine, in XXII 35, l’apostrofe di Odisseo ai pretendenti

ὦ κύνες, οὔ μ’ ἔτ’ ἐϕάσκεθ’ ὑπότροπον οἴκαδε νεῖσθαι

Ah cani, non pensavate che reduce a casa tornassi

introduce l’autorivelazione quando Antinoo è già stato colpito mortalmente alla gola.

Un paradosso fondamentale del poema, che nella sua ultima parte fa coincidere la figura del reduce con la recuperata figura del guerriero e pertanto si salda – ma sostituendo la guerra troiana con la stasis itacese – all’antefatto rappresentato dall’intera spedizione a Ilio.

E tuttavia, quasi a marcare la resistenza della storia a una chiusa serenamente pacificata, la ‘politropia’ accenna la propria rivincita in una prospettiva che va al di là dei limiti formali del testo, ma che lo stesso eroe pone in luce allorché avverte Penelope (XXIII 248-53) di non essere ancora giunto alla fine di tutte le sue prove perché, secondo quanto gli ha predetto Tiresia (cfr. XI 118-37), ancora lo attende «smisurata fatica». Il nóstos sospirato da Odisseo rappresenta un approdo precario, destinato a essere ben presto superato da una nuova partenza e da nuove peripezie.

Anche la morte di Odisseo avrà a che fare col suo passato di πολύτροπος e con la stessa Circe.

In XI 134-36, all’interno della profezia di Tiresia, il vago ἐξ ἁλός in

θάνατος δέ τον ἐξ ἁλòς αὑτῷ

ἀβληχρòς μάλα τοῖος ἐλεύσεται, ὅς κέ σε πέϕνη

γήρᾳ ὕπο λιπαρῷ ἁρημένον…

Per te la morte verra dal mare così mite da ucciderti ormai sfinito da luminosa vecchiaia, e intorno a te sarà gente beata…

è stato talora inteso come «lontano dal mare»30 dato che una morte proveniente dal mare parrebbe in contrasto con l’avvenuta riconciliazione fra Odisseo e Posidone, ma questa esegesi sembra esclusa dal nesso col verbo di moto ἐλεύσεται31 e il testo diventa interpretabile in modo piano se ammettiamo che esso alluda alla versione secondo cui, come poi nella Telegonia attribuita a Eugammone di Cirene – fiorito secondo Eusebio intomo al 565 a. C. –, nell’ ᾿Oδυσσεὺς ἀκανθοπλήξ di Sofocle (fr. 453-461 R.) e nei Niptra di Pacuvio, Odisseo moriva ferito dal pungiglione di una razza usato come punta della lancia da Telegono, «nato lontano», figlio suo e di Circe, sbarcato a Itaca in cerca del padre ma da questi aggredito perché scambiato per un ladro di greggi32.

Muovendo da questa traccia lo stesso Eugammone se non già qualcuno prima di lui deciderà, riutilizzando l’Odissea come opera aperta, di chiuderne la trama con Telegono e Telemaco che, riconosciutisi fratelli, per ordine di Atena trasferiscono presso Circe nell’isola Eea sia Penelope che la salma del padre: dunque facendo da ultimo del nostro eroe un paradossale ὑπότροπος a rovescio che, invertito il senso dell’antica rotta, tonra, per trovarvi sepoltura, nell’isola della dea che un giorno lo aveva consacrato πολύτροπος.

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1 L. Radermacher, Die Erzählungen der Odyssee, SB Wien 1, 1915, pp. 4-9; G. Germain, Genèse de l’Odyssée, Paris 1954, pp. 130-50 e 153-91; D.L. Page, Folktales in Homer’s Odyssey, Cambridge, Mass. 1972, pp. 49-69.

2 Omero. Odissea, vol. III (libri IX-XII). Intr., testo e commento a cura di A. Heubeck, tr. di G.A. Privitera, Milano 1983, pp. 229 s.

3 Tr. it., Napoli 1973, p. 44.

4 Lo stesso Pfeiffer ricordava anche III 382 s.; altri esempi omerici sono II 65 s., XIII 260 s., XVIII 1 s. e XX 56 s., Il. II 212 s., V 63, VIII 527 s. e IX 123 s.

5 Vedi S. West, Omero. Odissea, vol. I (libri I-IV). Intr. di A. Heubeck e S. West, testo e commento a cura di S. West, tr. di G.A. Privitera, Milano 1981, pp. 181 s.

6 Vedi la mia nota in Teognide, Elegie, Milano 1989, pp. 108 s. e B. Marzullo, «MCr» 29 (1994), pp. 27-36 (28 n. 2).

7 Cfr. anche Anacr., fr. 427, 2 PMG τῇ πολυκροτῃ | σὺν Γαστροδώρῳ e Call., fr. 67, 3 Pf. οὐ… ἔσκε πολύκροτος e vedi A. Rengakos, Der Homertext und die hellenistischen Dichter, Stuttgart 1993, p. 148.

8 Su πολύπλαγκτος cfr. XVII 425 e 511 e XX 195.

9 Cito dalla versione di G. Pettinato, La saga di Gilgamesh, Milano 1992. Sul parallelismo con l’incipit dell’Odissea vedi M. Vetta, «Quad. Urb.» n.s. 47,2, (1994), pp. 7-20 (7).

10 Come sostantivo su base τροπ- Omero conosce τροπή «punto di svolta» (del sole: Od. XV 404), non τρόπος. Ma per l’uso di τρέπομαι in relazione a un volgersi della mente (o del volgere la mente di un altro) indietro (o via da qualcosa) cfr. IV 260 κραδίη τέτραπτο νέεσθαι, III 147 θεῶν τρέπεται νόος, VII 263 νόος έτράπετ’ αὐτῆς, IX 12 s. θυμὸς ἐπετράπετο… εἴρεσθ’, XIX 479 τῇ… νόον ἔτραπεν e II. X 45 Διὸς ἐτράπεχο ϕρήν e XVII 546 νόος ἐτράπετ’ αὐτοῦ. Analogamente, τρωπάω indica la modulazione dei gorgheggi dell’usignolo in XIX 521.

11 Cfr. anche XV 492, XVI 63 e XIX 170.

12 Πολύμητις è frequentissimo, ma solo (ben 63 casi su 66 complessivi) nella sequenza formulare, già ricorrente nell’Iliade, προσέϕη (μετέϕη) πολύμητις ᾽Oδυσσεύς.

Πολύφρων compare in riferimento a Odisseo esclusivamente nel verso formulare (5x) νοστῆσαι ᾽Oδυσῆα πολύφρονα ὅνδε δόμονδε (I 83 = XIV 424, XX 239 e 329, XXI 204);

Πολυμήχανος è frequente già nell’Iliade (7x) nel verso formulare διογενὲς Λαερτιάδη πολυμήχαν’ ᾽Oδυσσεῦ, che nell’Odissea ricorre 12x. L’unica volta in cui l’epiteto è usato al di fuori di questo verso è I 205 (Atena a Telemaco) ϕράσσεται ὥς κε νέηται, ἐπεὶ πολυμήχανός έστιν.

Ποικιλομήτης ricorre esclusivamente, a parte ΧIIΙ 293 σχέτλιε, ποικιλομῆτα, δόλων ἆτ’, nella sequenza (già presente in Il. XI 482) ᾽Oδυσῆα δαΐϕρονα ποικιλομήτην (4x) o (III163) ᾽Oδυσῆα ἄνακτα δαΐφρονα ποικιλομήτην. Un’attenta analisi degli epiteti di Odisseo ha offerto N. Austin, Archery at the Dark of the Moon. Poetic Problems in Homer’s Odyssey, Berkeley-Los Angeles-London 1975, pp. 26-53.

13 Cfr. Hdt. VII 110. In Il. II 846 e XVII 73 i Ciconi sono ricordati come alleati dei Troiani.

14 «L’aristia di Odisseo nella terra dei Ciclopi», in AA. VV., Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di B. Gentili, Roma 1993, I, pp. 19-43 (25).

15 Si tratta di un tipo di prolessi che non compare altrove nel poema, ma cfr. Il. III 41, V 201 e XXII 103.

16 Cfr. J. Russo, Omero. Odissea, vol. V (libri XVII-XX). Intr., testo e commento a cura di J. Russo, tr. di G.A. Privitera, Milano 1985, p. 164 e R.B. Rutherford, Homer. Odyssey: Books XIX and XX, Cambridge 1992, p. 219.

17 E cfr. anche ‘Esiodo’, Scudo 30 δόλον φρεσὶ βυσσοδομεύων.

18 Vedi R. Friedrich in «JHS» 111 (1991), pp. 16-28 (23).

19 E cfr. anche XVIII 215 (parla Penelope) Τηλέμαχ’, οὐκέτι τοι φρένες ἔμπεδοι ούδέ νόημα.

20 Ma il tono encomiastico usato dalle Sirene fa propendere qui per la valenza ‘passiva’ di «celebrato», «illustre» (vedi M. Curti, Omero, Odissea. Libro XII, Bologna 1999, p. 82).

21 Cfr. anche XXI 85 ἐφημέρια ϕρονέοντες, Archil., fr. 131 + 132 W., Stes., fr. 222 (b), 207 s. Davies, Parm. B 16 D.-K. e vedi il classico studio di H. Fränkel, Wege und Formen des frühgriechischen Denkens, München 19602, pp. 23-39.

22 Cfr. Il. X 266 s. ed Hes., fr. 67 M.-W., e vedi Russo, Omero. Odissea, vol. V, cit., pp. 247 s.

23 Se nell’immediato contesto il valore di ᾿Oδυσ(σ)εύς rimanda a una forma attiva di odio (Odisseo come ὀδυσσάμενος al pari di Autolico), l’eroe in quattro passi del poema è presentato esplicitamente, col ricorso al verbo όδύσσομαι, come oggetto di odio (cfr. 162 ὠδύσαο, V 340 ὠδύσατ(ο) e 423 ὀδώδυσται, XIX 275 όδΰσαντο), e anche in Sofocle si afferma questa prospettiva (fr. 965 R. όρθώς δ’ ’Oδυσσεύς εἰμ’ ἐπώνυμος κακῶν | πολλοὶ γὰρ ώδύσαντο δυσμενεῖς ἐμοί).

24 Lo stesso sgomento proverà all’ arrivo a Itaca, non riconosciuta per la nebbia versatagli da Atena (VI 119-21 = XIII 200-02).

25 Su di esse vedi V. Di Benedetto, Nel laboratorio di Omero (1994), Torino 19982, pp. 151-55.

26 Vedi in proposito J. Russo, «The Boar in the Bush: Formulaic Repetition and Narrative Innovation», in Scritti in onore di B. Gentili, cit., I, pp. 51-9.

27 In termini molto simili Euriclea assicura a Odisseo che resisterà «come dura roccia o ferro» (XIX 494).

28 Heubeck in Omero. Odissea, vol. VI (libri XXI-XXIV). Intr., testo e commento a cura di M. Femández-Galiano e A. Heubeck, tr. di G.A. Privitera, Milano 1986, p. 368.

29 Compariva ἀπότροπος, in riferimento a Eumeo, in XIV 372. ῾Ὑπότροπος ricorre anche in Il. VI 367 e 501, in riferimento a Ettore e alla sua casa: al v. 367 Ettore stesso esprime a Elena il timore di non tomare più presso la moglie e il figlio; ai vv. 501 s. Andromaca e le serve, appena il marito è partito verso il campo di battaglia, piangono Ettore ancora vivo nella sua casa perché non pensano «che sarebbe tomato mai più dalla guerra» (ὑπότροπον ἐκ πολέμοιο | ἵξεσθαι).

30 Per questo possibile valore di ἐξ cfr. ad es. XIX 536 s. χῆνες… πυρòν ἔδουσιν | ἐξ ὕδατος e Il. XIV 129 s. ἐχώμεθα… ἐκ βελέων.

31 Cfr. IV 401, 448 e 450 e vedi G. Danek, Epos und Zitat. Studien zu den Quellen der Odyssee, Wien 1998, pp. 225-28.

32 Cfr. Proclo, Crestomazia, p. 109 Allen.