Presenze protestanti nel primo femminismo italiano
Protagoniste ed esperienze tra ’800 e ’900
Liviana GAZZETTA
La storiografia sul primo femminismo europeo1 ha variamente messo in luce come la diffusione delle dinamiche di emancipazione femminile e la stessa mobilitazione a favore dei diritti delle donne sia stata, tra ’800 e ’900, relativamente più facile negli ambienti di confessione protestante che in ambito cattolico. Nel complesso le comunità evangeliche erano notoriamente portatrici di una cultura basata sul valore della libertà d’indagine e della responsabilità individuale, oltre che sul rapporto diretto con i testi fondamentali della fede2 ; sul piano educativo, inoltre, si differenziavano per un generale atteggiamento di apertura verso l’istruzione e una più facile adozione dei modelli di vita delle borghesie liberali europee, oltre che per una concezione non sacramentale del matrimonio e della verginità3. In generale, secondo Bock, nell’Ottocento le donne protestanti furono tra le prime ad avviare quei processi che nel giro di qualche decennio avrebbero trasformato l’azione caritatevole e filantropica in vero e proprio lavoro sociale4. Anche in Italia terreni di convergenza tra movimento femminile e settori delle minoranze religiose si ebbero in una serie di ambiti di particolare interesse, dalla diffusione di metodi innovativi per l’istruzione prescolare al cosiddetto femminismo pratico di primo Novecento. Per quanto poi concerne l’ambito valdese, oltre la vicenda – in qualche modo paradigmatica – di Lidia Poet, si può dire che i terreni di convergenza col movimento delle donne divennero palesi in età giolittiana, segnalati dalla presenza delle organizzazioni giovanili evangeliche nelle assise femminili nazionali.
La significatività della presenza evangelica nel primo femminismo può peraltro essere « confermata » anche da uno degli stereotipi più diffusi nel coevo mondo cattolico italiano, che vedeva nelle donne delle minoranze religiose le occulte, ma reali artefici dell’emancipazionismo, nonché di trame massoniche ai danni della « religione nazionale ». Secondo le tesi dell’intransigentismo, in Italia la massoneria dava « furiosa caccia alle donne e ai fanciulli per riempirne le logge »5, trovando facile consenso tra ebree e protestanti per irretire soprattutto le insegnanti e le educatrici, e garantirsi così il controllo sulle giovani. Un noto redattore de La Civiltà cattolica così descriveva la situazione nel 1889 :
Ne escono ballerine, cantanti, teatranti d’ogni maniera ; ne escono istitutrici e maestre, di quelle tali che si vedono protette e non si sa perché, promosse talvolta con ingiuste cavallette a danno delle compagne più meritevoli ; ne escono delle viaggiatrici vendute a varie sette protestanti per ispargere bibbie ereticali e foglietti di propaganda, e per altri servigi scuri ; ne escono altresì governanti, modiste, sarte, crestaie, artiste, svogliate del lavoro e sempre in traccia di galanterie ; […]6.
Nel complesso, mentre per decenni una lunga serie di autori cattolici continuò a presentare l’istruzione delle donne come una fonte di disordine familiare7, nel contesto protestante si ebbe, al contrario, non solo un generale atteggiamento di apertura verso la circolazione delle idee, ma anche un maggior interesse per l’acculturazione femminile, oltre che un livello d’istruzione mediamente superiore a quello della popolazione cattolica, con conseguenti ricadute sul piano dell’accesso alle professioni. Basti ricordare che tra le prime laureate italiane, dopo un’ebrea di origini russe (Ernestina Paper)8, vi fu una valdese (la nota Lidia Poet), e che sarà una ancora valdese la prima donna preside di facoltà : Amilda Pons Bounous9.
Sul piano storiografico, tuttavia, in Italia la ricerca sulle forme di osmosi tra femminismo e gruppi protestanti tra ’800 e ’900 si può dire ancora agli inizi10. È vero che – se si esclude l’ambito cattolico, che tese sempre a differenziarsi – l’appartenenza religiosa non era esplicita all’interno dei movimenti femministi, e che in ogni caso essa non costituiva elemento determinante nello stabilirne la collocazione. Non va dimenticato inoltre che, mentre si ebbe una corrente cattolica che si definiva di femminismo cristiano11 proprio per differenziarsi dal femminismo tout court, nulla di analogo si ebbe sul versante protestante.
Essendo comunque ancora frammentario, allo stato degli studi, il quadro storiografico su questi temi, il presente contributo cercherà di abbozzare una prima ricognizione di sintesi sulla presenza di matrice evangelica nel primo femminismo italiano. L’arco cronologico considerato sarà compreso tra le origini immediatamente post-unitarie del movimento delle donne e il Congresso nazionale del 1908 : in questa occasione, infatti, l’Unione cristiana delle giovani, sezione dell’analoga unione internazionale, parteciperà all’assise con una sua delegazione e alcuni interventi tematici, federandosi allo stesso Consiglio nazionale delle donne italiane (CNDI) che l’aveva promosso. E ciò in modo totalmente divergente da quanto avvenne in campo cattolico, dove proprio il congresso del 1908 divenne l’occasione per segnare la rottura di ogni ipotesi di collaborazione col femminismo e avviare il processo per la nascita dell’Unione donne cattoliche.
Rinnovamento etico-religioso e riforma educativa
In Italia fu il processo di parificazione nei diritti di cittadinanza per ebrei e valdesi, avviato in epoca rivoluzionaria e compiuto dal Regno unitario, a preordinare in queste minoranze religiose un’apertura generale alle rivendicazioni di emancipazione giuridica, oltre che ai valori dello Stato nazionale e in genere all’ideologia liberale12. Le comunità protestanti furono strutturalmente favorevoli al Risorgimento, anche se segnate dalle diversità denominazionali13 e largamente influenzate, sul piano dell’orizzonte culturale e pedagogico, da modelli, autori, tematiche di origine franco-svizzera o anglosassone. Abituati a identificarsi come fratelli sulla base della sola fede, gli evangelici italiani pensavano la nazione come una famiglia (adottando una prospettiva organicistica largamente diffusa), ma una famiglia fondata su un patto14 : il patto tra protestanti e Savoia, da una parte, e il patto tra comunità religiose e forze politiche diverse esistenti nel paese, dall’altra, che chiedeva a tutti di essere cittadini consapevoli : « Sforzatevi dunque di diventare cittadini utili e buoni, e per questo siate primieramente buoni cristiani. Il cristiano, benché sappia di avere “una patria migliore” nei cieli, ama però la sua patria terrestre e cerca di servirla con tutte le sue forze »15. Nel complesso il mondo protestante italiano individuava uno dei maggiori pericoli del nuovo Stato negli elementi di divisione prodotti dal cattolicesimo romano nel tessuto nazionale, con la negazione del valore del matrimonio civile e con la tradizionale influenza clericale sulle donne. Il tema della contrapposizione tra uomini e donne in fatto di religione è chiaramente dibattuto nella stampa protestante, che non di rado invita le donne a cambiare la propria visione religiosa per vivere in armonia col mondo maschile, accogliendo il principio della libertà anche nella dimensione spirituale : « Il Cattolicismo divide il marito e la moglie. Il Protestantesimo li unisce. Fatevi protestanti, per divenire realmente cristiane. […] Avrete salvato la patria, strappandola alle cupidigini dei suoi più mortali nemici: i Gesuiti e Roma »16.
Tale appello alla « modernizzazione » religiosa trovava spazio, in particolare, nella stampa educativa, in cui le diverse comunità protestanti produssero uno sforzo interdenominazionale17 col periodico La Scuola della domenica, divenuto poi L’Amico dei fanciulli, nato nel 1863 a Firenze. Anche le prime esperienze associative di tipo « unitario » si produssero in ambito educativo: nel 1887 le Associazioni Cristiane dei Giovani, sezione italiana della Young Men’s Christian Association, e successivamente le parallele organizzazioni femminili: nel 1894 l’Unione Cristiana delle giovani e nel 1895 le Amiche della giovinetta. In questi contesti era viva l’attenzione nei confronti dell’istruzione femminile, che portava con sé implicitamente la convinzione che la subordinazione delle donne non derivasse tanto dalla natura, quanto dal fatto che la formazione delle giovani rimaneva generalmente arretrata rispetto a quella maschile18. Rilevante era poi l’interesse nei confronti dell’istruzione prescolare e dell’istruzione mista, spesso sostenuta dal confronto con esempi relativi ai paesi protestanti del Nord Europa.
Proprio nella prospettiva della coeducazione dei sessi fu innanzitutto il movimento per la diffusione dei giardini froebeliani19 a rappresentare una spinta all’innovazione culturale condivisa da ambienti del femminismo e personalità di area protestante. Si trattava, nel complesso, di un’iniziativa di raccordo tra la domanda di miglioramento dell’educazione e l’esigenza di un ripensamento del ruolo civile della famiglia intorno a cui si coagulò un ampio movimento d’opinione nell’Italia post-unitaria20 : un movimento che metteva insieme le forze della Sinistra risorgimentale, buona parte della pedagogia positivista, il nascente movimento delle donne e, appunto, ambienti delle minoranze religiose, attorno all’esigenza di promuovere « una scuola che rinnovando l’educazione gettasse le fondamenta di quella nuova che darà una nuova famiglia, arra di vera civiltà per la nostra Italia »21.
Per quanto rientrante nelle competenze del Ministero degli interni, delegato alla sorveglianza sulla pubblica beneficenza, la realtà dell’educazione prescolare in Italia aveva già conosciuto una significativa evoluzione con gli asili di tipo aportiano22 ; anche questi ultimi, tuttavia, pur avendo svolto un ruolo importante nell’alfabetizzazione popolare, erano basati su un’idea prevalentemente trasmissiva delle conoscenze, oltre che sulla rigida separatezza dei sessi e lo scarso ruolo attribuito al gioco. I kindergarten froebeliani erano, invece, pensati come « giardini » in cui fin dall’infanzia ciascuno poteva vedere coltivate tutte le sue doti : basati sulla coeducazione, essi erano centrati sulle attività ludiche e le conversazioni tematiche al posto delle lezioni ; non erano concepiti come luoghi d’accudimento in mancanza delle madri, ma come veri istituti educativi, in cui tra l’altro la formazione religiosa non doveva essere riconducibile ad una precisa visione confessionale. Con la diffusione delle teorie froebeliane in Italia, a partire dalla sperimentazione del primo giardino d’infanzia a Venezia nel 186923, si aprì un acceso dibattito sul ruolo educativo degli asili prescolari, un confronto tra filo-aportiani e filo-froebeliani che coinvolgeva questioni più generali come il superamento dell’ottica assistenziale, l’adattabilità del nuovo metodo alla situazione italiana, la concezione antropologica di fondo dei due metodi. L’opinione pubblica di matrice cattolica si orientava in senso contrario al passaggio dell’istruzione infantile al Ministero della Pubblica Istruzione e, in particolare, all’impostazione froebeliana, sospettata di essere un canale di diffusione del protestantesimo: in questa direzione andavano le prese di posizione di molti organi cattolici, che sottolineavano l’estraneità dell’ispirazione di fondo del nuovo metodo rispetto alla cultura del paese. Sicuramente le ostilità ambientali con cui questi « giardinetti » erano accolti avevano a che fare con supposti tentativi di diffondere il protestantesimo in Italia, come mostra ad esempio l’esperienza di Lugo di Romagna, accusata di diffondere il calvinismo o il luteranesimo, quando non addirittura l’ateismo24.
D’altra parte proprio l’impianto non confessionale era ciò che rendeva particolarmente interessante la nuova metodologia agli occhi degli ambienti delle minoranze religiose e ai settori del protagonismo femminile post-risorgimentale, impegnati a promuovere sia una maggiore partecipazione femminile alla vita civile, sia un rinnovamento educativo svincolato dai retaggi del nostro contesto. Il nodo della riforma della tradizione etico-religiosa italiana era vivo nel nucleo delle mazziniane che gravitavano attorno al più importante organo dell’emancipazionismo italiano, il periodico La Donna25, e rappresentava un tema di sicuro interesse in settori dell’intellettualità femminile democratica e radicale. Per converso, a fianco delle mazziniane e delle prime femministe troviamo alcune esponenti di fede evangelica attive nel campo dell’innovazione educativa (insieme ad un nucleo significativo di figure della borghesia ebraica)26. Si trattava in genere di donne di provenienza inglese, americana, tedesca, in vari casi sposate a patrioti e intellettuali italiani implicati nelle lotte risorgimentali, quali Stéfanie Etzerodt Omboni27, Maria Boorman Wheeler Ceccarini28, Emily Colton Bliss Gould29, Giorgina Craufurd Saffi30 : figure che – come scrive Pieroni Bortolotti – « portarono fra noi l’esempio vivificante di un nuovo tipo di donna, responsabile ed energica »31 e che guardavano al processo unitario come ad un’occasione di risveglio morale del paese. È noto che il mondo protestante anglosassone seguì con forte interesse il processo di costruzione dello Stato nazionale italiano, vedendo nell’Italia nascente anche una sconfitta delle « tenebre papiste ». La riflessione riguardava in qualche misura anche il ruolo femminile, come segnalava nel 1869 Jessie White Mario : « È subito chiaro che le donne con così poca spontaneità non possono avere forti pregiudizi o inclinazioni di nessun genere. Non possono essere delle grandi sostenitrici come lo sono altre donne, neppure grandi fanatiche. Molte delle sacerdotesse di Garibaldi erano figlie del Nord »32.
Quasi in continuità con queste iniziative, una presenza di area evangelica caratterizzò anche la campagna per l’abolizione della prostituzione di Stato, in cui proprio Jessie W. Mario, Giorgina C. Saffi e Stéfanie E. Omboni furono membri attivi del nucleo italiano che affiancò l’iniziativa europea33. Non va dimenticata, inoltre, l’azione di Sophia Andreae Meuricoffre34, che a Napoli diede vita ad un vero e proprio salotto abolizionista35. Diretta da Joséphine Grey Butler (1828-1906), a sua volta profondamente legata agli ambienti evangelici e antischiavisti36, negli anni ’70 la Ladies’ Association for the Repeal of the Contagious Diseases Acts aveva esteso l’iniziativa oltre l’ambito inglese, divenendo Fédération britannique, continentale et générale con sede a Ginevra : paese largamente protestante, la Svizzera vantava non solo la mancanza di un esercito permanente – fattore tra i più deleteri in rapporto alla prostituzione –, ma anche un efficace controllo sui costumi pubblici e privati affidato alle autorità locali. Dotata dal 1875 di una sua pubblicazione ufficiale nel periodico Le Bulletin Continental, la Federazione rappresentò un fenomeno catalizzatore a favore dell’emancipazione femminile anche su un terreno più generale. E fu appunto nell’ambito dell’organizzazione abolizionista, su proposta della svizzera Marie Humbert Droz, che nel 1877 nacque la protestante Association Internationale des Amies de la Jeune Fille : una rete di strutture (foyers, case d’ospitalità, comitati di assistenza alle stazioni), persone e informazioni che si poneva l’obiettivo di proteggere e sostenere le giovani che per motivi di lavoro e studio dovevano recarsi in luoghi lontani dalla famiglia.
Anche in questo caso, a differenza di ciò che accadde tra i protestanti che militavano nel femminismo svizzero o anglosassone, in questi anni gli aderenti alla storica comunità evangelica italiana non mostrarono partecipazione esplicita al movimento abolizionista, come per prima ha segnalato Bruna Peyrot37. Bisognerà, infatti, attendere quasi la fine del secolo per vedere la nascita del ramo italiano delle Amies de la Jeune Fille.
« Prima avvocatessa d’Italia in Dio visse »38
Eppure per le donne della comunità valdese, caratterizzate da modelli femminili di relativa maggiore emancipazione, pur se non rivendicativi39, si può parlare sia di un chiaro riconoscimento del processo risorgimentale, sia di una costante circolazione di idee e libelli provenienti dal contesto protestante europeo. Anche se le fonti interne non palesano le relazioni, alcune emancipazioniste protestanti, soprattutto metodiste inglesi o della chiesa libera di Scozia, entrarono in contatto con le donne della chiesa valdese, considerata un avamposto riformato in terra cattolica ancora bisognoso di sostegno, economico e non solo ; non si può escludere, inoltre, che grazie alla conoscenza delle lingue circolassero anche i testi o le idee delle intellettuali – soprattutto americane – che avevano avviato un discorso teologico femminista40. Non va dimenticato, inoltre, che la stampa evangelica italiana, pur senza citare mai le protagoniste del movimento femminista, veicolava variamente i temi in esso discussi, partecipando di quell’ampio dibattito culturale e ideologico sulla natura e il ruolo femminile che caratterizzò il secolo XIX. In ogni caso l’istruzione e la formazione femminile erano al centro di un crescente interesse della comunità valdese, sia per garantire la trasmissione della tradizione, sia per l’emigrazione dovuta a motivi di lavoro o di collegamento con altre comunità protestanti, oltre che per un tasso mediamente più elevato di acculturazione rispetto alla media nazionale41.
Certo è che negli anni ’80 una valdese fu protagonista di un episodio « di bandiera » del movimento femminista italiano, una vicenda esemplare per comprendere la condizione di cittadinanza femminile nello Stato liberale. Prima donna laureata in giurisprudenza – oltre che seconda a conseguire la laurea, come abbiamo anticipato –, Lidia Poet (1855-1949) era nata a Traverse (comune di Perrero), un piccolo e povero centro della Val Germanasca, dove la posizione economico-sociale della sua famiglia si differenziava sensibilmente : il padre fu sindaco per quasi trent’anni del paese, seguito poi dal figlio Federico, nel cui studio di avvocato per molti anni lavorò in seguito la stessa Lidia. Dopo aver frequentato la scuola normale per motivi di convenienza, Lidia preparò da sola l’esame di licenza e si iscrisse alla facoltà di legge dell’Università di Torino, laureandosi il 17 giugno 1881 con una tesi sulla condizione giuridica femminile in particolare in relazione alla cittadinanza politica42. In questo testo Poet dava prova di essere a conoscenza del dibattito europeo sul tema e di saper riflettere anche sul ruolo che il cristianesimo aveva giocato nella condizione delle donne occidentali: dopo una serie di riferimenti storici sulla partecipazione diretta delle donne alla politica, Poet segnalava un’ambivalenza di fondo nello stesso cristianesimo tra il testo biblico « paritario » della creazione e l’insegnamento paolino, ma anche della chiesa nascente, che avevano oscurato il ruolo femminile.
Era netto in lei il rifiuto di ogni forma di materialismo e di buona parte delle tesi positiviste sulle capacità femminili : « […] sento nascere in me il dubbio che essi per soverchio studio della materia non vedano più che questa e non la sceverino dall’intelligenza, e credano di poter studiare col microscopio o col ferro anatomico la Psiche umana »43. Pur senza caratterizzarsi per radicalità delle posizioni rispetto, ad esempio, a quanto andavano sostenendo Anna Maria Mozzoni e Gualberta Beccari nel dibattito sulla riforma elettorale44, Poet sottolineava l’insufficienza maschile a rappresentare il punto di vista delle donne nella sfera pubblica : « Forse che non sia anch’essa interessata ad avere un buon governo, leggi savie, umane, giuste? Né si può dire che il loro concorso sarebbe per lo meno inutile, poiché non poche sono le questioni che le interessano direttamente ed il loro modo di apprezzarle non è sempre lo stesso che quello degli uomini »45. Finiva poi per proporre il solo suffragio amministrativo, convinta che in Italia fossero necessarie ancora altre riforme, prima dell’estensione del suffragio politico, da quella dell’istruzione femminile all’abolizione dell’autorizzazione maritale.
Per Lidia Poet, inoltre, che definiva lo Stato come « la grande riunione delle famiglie », unendo le rispettive qualità dei due sessi si potevano determinare livelli di armonia maggiori in tutta la società. La complementarietà dei caratteri e dei ruoli di genere non comportava cioè – come invece nella coeva precettistica cattolica – la rigida separatezza della sfera privata da quella pubblica ; piuttosto, anche per svolgere appieno il suo compito familiare la donna doveva essere restituita pienamente alla sua dimensione di cittadina. Quando s’invoca l’influenza femminile nella formazione all’amore di patria e alle virtù civili – osservava Poet – come si può pensare che possa effettivamente esercitarla colei che ne viene esclusa a priori : « Come riconoscerà essa quali siano quelle pubbliche virtù nel cui esercizio deve sorreggere e fortificare sé e gli altri? »46. E in questo senso arrivava ad avanzare la proposta di un servizio civile femminile paragonabile a quello maschile : una « leva femminile » per cui le giovani fossero chiamate a dedicare qualche ora al giorno in attività di beneficenza pubblica o di assistenza47, con il risultato di rendere utili in ambito civile le virtù femminili e nello stesso tempo di rendere più consapevoli le giovani.
Non ancora attivamente inserita nel movimento delle donne al momento della laurea, Poet ne divenne notoriamente una figura emblematica qualche tempo dopo, quando conclusi i due anni regolari di praticantato, sostenne gli esami per diventare procuratore legale e chiese l’iscrizione all’Albo degli avvocati, primo caso in Italia. Alla sua richiesta il Consiglio torinese dell’Ordine diede a maggioranza l’assenso, per poi trovarsi « sommerso » dalla polemica scatenata da due membri del consiglio che si dimisero in segno di dissenso, sostenuti dall’opposizione del Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino. Nessun esito sortì il ricorso di Lidia Poet: l’organo d’Appello torinese nel novembre 1883 ne annullava l’iscrizione, sostenendo che l’avvocatura non poteva essere equiparata a una qualsiasi professione acquisibile con lo studio, essendo da concepire piuttosto come un pubblico ufficio ; per non parlare poi dei problemi che, in ambito giudiziario, si sarebbero potuti produrre con l’esibizione della moda femminile.
Il dibattito apertosi in seguito alla vicenda giunse fino alle aule parlamentari e interessò il movimento femminile : in questa occasione la libera pensatrice Ernesta Napollon propose una petizione nazionale « in nome della dignità femminile conculcata »48. Diventava chiaro che nell’Italia liberale ciò che era oggetto di interdizione etica e giuridica per le donne non era tanto lo studio di alcune discipline, quanto piuttosto l’esercizio della professione pubblica corrispondente49 : un divieto che risultava difficilmente accettabile in ambienti in cui istruzione e professione andavano strettamente congiunte. Lidia Poet continuò così a vivere lavorando nello studio legale del fratello e svolgendo attività di conferenziera ; come volontaria, inoltre, mise a disposizione le sue competenze nel movimento internazionale per la riforma dei penitenziari sorto a cavallo tra i due secoli. E questo in modo non dissimile da quanto stavano facendo in altri contesti nazionali molte correligionarie, portate a superare l’attivismo caritativo e filantropico all’interno delle chiese a favore di forme di azione socio-assistenziale che incontravano la stessa vocazione sociale del femminismo e i primi interventi di welfare state50. Fu inoltre impegnata per la revisione delle norme sull’assistenza e tutela dei minori51, nella sezione italiana delle Amiche della giovinetta e nel Comitato pro voto di Torino52 ; ancora, ebbe un ruolo di spicco nel primo (e unico) congresso nazionale delle donne italiane.
Fede e diritti
Al congresso nazionale femminile, convocato dal Consiglio delle Donne Italiane nell’aprile del 1908 a Roma53, risultò evidente il processo di avvicinamento progressivo delle organizzazioni evangeliche al movimento femminista, con la partecipazione ufficiale di rappresentanti del ramo italiano sia dell’Unione Cristiana delle giovani che dell’Associazione delle amiche della giovinetta. Peraltro, pur non essendo stata semplice la loro adesione, le esponenti protestanti non tesero a differenziarsi come fronte peculiare ; e ciò a differenza di quanto accadde in ambito cattolico dove, ancor prima della rottura finale sulla questione dell’insegnamento confessionale, si ebbero varie consultazioni presso la Santa Sede per stabilire il da farsi in rapporto al congresso.
Nel 1894 era sorta a Torino l’italiana Unione cristiana delle giovani grazie all’attività di Elisa Meynier e di Elisa Schalk, che ne fu la prima presidente ; sezione dell’omonima Unione internazionale, dal 1900 l’associazione ebbe un suo periodico (« Alba »)54 e potè organizzare nel 1901 la sua prima convenzione nazionale a Genova. Il ramo italiano dell’Association Internationale des Amies de la Jeune Fille era nato nel 1895 soprattutto grazie al lavoro di Berta Turin che, nata Vogel a Zurigo, svolgeva un ruolo importante nel femminismo italiano: oltre che presidente delle Amiche della giovinetta, fu tra le promotrici del Consiglio Nazionale delle donne, attivista della Federazione abolizionista e del comitato italiano contro la tratta delle bianche. Alla stessa associazione aderirono altre esponenti di spicco del movimento femminista, tra cui Maria Koenen Grassi (dell’Associazione per la donna), Ersilia Majno e Bice Cammeo (dell’Unione femminile di Milano) e Regina Terruzzi, tra le future fondatrici dell’Unione femminile socialista.
Nel complesso comunque, pur non mancando talora i « distinguo », fu il CNDI a raccogliere in larga parte gli interessi di singole esponenti e delle strutture femminili protestanti, e ciò evidentemente per la linea filomonarchica e complessivamente moderata dell’organismo55, che corrispondeva alla sempre maggiore presenza delle valdesi nell’associazionismo femminile evangelico. Nato ufficialmente nel 1903 come federazione di organismi a orientamento non radicale, il Consiglio nazionale delle donne era in parte frutto dell’iniziativa dell’International Council of Women, sorto negli Stati Uniti nel 1888 e ben radicato negli ambienti del femminismo protestante anglosassone, per quanto a vocazione aconfessionale. Alla prima conferenza nazionale delle Amiche, a Milano nel 1906, in realtà, buona parte delle delegate valdesi capeggiate da Lisa Noerbel si erano dette contrarie all’adesione ufficiale dell’associazione al CNDI, temendo che l’inclusione significasse una sostanziale perdita d’autonomia ; Berta Turin, a sua volta, aveva sottolineato l’importanza del radicamento religioso dell’organismo grazie ad altre sue iniziative, tra cui la scuola delle diaconesse56. Al congresso convocato dal CNDI, però, la responsabile della sezione romana dell’Unione cristiana delle giovani, Alice Schiavoni Bosio, dalle colonne di « Alba » sottolineò l’importanza della convergenza, segnalando una svolta :
È ora che le Unioni cristiane in Italia siano annoverate fra le opere d’attività femminile italiane ; è ora che esse dimostrino nella pratica i frutti di quella spiritualità che troppo spesso sembra relegarle sopra un monte inaccessibile, ove rimangono estranee, indifferenti alle più attuali e vitali questioni che tormentano l’epoca nostra, mentre che giù nella pianura si pensa, si sente, si soffre, la vita freme, palpita, reclama delle esistenze giovani ed energiche che si consacrino ad essa ; è ora insomma che le Unioni studino e discernano ciò che vi ha di bello, di buono e di giusto nel presente movimento femminile in Italia, e che associandosi ad esso nel raggiungimento del grande ideale, scendano nel campo della lotta, portandovi quella mente spassionata e serena, quella larghezza di vedute, quello spirito di carità e di sacrificio, che hanno attinto, che devono avere attinto alla vera sorgente. Il nostro Comitato nazionale ha dato il buon esempio e l’Unione di Roma l’ha seguito aderendo al congresso57.
Relatrice al congresso nazionale in tema di educazione morale, Schiavoni Bosio58 sostenne una prospettiva di complementarietà tra i sessi che non significasse, però, separatezza delle sfere ; preoccupata della formazione morale e spirituale delle giovani, prese le distanze dalle « ultrafemministe », convergendo con le tesi sostanzialmente moderate sostenute da altre colleghe. In sintonia con le femministe cristiane Felicitas Buchner e Antonietta Giacomelli, nella stessa sede Berta Turin affrontò il tema più direttamente connesso alla vita della sua associazione, quello della lotta alla tratta delle bianche59 : un fenomeno in continua crescita nonostante il progresso delle società. Così Turin sostenne apertamente la petizione promossa dalla sezione italiana della Fédération abolitionniste che chiedeva la revisione complessiva delle norme in materia di reati sessuali e lavoro minorile, mentre a sua volta Lisa Noerbel presentò una relazione sulle modalità con cui facilitare il riconoscimento dei figli illegittimi. Si trattava di una serie di richieste che la stessa Lidia Poet non poteva non sostenere, chiamata a portare il suo contributo esperto nella sezione sulla condizione morale e giuridica della donna60. Nel complesso le rivendicazioni sul superamento della minorità femminile si sposavano con un forte interesse verso i minori e comportavano il progetto di un’estensione delle capacità femminili in funzione del consolidamento delle reti assistenziali dello Stato, secondo una declinazione « pratica » del femminismo ampiamente condivisa all’interno del movimento di età giolittiana, e in analogia con quanto stava accadendo un po’ in tutti i paesi occidentali61.
Altra esponente valdese e unionista (dirigente cioè dell’Unione cristiana delle giovani) che ebbe un ruolo di rilievo nel congresso fu Amilda Pons. Figlia di un pastore valdese e attiva dapprima nella Società Dante Alighieri, grazie anche all’amica contessa Maria Pasolini, Pons si era avvicinata al movimento femminista nell’ambito della Federazione romana delle opere di attività femminile e quindi del Consiglio nazionale delle donne, mantenendo peraltro forte il suo legame con la comunità valdese. In contemporanea, poi, alla convocazione del congresso CNDI, aveva dato alle stampe uno Studio della morale nel suo svolgimento religioso e scientifico62 in cui auspicava la possibilità di un progresso etico comune, pur nella diversità delle fedi, entrando nel merito del dibattito sull’insegnamento religioso nelle scuole, che era stato riacceso in tutto il paese dalla discussione sulla mozione Bissolati in Parlamento63.
Nel suo intervento al congresso, relatrice « Sulla coltura e sull’educazione morale e, a seconda delle varie credenze, religiosa nella scuola », la professoressa64 Pons partiva proprio da brevi considerazioni sulle caratteristiche che il problema assumeva in Italia, spesso preso a pretesto per « partigianerie politiche » e viziato, a suo avviso, da un errore di fondo : la limitazione dell’insegnamento al solo ambito delle scuole elementari, dove peraltro – data la mancanza di una preparazione adeguata nella scuola secondaria – i maestri risultavano largamente impreparati all’insegnamento65. Affermando l’esistenza di un fondo morale comune a tutte le religioni, Pons prospettava la sostituzione dell’insegnamento confessionale, di competenza della famiglia, con un insegnamento di morale religiosa e sociale impartito all’interno del sistema scolastico pubblico : si trattava di combattere l’ignoranza tutta italiana nell’ambito della storia delle religioni e di promuovere lo studio dell’insegnamento etico di tutti i più grandi pensatori, considerato convergente con le fondamentali verità cristiane. Un’utilità particolare ne avrebbero tratto le donne, secondo Pons, nell’evoluzione del loro modo di essere verso orizzonti di maggiore autonomia e nell’ampliamento costante della loro missione sociale. Nonostante queste tesi, tuttavia, all’interno del congresso non si delineò una terza via tra le due posizioni più distanti sulla complessa partita: quella che proponeva l’esclusione di qualsiasi insegnamento a carattere etico-religioso (ordine del giorno Malnati) e quella secondo cui lo Stato non poteva negare la libertà fondamentale delle famiglie in fatto di educazione (ordine del giorno Coari-Rosler Franz- Venturelli)66. Pur non senza incertezze, infatti, al termine anche le esponenti evangeliche preferirono convergere nella proposta Malnati, che chiedeva l’aconfessionalità della scuola elementare e lo studio « obbiettivo » delle religioni nelle scuole superiori.
Per lo più radicate nella comunità valdese, le esponenti di cui abbiamo ricostruito il punto di vista cercavano di mantenere una prospettiva che potremmo definire dialettica, sostenendo – da una parte – che la formazione umana non potesse prescindere dalla dimensione religiosa, ma riconoscendo – dall’altra – il valore dell’aconfessionalità anche nelle iniziative sociali proprie. Ecco perché, proponendo una sintesi del congresso ormai concluso e pur confessando qualche dubbio su alcune tesi, la dirigenza dell’Unione cristiana delle giovani espresse una sostanziale fiducia nella possibilità di coniugare fede e diritti femminili67. La conciliazione tra concezione religiosa e libertà moderne poteva divenire una via concretamente perseguibile, per il movimento delle donne e per tutto il paese.
Gli ambienti cattolici, invece, non attesero neppure la fine del congresso per interrompere qualsiasi rapporto col femminismo organizzato e avviare la creazione di un’associazione autonoma, che sarebbe arrivata a maturazione nel 1909 con la nascita dell’Unione donne cattoliche.
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1. Come proposto nel mio recente volume Orizzonti nuovi. Storia del primo femminismo in Italia (1865-1925), Roma : Viella, 2018, uso la categoria di primo femminismo per riferirmi nel complesso al movimento delle donne tra ’800 e ’900, e quella di emancipazionismo solo per alcuni settori al suo interno, caratterizzati dalla radicalità degli obiettivi. Va peraltro nella stessa direzione anche la ricerca storiografica internazionale: su questo si veda, in particolare, Karen Offen (ed.), Globalising Feminism (1789-1945), London – New York : Routledge, 2010.
2. Sulla sterminata bibliografia in materia mi limito a segnalare la recente sintesi di Giorgio Tourn, I protestanti. Una cultura, Torino : Claudiana, 2013. Sul tema del rapporto tra modelli femminili protestanti e conoscenza delle Scritture in Italia segnalo lo studio di Marina Cacchi, « Il senso della Bibbia” nel servizio delle Biblewomen valdesi », in Ruth Albrecht – Michaela Sohn-Kronthaler (a cura di), Letture devote ed esegesi critica nel lungo XIX secolo, Trapani : Il Pozzo di Giacobbe, 2018, p. 35-54.
3. Per un’introduzione generale a questi temi rinvio a Jean Baubérot, « La donna protestante », in George Duby – Michelle Perrot, Storia delle donne in Occidente. L’Ottocento, Roma – Bari : Laterza, 1991, p. 192-208 ; Laura Savelli, « La filantropia politica e la lotta per i diritti delle donne. Le reti internazionali », Percorsi storici 4 (2016) [www.percorsistorici.it]. Segnalo, inoltre, alcuni studi di riferimento per i principali paesi europei : Florence Rochefort, « Féminisme et protestantisme au xixe siècle, premières rencontres 1830-1900 », BSHPF 146 (2000), 1, p. 67-89 ; Anne M. Kappelli, Sublime croisade. Éthique et politique du féminisme protestant 1875-1928, Genève : Zoè, 1990 ; Ursula Baumann, « Religion, emancipation and politics in the confessional women’s movement in Germany », in Billie Melman (ed.), Borderlines. Gender and identities in war and in peace 1870-1930, New York – London : Taylor & Francis Ltd, 1998, p. 285-306.
4. Gisela Bock, Le donne nella storia europea, Roma – Bari : Laterza, 2001, p. 188-214.
5. G. Giuseppe Franco, Massone e massona descritti dai documenti autentici dei settarii. Racconto storico, II, Prato : Tip. Giachetti, 1889, p. 235.
6. Ivi, p. 252. Secondo l’autore dell’articolo questi tipi femminili sarebbero usciti appunto dalla frequentazione degli ambienti massonici, mentre il termine « cavallette » qui si riferisce evidentemente ad indebite promozioni.
7. Su questi temi rinvio ad Adriana Valerio, « Pazienza, vigilanza, ritiratezza. La questione femminile nei documenti ufficiali della Chiesa (1848-1914) », Nuova DWF 16 (1981), p. 60-79 ; più in generale a Guido Verucci, « Nazione, cultura e trasformazioni socio-economiche: le proposte educative degli ambienti cattolici », in Luciano Pazzaglia (a cura di), Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Novecento, Brescia : La Scuola, 1999, p. 93-118.
8. Sul rapporto tra comunità e cultura ebraiche e movimento per l’emancipazione femminile, qui solo sfiorato, mi limito a segnalare il lavoro di Monica Miniati, Le ‘emancipate’. Le donne ebree in Italia nel XIX e XX secolo, Roma : Viella, 2008.
9. Cf. Lilian Pennington, « Amilda Bounous Pons », Ali. Rivista bimestrale di problemi spirituali sociali femminili XXXVII, nn. 7-8, luglio-agosto 1966, p. 126-128.
10. Fanno eccezione i contributi di Bruna Peyrot, « Verso le madri antiche: alla ricerca delle donne nella storia valdese », in Gabriella Bonansea, Bruna Peyrot, Vite discrete. Corpi e immagini di donne valdesi, Torino : Rosenberg, 1993, p. 11-102 ; Claire E. Honess, Verina R. Jones (a cura di), Le donne delle minoranze. Le ebree e le protestanti d’Italia, Torino : Claudiana, 1999 ; Laura Savelli, « Assistenza alle lavoratrici migranti e battaglie civili. Le “Amiche della giovinetta” (1877-1914) », Passato e presente 95 (2015), p. 49-74 ; Liviana Gazzetta, « Pons, Amilda », in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXIV, Roma : Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2015.
11. Per quanto datato, sul tema si veda lo studio di Francesco M. Cecchini, Il femminismo cristiano. La questione femminile nella prima democrazia cristiana 1898-1912, Roma : Feltrinelli, 1979.
12. Si vedano in proposito i vari saggi in Gianpaolo Romagnani (a cura di), La Bibbia, la coccarda e il tricolore: i valdesi tra due emancipazioni 1798-1848. Atti del 37° e 38° convegno di studi sulla riforma e sui movimenti religiosi in Italia, Torino : Claudiana, 2001; inoltre Renato Moro, « Le chiese, gli ebrei e la società moderna: l’Italia », in Mario Toscano (a cura di), Integrazione e identità. L’esperienza ebraica in Germania e Italia dall’Illuminismo al fascismo, Milano : Franco Angeli, 1998, p. 167-182.
13. Nell’ambito della storia del cristianesimo occidentale con questo termine ci si riferisce alle differenti matrici afferenti alla vasta area del Protestantesimo all’interno di un determinato territorio ; per comprendere la complessa realtà italiana, dove alla storica comunità dei valdesi soprattutto nel corso del XIX secolo si affiancarono numerose altre chiese, e in cui la varietà denominazionale fu accompagnata da una netta propensione per il congregazionalismo (ovvero per l’autonomia delle singole comunità locali), si vedano i saggi di Giorgio Spini, Risorgimento e protestanti, Torino : Claudiana, 1998 e di Valdo Vinay, Dal movimento evangelico italiano al movimento ecumenico (1848-1978), Torino : Claudiana 1980. In relazione al dibattito politico risorgimentale la comunità valdese era generalmente filomonarchica e di orientamento liberal-moderato, mentre altre comunità protestanti erano più vicine a posizioni filo-democratiche e repubblicane.
14. Su questi temi rinvio ai saggi del volume di Simone Maghenzani (a cura di), Il protestantesimo italiano nel Risorgimento. Influenze, miti, identità, Torino : Claudiana, 2012.
15. « Vittorio Emanuele II in Campidoglio », L’Amico dei fanciulli. Giornaletto delle scuole domenicali, II, 7, luglio 1871.
16. « La moglie e il prete », La famiglia cristiana, 14 giugno 1878.
17. Sulla presenza in campo educativo e sulla ricerca di un terreno d’iniziativa comune in questo ambito tra le diverse comunità protestanti in Italia si veda di Andrea Mannucci, Educazione e scuola protestante : dall’Unità all’età giolittiana, Firenze : Manzuoli, 1989.
18. Si legga, oltre ai saggi già citati in nota 3, anche Jean-Noël Luc, « Madame Jules Mallet, née Emilie Oberkampf (1794-1856), ou les combats de la pionnière de l’école maternelle française », BSHPF 146 (2000), p. 15-47.
19. Sul froebelismo in rapporto al contesto italiano, si vedano i classici lavori di Enzo Catarsi, L’asilo e la scuola dell’infanzia. Storia della scuola ‘materna’ e dei suoi programmi dall’Ottocento ai nostri giorni, Firenze : La Nuova Italia, 1994 ; di Redi Sante di Pol, L’istruzione infantile in Italia, Torino : Valerio, 2005 ; di Clotilde Barbarulli, « Dalla tradizione all’innovazione. La “ricerca straordinaria” di Elena Raffalovich Comparetti », in Simonetta Soldani (a cura di), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Milano : Franco Angeli, 1989, p. 425-433 ; più in generale si veda Egle Becchi – Dominique Julia, Storia dell’infanzia dal Settecento a oggi, Roma, Bari : Laterza, 1998.
20. Sul nesso tra modelli di genere-famiglia-nazione nella cultura italiana del XIX secolo esiste ormai un’ampia bibliografia ; qui mi limito a segnalare, in particolare, i saggi del volume curato da Ilaria Porciani, Famiglia a nazione nel lungo Ottocento italiano. Modelli, strategie, reti di relazioni, Roma : Viella, 2006 e, più nello specifico, il saggio di Liviana Gazzetta, « Women for the Homeland. Comparing Catholic and Protestant Female Education in Italy (1848-1908) », in Martin Baumeister – Philipp Lenhard – Ruth Nattermann (a cura di), Rethinking the Age of Emancipation. Comparative and Transnational Perspectives on Gender, Family and Religion in Italy and Germany 1800-1918, New York, Oxford : Berghahn, in corso di stampa.
21. « Spigolando. Giardinetto infantile in Lugo », La Donna, 30 marzo 1881.
22. Su questi temi si veda Tina Tomasi, L’educazione infantile tra Chiesa e Stato, Firenze : Vallecchi, 1978 e il già citato Catarsi, L’asilo e la scuola dell’infanzia.
23. Cf. Nadia M. Filippini, « “Come tenere pianticelle”. L’educazione della prima infanzia: asili di carità, giardinetti, asili per lattanti », in Nadia M. Filippini – Tiziana Plebani (a cura di), La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione, Venezia : Marsilio, 1999, p. 91-111; Duilio Gasparini, Adolfo Pick. Il pensiero e l’opera con una scelta di scritti sull’educazione, Firenze : Ed. del Centro didattico nazionale, 1968-70.
24. « Spigolando. Giardinetto infantile in Lugo », La Donna, Bologna, 30 marzo 1881; Tiziana Pironi, « Il giardino d’infanzia di Ernesta Galletti Stoppa », in Ead., Percorsi di pedagogia al femminile, Roma : Carocci, 2014, p. 19-39.
25. Cf. Marijan Schwegman, Gualberta Alaide Beccari. Emancipazionista e scrittrice, Pisa : Domus Mazziniana, 1996, oltre che il già citato Orizzonti nuovi. Sul rapporto tra ricerca spirituale e primo movimento delle donne si veda di Lucetta Scaraffia, « Emancipazione e rigenerazione spirituale: per una nuova lettura del femminismo », in Lucetta Scaraffia, A. Maria Isastia, Donne ottimiste. Femminismo e associazioni borghesi nell’Otto e Novecento, Bologna : Il Mulino, 2002, p. 19-126.
26. Sul tema mi limito a rinviare al già citato lavoro di Barbarulli, Dalla tradizione all’innovazione. La ‘ricerca straordinaria’ di Elena Raffalovich Comparetti e a Elisa Frontali Milani (a cura di), Storia di Elena attraverso le lettere 1863-1884, Torino : La Rosa, 1980.
27. Su Stéfanie Etzerodt (1839-1917) si legga Mariella Mori, « Stefania Etzerodt Omboni e la sua concreta utopia », in Liviana Gazzetta – Patrizia Zamperlin (a cura di), Donne, diritti e società a Padova tra Otto e Novecento, Padova : Imprimenda, 2009, p. 75-88.
28. Nata a New York nel 1840, giunse nel 1875 a Riccione dopo aver sposato il patriota Giovanni Ceccarini: cf. Patrizia Bebi – Oreste Delucca, I Ceccarini per Riccione. Il giardino d’infanzia e l’ospedale, Verucchio : Pazzini, 1990.
29. Nata a New York, Emily Colton Bliss (1822-1875) seguì in Italia il marito James Gould, stabilendosi a Roma, dove fu attiva nell’American Union Church. Fu in contatto con la comunità valdese per le sue iniziative educative: Luigi Santini, « Cento anni di vita dell’Istituto Gould (1871-1971) », in Armando Hugon – Franco Operti – Luigi Santini, Opere sociali della Chiesa, Torre Pellice : Società di Studi valdesi, 1971, p. 23-50.
30. Per la religiosità e le attività di Giorgina Craufurd (1827-1911), moglie di Aurelio Saffi, vicina alle posizioni della chiesa unitariana, rinvio a Liviana Gazzetta, Giorgina Saffi. Contributo alla storia del mazzinianesimo femminile, Milano : Franco Angeli, 2003.
31. Franca Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia 1848-1892, Torino : Einaudi, 1963, p. 36.
32. Jessie White Mario, « La condizione sociale delle donne in Italia (2 dicembre 1869) », in Ivo Biagianti (a cura di), La ‘Nuova Italia’ nelle corrispondenze americane di Jessie White Mario, Firenze : Centro ed. toscano, 1999, p. 93.
33. Sul movimento abolizionista italiano si vedano i saggi di Rina Macrelli, L’indegna schiavitù. Anna Maria Mozzoni e la lotta contro la prostituzione di stato, Roma : Ed. Riuniti, 1981 e, in relazione proprio agli ambienti femminili protestanti, i già citati contributi di Laura Savelli, Assistenza alle lavoratrici migranti e battaglie civili. Le “amiche della giovinetta” e La filantropia politica e la lotta per i diritti delle donne ; più in generale si veda Mary Gibson, Stato e prostituzione in Italia 1860-1915, Milano : Il Saggiatore, 1995.
34. Sulla nota famiglia di banchieri svizzeri si veda la ricostruzione di Elio Capriati, Ritratto di famiglia. I Meuricoffre, Napoli : Millennium, 2003.
35. Savelli, Assistenza alle lavoratrici migranti e battaglie civili, p. 62.
36. Cf. Jane Jordan, Josephine Butler, London : Murray, 2001.
37. Peyrot, Verso le madri antiche: alla ricerca delle donne nella storia valdese, p. 11-102. Peyrot suggerisce una convincente lettura antropologica di questa iniziale assenza dei valdesi dalla campagna abolizionista : « Concentrati sulla costruzione del soggetto etico intero, fondato sulla coerenza fra interiorità e prassi, tendevano a non scendere a compromessi con una istintualità considerata essenzialmente negativa, e disciplinabile soltanto all’interno di un rapporto matrimoniale fondato sulla distribuzione dei compiti, la collaborativa amicalità e la comune riverberazione della coppia nella vita comunitaria » : ivi, p. 31.
38. Così recita l’iscrizione tombale della Poet, come attesta Clara Bounous, La toga negata. Da Lidia Poet all’attuale realtà torinese, Pinerolo : Alzani, 1997, p. 47. Sulla figura della Poet, della stessa Bounous si può leggere anche il saggio « Lidia Poet. Una moderna signorina d’altri tempi! », in Silvia Cavicchioli (a cura di), Protagoniste dimenticate. Le donne nel Risorgimento piemontese, Torino : Piazza, 2011, p. 139-143; sul caso Poet e l’accesso delle donne nelle professioni legali si veda anche Ileana Alesso, Il quinto stato : storia di donne, leggi e conquiste. Dalla tutela alla democrazia paritaria, Milano : Franco Angeli, 2012, p. 16-22.
39. Su questo rinvio al citato volume di Peyrot e Bonansea e al saggio di Elisa Strumia, « Le donne e la rivoluzione: le peculiarità dell’area valdese », in Romagnani, La Bibbia, la coccarda e il tricolore, p. 155-179.
40. Da Sara Grimké a Elizabeth Cady Stanton : cf. Peyrot, Verso le madri antiche: alla ricerca delle donne nella storia valdese, p. 30-32 ; per un’introduzione a questi temi Anna Rossi Doria, La libertà delle donne. Voci dalla tradizione politica suffragista, Torino : Rosenberg, 2004.
41. In tema si veda Gabriella Ballesio – Sara Rivoira, Leggere, scrivere e cucire. L’istruzione femminile nelle Valli valdesi nell’Ottocento, Torino : Claudiana, 2013.
42. Lidia Poet, Studio sulla condizione della donna rispetto al diritto costituzionale e al diritto amministrativo nelle elezioni. Dissertazione per la laurea in giurisprudenza, Pinerolo : Chiantore e Mascarelli, 1881.
43. Ibidem, p. 16.
44. Su questi temi rinvio al già citato Gazzetta, Orizzonti nuovi, p. 47-78 e a Anna Maria Isastia, « La battaglia per il voto nell’Italia liberale », in Marisa Ferrari Occhionero (a cura di), Dal diritto di voto alla cittadinanza piena. Atti del convegno nazionale, Roma, 27-28 giugno 2006, Roma, 2008, p. 31-51.
45. Poet, Studio sulla condizione della donna rispetto al diritto costituzionale e al diritto amministrativo nelle elezioni, p. 11.
46. Ibidem, p. 15.
47. Ibidem, p. 21.
48. Ernesta Napollon, « Fiat Lux », La Donna, 25 maggio 1884.
49. Su questi temi rinvio al « classico » studio di Marino Raichich, « Liceo, università, professioni: un percorso difficile, in L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento », in Soldani, L’educazione delle donne, p. 147-181 ; sulla domanda d’istruzione come via d’accesso alle professioni femminili si veda anche il più recente contributo di Simonetta Soldani, S’emparer de l’avenir : les jeunes filles dans les écoles et les établissements secondaires de l’Italie unifiée (1861-1911) », Paedagogica Historica. International Journal of the History of Education 40 (2004), I-II, p. 123-142.
50. F. Rochefort, « Féminisme et protestantisme au xixe siècle » ; Eveline Diebolt, « Femmes protestantes face aux politiques de santé publique », BSHPF 146 (2000), p. 91-132.
51. Sul tema rinvio, in particolare, a Barbara Montesi, Questo figlio a chi lo do ? Minori, famiglie, istituzioni (1865-1914), Milano : Franco Angeli, 2007.
52. Cf. Silvia Inaudi, Una passioni politica. Il Comitato Pro voto donne di Torino agli inizi del ’900, Torino : Thélème, 2003.
53. Al congresso dedica un’intera monografia Claudia Frattini, Il primo congresso delle donne italiane, Roma 1908. Opinione pubblica e femminismo, Roma : Biblink, 2008. Per un’introduzione alla storia del CNDI nel contesto dell’associazionismo femminile italiano rinvio a Fiorenza Taricone, Teoria e prassi dell’associazionismo italiano nel XIX e XX secolo, Cassino : Centro editoriale d’Ateneo, 2008 (II ed.), in particolare p. 61-145.
54. Per un’illustrazione sintetica dei caratteri del periodico si veda la specifica scheda in Silvia Franchini – Monica Pacini – Simonetta Soldani (a cura di), Giornali di donne in Toscana. Un catalogo, molte storie (1770-1945). II. 1900-1945, Firenze : Olschki, 2007, p. 323-326.
55. Parla, a questo proposito, di femminismo « di destra » Claudia Gori, Crisalidi. Emancipazioniste liberali in età giolittiana, Milano : Franco Angeli, 2003.
56. Cf. Atti della Prima Conferenza nazionale del Ramo Italiano dell’Unione Internazionale delle Amiche della Giovinetta. Milano, maggio 1906, Torre Pellice : Tip. Alpina, 1906.
57. A.S.B., « L’ora è venuta (Matt. V, 15-16) », L’Alba. Organo dell’Unione Cristiana delle Giovani IX, Firenze, 1 gennaio 1908.
58. In assenza di studi organici, si veda la breve biografia di Amilda Pons, « Alice Schiavoni Bosio », Ali. Rivista bimestrale di problemi spirituali sociali femminili, febbraio 1931.
59. Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, Atti del I Congresso Nazionale delle Donne Italiane, Roma 24-30 aprile 1908, Roma : Società editrice laziale, 1912, p. 300.
60. Lidia Poet, Il Codice civile nei riguardi della patria potestà della donna, in Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, Atti del I Congresso nazionale delle donne italiane, p. 248.
61. Sul nesso tra femminismo e nascita dello stato sociale in Italia si vedano i saggi di Annarita Buttafuoco, « La filantropia come politica. Esperienze dell’emancipazionismo italiano nel Novecento », in Lucia Ferrante – Maura Palazzi – Gianna Pomata (a cura di), Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazione nella storia delle donne, Torino : Rosenberg, 1988, p. 166-187 e di Fiorella Imprenti, Riformiste. Il municipalismo femminile in età liberale, Soveria Mannelli : Rubbettino, 2012.
62. Amilda Pons, Studio della morale nel suo svolgimento religioso e scientifico. In occasione del Primo Congresso nazionale femminile, Torino : Paravia, 1908.
63. Sulla complessa questione rinvio ai saggi di Emilio Butturini, La religione a scuola. Dall’Unità ad oggi, Brescia : Queriniana, 1987, Nicola Pagano, Religione e libertà nella scuola. L’insegnamento della religione cattolica dallo Statuto Albertino ai giorni nostri, Torino : Claudiana 1990 e M. Alighiero Manacorda, Scuola pubblica o privata. La questione scolastica tra Stato e Chiesa, Roma : Editori Riuniti, 1999.
64. Come si evince dalla citata voce a lei dedicata nel Dizionario Biografico degli Italiani, Amilda Pons si era abilitata all’insegnamento di lingua francese nel 1896 e di lingua e letteratura italiana nel 1898, dopo aver frequentato l’Istituto superiore di magistero femminile di Roma.
65. Amilda Pons, Educazione morale e religiosa nella scuola, in Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, Atti del I Congresso nazionale delle donne italiane, p. 89.
66. Sulla nota vicenda si possono leggere le sintesi di Paola Gaiotti De Biase, Le origini del movimento cattolico femminile, Brescia : Morcelliana, 1963 e di Cecilia Dau Novelli, Società, Chiesa e associazionismo femminile. L’Unione fra le donne cattoliche d’Italia 1902-1919, Roma : AVE, 1988.
67. « Il primo congresso nazionale delle donne italiane. Note e impressioni », Alba IX, nn. 6-7, giugno-luglio 1908.