Revue Italique

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Il sonetto di Veronica Gambara sulla predestinazione in Du Bellay

Anna Bettoni

Proseguendo nella direzione che qui ha indicato Jean Balsamo, e volendo applicare il suo insegnamento circa la circolazione e la ricezione in Francia delle antologie di rime italiane come libri a scopo utilitario, come « des livres de poètes et d’écrivains »,1possiamo tentare l’analisi di una riscrittura francese di un componimento presente in un’antologia. I volumi di Giolito, che inaugurano, o meglio inventano il genere delle antologie,2sono il nostro naturale punto di partenza, insieme alla riflessione su quale sia l’analisi più opportuna, dato che i “riusi” francesi del petrarchismo italiano sono veramente molteplici, anche solo nella poesia immediatamente successiva alla pubblicazione dei primi due volumi veneziani, quella del terzo quarto del Cinquecento, diciamo per comodità quella degli anni fra il 1549 ed il 1573, cioè fra la prima olive di Du Bellay e le prime opere di Desportes.

La nostra riflessione si pone tre quesiti : quale forma poetica prediligere, da quale opera estrarla e, di quell’opera in quella forma, quale componimento analizzare. Nella sua banalità, la prima è la scelta più automatica, dato che il sonetto si impone per una priorità evidente. Dovendo scegliere qualcosa di rappresentativo per proporlo come esempio, non avrebbe senso scegliere forme che nelle antologie di Giolito, e in assoluto nel petrarchismo, sono minoritarie. Chiedendoci poi da quale opera estrarre questo sonetto, da quale opera di quale autore, dobbiamo riconoscere un debito più antico con Jean Balsamo, perché è nel suo libro sulle rencontres des muses che abbiamo trovato l’idea : l’analisi di un riuso resta comunque l’analisi di quella che, all’epoca, veniva definita come un’imitazione. E sappiamo tutti cosa presuppone la definizione di imitazione, quanti scritti teorici le sono stati consacrati, in Italia e in Francia; e a quali risorse, anche retoriche, si sono affidati i vari Bartolomeo Ricci, Celio Calcagnini, Joachim Du Bellay, Pierre Ronsard, per spiegare questa pratica fondamentale del Rinascimento – di un’epoca in cui qualcosa rinasce imitata – : conosciamo tutti l’immagine dei nani sulle spalle dei giganti, o quella delle api che si imbevono del polline per confezionare il miele e quant’altro sia stato addotto lungo il confine, flebilissimo, che viene tracciato fra imitazione e traduzione, fra imitazione e copia tradotta. Ma è nelle rencontres des muses che, personalmente, abbiamo trovato una buona idea per leggere il fenomeno, là dove viene introdotto, a proposito dell’imitazione, il termine di aporia. Balsamo spiega che i francesi del Cinquecento consideravano la letteratura italiana come un insieme atto a mettere in risalto, entro un rapporto di rivalità, le loro produzioni poetiche, e che questo modo di considerare la loro fonte, ridotta a una « réserve d’inventions », « résolvait toutes les apories de l’imitation ».3Da qui, da questa idea che ogni discorso sull’imitazione sia un discorso che torna indietro perché, appena avviatosi, trova che la strada (πορος) per procedere non c’è, da questa idea che imitazione sia evidentemente contraddizione, ma perché non ha espedienti, si morde la coda, percorre un vicolo cieco, ci è diventato chiaro che l’opera più rappresentativa per leggere un utilizzo di un componimento presente nelle antologie di Giolito era quella che era al centro dell’aporia, cioè lolive di Du Bellay, quella che prendeva su di sé ripetuti discorsi sull’imitazione, che tornavano indietro perché trovavano la strada chiusa. lolive è la prima opera poetica del Rinascimento francese che dichiara esplicitamente fra le sue fonti, in origine, nella prima prefazione, non solo Petrarca,4e Ariosto, ma anche, come ha sottolineato Balsamo, « d’autres modernes Italiens » :5è l’opera che coglie, cioè, quel valore di insieme compatto di contemporanei, che aveva così grande importanza per il curatore e per l’editore delle rime diverse. È l’opera che attinge, dichiarandolo, alla riserva di invenzioni petrarchiste contemporanee e che esce, però, provvista di un apparato teorico di supporto al suo attingere, con lo stesso privilegio, del 20 marzo 1549, della Deffence et illustration de la langue françoyse. lolive, infatti – primo canzoniere francese interamente composto di sonetti, petrarchesco nella finzione, petrarchista nel linguaggio, cantato in gloria di una donna il cui nome, olive, è anagrammabile in voile, perché alla poesia appartiene il velo di un’oscurità che solo l’amante, iniziato sul cammino della perfezione, può dissolvere –, era pronta per essere pubblicata, con tutta la sua carica di novità, come prodotto di un nobilissimo e nuovo labor d’artista, prima del marzo del 1549. Ma è noto come si fosse vista “superare” dall’elaborazione teorica di un letterato meno nuovo, meno moderno, Thomas Sébillet, che nel suo art poétique françois aveva da poco proposto6una pacata evoluzione poetica che facesse tesoro della tradizione francese già esistente e procedesse arricchendo la letteratura nazionale con traduzioni dei classici. Sébillet si inchinava a chi, come Hugues Salel traducendo l’iliade, si era adoperato a « rendre la pure et argentine invention dés Pöétes dorée et enrichie de notre langue ».7Nella necessità impellente di rivendicare la paternità di una poetica che si voleva depositaria del rinnovamento, Du Bellay fa dunque partire un primo discorso contro la traduzione, ed a favore dell’imitazione e della sua nobiltà : lo affida alle cento carte della deffence et illustration, che dovevano fungere da prefazione alle quaranta carte dell’olive, in uno scompenso quantitativo evidente. E, come è proprio di ogni discorso aporico, la sua teorizzazione di una pratica che prevedeva di « suyvre les vertuz d’un bon aucteur, et quasi comme se transformer en luy »,8gli torna indietro, alla fine dello stesso anno, nel 1549, dalla prefazione di Sébillet ad una sua traduzione dell’ifigenia di Euripide. « Ho tradotto », vi sostiene Sébillet, « e forse sono migliore io come traduttore, di colui che si vanta di aver trovato » (Sébillet usa « trouvé », ma è chiaro che sta pensando all’inventio, cioè a inventum, inventato) « ce qu’il a mot à mot traduit des autres ».9Riparte, quindi, il discorso di Du Bellay, mentre nel corso del 1550 si moltiplicano i discorsi di ritorno, da quello, violento, di Barthélémy Aneau a quello di Guillaume Des Autels, con la sua Replique aus furieuses deffences de louis meigret, in un contesto che può apparire di polemica, mentre è soltanto, come abbiamo detto, di aporia. Pubblicando, in ottobre, la seconda edizione dell’olive, Du Bellay ribadisce in una lunga prefazione la differenza fra il tradurre ed il suo reverente nutrirsi dei modelli. Ma, sprezzante nella certezza di non aver offeso, imitando, l’onore di nessuno, può vantarsi, lui, di avere alcune invenzioni altrui talmente impresse nella mente – nella « fantaisie », dice : nella sua facoltà di produzione poetica –, da sentirle “colare” nella sua penna con naturalezza e facilità :

Si, par la lecture des bons livres, je me suis imprimé quelques traictz en la fantaisie, qui après, venant à exposer mes petites conceptions selon les occasions qui m’en sont données, me coulent beaucoup plus facilement en la plume qu’ilz ne me reviennent en la memoire, doibt-on pour ceste raison les appeller pieces rapportées ?10

E, in questa certezza teorica, Du Bellay sa di poter alludere senza nominarlo a quel dialogo delle lingue di Sperone Speroni che gli aveva fornito quasi alla lettera gli argomenti di tutta la prima parte della sua deffence et illustration. Ovvero, anche nella certezza teorica, sa di stare imitando. La scelta dell’olive per l’analisi di un utilizzo di un componimento presente nelle antologie di Giolito è, allora, motivata dalla sua posizione centrale in mezzo alle strade chiuse di un discorso aporico ; ma anche dalla possibilità di disporre di un riferimento teorizzato, esplicito, alla naturalezza ed alla facilità con cui un sonetto italiano poté colare nella penna compositiva – “espositiva”, dice Du Bellay – di un sonetto francese : possediamo, per studiare, un riferimento d’autore alla naturalezza ed alla facilità con cui l’invenzione, la trama, i temi, le figure retoriche, le strutture metriche di un sonetto italiano hanno potuto “colare”, in tutto, in parte, in combinazione fra loro o con elementi di altri sonetti della raccolta, nella penna compositiva di un sonetto francese.

A questo punto, in un terzo momento della nostra riflessione, ci chiediamo quale sonetto scegliere dell’olive di Du Bellay. A partire dalle scoperte di Joseph Vianey, di Henri Chamard, di Robert Valentine Merrill, di Ernesta Caldarini, di Jo Ann Della Neva, molte sono le possibilità di analisi, non ultima quella cui abbiamo appena accennato, destinata a mettere in rilievo l’arte combinatoria di Du Bellay, capace di prelevare, per esempio, un’invenzione tematica da un sonetto di Bernardino Tomitano presente nel libro Secondo e di sovrapporla alla principale risorsa retorica di un sonetto Dincert[o] autor[e], sempre presente nel libro secondo, a cento carte – duecento pagine – di distanza. L’utilizzo dell’invito di Tomitano, rivolto alla donna del suo canto perché restituisca ai legittimi proprietari le sue qualità, dunque « L’alto, chiaro, immortal, vivo splendore » degli occhi al sole, « A Cipri bella il bel soave riso », « l’oro e le perle a l’Oriente »,11dà, sì, luogo, nei versi dell’olive al corrispondente invito a restituire

Al’orient tant de perles encloses,
Et au soleil ces beaux yeux, que j’adore.
[...]
[...] à l’amour tous ses traictz
Et à venus ses graces et attraictz.
(xci, 3-4 e 9-10)

Ma il tema nell’olive si sviluppa sulle note di una riuscitissima anafora dell’imperativo « Rendez », posto a inizio verso e a inzio emistichio dopo la cesura della quarta sillaba del decasillabo francese,

Rendez à l’or cete couleur, qui dore
Ces blonds blonds cheveux, rendez mil’ autres choses :
Al’orient tant de perles encloses
(xci, 1-3)

con la terzina conclusiva :

Rendez encor’ ce doulx nom à son arbre,
Ou aux rochers rendez ce coeur de marbre,
Et aux lions cet’ humble felonnie.
(xci, 12-14)

Anafora che Du Bellay attinge dal meno riuscito sonetto anonimo italiano :

Rendete al ciel le sue bellezze sole
Ele gratie, a le gratie [...].
[...]

Et rendete i pensier, e le parole
Ei sembianti, e gli sguardi, e ’l dolce riso,
Et tutti gli honor suoi al paradiso,
Eal sol rendete la beltà del sole.

Et rendete ad amor l’arco e lo strale ;
Et rendete lor prima libertade
De l’alme tolte ai miseri mortali.

Che s’ogni altrui rendete in questa etade,
Non resterà se non con mille mali
Altro di vostro in voi, che crudeltade.12

Al fine di dimostrare come la qualità, ma soprattutto lo spessore della fonte non pregiudichino per nulla l’esito francese, anzi lo mettano in risalto, fra le possibilità più opportune c’era quella di proporre qui l’analisi di un sonetto molto famoso dell’olive – uno dei tanti famosi dell’olive –, composto grazie all’utilizzo del sonetto di un petrarchista assolutamente minore nel paesaggio letterario italiano – uno dei moltissimi minori nel paesaggio letterario italiano –, dal nome di scarsa risonanza e magari presente nelle antologie del Giolito per motivi del tutto indipendenti dalle sue doti poetiche.13Per esempio, anche il sonetto più celebre in assoluto, il cxiii, il famoso « sonetto dell’Idea », studiato da Leo Spitzer e da Roman Jakobson e prodotto da Du Bellay grazie all’utilizzo di un buon sonetto di Bernardino Daniello, personaggio certo noto all’epoca, ma poeta « eccessivamente fiducioso degli strumenti della retorica »,14 e più importante per gli studiosi moderni di Dante e di Petrarca per i suoi commenti, che non nell’ampio panorama della letteratura italiana del Cinquecento. O ancora, sempre per esempio, un sonetto fondamentale come l’ultimo della seconda e definitiva olive, il cxv, che è il prodotto dell’utilizzo di un sonetto di Petronio Barbati in onore del grande Molza. Du Bellay ne riprende la trama interrogativa, girando a Ronsard la serie di domande di Barbati a Molza,15nientemeno che per chiudere circolarmente il progetto del suo canzoniere. Avviatosi con la celebrazione dell’olivo, sacro a Minerva e cantato perché possa essere, come recita il sonetto d’esordio, « Egal un jour au Laurier immortel » (1, 14), lolive è siglata da questo notissimo e basilare parallelo con la celebrazione del lauro, sacro ad Apollo ed assimilato a Laura, termine di confronto per misurare la propria pianta, destinata ad elevarsi « Jusq’à l’egal des Lauriers toujours verds » (cxv, 14) : come recita l’altro verso di chiusa, mentre la modesta prova di Petronio Barbati naturalmente cala, per contrasto, fino a scomparire.

Hanno prevalso, invece, per noi, altri criteri – e comunque le precedenti tentazioni di analisi dell’arte combinatoria di Du Bellay si sono ripresentate, e vedremo perché – e la nostra scelta è caduta sul celebre sonetto di Veronica Gambara sulla predestinazione, pubblicato da Ludovico Dolce e Fabio Benvoglienti nel libro secondo.16Ci è sembrato, cioè, più opportuno vedere il contrario di quanto esposto prima : ragionare sul riuso a fini “minori”, solo strettamente poetici, sul riuso soprattutto retorico di un sonetto italiano di grande spessore tematico, un sonetto di grande peso ed il cui inserimento nell’antologia poteva avere un senso nel quadro di uno sforzo di indipendenza culturale. Ci siamo trovate, cioè, in perfetta sintonia con la scelta operata da Balsamo nello studio che qui ci precede : la sua identificazione del sonetto sulla predestinazione quale testo rappresentativo dei modi della ricezione francese ci permette di allontanarci dai sonetti dei « rimatori legati con maggior rigidità al modello petrarchesco, ripetuto e rigenerato con ossessiva tenacia », per ragionare invece sul testo di un « rimatore » – di una rimatrice – « più disponibile ad allargare il perimetro della tradizione con cui dialogare »,17e di questo tipo di testo verificare il riuso nell’olive. Per vedere quanto resta, nell’olive, del grande peso di un testo, e perché Du Bellay utilizza, fra le centinaia, proprio un testo di grande peso, che qui riproduciamo :

de la s. veronica gambara

Scelse da tutta la futura gente
Gli eletti suoi l’alta bontà infinita
Predestinati a la futura vita
Sol per voler de la divina mente.

Questi tali poi chiama, e dolcemente
Seco gli unisce, et a ben far gl’invita,
Non per opra di lor saggia o gradita,
Ma per voler di lui troppo clemente ;

Chiamando gli fa giusti, e giusti poi
Gli essalta sì, ch’a l’unico suo figlio
Gli fa conformi, e poco men ch’eguali.

Qual dunque potrà mai danno o periglio
Ne l’ultimo de gl’altri estremi mali
Da christo separar gli eletti suoi ?18

È noto che questo sonetto si colloca alla conclusione di un lungo percorso di riflessione agostiniana e confessionalmente eclettica : si tratta di un’ultima trama di quel fitto tessuto di aperture eterodosse che aveva caratterizzato la cultura, e bresciana, e modenese, di Veronica Gambara. A noi basterà evocare rapidamente i diversi contesti entro cui poté attuarsi, durante la vita della Gambara, questa riflessione, dalle attenzioni che gli zii di Verola, il conte Nicolò Gambara e la moglie, Lucrezia Gonzaga di Novellara, avevano dedicato ai « moti di rinnovamento religioso e di riforma dei costumi ecclesiastici »,19strettamente a contatto con l’eremo agostiniano che si trovava vicino al loro feudo, fra Medole e Castelgoffredo, fino alle aperture culturali dell’ambiente animato dalla Gambara adulta e presto vedova, ovvero la corte di Correggio, con la sua Accademia, i suoi uomini di lettere della levatura di un Rinaldo Corso, e la sua vita religiosa, rappresentata tra l’altro dall’agostiniana suor Barbara, al secolo Isotta, figlia di Nicolò da Correggio, « nota per le lodi che di lei fa Ortensio Lando ».20 E di suor Barbara evochiamo soltanto rapidamente il ruolo di dedicataria della traduzione italiana della vorrede auff die epistel s. pauli an die römer (1522) di Lutero, la prefatione nella pistola di san paolo a’ romani, studiata nel dettaglio da Silvana Seidel Menchi, che la definisce, nonostante gli interventi censori, « un concentrato purissimo di teologia luterana, nel quale lo stato di legge e lo stato di grazia, la giustizia delle opere e la giustizia della fede vengono contrapposti in un’alternativa frontale e priva di sfumature ».21La prefatione nella Pistola di san paolo a’ romani esce a Venezia con lo pseudonimo « del cardinal Federico Fregoso », per Comin da Trino, nel 1545, ed immaginandola come un’ulteriore occasione alla riflessione eterodossa di Veronica Gambara, rende il sonetto sulla predestinazione, pubblicato nel 1547, un testo splendidamente recente, contemporaneo e urgente,22importante perché, oltre a tutto, oggetto privilegiato di correzioni editoriali per la ristampa del 1548 : corretto in più punti, ma soprattutto al terzo verso, dove « Predestinando » diventa « Predestinati », e al quarto, dove « Per voler sol » diventa « Sol per voler », per simmetria con la chiusura della quartina seguente. Un testo importante forse anche perché solitario, unico sonetto della Gambara pubblicato nel libro Secondo, come se fosse necessario anche se solo, chissà, eppure normalmente indistinto dagli altri da un punto di vista tipografico, quasi confuso nella massa sul verso di una carta, in una pagina di sinistra, dove comparivano due nomi di autore nelle usuali capitali basse : quello di Veronica Gambara, in testa al suo sonetto, e quello di Giulio Avogadro, in testa ai primi quattordici versi di un componimento più lungo che continua al recto seguente. È nota a tutti l’impaginazione delle raccolte liriche del Cinquecento : essendo occupate tutte le 30 righe tipograficamente a disposizione sulla pagina (un verso per giunta, meno “visibile”), non esistono spazi interlinea e i testi non hanno possibilità di risalto. Anche se è vero che il sonetto della Gambara ha, nel libro secondo, un risalto eccezionale altrove : nell’indice, perché è l’ultimo elencato, Veronica Gambara essendo sotto la v, con il suo incipit, Scelse da tutta la futura gente, che è l’ultima riga dell’indice e l’ultima riga stampata del libro, prima del registro, che è alla pagina successiva.23

Ma, ammesso che sia lecito porsi questi quesiti sull’aspetto esteriore del testo, come se potessimo immaginare cosa ha fatto Du Bellay, leggendo, sfogliando, prendendo appunti, con in mano le rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti, forse non possiamo ipotizzare che Du Bellay abbia scelto, nella massa, proprio il sonetto sulla predestinazione perché gli saltava all’occhio nell’indice del volume. Perché noi immaginiamo Du Bellay intento a leggere e rileggere e studiare le fonti italiane, ispirato dal suo labor d’artista, a « sudare » « nella sua camera », come « morto in se stesso », « sudare et agghiacciar più volte, et quando altri mangia et dorme a suo agio, patir fame et vegghiare »,24come scriveva Sperone Speroni in un celebre passo del suo dialogo, che Du Bellay utilizza nella deffence, scrivendo :

Qui veut voler par les mains et bouches des hommes, doit longuement demeurer en sa chambre : et qui desire vivre en la memoire de la posterité, doit comme mort en soymesmes suer et trembler maintesfois, et autant que notz poëtes courtizans boyvent, mangent et dorment à leur oyse, endurer de faim, de soif et de longues vigiles. ce sont les esles dont les ecriz des hommes volent au ciel.25

Dunque noi immaginiamo che Du Bellay abbia letto tutte le liriche, e deciso di utilizzarne alcune adatte al progetto del suo canzoniere, in base a motivi di volta in volta diversi o simili, in base a valutazioni tematiche, retoriche, metriche. Non possiamo pensare che guardasse l’indice e pescasse un po’ per intuizione a partire dall’incipit, un po’ guardando attorno nelle liriche delle pagine vicine alla pagina “pescata”, un po’ effettivamente leggendo e scegliendo in base a una cernita. Dobbiamo cercare una risposta più metodica alla scelta di Du Bellay di utilizzare il sonetto sulla predestinazione.

E, nella ricerca di questa risposta, ci troviamo ad avere almeno quattro antecedenti molto illustri : il primo è Robert Valentine Merrill, che in un articolo del 1945 metteva in luce in poche righe l’adesione della Gambara alla Lettera di San Paolo ai romani, 8, 28-29, e l’impronta neoplatonica, invece, del sonetto di Du Bellay, che con una chiara ripresa del fedro mitiga la forte dottrina paolina.26Il secondo è il lavoro di Ernesta Caldarini che, nel 1965, analizzando nuove fonti italiane dell’Olive, segnalava la fraseologia neoplatonica del sonetto e notava come il tono « più filosofico che religioso » di Du Bellay attenuasse l’argomento gambaresco, « troppo dibattuto e scottante ».27Il terzo antecedente che ci troviamo ad avere è il nostro compianto maestro Enea Balmas, che aveva rapidamente dato una sua chiave di lettura del sonetto di Du Bellay imitato dalla Gambara durante il convegno du bellay di Angers del maggio 1989, in un intervento emblematico, in cui si muoveva, serenissimo, sul proprio personale terreno, lui valdese e di stampo paolino in ogni suo gesto e pensiero e parola. L’intervento si intitolava la religion de du bellay ; la chiave di lettura che Balmas dà del sonetto sta nell’« occasione poetica straordinaria » rappresentata dal testo della Gambara, capace di infondere « un’emozione di natura religiosa » che Du Bellay non si lascia sfuggire, attenuandone l’audacia ;28e la tesi, moderna e saggia, caratteristica del pensiero di Balmas, è quella del sincretismo confessionale di quasi tutti i poeti della Pléiade. Il nostro quarto antecedente è lo studio di Balsamo che qui ci precede e che fa soprattutto leva sullo sviluppo di questo utilizzo in Desportes dopo Du Bellay.29

Di fronte a questi antecedenti, tutti esemplarmente miranti ad illustrare la resa in Du Bellay delle posizioni paoline della Gambara, proviamo a percorrere un’altra strada, parallela. Il sonetto in questione è il cxii dell’olive, il quart’ultimo :

Dedans le clos des occultes idées,
Au grand troupeau des ames immortelles
Le prevoyant a choisi les plus belles,
Pour estre à luy par luymesme guidées.

Lors peu à peu devers le ciel guindées
Dessus l’engin de leurs divines aeles
Vollent au seing des beautez eternelles,
Où elle’ sont de tout vice emondées.

Le juste seul ses eleuz justifie,
Les reanime en leur premiere vie,
Et à son filz les faict quasi egaulx.

Si donq’ le ciel est leur propre heritage,
Qui les poura frauder de leur partage
Au poinct qui est l’extreme de tous maulx ?

È un sonetto in decasillabi. La disposizione delle rime delle terzine, ccd eed, « justifie » « vie » « egaulx », « heritage » « partage » « maulx », è la più frequente in assoluto nel sonetto francese dell’epoca e la più frequente nell’olive.30Esiste un piccolo sistema di rime interne in cesura, non particolarmente importante, fra i primi due versi : « clos » « troupeau » ; fra il v. 6 ed il v. 7 : « Dessus l’engin » « Vollent au seing » ; e, in più, l’assonanza, sempre in cesura, fra il v. 12 ed il v. 14 « ci-el » « qui est ». L’unica cesura enjambante del testo è quella in –1 del v. 10, al centro della prima terzina : nel corso di un procedere metrico molto stabile, che si astiene dall’enjambement, si crea un’assonanza con le altre vicine rime in –1, « justifie » « vie » in fine verso (9-10), « reani[me] » « Filz » in cesura (10-11). Per cui, nell’ordine, si leggono quattro toniche in –1 consecutive (« justifie » « reani[me] » « vie » « Filz »), che senz’altro fanno slittare il ritmo, ma viene sciolta la forte costruzione di enjambements della fonte italiana, nella prima terzina del sonetto della Gambara, che, arricchita da ripetizioni e assonanze – « Chiamando gli fa giusti, e giusti poi / Gli essalta sì, ch’a l’unico suo figlio / Gli fa conformi, e poco men ch’eguali » – riproduceva con fedeltà quella che gli esegeti moderni chiamano l’analisi incalzante dei gesti di Dio, fatta da Paolo al versetto 30 della sua Lettera :

Quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati ; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati

nella nostra Bibbia Concordata ;

Ipredestinati egli chiamò, e i chiamati giustificò; e i giustificati glorificò

nella splendida traduzione di Carena, che può sempre servire ed illuminare ;31 e, nel latino che leggeva probabilmente Veronica Gambara, quello di una nota e diffusa aldina del 1542, con il commento di Alberto Utinense :

Quos autem praedestinavit, hos et vocavit : et quos vocavit, hos et iustificavit : quos autem iustificavit, istos et glorificavit.32

Le rime fisse, quelle delle quartine – a « Idées » « guidées » « guindées » « émondées »; e b « immortelles » « belles » « aeles » « eternelles » –, ci conducono invece più direttamente entro l’universo poetico dell’olive, dove la figura topica del volo si compone – viene « esposta » per usare le parole di Du Bellay – costantemente sulla base di questo lessico, anche se diversamente combinato. Un esempio della rima a potrebbe essere, fra i molti, quello del sonetto lviii, dove si legge :

De mon esprit les aesles sont guidées
Jusques au seing des plus haultes idées
(lviii, 9-10)

mentre qui è « au seing des beautez eternelles » che volano, le anime, « Dessus l’engin de leurs divines aeles ». Il volo è, certo, quello del poeta, capace di parlare il linguaggio superiore delle figure, eletto perché toccato da quel delirio di ispirazione divina raccontato dal fedro che lo sottrae, lo astrae dal mondo volgare, lo purifica, lo « e-monde » (il verbo è al v. 8), lo toglie dal mondo, lo monda dal vizio di quello che, nel sonetto cxiv, viene chiamato con allusione oraziana « ce faulx peuple ignorant » (cxiv, 2), il profanum vulgus della prima ode del terzo libro di Orazio.33Ma è figura, il volo, sempre composta concretamente, in Du Bellay, che la accompagna con la presenza strumentale dell’ala, l’ala o penna per volare e scrivere, la penna oraziana, non usitata penna,34 ma anche dantesca, e soprattutto petrarchesca : la « penna d’ingegno » che permette la composizione fonica dell’« engin de leurs [...] ailes », poiché è chiaro che le associazioni si fanno entro i confini di un linguaggio già collaudato.35Ed è figura sempre inequivocabilmente posta ad ornamento della poesia, della propria poesia, dei propri versi, sfruttando l’allitterazione « vol » « vous » « vers » « voler » « vos ailes ». Questa allitterazione si presenta in molte occorrenze a partire dal sessantunesimo sonetto dell’olive, dunque solo nel secondo momento della produzione lirica di Du Bellay (la produzione della prima olive è contenuta entro il sonetto lix). La inaugura l’invito rivolto ai propri versi perché portino in volo l’olivo :

Allez, mes vers, portez dessus voz aeles
Les sainctz rameaux de ma plante divine.
(lxi, 1-2)

E continua, nelle puntate successive di una storia che prende progressivamente contorni più precisi, attribuendo ai versi del proprio canzoniere un volo eterno, « sempiternel » :

Sus donc, mes vers, d’un vol sempiternel
Portez mes voeux en son temple eternel.
(cvii, 6-7)

Fino ad arrivare all’unicità sacrale del volo di versi sciolti, nel famoso cxiv, all’unicità di « vers delivres », dotati della suprema leggerezza di un’ala senza rima, « inusitée » :

Et vous, mes vers, delivres et legers,
Pour mieulx atteindre aux celestes beautez
Courez par l’air d’une aele inusitée
(cxiv, 12-14)

dove non solo l’allitterazione « Et vous, [...] vers » si arricchisce con il gioco di metatesi di « vers, delivres » (ver- / -vre-), ma viene data un’identità alla guida alata del loro volo, guida sempre in assonanza consonantica con la –v– poiché colui che tiene, che dirige il volo – « O toy qui tiens le vol de mon esprit » – è l’« Aveugle oiseau », Amore, il dio bendato che già la tradizione ellenistica aveva rappresentato sotto le spoglie di un uccello :

Otoy, qui tiens le vol de mon esprit,
Aveugle oiseau, dessile un peu tes yeux,
Pour mieulx tracer l’obscur chemin des nues.
(cxiv, 9-11)

Alla storia, all’economia narrativa dell’olive era dunque necessaria la figura di una guida, veggente attraverso l’oscurità o preveggente, come nel sonetto cxii « Le Prevoyant » (cxii, 3), capace di discernere entro lo spazio chiuso e oscuro dove dimorano le Idee che, una volta scese, dovranno verso l’alto essere di nuovo « guidées » e « guindées ». E la predestinazione che Du Bellay trova nell’antologia del Giolito è più un modo di preveggenza, dunque di guida all’elevazione, che non il presupposto di una fede religiosa. Appartiene più a una storia poetica che a una storia confessionale.

Del resto è sempre a questa allitterazione di « vous » « vers » « vol » che sono legati gli esempi della rima b che potremmo fare, a partire proprio dalla seconda quartina di quel sonetto lxi che apre la storia di un volo e di un lessico poetico, là dove il poeta si rivolge ancora ai suoi versi : « De vostre vol » – dice – « les bornes seront telles » (lxi, 5 e anche la rima b di cxii è -elles),

Que dès l’aurore, où le soleil decline,
Je voy desja le monde qui s’incline
Ala beauté des beautez immortelles.
(lxi, 6-8)

Questa storia e questa rima continueranno poi, anche molto oltre lolive, se è vero che in un contesto diverso, nel 1558, si può ritrovare, con lo stesso lessico ed un altro senso, la stessa rima b delle quartine – al singolare invece che al plurale – nel celebre sonetto dei regrets in onore di Caterina de’ Medici, dove Du Bellay invoca topicamente la sua Musa :

Muse, qui autrefois chantas la verde olive,
Empenne tes deux flancs d’une plume nouvelle,
Et te guindant au ciel aveques plus haulte aile,
Vole où est d’apollon la belle plante vive.

Laisse (mon cher souci) la paternelle rive,
Et portant desormais une charge plus belle,
Adore ce hault nom, dont la gloire immortelle
De nostre pole artiq’ à l’autre pole arrive.36

Con questa rima, di « belle » « immortelle » dei regrets, e di « telles » « beautez immortelles » del sonetto lxi dell’olive, sono qualificate, nel sonetto cxii, come immortali le anime, « ames immortelles », fra le quali Colui che vede ha scelto « les plus belles » (cxii, 3). E da questo superlativo molto compromettente possiamo avviarci alla nostra conclusione.

È un superlativo compromettente perché qualifica le anime immortali scelte, rispetto alle anime immortali non scelte, con la superiorità di una loro qualità : la preveggenza divina le ha scelte, saranno guidate, elevate, purificate dal vizio del mondo, ma per un loro merito – merito di prima bellezza –, che le allontana drasticamente da tutta quella « futura gente » di un discorso paolino, dove Dio sceglieva in un atto di sua liberissima volontà. Come se non bastasse, nella seconda quartina, sempre al terzo verso (dunque al v. 7), dove il superlativo « les plus belles » si compie, si attua nella sua sostanza, si conclude nel sostantivo-madre « beautez » con il suo qualificativo in rima – « au seing des beautez eternelles » –, il verbo è la terza persona plurale attiva « Vollent ». Al terzo verso delle due quartine, Du Bellay attribuisce alle anime elette prima un merito, poi la funzione di soggetto del verbo, come non è, né sarebbe stato pensabile in Veronica Gambara, né tanto meno in Paolo, dove l’unico soggetto possibile di un verbo in forma attiva è Dio : « Quos ... praedestinavit, hos et vocavit : et quos vocavit, hos et iustificavit : quos autem iustificavit, istos et glorificavit ».

Dunque il sonetto di Du Bellay – ma questo lo sapevamo già – non è un sonetto di tematica paolina.

Ma l’oggetto della scelta di Dio, nella sua fonte italiana, erano, con la caratteristica tautologia calvinista che riproduce la libertà della scelta, « Gli eletti ». Dio sceglie gli eletti : « Gli eletti » del v. 2 e del v. 14 della Gambara, estratti « da tutta la futura gente ». Utilizzando la trama di questa scelta, Du Bellay costruisce una storia diversa, dove al singolare collettivo « gente » si sostituisce un altro singolare collettivo, il « troupeau des ames » del v. 2, ed al plurale « eletti » si sostituisce un plurale implicito nelle quartine, chiarissimo, certo, sottinteso per la prima volta nel superlativo che abbiamo appena analizzato, « les plus belles » : sono evidentemente le anime, « [les âmes] les plus belles », ma non hanno un nome diverso da quelle, non scelte, che facevano parte del « troupeau ». Sono « guidées », poi « guindées », hanno ali con un possessivo « leurs divines aeles », volano come soggetti attivi, hanno un loro pronome « elle’ » al v. 8. Si esplicitano in un maschile plurale che sembrerebbe una traduzione della fonte italiana al v. 9 in « eleuz », ma per riprendere immediatamente il loro nome di partenza grazie all’azione del verbo spezzato dalla cesura enjambante del v. 10 « Les reanime » : che ci fa capire come « eleuz » in Du Bellay sia più un participio passato del verbo élire, che un participio sostantivato con tutto il valore che ne consegue da un punto di vista religioso. Coloro che sono stati eletti, in Du Bellay, sono coloro che, una volta arrivati alla loro sostanza-madre, la bellezza eterna, si vedono restituire dal Giusto la loro prima anima : « Le Juste [...]/ Les reanime en leur premiere vie ». Sono anime ricomposte, anime cui viene reso uno stato di cui avevano goduto, prima di scendere qui, per risalire in cielo poi. In un contesto neoplatonico, certo. È, cioè, la storia delle anime platoniche che Du Bellay segue. Ma, come non è religiosa, la sua tematica non è nemmeno filosofica : è una tematica strettamente poetica.

Ammettiamo che non fosse da scartare del tutto l’ipotesi, un po’ irriverente, di un lavoro non metodico di Du Bellay sul volume delle rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti. Ammettiamo per un momento che egli potesse usare il libro come uno strumento e che, usandolo come strumento, partisse davvero dall’indice per decidere cosa leggere, dove attingere. Dunque ammettiamo che il sonetto della Gambara gli sia palesemente saltato agli occhi per la sua posizione in explicit, o anche no, è lo stesso : ma proviamo a immaginare Du Bellay mentre scorre l’indice come si scorre un incipitario, perché tale è, e che usi questo incipitario come uno splendido rimario già pronto di tutte le rime a delle sue quartine. Immaginiamo che Du Bellay legga il sonetto della Gambara scelse da tutta la futura gente, che poi torni all’indice e lo scorra cercando possibili utilizzi atti a combinarsi con il sonetto appena letto. E, scorrendo, gli si ferma evidentemente il dito sul sonetto di Felice Figliucci nel lor principio eterno fisse e intente : gli si ferma il dito, perché è la stessa rima. Immaginiamo allora che vada a leggerlo. Quello che leggerà, sarà :

Nel lor principio eterno fisse e intente
(del lor chiaro veder ben degno obietto)
Le sante alme, con puro alto intelletto,
Godono il bel de la divina mente.

Io tutto acceso d’un desire ardente,
Rivolto al sommo e primo sol perfetto,
Del ver, bramo le imagin dentro al petto
Raccender pur, da lungo oblio già spente.

Ma l’inferma virtute abbaglia, e offende
L’infinito splendor, l’immensa luce,
Che qua giù male humano occhio comprende.

Ond’io risguardo in voi, dove riluce
Sì il divin raggio, e tal si vede, e intende,
Ch’indi in ciel tosto ogni pensier conduce.37

Sarà facile immaginarlo mentre intinge nell’inchiostro la sua penna, l’ala del suo ingegno, e mentre scrive un sonetto dalla trama neoplatonica, certo senza conoscere la traduzione del fedro di Felice Figliucci, né quella che Figliucci, per Giolito de Ferrari, aveva appena fatto di Ficino. Senza sapere chi sia Figliucci, dato che Du Bellay aveva le sue, di fonti neoplatoniche. Ma non è forse esattissimo dire, allora, che Du Bellay mitiga la dottrina paolina, che la mescola con la filosofia. Paolo, Platone, Agostino, Calvino e Ficino hanno meno importanza per lui della sua poesia. O contano tutti allo stesso modo quando si tratta di produrre poesia : intesa come ricerca, ricerca laboriosa di un linguaggio, ricerca artisticamente chinata sulle forme e le figure di un linguaggio già fatto, quello dei sonetti italiani, materia non prima, perché la prima era il francese, ma immediatamente seconda, sì, al suo elevarsi dal linguaggio comune.

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1  Jean Balsamo, Les poètes français et les anthologies lyriques italiennes, in questa stessa rivista.

2  A proposito dell’invenzione del genere delle antologie, si vedano i lavori di Franco Tomasi, che costituiscono il supporto della nostra analisi : Introduzione, in Rime diverse di molti eccellentissimi autori (Giolito 1545), a cura di F. Tomasi e P. Zaja, San Mauro Torinese, Edizioni RES, 2001, pp. v-xlviii ; e Alcuni aspetti delle antologie liriche del secondo Cinquecento, in « I più vaghi e i più soavi fiori ». Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, a cura di M. Bianco e E. Strada, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, pp. 77-111.

3  J. Balsamo, Les rencontres des Muses. Italianisme et anti-italianisme dans les Lettres françaises de la fin du XVIe siècle, Genève-Paris, Slatkine, 1992, p. 195.

4  L’Olive è l’opera che contiene celeberrime imitazioni come ad esempio Seul et pensif par la deserte plaine (sonetto lxxiv) o Zephire soufle, et sa Dame ramène (sonetto lxxxix).

5  Joachim Du Bellay, L’Olive, éd. Ernesta Caldarini, Genève, Droz, 1974, p. 169 : « Appendice : Préface de 1549 ».

6  Nel 1548 : testo di successo, l’Art poétique François. Pour l’instruction des jeunes studieus, et encor peu avancez en la Poésie Françoise era uscito con un privilegio del 25 giugno 1548 presso Arnoul L’Angelier e Gilles Corrozet. Si veda l’edizione di Félix Gaiffe aggiornata da Francis Goyet, Paris, S.T.F.M., 1988.

7  Thomas Sébillet, Art poétique françois, II, xiv : « De la Version », éd. F. Gaiffe-F. Goyet cit., p. 188.

8  Joachim Du Bellay, Deffence et illustration de la langue françoyse, I, viii, éd. Henri Chamard, introduite par Jean Vignes, Paris, S.T.F.M., 2000, p. 46.

9  Il passo è notissimo e veniva citato anche da Félix Gaiffe nella nota di commento al passo dell’Art Poétique françois sul valore della traduzione (p. 188 nota) : « Si la langue Françoise n’est illustrée par la version dés poëmes, on ne s’en doit attachér à moy qui n’en suy illustrateur ne gagé ne renommé. Si je fay moins pour moy en traduisant anciëns auteurs qu’en cherchant inventions nouvelles, je ne suy toutefois tant à reprendre que celuy qui se vante d’avoir trouvé ce qu’il a mot à mot traduit des autres », Thomas Sébillet, Préface, a L’Iphigene d’Euripide poete tragiq : tourné de Grec en Francois par l’Auteur de l’Art poëtique (1549), (in Bernard Weinberg, Critical Prefaces of the french Renaissance, Evanston Ill., Northwestern Un. Press, 1950, p. 143).

10  Du Bellay, L’Olive, éd. Caldarini cit., pp. 49-50 : « Au Lecteur ».

11  Delle Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti nella lingua thoscana. Nuovamente ristampate, Libro Secondo, Venezia, Giolito, 1548, c. 39v (è noto che la prima edizione di questo Libro Secondo esce nel 1547, ma diremo più avanti le ragioni della nostra scelta di basarci sul testo del 1548).

12  Delle Rime di diversi nobili huomini, 1548, c. 133r.

13  Franco Tomasi spiega bene nei suoi lavori quali fossero i criteri di raccolta dei testi (di raccolta : inizialmente, almeno, nei volumi degli anni 1545-1549, non tanto e comunque non solo di vera selezione entro un materiale non sempre abbondante) da parte dei curatori delle antologie : fra questi criteri la fitta rete di amicizie e di interessi sociali svolgeva un ruolo determinante, portando alla pubblicazione di poeti anche dilettanti, ma in modi diversi, per diversi motivi, legati ai curatori dei volumi (cfr. F. Tomasi, Introduzione cit., passim ; e Alcuni aspetti delle antologie cit., pp. 79-81).

14  Paolo Zaja, Schede biografiche, in Rime diverse cit., p. 425.

15  M. Petronio Barbati, « Chi vi diè penne a guisa di colomba [...] ? / Chi vi mostrò la via, donde si monte [...] ? », Delle Rime di diversi nobili huomini, 1548, c. 148v ; cfr. Du Bellay « Quel cigne encor’ des cignes le plus beau / Te prêta l’aele ? et quel vent jusq’aux cieulx / Te balança le vol audacieux [...] ? » sonetto di chiusa dell’Olive, cxv, 1-3 (éd. Caldarini cit., p. 165).

16  Sull’identificazione dei probabili curatori delle Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti nella lingua thoscana. Libro Secondo (Venezia, Gabriel Giolito, 1547 ; poi : Delle Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti nella lingua thoscana. Nuovamente ristampate, Libro Secondo, 1548), si veda Tomasi, Alcuni aspetti delle antologie cit., pp. 84-85.

17  Tomasi, Introduzione cit., p. xlii.

18  Delle Rime di diversi nobili huomini, 1548, c. 112v, già in Rime di diversi nobili huomini, 1547, c. 113v, con varianti ; ora in Veronica Gambara, Le Rime, a cura di A. Bullock, Firenze-Perth, Olschki, 1995, pp. 157-58 (n. 57). Indichiamo le principali varianti : Rime di diversi 1547 v. 3 « Predestinando » ; Rime di diversi 1547 v. 4 « Per voler sol » ; Codice di Foligno v. 8 « Ma per grazia di Lui » ; Codice di Foligno v. 9 « Chiamati gli fa giusti » ; Codice di Foligno v. 14 « separar i santi suoi ».

19  Ennio Sandal, Casa gambaresca, i libri, la tipografia, in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale. Atti del Convegno (Brescia-Correggio, 17-19 ottobre 1985), a cura di C. Bozzetti, P. Gibellini, E. Sandal, Firenze, Olschki, 1989, pp. 59-77, p. 68. Si confronti comunque tutto l’interessante studio, dove si ricorda anche che il conte Nicolò, non possedendo dimora a Brescia, durante i suoi soggiorni in città alloggiava presso il fratello Gian Francesco, padre di Veronica.

20  Silvana Seidel Menchi, Le traduzioni italiane di Lutero nella prima metà del Cinquecento, « Rinascimento », XVII (1977), pp. 31-108, p. 87 e cfr. Alberto Ghidini, La contea di Correggio ai tempi di Veronica Gambara, in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo cit., pp. 79-98.

21  Seidel Menchi, Le traduzioni italiane di Lutero cit., p. 85.

22  Cfr. Tomasi, Introduzione cit., p. vii, dove spiega che « nella lettura » delle antologie « non va ricercato un razionale e coerente disegno del petrarchismo, quanto piuttosto una generica idea dell’urgenza del contemporaneo, sempre controbilanciata dall’episodicità delle scelte commerciali ».

23  Per tutte queste notizie ci riferiamo alla ristampa del 1548 delle Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti nella lingua thoscana, edizione più probabilmente utilizzata da Du Bellay poiché più diffusa in Francia e passata, come ha ricordato Balsamo, dalle mani di Ronsard. Cfr. Raymond Lebègue, Un volume de vers italiens annotés par Ronsard, « Bulletin du Bibliophile », 1951, pp. 273-80, che nota, fra il resto, come il Libro Secondo sia molto meno annotato da Ronsard rispetto al primo (solo otto note manoscritte) e da cui ricaviamo che non solo non è annotato il sonetto della Gambara a c. 112v, ma che nessun segno è stato fatto fra c. 97r e c. 133r.

24  Sperone Speroni, Dialogo delle lingue (testo dei Dialogi di Messer Speron Speroni, Venezia, in casa de’ figliuoli di Aldo, 1542), in appendice a Pierre Villey, Les sources italiennes de la « Deffense et Illustration de la langue françoise » de Joachim Du Bellay, Paris, Champion, 1969, p. 132.

25  Du Bellay, Deffence et illustration de la langue françoyse, II, iii, éd. H. Chamard-J. Vignes cit., pp. 105-106.

26  R. V. Merrill, Du Bellay’s Olive cxii and the Rime diverse, « Modern Language Notes », LX (1945), pp. 527-30 (« The stark doctrine of Saint Paul and the Italian poetess »).

27  E. Caldarini, Nuove fonti italiane dell’Olive, « Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance », XXVII (1965), pp. 1-40, ora in Percorsi critici, a cura di Nerina Clerici Balmas, Fasano, Schena, 1991, pp. 93-146 (qui in particolare pp. 121 e 123).

28  E. Balmas, La religion de Du Bellay, in Du Bellay. Actes du Colloque International d’Angers (1989), textes réunis par Georges Cesbron, Angers, Presses de l’Université d’Angers, 1990, p. 71 : « Il est évident que, devant les hardiesses de la poétesse italienne, Du Bellay recule et se réfugie dans une demi-obscurité de concepts et de langage, qui rend impossible de le cerner de très près : la donnée essentielle, pourtant, est sauvegardée (“Le Juste seul ses eleuz justifie”), mais les précisions embarassantes sont passées sous silence, sans qu’on empêche pour autant le lecteur, s’il vaut bien s’en donner la peine, de tirer les conséquences qui s’imposent. Pourquoi la traduit-il, alors, cette pièce embarassante ? Évidemment parce que l’émotion de nature religieuse qui jaillit de ces vers le touche au plus profond, parce qu’il y reconnaît une “occasion” poétique extraordinaire, dont il participe, et qu’il veut faire partager ».

29  Ma la riflessione sul sonetto di Desportes appartiene ad un più ampio lavoro, che Balsamo sta conducendo su questo poeta da un certo numero di anni. Cfr. fra il resto J. Balsamo, La composition des Sonnets spirituels de Desportes (1575-1603), in Le poète et son oeuvre à la Renaissance. De la composition à la publication. Actes du Colloque de Valenciennes (20-21 mai 1999), sous la dir. de J.-E. Girot, in corso di stampa.

30  Quarantuno dei sessantacinque sonetti della seconda Olive presentano questa disposizione, che ricorre per ben 79 volte nella Laure d’Avignon (Paris, Jacques Gazeau, 1548) di Vasquin Philieul : si vedano lo studio di base, per quanto datato, di René Jasinski, Histoire du sonnet en France (Douai, 1903), Ginevra, Slatkine, 1970, p. 51 ; l’introduzione di P. Lartigue e J. Roubaud alla riproduzione della Laure d’Avignon, Paris, Actes Sud-Papiers, 1987 ; e, più in generale, Balsamo, Les rencontres des Muses cit., pp. 197-224.

31  San Paolo, Le Lettere, 8, 30, testo a fronte, a cura di Carlo Carena, con uno scritto di Mario Luzi, Torino, Einaudi, 1999, p. 31.

32  Alberto Utinense Episcopo Clodi[c]ense, Commentarii in Epistolas Pauli, ad Romanos, et ad Galatas, Venezia, Aldo, 1542, c. 71v.

33  Cfr. Orazio, Carminum liber III, 1, 1-4.

34  Cfr. Orazio, Carminum liber II, xx, 1-2.

35  Fra le occorrenze del luogo comune, abbiamo naturalmente pensato alla chiusa della Divina Commedia (Paradiso 33, 137-39 : « veder volea come si convenne / l’imago al cerchio e come vi s’indova ; / ma non eran da ciò le proprie penne »), ma soprattutto, entro il contesto di riferimento di Du Bellay, alla « penna d’ingegno » (che qui abbiamo sottolineato, come « engin») del sonetto petrarchesco I’ pensava assai destro esser su l’ale : « Mai non poria volar penna d’ingegno, / nonché stil grave o lingua, ove Natura / volò, tessendo il mio dolce ritegno » (Rvf. 307, 9-11).

36  Joachim Du Bellay, Les Regrets, clxxi, 1-8, éd. H. Chamard (1909)-H. Weber-Y. Bellenger, Paris, S.T.F.M., 2000, p. 188.

37  Delle Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti, 1548, c. 115v.