Revue Italique

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Sonetti « fratelli ». Caro, Venier, Tasso

Agostino Casu

Ai margini della tradizione a stampa della lirica di Torquato Tasso, l’appendice di « rime parte burlesche & parte gravi » situata a colmatura, variabile nella diacronia, delle edizioni cinquecentesche delle rime piacevolidel Caporali e del Mauro (sempre associate al canzoniere dell’altro perugino Filippo Alberti) costituisce uno sviluppo singolare, o si dica patologico, del libro di poesia rinascimentale. 1Lo scrutinio di tali insiemi aleatorî può tuttavia rivelarsi, come qui si intende mostrare, non privo di qualche interesse euristico, e favorire la restituzione di frammenti magari preziosi, e altrimenti dispersi, del milieu e della stessa storia interna della poesia tassiana.

Entro tale tradizione « dispersa » conviene distinguere tre fasi principali : (a) nella prima, corrispondente al raccolto d’alcune piacevoli rime, Parma, Eredi di Seth Viotti, 1582 (P82), ed alle rime piacevoli, Parma, s. e. (ma Viotti), 1584 (P84), la sezione miscellanea si fregia di una sola trouvaille tassiana, ovvero il sonetto tolse barbara gente il pregio a roma (541), a Barbara Sanseverina ; 2 (b) nella seconda, rappresentata dalla stampa milanese delle rime piacevoli, Pietro Trini, 1585 (M85), al sonetto 582, descriptus dalle precedenti edizioni come gran parte delle altre rime di vari, se ne aggiungono altri tre dislocati nella sezione finale della raccolta : ossia la vincitrice e gloriosa ispagna (952), come il nocchier da gl’infiammati lampi (92), la bella e vaga man che le sonore (862) ; (c) una terza fase, infine, procede dalla fortunatissima quarta impressione ferrarese delle rime piacevoli (F86), con addizione tassiana di quarantacinque testi, data in luce nel 1586 da Vittorio Baldini, che già nel 1582 aveva stampato, per gli uffici di Giovan Battista Guarini, una scielta delle rime del sig. torquato tasso, 3 mai avallata dall’autore. 4 Ora, nell’ambito della fase (a), la seconda stampa Viotti (P84) si distingue per la presenza, accanto all’unicum tassiano, di una costellazione di testi alludente con singolare limpidezza (che già si perde, per soppressioni o dislocazioni, al livello di (F86) ad una fonte ferrarese immediatamente riconducibile al circolo del poeta. Vi si ritrovano, nell’ordine, i nomi di Giovan Battista Strozzi, con due sonetti (pp. 134-35) ; di Carlo Coccapani (pp. 220-21, tre sonetti) ; di Giovan Battista Guarini (pp. 221-22, due sonetti) ; di Ercole Varano (p. 259, un sonetto), esponente dell’Accademia Ferrarese e dedicatario di uno dei testi-chiave delle rime chigiane del Tasso, mentre non anco il porto è a te sparito, sonetto di resipiscenza che prepara la conclusione della prima parte del canzoniere amoroso ; 5 ma anche, ed è quel che più interessa, due sonetti altrimenti ignoti di Stefano Santini, tosto ch’in voi, mio sol, questi occhi torsi e sì che morto in me stesso, in voi sol vissi (pp. 221-22) : e il primo sonetto del Coccapani, tosto ch’a gli occhi miei, donna, s’offerse, è una puntuale riscrittura del primo di essi.

Il nome di Stefano Santini (insieme a quello di Sperone Speroni, rappresentato in P84da un sonetto, nuova aurora d’amore in sulla sera, su cui occorrerà ritornare) eccede l’ambito (e l’epoca) ferrarese, rinviando inequivocabilmente al primo tempo dell’esperienza lirica tassiana. Compagno di studi di Torquato fin dagli anni bolognesi, quindi allievo con lui dello Studio patavino, il Santini, originario di Guastalla, si era precocemente accreditato presso la corte di Mantova : membro dell’Accademia degli Invaghiti, partecipava con la canzone alma gentil, che dal bel nodo sciolta alla silloge in morte del cardinale Ercole Gonzaga 6 (alla quale doveva essere destinato anche l’epicedio composto dal Tasso, ossia la canzone 517 già s’era intorno la novella udita e il sonetto 518 quanto lo scettro e l’onorata spada), e con una corona di otto sonetti alle rime di diversi per Lucrezia Gonzaga. 7 Il primo gennaio 1564, l’anno della morte, il Santini teneva l’orazione inaugurale dell’Accademia degli Eterei, stabilita in Padova presso la dimora di Scipione Gonzaga, nipote di Ercole (oratio pro aethereorum academiae initio, venezia, Bevilacqua, 1564) ; 8 e una lettera di recente rinvenimento (Mantova, Biblioteca Comunale, cod. H. IV. 8) ne pone ulteriormente in luce il ruolo privilegiato quale intermediario tra i cenacoli letterari di Mantova e Padova. 9

nel 1567 dodici suoi sonetti, due canzoni e sei ottave liriche in acrostico apparivano postume nella stampa delle rime de gli academici eterei, contenente anche, com’è noto, la prima forma del canzoniere tassiano. 10 Né si esclude che proprio al Tasso sia da attribuire una qualche cura delle rime dell’amico scomparso ; certo fu lui a pronunciarne l’elogio funebre in Accademia (conservatoci, mutilo, nel ms. II. 37 dell’Ariostea di Ferrara), 11 e non è affatto improbabile, come già voleva il Solerti, 12 che proprio in questa occasione componesse i sette sonetti obituari (519-525) conservati in unico nel manoscritto bolognese I4, autorevole testimone della fase più alta della produzione tassiana. 13 All’interno della silloge accademica il tombeau del Santini sarà elevato, nella forma di un dittico di sonetti, da Giovan Battista Guarini. 14

i testi trasmessi da P84sono insomma un caso di rime rifiutate, come si addice al loro spiccato carattere di esercizio formale :

Tosto ch’in voi, mio sol, questi occhi torsi
non prima usi a mirar forme celesti,
dal divino splendore in me fur desti
pensieri ; onde d’amar, lasso, m’accorsi.

Tentò nel primo assalto il cor d’opporsi
d’amor temendo i colpi aspri et infesti ;
ma ogni schermo lasciò, poi che i modesti
alti costumi, e ’l parlar saggio scorsi.

Et meco altier : – con ch’altra scorta – dissi –
poss’io, che di sì chiara e viva luce,
al ciel da terra più sicuro alzarmi ? –

Così a voi mi donai ; voi per mio duce
elessi ; in voi sentii tutto mutarmi ;
sì che morto in me stesso, in voi sol vissi.

sì che morto in me stesso, in voi sol vissi,
poi ch’al benigno ciel piacque mostrarmi
ogni sua gloria in voi sol per bearmi,
et perché ’l sommo ben qua giù sentissi.

ché se dal dì, ch’in voi quest’alma unissi,
giamai d’essa godei privo trovarmi,
godone or più, ch’in lei più chiaro parmi
scorger d’alti pensier profondi abissi ;

onde non fia che più ’l desir m’inforsi
o mi svii dal camin ch’a dio m’adduce,
pur che ’l bel vostro lume amor mi presti,

tanto l’eterna parte in me riluce :
sì a lei furo i miei sensi humili et presti
tosto ch’in voi, mio sol, questi occhi torsi.

le due valve del dittico sono incardinate su un duplice artificio metrico : identità tra l’explicit del primo sonetto e l’incipit del secondo, mentre la chiusa di questo ripete circolarmente il capoverso di quello ; ripresa delle rime del primo sonetto nel secondo giusta la legge di rotazione abba abba cde dec → ceec ceec adb dba. La qualità delle desinenze (segnatamente issi e orsi) individua con certezza l’archetipo, e si tratta di una terna di sonetti del Caro :

Donna, qual mi fess’io, qual mi sentissi
quando primier in voi questi occhi apersi
ridir non so : ma i vostri io non soffersi,
ancor che di mirar a pena ardissi.

ben gli tenn’io nel bianco avorio fissi
di quella mano, a cui me stesso offersi,
et nel candido seno, ove gl’immersi :
et gran cose nel cor tacendo dissi.

arsi, alsi, osai, temei : speme e diletto
presi di voi ; spregiai, posi in oblio
tutte l’altre ch’io vidi prima e poi.

con ogni senso amor, con ogni affetto
mi fece vostro, e tal ch’io non desio
e non penso e non sono altro che voi.

in voi mi trasformai, di voi mi vissi
dal dì che pria vi scorsi ; e vostri fêrsi
i miei pensieri, et non da me diversi,
sì vosco ogni atto, ogni potentia unissi.

tal per desio di voi da me partissi
il cor, c’hebbe per gioia anco il dolersi ;
fin che non piacque a’ miei fati perversi
che da voi lunge et da me stesso gissi.

hor, lasso, e di me privo e de l’aspetto
vostro, come son voi ? dove son io ?
solingo, et cieco, et fuor d’ambeduo noi !

come sol col pensar s’empie il difetto
di voi, di me, del doppio exilio mio ?
gran miracoli, amor, son pur i tuoi !

miracoli d’amor : in due mi scissi
quand’un mi fei ; di maggior luce aspersi
veggio occulti i begli occhi, ch’a vedersi
spargono i miei di tenebrosi ecclissi.

odo un silentio, a cui par non udissi
dolce harmonia ; coi passi a voi conversi
a me ritorno : et là ’v’io gli dispersi,
tengo i miei sensi unitamente affissi.

fuor del mio, desiderando altro ricetto
vo sempre, et mai non giungo, et se travio
non è sì bel sentier che non m’annoi.

hor chi vide mai tante in un soggetto
contrarie meraviglie ? alato dio,
quanto in virtù de la mia donna puoi ! 15

le stesse rime occorrono qui tre volte nel medesimo ordine ; a differenza che in Santini, il rapporto di coblas capfinidas non comporta piena identità tra explicit e incipit successivo, né si ha identità tra primo e ultimo verso della serie : elementi invece obbligatori nel genere contiguo della corona di sonetti, 16 tutt’altro che estraneo, si è visto, alle preferenze metriche del Santini.

In una lettera al Varchi risalente alla metà degli anni Trenta, il Caro dichiarava che i tre sonetti erano « fatti ad imitazione dei tre fratelli del petrarca » (ossia rvf. 41-43, dove però l’identità delle rime è variata secondo una retrogradatio interna alle quartine e ai terzetti, abba abba cdc dcd → Baab baab dcd cdc → Abba abba cdc dcd), e tornava a sollecitare un giudizio da parte del destinatario e, per suo tramite, di Vittoria Colonna ; 17 e ancora nel 1560 un altro fiorentino, Lucantonio Ridolfi, esaltava i sonetti del Caro unendo alla lode dell’artificio la dichiarazione di un contenuto sapienziale :

Io non mi maraviglio – disse aretefila, poi che vide lucio tacersi ; – se e’ si suol dire, che gli amanti cambiano tra loro i lor cuori, questo hora veggo, che non vuole altro dire, se non che ciascuno piglia, e riceve in sé il pensiero dell’anima amata da lui, e lascia il suo : e quivi discorre, e quivi opera : ciò è nell’amata : & essendo il pensiero nell’amata, non è nell’amante, non potendo essere in un medesimo stante in due luoghi.

di questi meravigliosissimi effetti, seguitò lucio, dell’amore, secondo platone, sono pieni tre bellissimi sonetti nati ad un corpo del dottissimo, e molto leggiadro m. annibal caro : il primo de’ quali incomincia :

donna qual mi fussi io, qual mi sentissi,
quando primier in voi questi occhi apersi.

Alle quali parole di lucio aggiunse aretefila : – io aveva già e veduti, e letti molti altri bellissimi componimenti del caro, i quali me lo havevano in somma ammirazione & reverenza meritamente posto ; ma per certo quei tre sonetti dello amore del divinissimo platone (come diceste) tutti ripieni, mi fecero (la prima volta che io gli lessi) e l’una, e l’altra verso così degno autore in ben mille doppij crescere ; parendomi eglino miracolosi, non meno per la somma dottrina che in loro contengono, quanto per la leggiadria delle parole che in essi s’ode ; e per la grandissima arte, che in quelli si scorge, essendo tutti & tre colle medesime rime artifiziosamente tessuti. 18

la prima apparizione a stampa è però tardiva, nelle rime di diversi nobili poeti toscani pubblicate a Venezia, per Ludovico Avanzo, nel 1565 (in due libri, designati d’ora in avanti come At 1eAt 2). 19 Il curatore Dionigi Atanagi consacra ai tre sonetti, significativamente disposti all’inizio della sezione riservata al Caro (At 1, c. 1 r-v), un’amplissima nota di commento, sorta di definizione d’un vero e proprio sottogenere metrico : 20

poiché questo [Donna, qual mi fess’io, qual mi sentissi] con gli altri due seguenti son., pieni non più de’ miracoli de l’amore, che di quelli del divino ingegno del loro autore, come sono d’un soggetto stesso, et l’uno pende da l’altro, contra l’uso ordinario de gli altri son., così sono tessuti delle medesime rime ; hanno i giovani studiosi a sapere, che i son. tra le altre loro proprietà hanno questa, che ciascuno ha il suo proprio argomento, con che si spatia, o si ristringe dentro i termini di 14 versi, de’ quali non esce : né l’uno giamai con la costruttione, o col sentimento passa ne l’altro : ma ognuno da sé solo, ad uso de gli epigrammi latini, & greci. nondimeno alcuni eccellenti huomini, o per isperienza d’ingegno, o per poetica leggiadria, talvolta ne hanno legati insieme tre, sì come fece il petrarca in quelli, che per ciò sono chiamati i tre fratelli, a similitudine de le tre canzoni de gli occhi, ch’egli stesso chiamò sorelle, il primo de’ quali comincia

quando dal proprio sito si rimove

& sì come hanno fatto molti de’ nostri tempi, hora tessendoli tutti et tre delle medesime rime, come in questi si vede haver fatto il c. caro ; hora variandoli solo in questo, che le prime de’ quartetti, e de’ terzetti del 1. son. sieno ne’ medesimi luoghi le seconde, del 2. son. & le seconde sien prime : come fece il petr. in più altre maniere i moderni, pigliando ardire, con legamento di rime, & senza, hanno intrecciati, & congiunti più sonetti insieme : le quali, per non allungarci troppo, lasciamo hora da parte. 21

per l’Atanagi insomma l’esperimento del Caro, eccellente in sé, è produttivo di ulteriori applicazioni come conviene all’iniziativa di un caposcuola. Lo proverà, nei fatti, il moltiplicarsi di sonetti « fratelli » all’interno dell’antologia. Sia il caso della tenzone tra Giacomo Cenci e Alessandro Marzio (At 2, cc. 65r-v e 86v-87r), documento risalente agli anni romani della carriera di Dionigi Atanagi, epoca della sua collaborazione con Claudio Tolomei e l’Accademia della Poesia Nuova : 22 proposta e risposta si articolano ciascuna in tre sonetti sulle stesse desinenze erse, ore, anto, ete, ice (la prima consonante e assonante, col conseguente portato lessicale, con la rima B dei « fratelli » del Caro), 23 « i quali sei Sonetti essendo, nonostante la difficultà de le medesime rime, spiegati con tanto candore et leggiadria, fanno chiara fede a ciascuno, quanta fosse la prontezza et felicità di questi due nobilissimi ingegni ne la poesia Toscana ». 24 Nel caso di una coppia di sonetti di Benedetto Guidi, Dove la senna e ’l reno irriga e ’nfiora e quivi sorge di gioia il proprio fonte (At 1, c. 24r-v), l’Atanagi si premura di segnalare come l’autore « incateni l’uno con l’altro, accordando il primo verso di questo [quivi sorge di gioia il proprio fonte] con l’ultimo di quello [dove la senna, 14 « che quivi hanno la vena e ’l proprio fonte »] : che è uno dei nuovi modi, che i moderni hanno trovato di legare insieme l’un Sonetto con l’altro ». Ma l’acquisto più insigne è costituito dai tre sonetti « fratelli » di Domenico Venier (At 1, c. 46 r-v). Accogliendo la norma delle coblas capfinidas introdotta dal Caro, il poeta veneziano restaura il sistema di rotazione proprio dell’archetipo petrarchesco, secondo una progressione di « difficoltà »che la Tavola puntualmente registra, segnalando l’« imitatione de’ tre fratelli del Petrarca, quanto a l’ordine de le rime », ma di « quelli del Caro [...] quanto a la materia, & stretto incatenamento [...]. Onde quanto s’è detto di quelli, intendasi anche detto di questi, così intorno a la proprietà de’ Sonetti, come intorno a le meraviglie, non più d’Amore, che de l’ingegno de l’autore, di che son pieni » 25(dove il rinvio da luogo a luogo del commento ribadisce l’intento dimostrativo) :

Fredda è madonna sì, che ’l ghiaccio stesso
men freddo sembra, e tuttavia l’ardente
foco riscalda ogni gelata mente.
come l’è dunque il ciò poter concesso ?

s’ella arde, e ’nfiamma ogni huom lungi e da presso,
come in se stessa un tal calor non sente ?
se non è come ’l sol, che parimente
tutto riscalda, e non è caldo in esso.

o pur amo – sì come suol talhora
colpo di ferro in fredda selce e dura
farne uscir foco a viva forza fòra –

tal, con gli strali ond’ei percote ogni hora
quel cor di pietra e freddo oltre misura,
foco ne tragge ond’altri arde e ’nnamora.

e s’egli è ver, ch’amor similemente
tragga indi foco a nostro mal, confesso
fallir, s’io bramo, e lui pregar non cesso,
che pur sempre in quel cor suoi strali avente ;

né so, perché piagarlo ognihor più tente,
se pur non lascia un picciol segno impresso
nel vivo marmo : ancor che ’n ciò depresso
s’alzi per altro, e via maggior divente.

ché quanto più d’aprir ferendo cura
quel cuor di sasso – e men l’impiaga e fóra –
più foco amor ne trahe d’alta ventura :

poi ch’a quel foco, a quella fiamma pura
tutte sue faci accender suol, qualhora
d’arder ben mille e mille cor procura.

così là dove in saettar sì spesso,
ma sempre indarno, il duro cor algente
vien contra un solo a rimaner perdente,
tanti n’acquista al vivo fuoco espresso.

né fia giamai ch’amor, l’arco giù messo,
non la saetti ognihor via più sovente,
s’ei divien più ferendo invan possente
che se gli fosse il piagar lei permesso.

e ben veggio hor che nol fa speme, allhora
che scocca in lei, d’aprirle il sen, ma cura
d’altri infiammar, ferirla adhora adhora.

damor nemica amor giova e ristora
tanto più, quanto al suo colpir più dura.
chi vide mai tal maraviglia anchora ?

È uno degli episodi nevralgici della raccolta. Nella traditio dal manierismo « romano » del Caro al laboratorio di Domenico Venier è come implicita, sub specie metrica, la parabola stessa dell’Atanagi, che al declinare dell’astro farnesiano era stato accolto quale segretario nell’Accademia Veneziana fondata da Federico Badoer nel 1557 e avente nel Venier, che pure non vi fu mai nominalmente ascritto, uno dei promotori più autorevoli (così ad esempio Girolamo Molino, nell’invitare Bernardo Tasso a stampare l’amadigi per i tipi dell’Accademia, poteva dichiararsi « pregato da questi Signori miei amici, e da diversi loro protettori ; tra’ quali è il Clarissimo M. Federigo Badoaro, e m. domenico veniero »). 26 A ben vedere, inoltre, la sezione riservata al Venier in At 1ha carattere del tutto peculiare, e la strategia che l’antologista persegue ne è ulteriormente illuminata. Si tratta infatti di cinque componimenti in tutto (contro i trentuno del Venier presenti inAt 2, che, come si vedrà, è anzitutto il libro dei veneziani), 27 ai tre « fratelli » accompagnandosi solo altri due sonetti, non pò la forza et la vertù del core e sì grave doglia il cor per voi sostene (At 1, cc. 46v-47r), tra loro connessi per una singolarità formale che il curatore, la cui mano si fa qui indistinguibile da quella dell’autore, illustra nel modo seguente :

Non pò la forza, e la vertù del core.

questo è un sonetto doppio, fatto ad imitatione di tre sonetti simili di dante da maiano : ma con questa differentia, & maggiore obligatione, che dove ogni verso ordinario di quelli include un verso straordinario di cinque sillabe, il quale s’accorda con la rima del verso ordinario precedente, fuorché il primo, il terzo & il quinto, dove o il detto verso di cinque sillabe non è, o non rima ; questo l’ha in tutti : & accorda la rima di quello, che è nel 1. verso del primo quaternario, con la rima di quello, che è nel quinto, cioè nel primo verso del secondo quaternario : & il medesimo fa, ma con diversa rima, di quello, che è nel primo verso del primo ternario, con quello, che è nel primo verso del secondo ternario [(x5)a(a5)b(b5)a(a5)b (x5)a(a5)b(b5)a(a5)b (y5)c(c5)d(d5)c (y5)d(d5)c(c5)d]. cosa non meno difficile, & faticosa, che maestrevole, & artificiosa. in che riuscendo il signor veniero sì felicemente, come si vede ; mi pare, che sia vero ciò, che un bello spirito in simile proposito disse di lui : cioè, che egli ne’ componimenti ordinarij vince gli altri, ne gli straordinarij vince se stesso. i sopraallegati sonetti di dante da maiano, sono stampati nel libro de gli antichi poeti toscani. l’uno de’ quali comincia. Lasso per ben servire. & c. [a(a5)ba(a5)b a(a5)ba(a5)b (b5)c(c5)d(d5)(e5c(c5)d(d5)e] l’altro, Cera amorosa, &c. [di schema identico] & sono a carte 74. b. il terzo comincia, Lo meo gravoso etc. & è a car. 77. a. avvertendo in questo ultimo, che il verso inchiuso ne l’ottavo, che dovea esser di cinque sillabe, come gli altri, non è se non di tre, & per ciò forse meno perfetto [a(a5)ba(a5)b a(a5)ba(a3)b (b5)c(c5)d(d5)e (e5c(c5)d(d5)e].

sì grave doglia il cor per voi sostene.

questo sonetto è composto con la medesima obligatione, che il precedente, se non che quello ha i quaternarij tessuti ad uso di strambotti, & questo accorda il quinto verso col quarto, come per lo più fanno i sonetti [(x5)a(a5)b(b5)a(a5(x5)b(b5)a(a5)b(b5)(y5)c(c5)d(d5)(y5)d(d5)c(c5)d]. 28

dall’imitazione di un contemporaneo, e sia pure con la cauzione dell’aemulatio petrarchesca, si trascorre a quella di un antico della Giuntina, 29 esperita con singolare adesione alla patina stilistica dell’originale : così ad esempio in non pò la forza e la vertù del core [:ardore :dolore] torna la rima A di lo meo gravoso affanno e lo dolore [:ardore :core], e nel v. 5, « né s’huom rinforz– e doppia il suo valore », rintocca « ma eo mi sforzo, emostro gran baldore » (lo meo gravoso, 7) ; inoltre rinforza, non petrarchesco, ha attestazioni arcaiche (ad esempio in Cino, io non posso celar lo mio dolore, 7-8 « ma sovente mi rinforza lo foco, / parlando del dolor »), e del pari la reggenza di « né d’arder cesso, e s’arder men procaccio » (v. 12), ignota alla sintassi del canzoniere, appare autorizzata dalla dantesca io sento sì d’amor, 59 « però che s’io procaccio di valere ». Si tratta di un esercizio, prima che emulativo, filologico, cui non disdice la compagnia della canzone di Giovanni Maria Barbieri « tessuta a la maniera de’ Provenzali », pioggia d’un bel pensier nell’alma mia, che appare a stampa proprio in At 1per la prima volta,30 « manifesto » di quei provenzalisti modenesi coi quali il Venier aveva condiviso indagini e scoperte (fu lui, ad esempio, che trasmise al Barbieri l’unico esemplare allora conosciuto del Donatz) ; 31 ovvero l’assunzione, quale reperto « de la purità naturale dell’antica lingua Toscana », della frottola passando con pensier per un boschetto di Franco Sacchetti, data ad « incerto autore antico » (At 2, c. 206r). « Antichi » e « moderni » si trovavano per altro fianco a fianco in un progetto di pubblicazione, di schietto sapore « enciclopedico » e camilliano, 32 annunciato nella somma delle opere dell’Accademia Veneziana : « Tutti i sonetti de’ più approvati autori antichi, e moderni, ridotti sotto i suoi capi secondo la diversità delle materie in loro contenute ». 33

quasi a ribadire un partito preso estetico, anche la sezione del Venier in At 2si aprirà con un ulteriore esercizio arcaizzante (c. 7v) :

Movi interno desio nato nel core
di sì dolce cagion novellamente ;
et più tosto che puoi ritrova amore,
che là ti scorga, ov’è ’l tuo ben presente.

ivi giunto, con lui securamente
apri quel, che nascondi, a lei di fore :
dille quant’è suo foco in te possente,
poi che t’arse lontan del suo calore.

chiedi alcun refrigerio a la tua fiamma :
et ciò fia ch’a quest’occhi un dì si mostre,
ben che foco vicin più forte infiamma.

lascia poi dipartendo amor con seco,
che le ’mprima nel cor le ragion nostre :
et speranza al tornar sen vegna teco ;

che è, anzitutto, una variazione di ballata, i’ vo’ che tu ritrovi amore (vita nova, 5, 17 [XII, 10]), di cui cfr. specialmente i vv. 5-10, « Tu vai, ballata, sì cortesemente, / che senza compagnia / dovresti in tutte parti avere ardire ; / ma se tu vuoli andar sicuramente / retrova l’amor pria, / ché forse non è buon sanza lui gire » : ma il paradigma rimico attrae anche, al v. 4, un modulo ben cavalcantiano (cfr. gli occhi di quella gentil foresetta, 25-26 « Ballata, quando tu sarai presente / a gentil donna, sai che tu dirai » ; perch’i’ no spero di tornar giammai, 31-32 « Deh, ballatetta, dille sospirando / quando le se’ presente »), e per l’incipit si veda almeno la ballata in abito di saggia messaggiera (v. 2, « movi, ballata, senza gir tardando »), di attribuzione dantesca nella tradizione « veneziana » a cominciare dal codice Mezzabarba – ma anche, più sottilmente, un’altra movenza della vita nova(3, 4 [VIII, 3]), « Piangete, amanti, poi che piange Amore / udendo qual cagion lui fa plorare ». Allegazioni simili si potrebbero produrre per l’altro sonetto entra per gli occhi in me, quand’io vi miro (c. 10v), mentre sì gravoso tormento è quel ch’io porto, penultimo della serie (c. 15r), sarà certo « imitatione di quel Sonetto del Petrarca Quand’io son tutto volto in quella parte [rvf. 18], ove tutte le rime sono de le parole stesse », 34 ma la ricerca dell’aequivocatio in rima vi suscita, insieme, armoniche più remote, che si tratti del sonetto guittoniano Dolcezza alcuna o di voce o di sono, 9-12 « tante gravose doglie e pene porto / e ’n viso ed in diviso com mi pare, / se di presso vi sono o di lontano ; / sempre mi trovo in tempestoso porto » (e una delle cadenze del sonetto venieriano è appunto « di tempesta in porto » [v. 5]), o di incipit quali il guittoniano la dolorosa mente ched eo porto (magari promosso anche dal derivante cominciamento dantesco) od il ciniano lo intelletto d’amor ch’io solo porto.

Rispetto al corpus maggiore accolto in At 2, il drappello di componimenti presentato in At 1si configura insomma come un’antologia “orientata”, saggio di quelle impuntature formali cui massimamente si affidava la fama dell’autore : né sorprende che proprio su questa raccolta-specimen si focalizzino le iniziative di emulazione, poniamo, di un Luigi Groto, che compone quattro sonetti « sopra le medesime rime, che perciò si chiamano i quattro fratelli, a imitatione del S. Annibal Caro », 35 e persegue con analoga oltranza i due tipi, pure autorizzati dal Venier, del sonetto equivoco (io che dal primo dì vaneggio e vago, « fatto con le medesime rime, a somiglianza di quello del Petrarca : quand’io son tutto volto in quella parte ») 36 e del sonetto rimalmezzato, producendo con aun tempo temo, ardisco, ardo et agghiaccio un manufatto ragguardevole « non tanto per lo soggetto quanto per l’artificio ; perché in questo sono cinquantadue rime [...] perciocché ogni verso s’accorda quattro volte con quel verso, con cui suole e deve ordinariamente accordarsi nell’ultima rima » (risultato : [a5] [ß7] [γ9][ε2] [ζ5] [η9][ε3] [ζ7] [η9][a4] [ß7] [γ9][θ2] [ι5] [χ9][λ2] [µ5] [υ9][λ2] [µ5] [υ9][θ2] [ι5] [χ9][ξ5] [ο7] [π9][ρ5] [σ7] [τ9][φ5] [χ7] [ψ9][ξ4] [ο7] [π9][ρ3] [σ5] [τ7][φ3] [χ5] [ψ9]e), 37 dove l’impronta venieriana è già nell’incipit, così simile al celebre non punse, arse, legò, stral, fiamma o laccio (a sua volta rifatto in col bel, vivi, aurei, ciglio, occhio, capelli, « di tre corrispondenze perpetue per imitar da lontano il sonetto del Clar. M. Domenico Veniero ») ; 38 o di un Gabriele Fiamma, che così « avvertisce » il lettore commentando il proprio sonetto al vivo sole, a quei celesti ardori, di schema (x5)a(a5)b(b5)a(a5)b(x5) a(a5)b(b5)a(a5)(y5)c(c5)d(d5)(y5)d(d5)c(c5)d come non pò la forza del Venier :

Questo modo di metter tante rime non sol nel fine, ma nel principio, e nel mezzo de’ versi, non è nuova inventione : percioché il petrarca usò di por le rime nel mezzo de’ versi nella canzone : Io non vo’ più cantar, com’io soleva [Rvf. 105], e nel mezzo delle stanze, come nella canzone Verdi panni sanguigni oscuri e persi [Rvf. 29], & nel fine della canzone : Vergine bella, che di Sol vestita [Rvf. 366], e l’epicuro nella sua Cecaria fece molti versi assai leggiadri con le rime nel mezzo. ma dante da maiano fece de’ sonetti con queste rime, non però regolari, come è questo dell’auttore : il quale ha seguito la via del clariss. veniero, che, riducendo questo modo di rime alla maggior perfettione, che si possa, ne ha scritto due meravigliosi sonetti, tanto facili, e dolci, che l’obligo di tante rime non sol non fa riuscire il poema duro, ma par quasi che quelle parole siano fatte per quel concetto, sì che non si possa spiegar con altre. comincia il primo sonetto suo : Non pò la forza, e la virtù del core, e ’l secondo : Si grave doglia il cor per voi sostene. de’ quali mostra l’artificio, e l’obligo, m. dionigi atanagi, che gli diede primieramente in luce.39

nel secondo volume Atanagi, il primato spettante a Domenico Venier si deduce dalla disposizione stessa degli autori (non più alfabetica come per il primo libro). 40At 2si apre infatti con sei componimenti di Sperone Speroni, tra cui il lungo carme in scioltimira cor mio quest’ampia alta cittate (At 2, cc. 1r-7r) ; seguono le trentuno rime del Venier (cc. 7v-15r) ; quindi, dopo un madrigale di Andrea Navagero (arbitro eletto siedi, c. 15 v), una vasta raccolta delle rime di Claudio Tolomei (cinquantanove testi, cc. 16r-31r). L’ordine riflette un parametro che è insieme assiologico e “storico” : il primo posto tocca al massimo letterato della Repubblica, protettore ufficioso dell’Accademia Veneziana, 41 anzi auctor riconosciuto nella somma delle opere da mandare in luce pubblicata dagli accademici nel 1558, includente sotto il capo della poesia l’« Apologia dell’eccellentissimo M. Sperone Speroni in difesa de la sua canace, con un dialogo del medesimo del modo di compor la tragedia » ; 42 il Venier segue immediatamente, primo dei lirici puri, e apre a distanza la serie dei veneziani, quasi una raccolta nella raccolta, che si accamperà al centro del volume : 43 e la contiguità col Navagero, prestigioso esponente dell’umanesimo veneziano di inizio secolo, gli si addice benissimo. Quindi, con processo a ritroso nel tempo, è la volta del maestro dell’Atanagi negli anni di Paolo III, « che posson dirsi tanti anni di secol d’oro ». 44 È una struttura calcolatissima, dove sembra dato intravedere il canone delle « poesie moderne » che l’Accademia Veneziana pure annunciava nella somma delle opere, « scelte con diligenza in tutte le opere de’ più fioriti ingegni » ; 45 e ne sono ulteriore, tardivo riflesso le edizioni postume delle rime di accademici quali Giacomo Zane, per cura dello stesso Atanagi ; 46 Girolamo Fenarolo, con ampia appendice di rime funebri, il cui principale dedicatario è Domenico Venier ; 47 Girolamo Molino, per cura di Celio Magno a sua volta membro fondatore dell’Accademia Veneziana : 48 stampa il cui intento retrospettivo si acclara nella biografia del Molino redatta da Giovan Mario Verdizzotti, autore anche di sette rime funebri per l’edizione del Fenarolo, e già nel 1560 di un sonetto alle « anime gloriose » dell’Accademia, posto a chiusura della Topica di Giulio Camillo da lui curata. 49

*
* *

l’esercizio “disperso” del Santini ritrae insomma una ben precisa fase culturale, collimante con la breve ma decisiva esperienza veneziana del giovane Tasso, che nel 1558 aveva lasciato Urbino al seguito del padre e dell’Atanagi, entrambi insigniti di un ruolo nell’Accademia della Fama. E proprio alla luce dei due sonetti del Santini s’intende appieno la ratio stilistica di un segmento della raccoltina tassiana inclusa in At 1(cc. 187r-190r : tredici sonetti in tutto, che si indicheranno d’ora in poi come A I-XIII), che come quelli sembra testimoniare di una pratica condivisa e ludica, all’altezza del sodalizio « etereo », di curiosa metrici prettamente “veneziani” :

A V

La terra si copria d’horrido velo
et le falde di neve a mille a mille
cadeanle in grembo, onde a sé pria rapille
sott’altra forma il dio che nacque in delo ;

quand’ecco i’ scorgo in vivo foco il gielo
cangiarsi, e ’n fiamme le cadenti stille,
et qual gemma ch’al lume arda e sfaville
splender le nubi et serenarsi il cielo.

Mentre in altrui sì strani effetti anchora
risguardo, in me li provo, e ’l ghiaccio sfarsi
sento, et le nubi de’ miei duri sdegni.

Allhor gridai : – deh, che ’l bel sole, ond’arsi,
s’appressa, et vanno innanzi a lui ta’ segni
come va innanzi a l’altro sol l’aurora –.

A VI

Come va innanzi a l’altro sol l’aurora
et da gli agi i mortali a l’opre invita,
così que’ segni a la penosa vita
mi richiamâr da la quiete allhora ;

et qual nel suo venir l’alba colora
di purpureo splendor l’aria smarrita,
tal la mia faccia, anchor che scolorita
l’havesse il verno, rossa apparve fora ;

e ’n quella guisa che il vermiglio suole
cangiarsi in rancio quand’apollo è giunto,
mutò poi vista a l’apparir del sole :

sentissi intanto il cor dolce compunto
da gli sguardi et dal suon de le parole
che l’andaro a ferir quasi in un punto.

AVII

Fulvio, qui posa il mio bel sole, allhora
che l’altro fa ne l’ocean soggiorno ;
qui poscia appar quand’apre febo il giorno,
febo, che n’è di lei nunzio et aurora ;

et quinci prima uscire il vid’io fora,
di vermiglio splendor le membra adorno ;
et se quei per ministre ha l’ore intorno,
questi amore et le gratie ha seco ognora.

Or com’è che qui presso a chi vi guarda
s’offran di fior sì vaghe forme et nove,
né sian arsi da lui qual solfo et esca ?

Lasso, egli dolce i fior’ nutre et rinfresca
con la vertù che da’ begli occhi piove,
et solo avvien che i cor’ distrugga et arda !

È un esercizio che converrà ormai ascrivere al genere dei sonetti « fratelli » : la similitudine del corso solare e delle “fasi” dell’apparizione dell’amata ritorna il tema simbolico e narrativo dell’archetipo petrarchesco, che qui si recupera invero alle ragioni di un piccolo canzoniere amoroso ; il gioco delle connessioni metrico-retoriche si fa, rispetto ai modelli finora incontrati, più libero : l’explicit del primo sonetto è ripreso identicamente nell’incipit del secondo, ma non si dà aggancio tra questo e il successivo ; tutti e tre i testi condividono il paradigma rimico in ora, con l’ulteriore vincolo dell’iterazione in rima di aurora. Ma si noti anche « bel Sole », « senhal » comune a la terra si copria, 12 ed a fulvio, qui posa, 1 (e associabile a Lucrezia Bendidio in ragione dell’altro sonetto a Fulvio Viani, mira, fulvio, quel sol di nuovo apparso [10], 11 « e di Lucrezia ’l nome incide e segna »), o la correlazione da « ta’ segni » di quello (v. 13) a « que’ segni » di questo (v. 3). E se in la terra si copria d’horrido velo il motivo petrarchesco è declinato secondo l’esempio di un fortunato sonetto dell’Ariosto, chiuso era il sol da un tenebroso velo (già imitato da Bernardo Tasso in un dittico del secondo libro degli amori, XXXIV già s’avicina con la vaga fronte e XXXV Se la nebbia di sdegni, che sovente), 50 il paradigma rimico comune ai tre « fratelli » riflette un’ulteriore, rara costellazione di testi, tutti rinvenibili entro il perimetro della raccolta Atanagi. Il « senhal » aurora, sempre in posizione di rima, si trova infatti nel dittico di sonetti a Ersilia Cortese che chiude la sezione speroniana di At 2(c. 7r),chi è costei, che come nuova aurora enuovaaurora d’amore in sulla sera : a loro volta non scindibili dai due del Caro et qual fu mai, da che si gira il sole / di te più vaga et più serena aurora e già tra venere e ’l sol pura et lucente / sorgea l’aurora del mar d’adria fuori, accolti in At 1sempre a chiusa della rispettiva sezione d’autore (c. 9r-v), e già connotati da taluni dei forti dantismi (indotti dapurg. 2, 1-9) che occorreranno nella prova tassiana.

Ma per più altri aspetti la raccolta A si connota come un esercizio tutto interno all’orizzonte di poetica (e di attinenze personali) degli accademici veneziani, e solo a partire da quello si fa pienamente leggibile. Si veda per esempio il sonetto a Benedetto Varchi (A IX) :

L’hidra novella che di tosco forse
già megera nudrìo nel seno immondo,
ch’al fine uscita dal tartareo fondo
prima là tra’ germani horribil sorse,

et quindi poi con piè veloce scorse
velen spargendo da più bocche il mondo,
et gli empi capi e ’l guardo furibondo
contra ’l gran giove minacciando torse,

hor, dal tuo lenzi vinta, i tempî sacri gli cede,
et fugge, et scorge a terra sparse
mille sue teste, onde si cruccia et freme.

tu, perché ’l tempo sì gran fatto insieme
con tanti altri non furi, in dotte carte
a l’immortalità, varchi, consacri.

il giovane Tasso allude qui al sonetto chiaro cappello, hor che l’inuitto, & sacro col quale il Varchi « Invitava M. Bernardo Cappello, magnifico,& gravissimo poeta, a celebrare il valore, & la prudenza di Monsignor Lorenzo Lenzi, Vescovo di Fermo, & Vicelegato d’Auignone, & insieme di Monsignor di Sorbellone, in difesa di quella città, & stato contra l’essercito de gli Ugonotti » 51 (fatti del luglio 1562), conservato in At 1insieme alla risposta Varchi, e’ mi duol, et me ne struggo, et smacro (cc. 30r-v). Come anche dichiara un locus a modestia nella lettera con cui lhidra novella veniva inoltrato al Varchi (1565), Torquato si pone insomma come terzo e paritario interlocutore di uno scambio illustre : « la prego bene, quanto più caldamente posso, che non mi voglia imputare ad arroganza l’avere scritto in materia ne la quale tante composizioni di tanti grandi uomini si vedranno » ; 52 e significativamente osa citare, proprio nei versi di chiusura, il celebre sonetto al Varchi di Pietro Bembo, « Varchi, le vostre pure carte e belle, / che vergate talor per onorarmi, / più che metalli di Mirone e marmi / di Fidia mi son care [...] eterna fama spero di aver con elle » (rime, CXXXI 1-8). Ma insieme lhidra novella riecheggia, con surenchère un po’ scolastica di tessere virgiliane (aen. XII, 846-49 ; I, 221 e 295-96), un sonetto del Fenarolo, altro sottoscrittore degli statuti fondativi dell’Accademia Veneziana, composto « per la legatione al concilio di Monsig. Hercole [Gonzaga] car. di Mantova » (quindi risalente al 1561) ed incluso a sua volta in At 2(c. 140v) ; se ne veda la fronte :

Già potranno i leon feroci alteri
con l’empie squadre di sanguigni mostri
ne’ più riposati et solitari chiostri
ruggir, dispersi i crudi lor pensieri,

et se stessi sbranar rabbiosi et feri
con l’avid’unghie e’ sitibondi rostri,
che sperando immollar ne’ petti nostri
tra’ germani arrotâr, galli et iberi.

in modo analogo, il sonetto tassiano a Guidobaldo Della Rovere (A X) trova il suo modello, all’evidenza, nel sonetto di apertura delle rime di Luca Contile (Venezia, Sansovino, 1560) : 53

A X

Come s’human pensier di giunger tenta
al luogo oltra cui nulla esser s’intende,
quanto di via più avanza et più si stende
tanto spazio maggior gli s’appresenta,

onde meravigliando il corso allenta
ché ’l fin del suo viaggio ei non comprende,
et vinto a l’alta impresa al fin si rende
che ’l suo veloce ardir tarda et sgomenta ;

così, s’ei vuol trovar termine o meta
de l’infinito valor tuo che questa
terrena chiostra in ogni parte adorna,

perché molto s’affanni a lui pur resta
sempre via più de l’opra : onde s’acqueta
et dal preso cammino il piè distorna.

[Contile, Rime, i]
qual occhio che nel sol perde la vista
a sé debil ritorna, e nulla vede,
onde ne l’alte e luminose prede
del suo picciol valor tutto s’attrista :

tal è la mia virtù, mancando, trista
nel chiaro oggetto ch’ogni lume eccede,
onde nasce bellezza, e dove riede,
ch’in cielo, in terra no, tal don s’acquista.

dunque lodar potrà lingua mortale
bellezza eterna, sì ch’a par s’intenda
alto splendor per basso stil terreno ?

io cantarò, ma (desir mio !) che vale,
se non è che per gratia dio n’accenda,
breve favilla presso al ciel sereno ?

metterà conto appena ricordare come nella raccolta del Contile, commentata da Francesco Patrizi, sia da riconoscere il manifesto più esplicito, nel campo della lirica volgare, della poetica sapienziale e platonizzante dell’Accademia Veneziana, cui appartenevano l’autore, il commentatore e il curatore Francesco Sansovino ; 54 e che proprio la parte prima delle rime di Luca Contile, canzoniere encomiastico di cinquanta sonetti in lode di Isabella Gonzaga d’Avalos, costituisce il modello formale della raccolta per Margherita di Valois (48 sonetti e due canzoni) contenuta nel quarto libro delle rime di Bernardo Tasso, antico sodale e corrispondente del poeta senese (ed alla stessa misura si informerà poi il canzoniere in morte di Porzia, di 49 sonetti e una canzone, nel quinto libro delle rime). L’eco del canzoniere « filosofico » del Contile sarà per altro ben avvertibile in varie delle rime pubblicate da Torquato nella raccolta degli Eterei (d’ora in avanti E, con numerazione romana dei componimenti tassiani). Si confronti almeno E XXXIX, 5-7 « ch’ogni nebbia mortal, che ’l senso accoglie / sgombrar potea da le più fosche menti / l’armonia dolce » con de’ vostri almi occhi la ridente luce, 3-7 « che ’l suo primo splendor, che ’l senso adombra / rinato in voi al primo ben conduce. // Nel volto un raggio insieme ancor riluce, / sì che dal petto mio ratto disgombra / le tenebre » 55 (da cui anche l’altro sonetto giovanile Questa rara bellezza opra è de l’alma [36], 6-7 « o raggio e duce / ch’al vero sole, onde partì, conduce [:traluce :luce] ») ; od anche E XII, 12-14 « Già novo Glauco in ampio mar mi spazio / d’immensa gioia ; e ’l mio mortale stato / posto in oblio, divina forma i’ prendo » con contrasta spesso la terrestre vista, 12-14 « allhora io sento i moti miei mortali / celesti farsi, e questa bassa valle / farsi cielo, e celeste humana spoglia », 56apoteosi quasi identicamente evocata, sempre in finale di sonetto.

*
* *

i tre « fratelli » della prima raccolta resteranno esclusi dal canzoniere apparso nelle rime de gli academici eterei. La nuova silloge conserva in tutto solo quattro dei sonetti pubblicati presso l’Atanagi, ovvero il sonetto in questi colli, in queste istesse rive (A XI → E XXXV) ; il sonetto proemiale su l’ampia fronte il crespo oro lucente, che slitta in seconda posizione (A I → EII) ; nonché il seguente dittico :

Axii (→ E x)

re de gli altri, superbo altero fiume,
che qualhora esci dal tuo regno et vaghi,
atterri ciò ch’opporsi a te presume,
et l’ime valli et l’alte piagge allaghi ;

vedi che’ dei marini il lor costume
serbando, i dei sempre di preda vaghi,
rapito han lei ch’era tua gloria et lume,
quasi il tributo usato hor non gli appaghi.

deh tuoi seguaci homai contra ’l tiranno
adria solleva, et pria ch’ad altro aspiri
racquista il sol che ’n queste sponde nacque.

osa pur, ché mill’occhi a te daranno
mille fiumi in soccorso, et co’ sospiri
ferventi al mar torrem le forze et l’acque.

2. qualhor E ; 5. che i E ; 13. e de’ sospiri E ; 14. il foco al mar torrà la forza e l’acque E

A xiii (→ E xi)

I freddi et muti pesci avezzi homai
ad arder sono, et a parlar d’amore,
et tu anfitrite, et tu nettuno, hor sai
come rara bellezza allacci il core,

da che ’n voi lieto spiega i dolci rai
il sol che fu di queste sponde honore,
il chiaro sol cui più devete assai
ch’a l’altro uscito del sen vostro fore.

Ché quegli ingrato, a cui non ben soviene
com’è da voi cortesemente accolto,
v’invola il meglio et lassa il salso e ’l greve ;

ma questi con le luci alme et serene
v’affina et purga et rende il dolce e ’l leve,
et molto più vi dà che non v’è tolto,

3. e tu nettuno, e tu anfitrite E ; 4. un core E

dove accanto al parallelismo metrico-lessicale che intercorre fra i due explicit, « al mar torrem le forze et l’acque » (A XII, 14) e « et molto più vi dà che non v’è tolto » (A XIII, 14), nonché fra A XII, 11 « racquista il sol che ’n queste sponde nacque » e A XIII, 6 « il sol che fu di queste sponde honore », è anche da notare la specularità fra i due impossibilia (entrambi, si vedrà, canonici e « databili » ad un ben preciso clima letterario) che rispettivamente chiudono ed aprono i due sonetti : tanto più che il postillato ambrosiano Ts1, intermedio tra la fase E ed il Chigiano (da qui in poi C), 57 correggendo il finale di A XII in « ed i sospiri / arder potranno al mar la forza e l’acque » instaurerà un vero e proprio rapporto di coblas capfinidas con l’incipit successivo, « I freddi et muti pesci avezzi homai / ad arder sono » (A XIII).

Privi di argomento nella Tavola di At, i due sonetti si corredano in E di una piccola « razo », intesa ad esaltarne la scansione narrativa :

[E x] scrisse questo sonetto nella partenza d’una persona amata la quale di ferrara se n’era ita in venezia, esortando poeticamente il po a voler ricuperare ciò che dal mare gli era stato involato.

[E xi] mentre la sua donna dimorava in venezia scrisse questo sonetto narrando poeticamente gli effetti ch’ella operava nel mare.

si tratta di un motivo elegiaco, accostabile ai propemptica di Ovidio (am. iI, 11) e Properzio (carm. I, 8a), evocazioni del viaggio per mare dell’amata. Del primo vale specialmente l’esortazione ai venti perché riconducano la donna al poeta (37-42 « Vade memor nostri, vento reditura secundo ; / inpleat illa tuos fortior aura sinus. / Tum mare in haec magnus proclinet litora Nereus, / huc venti spectent, huc agat Eurus aquas ! / Ipsa roges, Zephyri veniant in lintea soli / ipsa tua moveas turgida vela manu ») ; del secondo, il voto che la partenza sia impedita dallo scatenarsi delle forze naturali (9-11 « o utinam hibernae duplicentur tempora brumae, / et sit iners tardis navita Vergiliis / nec tibi Tyrrhena solvatur funis harena »), da cui muove anche l’inventio del sonetto LVIII del Sannazaro, modello prossimo, in più di una sede, del dettato tassiano :

Eolo, se mai con vento irato e fèro
ti vide il mondo e pien d’iniquo sdegno,
dimostra or la tua forza, arte et ingegno,
e cuopri il ciel con manto orrido e nero.

e tu, Nettuno, in chi, piangendo, io spero,
risveglia or le tempeste del tuo regno,
né consentir c’un vile e fragil legno
calche il tridente tuo superbo altero,

e poi c’al cielo et a natura piacque
per miracol mostrarne un vivo sole,
c’or nel tolgan per voi li vénti e l’acque.

ma ai dolci raggi, al suon de le parole,
goda la terra ove per grazia nacque,
e, come suol, produca erbe e viole. 58

specialmente properziano, inoltre, è il tema della concupiscenza suscitata nelle divinità del mare (carm. II, 26a, 13-16 « quod si forte tuos vidisset Glaucus ocellos, / esses Ionii facta puella maris, / et tibi ob invidiam Nereides increpitarent, / candida Nesaee, caerula Cymothoe » ; e cfr. app. verg., ciris, 391-96 « Complures illam nymphae mirantur in undis, / miratur pater Oceanus et candida Tethys / et cupidas secum rapiens Galatea sorores, / illam etiam iunctis magnum quae piscibus aequor / et glauco bipedum curru metitur equorum / Leucothea parvusque dea cum matre Palaemon »), sempre esperito attraverso la mediazione del classicismo napoletano, e anzitutto delle Egloghe pescatorie del Rota. Ad esempio l’incipit di A XIII, « I freddi et muti pesci avezzi homai / ad arder sono, et a parlar d’amore », se da un lato allude a una celebre iperbole oraziana (carm. IV, 3, 19-20 « O mutis quoque piscibus / donatura cycni, si libeat, sonum »), presuppone anche un tópos « pescatorio » fruito in Rota, egloga IV, 18 « i pesci in mezzo l’acque e l’acque infiamma » 59 sulla scorta di Sannazaro, sonetto IV se fama al mondo mai sonora e bella, 12-13 « mi vedresti al tuo nido in mezzo l’acque / arder » ed eclogae II, 25 « quaeque vel mediis Neptunum torreat undis » 60 (da cui anche Rota, egloga II, 41-42 « dal bel lume s’infiamma / Nettuno, et arde nel più basso gorgo ») ; mentre l’immagine affine che chiude il sonetto precedente, A XIII, 12-14 « Osa pur, ché mill’occhi a te daranno / mille fiumi in soccorso, et co’ sospiri / ferventi al mar torrem le forze et l’acque » richiama un luogo della seconda pescatoria del Rota, « et accrescer ognor l’onde col fiume / di questi occhi dolenti, e co’ sospiri / arder l’acque l’arena i sassi e l’alga » (vv. 24-26), ma anche la chiusa di un sonetto di Bernardo Tasso, ecco, reale e glorioso monte (amori, libro terzo, XXIII), 12-14 « E i miei sospir ne le tue rive sparsi, / del foco del mio cor caldi e cocenti, / infiammaron d’amore i sassi e l’erbe ».

Sul piano delle opzioni formali, la ripresa del dittico re de gli altri – i freddi et muti pesci farà sistema, in E, col ricorso privilegiato alla concatenazione metrico-retorica e lessicale dei componimenti, tanto che si potrebbe caratterizzare la raccolta « eterea » come una sorta di canzoniere “geometrico” prima che narrativo.

Sia il caso del sonetto introduttivo di A, su l’ampia fronte ’l crespo oro lucente, che nella silloge « eterea » occupa il secondo posto (E II). Ad esso tien dietro, nella nuova compagine, il sonetto ninfa, onde lieto è di diana il coro (E III), che in apertura della seconda quartina (5 « ondeggiavano sparsi i bei crin d’oro ») ne riprende il movimento incipitario, « su l’ampia fronte il crespo oro lucente / sparso ondeggiava », variando inoltre la clausola « et l’aura del parlar cortese et saggio / fra le rose spirar s’udia sovente » (su l’ampia fronte, 7-8) in « et l’aura del parlar dolce ristoro / era del foco che da li occhi usciva », nella stessa posizione metrica. Il nuovo sonetto proemiale, havean gli atti leggiadri e ’l vago aspetto (E I), si connette a sua volta con su l’ampia fronte riformulando, ai vv. 9-11 « quand’ecco novo canto il cor percosse / e spirò nel suo foco ; e ’n lui più ardenti / rendé le fiamme da’ be’ lumi accese », il tema « sinestesico » su cui era giocata la pointe finale di quello, che ancora si evocherà in un luogo del dialogo il minturno (1592) quasi a simbolo degli « ardiri » della poetica giovanile :

[minturno] udiste mai questi versi ?

io, che forma celeste in terra scorsi,
rinchiusi i lumi e dissi : – ahi, com’è stolto
sguardo ch’in lei sia d’affisarsi ardito ! –

ma de l’altro periglio non m’accorsi,
ché mi fu per gli orecchi il cor ferito
e i detti andaro ove non giunse il volto.
[Ai (→ E ii) Su l’ampia fronte, 9-14]

[ruscelli] sono i versi, se non m’inganno, di torquato, figliuolo del signor bernardo tasso, ch’in anni giovenili ha mossa di sé molta espettazione.

[minturno] sottile senza dubbio è l’avedimento del giovine, co ’l quale ci ammonisce a fuggir non solamente con gli occhi rinchiusi ma con gli orecchi : ma egli, incappato ne le reti d’amore e punto da’ suoi strali, non è presto a la fuga. 61

ancora : tra E IV, 12-14 « E già, s’a’ certi segni il ver conosco, / vicino è il Sol che le mie notti aggiorna, / et veggio amor che me l’addita et mostra », ed E V, iniziante « veggio, quando tal vista amor m’impetra / sovra l’uso mortal Madonna alzarsi », intercorre una ripresa capfinida da explicit a incipit (e si noti l’applicazione del deittico) ; i sonetti E VIII-IX (ai servigi d’amor ministro eletto e chiaro cristallo a la mia donna offersi) formano una coppia sul tema dello specchio, equivalente a quella petrarchesca (rvf. 45-46, giusta Ovidio, am. II, 18) e saldata anche dalla rispondenza tra VIII, 11 « m’aventò al cor più d’un pungente strale » e IX, 10-11 « et di che duri strali / questa bellezza mia l’alma saette », con lo stesso lessema in posizione rimica ; e del pari petrarchesco è il motivo comune (vecchiaia e canizie dell’amata e del poeta : cfr. rvf. 12, 317) che fa dei sonetti EXVII-XIX quasi tre « fratelli », attraversati da un fitto reticolo di corrispondenze formali, a cominciare dalla similarità dei capoversi :

[E xvii] Vedrò da gli anni in mia vendetta anchora

[E xviii] Quando havran queste luci e queste chiome

[E xix] Quando vedrò nel verno il crine sparso,

ma senza trascurare il ritorno della stessa rima A in XVIII e XIX, che comporta sia la ripresa di rimanti (spenti, accenti), sia il parallelismo antonimico tra XVIII, 2 « faville ardenti » e XIX, 2 « pruine algenti » (e Ts1, instaurando a XVII, 14 la variante « rinovellarsi qual Fenice in foco » [← « quasi in rogo Fenice rinovarsi » E], livellerà la rima E sulla rima C del sonetto XIX, con aggancio lessicale da explicit a explicit [cfr. XIX, 14 « risplenderà più chiaro il mio bel foco »]) ; o ancora gli echi di XVII, 6 « sparger il verno poi nevi e pruine » in XIX, 1-2 « nel verno il crine sparso / aver di neve », o di XVIII, 9-10 « e quasi in specchio, che ’l difetto emende / de gli anni » in XIX, 12-13 « e quasi fiamma, che vigore e lume / ne l’estremo riprenda ».

E più colpisce come il trittico XVII-XIX occupi a sua volta il centro di una struttura ad anello formata dai sonetti XVI e XX, che si richiamano a distanza per varie implicazioni metrico-lessicali ; si comparino le due fronti :

[E xvi][E xx]
chi di non pure fiamme acceso ha ’l core
e lor ministra esca terrena immonda,
chiuda l’incendio in parte ima e profonda,
sì che favilla non n’appaia fore.
Chi chiuder brama a’ pensier vili il coreapra in voi gli occhi, e i doni in mille sparsiuniti in voi contempli : e ’n lui crearsisentirà nove voglie e novo amore.
machi infiammato d’un celeste ardore
d’ogni macchia mortal si purga e monda,
ragion non è che ’l nobil foco asconda
chiuso nel sen ; né tu ’l consenti, Amore.
Ma se scender nel seno estremo ardore
sente da’ lumi di pietà sì scarsi,non s’arretri o difenda, ove in ritrarsi
non è salute, o in far difesa honore.

il modello soggiacente è nell’avvio di due componimenti di Giovanni Guidiccioni : XXXI, 1-3 « O voi che sotto l’amorose insegne / combattendo vincete i pensier’ bassi, / mirate questa mia » e LI 1-5 « chi desia di veder dove s’adora [...] // venga a mirar costei » ; 62 ma l’intento « spirituale » dell’archetipo si declina qui, pour cause, secondo l’acceso platonismo di due sonetti consecutivi delle rime di Luca Contile : ode l’humana vita alti intelletti, 2-5 « deh se bramate contempar il cielo [...] // guardate d’una donna gli alti effetti » e la luce de’ duo bei soli lucenti, 5-8 « Sono in tai lumi quelli oggetti spenti / che mi fean l’alma neghittosa e molle, / sì che per questi ogni pensier si tolle / da quei fieri desii nel senso ardenti ». 63

*
* *

i due sonetti « pescatorii » di A saranno recuperati, quasi vent’anni dopo l’allestimento delle rime « eteree », anche all’interno del canzoniere Chigiano (C LV [re de gli altri] – LVI [ifreddi et muti pesci]). Secondo una strategia variamente perseguita in più luoghi della nuova raccolta, sul dittico originario si innesta una struttura narrativa più complessa : il viaggio della donna a Comacchio, che in C sostituisce Venezia nell’argomento di LV, è anticipato in quello di LIV cercate i fondi e le secrete vene, dove « Nell’andata della sua Donna a Comacchio, invita poeticamente le Nimfe ad honorarla », e prosegue in LVII palustri valli et arenosi lidi, dove « Prima chiede a’ lidi et a’ porti del mare che gli insegnino ove la sua donna sia a pescare, poi mostra di veder tirar la rete ». Ma più ancora della continuità tematica appare significativa, e immediatamente avvertibile, la cifra di stile cui si attengono i due nuovi sonetti di « cornice » (C LIV appariva già nella stampa Zabata delle rime ; 64C LVII è inattestato anteriormente alla redazione del Chigiano, e forse composto per l’occasione), e a tale affinità di maniera (segnatamente nel ricorso all’allegoria continuata) pare alludere, negli argomenti, la rispondenza da « invita poeticamente » (LIV) a « essortandolo poeticamente » (LV), a « descrive con modi poetici » (LVI). Si riproduce qui la stesura base del Chigiano (Ca), riportando in seconda colonna le principali lezioni corrigenti del manoscritto (Cb) e in apparato genetico (per LIV) alcune varianti della stampa Baldini (11), esemplare immediato di C giusta la dimostrazione iselliana : 65

C LIV

Cercate i fondi e le più interne vene      → cercate i fondi e le secrete vene Cb
de l’ampia terra, o ninfe, e ciò ch’asconda
di pretioso il mar ch’intorno inonda
i salsi lidi, o sparso è tra l'arene      → i salsi lidi e le minute arene Cb

e portatelo a lei, che tal se ’n viene
ne la voce e nel volto a questa sponda
qual vedeste la dea che di feconda
spuma già nacque, o pur dolci Sirene.

Ma di coralli e d’or, di perle e d’ostri
qual sarà don, che per ischivo gusto
paga di sé medesma ella non sdegni,

se non han pregio i vostri immensi Regni, → i vostri antichi regni Cb
o straniero o natio, ch’in spazio angusto
ella molto più bello in sé no ’l mostri ?

2. del mare, o ninfe, e tutto ciò ch’asconde 11 ; 3. di pretioso entro le nobil onde ; 4. il gran nettuno, o sparso è tra l’arene 11 ; 14. ella molto più bello in sé nato nol mostri 11

C LVII

Horridi scogli et arenosi lidi,       → Pallustri valli et arenosi lidi Cb
aure serene, acque tranquille e quete,
marini armenti, e voi che fatti havete
a verno più soave i cari nidi,

elci frondose, amici porti e fidi,
chi tra le pescatrici accorte e liete
dove hanno tesa con amor la rete,
sarà ch’i passi erranti hor drizzi e guidi ?

Veggio la donna, anzi la vita mia
e ’l fune avolto a la sua bianca mano
che trar l’alme co’ pesci anchor potria,

e ’l dolce lume lampeggiar lontano,
e mentre il bianco piè baciar desia
le bagna il mar lembo ceruleo in vano.

13. baciar ricalcato su lavar ; 14. lezione instaurata (e successivamente cassata) nell’interlinea inferiore ; in rigo il verso incompiuto e cassato le bagna il mar l’aurato lembo, nell’interlinea superiore la lezione corrigente intermedia e bagna il mar l’argente[o], pure incompiuta e cassata.

I due testi giustapposti al dittico originario evocano il medesimo orizzonte di modelli letterari ; quel che più conta, le varianti instaurative di C risultano convergenti verso tale “sincronia” ideale. Per il primo sonetto sarà da citare, anzitutto, il simile avvio di uno di Bernardo, nel quarto libro delle rime (XLV) :

O perla orïental bianca e rotonda
e d’altro ornata che di gemme e d’oro,
che pòi far parer vil quanto tesoro
il gran padre ocean nel seno asconda,

la cui alma gentil sempre feconda
germoglia varii fior, che ’l crine loro
spiegando verso il ciel lieto e decoro
fan che d’ogni virtù la terra abonda ;

ma anche, poniamo, il sonetto ninfe, che in questi chiari alti cristalli (amori, primo libro, CXXXVII), 10-11 « chiudete / nel più secreto vostro erboso fondo », all’origine della variante « Cercate i fondi le pinterne vene » Ca→ « le secrete vene » Cb (LIV, 1) ; così, nello stesso sonetto, la lezione corrigente del v. 4 « i salsi lidi e le minute arene » (Cb) si riallinea al sistema espressivo delle pescatorie del Rota (VII, 83-84 « che annoverar sarebbe / tutte di Libia le minute arene », e cfr. già Sannazaro, Arcadia, XII, « alcune Ninfe [...] che con bianchi e sottilissimi cribri cernivano oro separandolo da le minute arene »), cui appartiene anche il motivo del dono « di coralli e d’or, di perle e d’ostri » (v. 9 : cfr. Rota, egloga X, 102-103 « et un monile / contesto avrai di perle e di coralli », ma anche Sannazaro, ecloga I, 82-83 « et tibi septenis pendebunt ostrea sertis / ostrea muricibus variata, albisque lapillis »). A sua volta, la metafora dei « marini armenti » di LVII, 3 sembra procedere dall’egloga piscatoria di Bernardo Tasso (amori, II, CIX), vv. 75-76 « tanta greggia [...] ne’ prati be’ de la marina », mentre gli « arenosi lidi » del v. 1 trovano riscontro nella Favola di ero e leandro (terzo libro degli amori), 467 « verso i lidi arenosi andando a volo » (e cfr. le stanze se ben di nove stelle del quarto libro, 6-7 « ne suona / ancora il lido e l’arenosa sponda ») ; come alla maniera di Bernardo appartiene l’acquisto, sempre incipitario, di « Palustri valli » (Cb), dalla canzone dunque così per tempo, alma gentile (quinto libro, CLXXXV), 40-43 « mentre de’ tuoi begli occhi il vago sole / spiegava i raggi suoi fecondi e chiari / sopra queste palustri oscure valli / rideva intorno il ciel, la terra e i mari », cui attingeva già il primo sonetto del dittico Atanagi, re de gli altri, 5-6 « da che ’n voi lieto spiega i dolci rai / il sol che fu di queste sponde honore ».

Fra i moventi del Tasso redattore del Chigiano si manifesta dunque una sorta di pietas “storica”, o senz’altro filologica, che farà la sua prova anche nel recupero, dopo l’esclusione dalle rime « eteree », di uno dei sonetti « fratelli » della raccolta Atanagi, la terra si copria d’horrido velo (A V → CXXXIV), posto a contatto con altro tematicamente affine, l’alma vostra beltà, che dolcemente (C XXXV), così che la metamorfosi esperita nel primo, 10-11 « il freddo cor sentia cangiarsi / e la nebbia sparir de’ miei disdegni » (testo C)si rinnovi nel secondo, « L’alma vostra beltà [...] in questa nubilosa e fredda bruma / scalda la mia gelata e pigra mente » (vv. 1, 3-4), con parallelismo ulteriormente sancito dal sistema degli argomenti in prosa, che dichiarano, nell’ordine, « Essendo la terra coperta di neve [...] vide passare la sua donna et in passando parve che si rasserenasse il tempo » e « Dice a la sua donna d’esser acceso dalla sua beltà nella maggiore asprezza del verno ». E non è un caso che il Chigiano accolga a brevissima distanza anche il sonetto, già « etereo », sentiva io già correr di morte il gielo (CxXXVII ← EXXVII). Si tratta di una variazione sul sonetto ariosteo Chiuso era il sol da un tenebroso velo, che è anche, come si è visto, il modello immediato di la terra si copria : talché esercizi successivi su uno stesso tema formale (e, nella diacronia delle raccolte, alternativi) si ricompongono in serie nel continuum diegetico del nuovo canzoniere.

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1  La fitta tradizione a stampa delle Rime piacevoli anteriore alla fine del secolo si articola nei seguenti tipi principali :
P82 = RACCOLTO | D’ALCVNE | PIACEVOLI | RIME | [marca tipogr.] | In Parma. Per gli Heredi di Seth Viotto. | Con licenza de’ Superiori. 1582. [12], 261, [3] p. ; 12°.
P84 = RIME | PIACEVOLI | DI M. CESARE | CAPORALI DA | Perugia, | Accresciute da altre sue non più | stampate ; | Et con l’aggionta d’alcune parte burle- | sche, & parte graui di diuersi nobi- | lissimi ingegni ; che nella prima im- | pressione di questa Opera non si | leggono. | Alla molto Ill.re Sig.ra la Sig.ra Lucretia | Scotta Anguisciola. | Contessa di San Polo. | [marca tipogr.] | IN PARMA. | Con licenza de’ Superiori, et con Priuilegio. | M. D. LXXXIIII. [8], 231 p. ; 12°.
M85 = LE | PIACEVOLI | RIME DI | CESARE CAPORALI | PERVGINO | Di nuouo in questa terza impressione | accresciute d’altre graui, per l’adietro | non più date in luce, | AL MOLT’ILL. SIG. GIO. | Geronimo Marino, Marchese di | Castelnuouo | [marca tipogr.] | IN MILANO. | Per Pietro Trini. MDLXXXV. [16], 271, [1] p. ; 12°.
F86 = RIME | PIACEVOLI | DI CESARE CAPORALI, | DEL MAVRO, ET | d’altri Auttori. | ACCRESCIVTE IN QVE - | sta quarta impressione di molte | Rime graui, & burlesche | DEL SIG. TORQUATO TASSO, | E di diuersi nobiliss. Ingegni. | Al M. Ill. S. Francesco Bittignuoli Bressa. | [marca tipogr.] | IN FERRARA, | Per Vittorio Baldini Stampator Ducale | Con licenza de’ Superiori. 1586. 232 p. ; 12°.
V87 = RIME | PIACEVOLI | DI CESARE CAPORALI | DEL MAVRO, ET | d’altri Auttori. | ACCRESCIUTE IN QUESTA | quarta impressione di molte Rime | graui, & burlesche. | DEL SIG. TORQ. TASSO, | E di diuersi nobilissimi Ingegni. | Al M. Ill. S. Francesco Bittignuoli Bressa. | Con licenza de’ Superiori. | [marca tipogr.] | IN VENETIA, | resso Gio. Battista Bonfadini, 1587. 307 p. ; 12°.
V89 = LE | PIACEVOLI | RIME | DI M. CESARE | CAPORALI, | PERVGINO. | on una Aggiunta di molte altre Rime, | fatte da diuersi Eccellentissimi | & belli ingegni. | [marca tipogr.] | IN VINEGIA, | PRESSO GIORGIO ANGELIERI | M. D. LXXXIX. 120 c. ; 12°.
F92 = RIME | PIACEVOLI | DI CESARE CAPORALI, | DEL MAVRO, ET | d’altri Auttori. | ACCRESCIVTE IN QVESTA | Sesta impressione di molte Rime graui, & | urlesche del Sig. Torquato Tasso, del | Sig. Annibal Caro, & di diuersi | nobilissimi ingegni. | AL MOLTO MAG. SIGNOR | LODOVICO RIGHETTI. | [marca tipogr.] | IN FERRARA, | Appresso Benedetto Mammarello. 1592. | Con licenza de’ Superiori. [24], 264 p. ; 12°.
Segnatamente risultano descriptae : di F84 la stampa Parma, Viotti, 1592 ; di F86 la stampa Ferrara, Mammarelli, 1590 ; di V87 le stampe Venezia, Cornetti, 1588 e Venezia, Vincenzi, 1588.
Le stampe recensite dal Solerti quali testimoni di cose tassiane sono M85 (indicata come 40), F86 (50) e V89 (50a) : cfr. Torquato Tasso, Le rime, edizione critica sopra i manoscritti e le antiche stampe a c. di A. Solerti, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1898-1902, I, pp. 224-25, 230-33).
Con speciale riguardo alla sezione di rime di vari contenuta in ciascuna edizione (e alla sezione tassiana che si instaura a partire da F86), si è allestita la seguente tavola sinottica ; per i testi comuni a più stampe si adotta come ordinamento di base quello di P84.

2  Si cita secondo la numerazione solertiana, ripresa nell’edizione delle Rime curata da B. Maier (Milano, Rizzoli, 1964, 2 voll.), quindi in T. Tasso, Le rime, a c. di B. Basile, Roma, 1994, 2 voll.

3  Siglata 11 dal Solerti ; per la parte dell’edizione Baldini nella storia delle rime cfr. almeno L. Caretti, Studi sulle rime del Tasso, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1973 2 e D. Isella, Il codice Chigiano L VIII 302 e i suoi rapporti con le stampe, in Studi di filologia e letteratura italiana offerti a Carlo Dionisotti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1973, pp. 241-93.

4  Cfr. L. Caretti, Studi cit., pp. 31-32.

5  Cfr. T. Tasso, Rime d’amore (secondo il cod. Chigiano L VIII 302), a c. di F. Gavazzeni, M. Leva, V. Martignone, Ferrara-Modena, Panini, 1993, p. 85 (LXXVI).

6  Cfr. Componimenti volgari et latini di diversi et eccellenti autori in morte di Monsignore Hercole Gonzaga, Cardinal di Mantova, Mantova, Giacomo Ruffinelli, 1564, c. 25v.

7  Cfr. Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori in lode dell’Illustrissima Signora, la Signora Donna Lucretia Gonzaga Marchesana, Bologna, Giovanni Rossi, 1565, pp. 121-24 (la corona inizia Quell’alma luce che di fuor dimostra). La raccolta, promossa nell’ambiente dell’Accademia bolognese degli Umorosi, è preceduta da una lettera prefatoria del Dormi (scil. Cornelio Cattaneo [† 1573], canonico regolare di S. Salvatore in Bologna), datata 20 ottobre 1564, che nomina Ludovico Domenichi e Giovanni Betussi quali patrocinatori dell’iniziativa. Contiene, del Santini, anche un sonetto di risposta al Dormi, Ben ch’io mi stia su queste herbose rive (p. 45).

8  Sull’Accademia degli Eterei si vedano almeno : Pitture del Doni, Padova, Gratioso Percaccino, 1564, cc. 2 segg. ; Scipionis Gonzagae Card. Commentariorum rerum suarum libri tres, Romae, apud Salomonium, pp. 36 segg. (ora anche in edizione anastatica, con trad. it. : S. Gonzaga, Autobiografia, Modena, Panini, 1987) ; G. Gennari, Saggio storico sopra le Accademie di Padova, in Saggi scientifici e letterari dell’Accademia di Padova, Padova, 1786, I, pp. XIIILXXI, alle pp. XXIX-LXI ; P. A. Serassi, La vita di Torquato Tasso, Bergamo, Locatelli, 1790 (ora anche in ristampa anastatica, ivi, Baroni, s.d.), pp. 133-140 ; V. Rossi, Battista Guarini e il ‘Pastor fido’. Studio biografico-critico con documenti inediti, Torino, Loescher, 1886, pp. 16-21 ; A. Malmignati, Il Tasso a Padova, Padova, Prosperini, 1889 (rec. di A. Solerti in « Giornale storico della letteratura italiana », 13 [1889], pp. 416-18 e di V. Crescini in « Zeitschrift für romanische Philologie », 12 [1890], pp. 567-61) ; A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, I, pp. 92-3 e 113-15 ; M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, Bologna, Forni, II, pp. 319-323 ; A. Daniele, Il Tasso e l’Accademia degli Eterei, in Id., Capitoli tassiani, Padova, Antenore, 1973, pp. 3-47.

9  Cfr. E. Selmi, Una lettera di Stefano Santini, « Studi tassiani », 45 (1997), pp. 305-11.

10  Cfr. Rime de gli Academici Eterei, a c. di G. Auzzas e M. Pastore Stocchi. Introduzione di A. Daniele, Padova, cedam, 1995 ; e limitatamente alla porzione tassiana della stampa, L. Caretti, Versi giovanili di Torquato Tasso, in Id., Studi cit., pp. 135-193, quindi in Torquato Tasso, Rime ‘eteree’, a cura di L. Caretti, Parma, Zara, 1990. Per la storia della raccolta sono essenziali i contributi di V. De Maldè, Il postillato Manuzio (Amz) delle « Rime ». Contributo alla storia dell’editoria e della tradizione tassiana, in Studi di letteratura italiana offerti a Dante Isella, Napoli, 1983, pp. 113-143 ; M. Zaccarello, Appunti sulle Eteree del Tasso, « Rivista di Letteratura Italiana », 9 (1991), pp. 565-589 ; M. Magliani, Sull’edizione delle Rime de gli Academici Eterei del 1567, « Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti », 106, parte III (1993-1994), pp. 5-26.

11  Cfr. T. Tasso, Le prose diverse, nuovamente raccolte ed emendate da C. Guasti, Firenze, Le Monnier, 1875, II, pp. 7-15.

12  Cfr. T. Tasso, Le rime, ed. cit., III, p. 25.

13  Circa la struttura e la posizione tradizionale di I4 (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 1072) cfr. T. Tasso, Le rime cit., I, pp. 86-104 ; V. De Maldè, La tradizione delle Rime tassiane tra storia e leggenda, « Filologia e critica », 9 (1984), pp. 230-53, alle pp. 238-39 ; e l’Introduzione di V. Martignone a T. Tasso, Rime d’amore, ed. cit., pp. XXI-XXXIX e passim.

14  Cfr. Rime de gli Academici Eterei, ed. cit., p. 78 ; incipit Quel ch’or quasi sepolto in sasso angusto e Ben fôra qual dal sol neve percossa.

15  De le rime di diversi nobili poeti toscani raccolte da M. Dionigi Atanagi, Venezia, Ludovico Avanzo, 1565, c. 1r-v.

16  Per la tipologia e la storia della corona di sonetti cinquecentesca la trattazione principe rimane quella di G. M. Crescimbeni, Commentari intorno alla sua istoria della volgar poesia, Venezia, Basegio, 1731, vol. I, lib. III, cap. ix Delle Corone, e d’ogni altra spezie di più Sonetti legati insieme, pp. 211-15 (a corollario il cap. x, pp. 215-19, discorre D’altri legamenti, e concatenamenti di Poesie). Il Crescimbeni pone le origini del genere negli esemplari pubblicati dall’Allacci (Poeti antichi, Napoli, D’Alecci, 1661) ossia Folgòre, Cenne da la Chitarra, Fazio degli Uberti. La classificazione del materiale raccolto è però “sincronica”, e procede anzitutto secondo un parametro quantitativo : da un lato il Muzzarelli « dilatando la maniera », svolge una stessa materia per venticinque sonetti consecutivi (e ignoti già al Crescimbeni, che si attiene alla testimonianza del Brieve discorso di Girolamo Ruscelli annesso al Sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, Venezia, Al Segno del Pozzo, cc. 274r-276r) ; dall’altro il Caro che, limitandosi a tre, « restringe [...] la maniera ». Per queste varietà il Crescimbeni preferisce parlare di « sonetti legati » o di « catena » (termine che riserva anche a Rvf. 41-42) : « corona » indica specialmente la concatenazione di nove o dodici o quindici sonetti, vincolati appunto alla norma di « incominciare il sonetto seguente coll’ultimo verso dell’antecedente, e l’ultimo sonetto chiuderlo col primo verso del primo », applicata per la prima volta, sulla misura di dodici sonetti, nell’Apologia di Annibal Caro, Parma, Seth Viotti, 1558, prima occorrenza a stampa della dizione « corona » di sonetti, che il Crescimbeni tuttavia non cita. Sicuramente più alto nella cronologia (e lo segnalano gli annotatori all’edizione 1731 dei Commentari, p. 212, seguiti da F. S. Quadrio, Della storia, e della ragione d’ogni poesia, II, Milano, Agnelli, 1741, p. 47) risulta solo l’esperimento di Giovan Giacopo Salvatorino, il cui Thesoro de Sacra Scrittura sopra le rime del Petrarcha, Venezia, Comin da Trino, 1537, si fregia di una Prefatione dell’opera in sonetti XXI tra sé retrogradi (cc. A 4r-B 1r), « nella quale non solo in desinenza di tutti i Sonetti son sempre le medesime voci, ma ancora, siccome tutti i Sonetti de’ numeri dispari incominciano co’ Quadernarj, e finiscono co’ Terzetti secondo l’uso, così tutti que’ de’ numeri pari incominciano co’ Terzetti e finiscono co’ Quadernari [secondo l’incatenamento ABBA ABBA CDC DCD CDC DCD ABBA ABBA ABBA ABBA CDC DCD ecc.] ; conchiudendo poi il ventunesimo e ultimo Sonetto con un mezzo Sonetto composto di un Quadernario e di una Terzina : cosa per vero dire stravagante, e scempiata » (F. S. Quadrio, loc. cit.).

17  Cfr. A. Caro, Lettere familiari, a c. di A. Greco, Firenze, Sansoni, 1957, I, pp. 35-36 (a Benedetto Varchi, agosto 1536) : « Mattio [Franzesi] mi dice di avervi mandati tutti e tre li miei [sonetti] a la detta Marchesa [Vittoria Colonna], che gli ho fatti ad imitazione dei tre fratelli del Petrarca. Voi non accusate, se non uno, e la risposta dell’Ombroso, quale è un sanese de l’Academia de gl’Intronati, Secretario di Santa Fiore, che mi rispose in vece de la Signora e non me ne fece troppo piacere, perché la Signora avea promesso di risponder lei. Avvisate quel che vi pare di tutti insieme, e di ciascuno da sé, che si disputa qual sia, o meglio, o manco tristo d’essi ».

18  Aretefila, dialogo di Lucantonio Ridolfi. Nel quale da una parte sono quelle ragioni allegate, le quali affermano, lo amore di corporal bellezza ancora per la via dell’udire pervenire al cuore, et dall’altra, quelle che vogliono lui havere solamente per gl’occhi l’entrata sua : colla sentenza sopra cotal quistione, Lione, Guglielmo Rovillio, 1560, pp. 99-100.

19  Per la struttura e la storia della raccolta si veda il contributo di S. Bigi, Le Rime di diversi a cura di Dionigi Atanagi, in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a c. di M. Santagata e A. Quondam, Ferrara-Modena, Panini, 1989, pp. 239-242.

20  Nella tassonomia del Crescimbeni, che qui si fonda principalmente sulla nota dell’Atanagi, il trittico di sonetti è associato alla corona come specie al suo genere : « Per lo contrario alcuni altri, che la maniera restringer vollero, si obbligarono a tesser tutti i sonetti della catena delle medesime rime, come sono quei tre d’Annibal Caro impressi tra le sue Rime, il primo de’ quali comincia Donna qual mi fuss’io, qual mi sentissi. Oltre alle predette, ne fecero anche d’altre sorte, come osservò l’Atanagi nella Tavola del primo Libro della sua Raccolta » (G. M. Crescimbeni, Commentari cit., p. 212).

21 At 1, Tavola, cc. Gg 5v-Gg 6r.

22  L’Atanagi fu, con venticinque componimenti, tra i massimi contributori della raccolta dei Versi et regole della nuova poesia toscana allestita dal Tolomei, Roma, Blado, 1539 (si veda l’edizione anastatica, con ampia introduzione di M. Mancini, Roma, Vecchiarelli, 1996). Sui riflessi in At della « poesia nuova » tolomeiana (e in generale del classicismo romano) cfr. S. Bigi, Le Rime di diversi cit., p. 240.

23  Incipit : Vinse Signor tutte le genti Perse ; Ben debb’io render gratie a chi v’offerse ; Stille d’inchiostri non fur mai si asperse (Giacomo Cenci, At 2, c. 65 r-v) ; Quando, Amor, bella donna il cor m’aperse ; Le mie rime d’assentio sol cosperse ; Tante eccellentie in voi, Donna, cosperse (Alessandro Marzio, At 2, cc. 86v-87r).

24 At 2, Tavola, c. Cc 4r.

25 At 1, Tavola, c. Aa 3r.

26  Cfr. B. Tasso, Lettere, II, Padova, Comino, 1733, p. 360 (lettera del Molino al Tasso del 22 gennaio 1558) ; corsivo mio. Notizie e documenti sull’Accademia Veneziana, chiusa per decreto del Senato nel 1561, si trovano in G. Fontanini, Biblioteca dell’eloquenza italiana, con le annotazioni del Sig. A. Zeno, Venezia, Pasquali, 1753, II, p. 138 ; D. M. Pellegrini, Breve dissertazione previa al Sommario dell’Accademia Veneta della Fama, « Giornale della italiana letteratura », Padova, 1808, 22-23, pp. 3-32, 113-28, 49-68 ; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Venezia, Fontana, 1824, VII, 1, pp. 232-36 ; G. Rossi, Scoperta di due documenti relativi all’antica Accademia della Fama, in Esercitazioni scientifico-letterarie dell’Ateneo di Venezia, Alvisopoli, 1838 ; A. A. Renouard, Annales de l’imprimerie des Aldes, ou histoire des trois Manuce, Paris, 1834 3, pp. 267-79, 434-42 ; M. Maylender, Storia cit., V, pp. 436-43. Fondamentali i contributi recenti di P. L. Rose, The Accademia Venetiana. Science and Culture in Renaissance Venice, « Studi veneziani », 11 (1969), pp. 191-242 ; P. Pagan, Sulla Accademia « Venetiana » o « della Fama », « Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti », 132 (1973-1974), pp. 359-92 ; B. Marx, Die Stadt als Buch. Anmerkungen zur Accademia Venetiana und zu Francesco Sansovino, « Studi. Schriftenreihe des Deutschen Studienzentrums in Venedig », 9 (1993), pp. 233-60 ; e specialmente gli studi di Lina Bolzoni : L’Accademia Veneziana : splendore e decadenza di una utopia enciclopedica, in Università, Accademie e Società scientifiche in Italia e in Germania dal Cinquecento al Settecento, a c. di L. Boehm e E. Raimondi, Bologna, il Mulino, 1981, pp. 117-68 ; Il « Badoaro » di F. Patrizi e l’Accademia veneziana della Fama, « Giornale storico della letteratura italiana », 158 (1981), pp. 71-101 ; Variazioni tardocinquecentesche sull’ ‘ut pictura poësis’ : la « Topica » del Camillo, il Verdizzotti e l’Accademia Veneziana, in Scritti in onore di Eugenio Garin, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1987, pp. 84-115 ; ‘Rendere visibile il sapere’. L’Accademia Veneziana fra modernità e utopia, in Italian Academies of the Sixteenth Century. Edited by D. S Chambers and F. Quiviger, London, The Warburg Institute, 1995, pp. 61-78 (=Ead., La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino, Einaudi, 1995, pp. 3-25).

27  Per la tradizione delle rime di Domenico Venier cfr. A. Balduino, Petrarchismo veneto e tradizione manoscritta, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a c. di G. Padoan, Firenze, Olschki, 1976, pp. 243-70. All’edizione critica attende ora Monica Bianco, cui devo non poche illuminazioni.

28 At 1, Tavola, cc. Aa 2r. Si riporta di seguito il testo dei due componimenti :

Non pò la forza – e la vertù del core
far contr’Amore – in noi schermo o difesa :
ché riman presa, – e dal suo fero ardore
con gran dolore – alfin l’anima accesa.
Né, s’huom rinforza – e doppia il suo valore
per far minore – in sé la fiamma appresa,
men grande è resa : – anzi ’l primier calore
divien maggiore, – e fa crescer l’offesa.
Ciò sepp’io stesso, – allor che tutto sciolto
caddi pur cólto – a l’amoroso laccio,
et tutto ghiaccio – il cor m’arse un bel volto.
Né d’arder cesso : – e s’arder men procaccio
minor non faccio – il foco in me raccolto,
anzi più molto – i’ mi distruggo et sfaccio.
Sì grave doglia – il cor per voi sostene
ch’a perir vène : – Amor più d’anno in anno
doppia il mio danno, – e fermo in ciò mantene
lo stil, che tene, – il crudo empio tiranno.
Contra mia voglia, – ohimé !, forza et inganno
seguir mel fanno ; – e l’alma è fuor di spene
ch’ognihor non pene : – anz’i martîr verranno,
per troppo affanno, – a trarla un dì di pene.
Né, se per morte – al duol fero e pungente
che in vita sente – il duol sottrar la deve,
punto più leve – in sé vòl ch’ei divente :
anzi più forte – ognihor lieta il riceve,
perch’a sì greve – aspro martir possente
cada repente, – e n’haggia il fin più breve.

29  Cfr. Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, Firenze, Giunti, 1527 (ed. anastatica con introduzione e indici di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 1977).

30  Cfr. At 1, c. 92r, e Tavola, cc. Ii 3v : « La città di Modona ha sempre prodotto, & tuttavia produce di molti nobilissimi ingegni : de’ quali a niuno altro inferiore parmi l’autore di questa Canzone, tessuta da lui a la maniera de’ Provenzali, in lode de la Regina di Francia, & di Scotia, moglie del Re Francesco II. con tanta purità, et dolcezza di stile, che non meno per questo, che per la novità, la reputo degna d’essere & lodata, et ammirata da chiunque ha gusto di poesia ». La canzone del Barbieri è di sei coblas unissonans a schema AbCDEFgH più congedo WXyZ, con identità delle parole-rima DE in tutte le stanze : come notava già Debenedetti, il modello è poi la stanza di Rvf. 29 Verdi panni, AbCDEFg (cong. Xy), aumentata di un verso (cfr. S. Debenedetti, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento [1911], Padova, Antenore, 1995 2, pp. 191-92).

31  Per Domenico Venier provenzalista (e metricista : il ms. Ambrosiano D. 465 inf. conserva segnatamente un suo abbozzo sulle Regole delle desinenze nelle poesie di Peire d’Alverne) si veda sempre S. Debenedetti, Gli studi cit., pp. 80, 143-153, 185-188, 265.

32  Per la ricezione dell’opera di Giulio Camillo Delmino nell’ambiente dell’Accademia Veneziana cfr. L. Bolzoni, Variazioni tardocinquecentesche cit.

33  Somma delle opere che in tutte le scienze et arti più nobili, et in varie lingue ha da mandare in luce l’Accademia Venetiana, Venezia, Nell’Accademia Venetiana, 1558, c. P 1r.

34 At 2, Tavola, c. Kk 4v.

35  Cfr. Delle rime di Luigi Groto Cieco d’Hadria, Venezia, Fabio e Agostino Zoppini, 1587, pp. 27-29 ; la citazione è da p. 199. Gli incipit sono Se ’n gratia alcuna mai queste contrade ; Chi pingere, ombreggiar può tal beltade ; Cotal beltà sola tra Gange e Gade ; Quinci già per cotesta volontade. Altri quattro sonetti (pp. 175-177 : Colmo di colpe e di buon’opre scemo ; Ogni opra, ogni parola, ogni pensiero ; Al mio danno veloce, a l’util lento ; L’alma ribelle e ingrata non presume) risultano « fatti con le medesime cadenze variando però quelle dei Quartetti in quelle dei Terzetti » (p. 185), secondo la norma ABBA ABBA CDC DCD BAAB BAAB DCD CDC CDDA CDDA ABA BAB DCCD DCCD BAB ABA.

36  Cfr. ibid., pp. 175 (testo), 190 (commento).

37  Cfr. ibid., pp. 67 (testo), 184 (commento).

38  Cfr. ibid., pp. 13 (testo), 185 (commento).

39  Cfr. Rime Spirituali del R. D. Gabriele Fiamma, canonico regolare Lateranense, Venezia, Francesco de’ Franceschi, 1575, pp. 292-93.

40  L’ordinamento alfabetico, estraneo alla serie giolitina, è adottato dapprima nei Fiori delle rime de’ poeti illustri, nuovamente raccolti e illustrati da Gerolamo Ruscelli, Venezia, Giovan Battista e Melchior Sessa fratelli, 1558. Si sofferma a giustificarlo l’epistola dedicatoria : « io ho poi nell’ordinar gli autori, voluto venirli mettendo per l’ordine stesso dell’Alfabeto, perché la malignità di molti, che si stanno fuori senza far nulla del loro, et cicalan sempre momescamente nelle cose altrui, gli farebbono trovare nudrimento alla loro invidia, con cinguettar che non si fosse ben tenuta la dignità de’ meriti in metter l’uno prima che l’altro. Onde essendo così per l’ordine dell’Alfabeto non havrà alcuno da metter questa magra zizania nel cervello, o ne la lingua di sé o d’altri, quasi che chi dà in luce un volume di cose tutte perfette, possa (com’io soglio dire in tali occasioni) ridurre i libri in forma rotonda, perché l’uno non istia doppo l’altro ; o quasi che chi habbia detto esser tutti buoni, intenda che di quel tutto egli ha per buono solamente il principio, et non l’altre parti » (c. ** 5r) ; ed alfabetico è anche l’ordine della prima raccolta curata dall’Atanagi, le Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori in morte della Signora Irene delle Signore di Spilimbergo, Venezia, Domenico e Giovan Battista Guerra, 1561. Nella nota Dionigi Atanagi a’ lettori in testa ad At 2, il mutato criterio di ordinamento si attribuisce alle contingenze della stampa : « Perché alcuno si potrebbe meravigliare, & forse anche dolere così de l’ordine tenuto in porre gli autori di queste Rime l’uno doppo l’altro, come del modo vario usato nell’ortografia, parendo, che nell’uno non si sia servato il decoro, & ne l’altro si sia proceduto senza alcuna regola ; hanno i discreti lettori a sapere, quanto a l’ordine, che nel primo libro, per tor via quelle occasioni di maraviglie, & doglienze gli autori fur posti per ordine d’alfabeto. Il che non s’è potuto, né voluto fare nel secondo : perché si toglievano insieme le occasioni del poter compiacer molti gentilhuomini, a’ quali s’era dato intentione d’aspettar le lor rime, le quali sarebbono rimase addietro, se non fossero venute in tempo da porle a’ luoghi loro : dove ponendole secondo che ci sono venute a le mani, senza riguardo, o pensiero d’honorar più questo che quello, habbiamo havuto commodità di servire ciascuno infino a l’ultimo foglio » (c. A 7r-v).

41  Cfr. ad esempio la lettera con cui Bernardo Tasso ragguaglia lo Speroni intorno all’esito di una sua lezione in Accademia : « Io son stato questi duo giorni occupato intorno al Ragionamento della Teologia, che jeri con grandissimo concorso, applauso, e commendazione di tutti si lesse nell’Accademia, ai Prelati che si trovavano nella Città, al Clar. Navagero, ed altri senatori, ed a sei principali mercanti di tutte le nazioni : il che spero che siccome ha portato una grandissima riputazione all’Accademia, che sia ancora per recarle molto utile » (B. Tasso, Lettere cit., II, 134-35).

42 Somma delle opere cit., c. P 1r. Gli scritti speroniani in difesa della Canace, ovvero l’Apologia e le Lezioni tenute davanti all’Accademia degli Elevati nel dicembre 1558, non apparvero mai a stampa : cfr. S. Speroni, Canace e Scritti in sua difesa – G. B. Giraldi Cinzio, Scritti contro la Canace, a c. di C. Roaf, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982, spec. le pp. XXXVII-XL.

43  La rappresentanza maggiore dei veneziani forma una serie compatta da c. 97r a c. 164r, e poi di nuovo da c. 159r in poi. A quasi tutti gli autori la Tavola dedica una sorta di presentazione, eventualmente dislocata nel commento a testi di corrispondenza. Le cifre in seconda colonna indicano il numero di componimenti per autore :

44  Cfr. At 1, Tavola, c. Ll 2 v.

45  Cfr. Somma delle opere cit., c. P 1r.

46  Cfr. Rime di M. Giacomo Zane, Venezia, Domenico e Giovan Battista Guerra, 1562, su cui cfr. G. Rabitti, Un caso di edizione postuma : le Rime di Giacomo Zane, in Il libro di poesia cit., pp. 231-38 ; alla stessa studiosa si deve anche l’edizione critica : G. Zane, Rime, Padova, Antenore, 1997.

47  Cfr. Rime di Mons. Girolamo Fenaruolo, Venezia, Giorgio Angelieri, 1574. La lettera dedicatoria, a Federigo Cornaro vescovo di Bergamo, è di Roberto Figolino nipote dell’autore (cc. a 2r-a 3v). La sezione delle Rime di diversi in morte di Monsignor Fenaruolo si trova alle cc 62v-78v e include i seguenti autori : Domenico Venier (un sonetto) ; Pietro Gradenico (3 sonetti, di cui uno a Domenico Venier) ; Orsatto Giustinian (un sonetto, al Venier) ; Ottaviano Maggi (un sonetto, al Venier) ; Giovan Mario Verdizzotti (7 sonetti, l’ultimo dei quali al Venier) ; Marco Stocchi (5 sonetti, di cui uno al Venier) ; Diomede Borghesi (un sonetto) ; Hostilio Verghicci (5 sonetti, di cui uno al Verdizzotti) ; Pietro Arigonio (2 sonetti, di cui uno al Venier) ; Girolamo Poro (un sonetto) ; Don Cesare Carafa (un sonetto) ; Marc’Antonio Martinengo (un sonetto, in cui si nominano il Venier e il Molino) ; Camillo Beltrame (4 sonetti) ; segue una sezione di poeti latini : Cornelio Amalteo ; Michele Braccetti ; Niccolò Stoppio ; Ludovico Ronconi ; Bernardino Crisolfo ; Palmerio Scardente ; Giovenale Ancina ; Vallerandus a Rivo ; Ruggero Tritonio ; Francesco Ancisa (un epigramma al Venier) ; Galeotto Pagani (un epigramma al Venier).

48  Cfr. Rime di M. Girolamo Molino, Venezia, s. e., 1573.

49  Cfr. L. Bolzoni, Variazioni tardocinquecentesche cit., pp. 86-96.

50  Cfr., anche per le citazioni successive, B. Tasso, Rime, a c. di D. Chiodo e V. Martignone, Torino, RES, 1995.

51  Cfr. At 1, Tavola, c. Aa 1r.

52  Cfr. T. Tasso, Lettere, a c. di C. Guasti, Firenze, Le Monnier, 1853-55, I, p. 14 (n° 5), 11 ottobre 1565 : « Nessuna eredità né maggiore né più onorata mi potrebbe lasciare mio padre, che le molte amicizie ch’egli s’ha in in lungo corso d’anni, conversando con virtuosi, acquistato. Fra le quali non ne deve essere alcuna più stimata di quella di Vostra Signoria, sendo ella tale che in bontà di costumi e di lettere a null’altro è giudicata inferiore. Però ho risoluto con questa, e con un sonetto che gli mando, cominciare sin da ora ad entrarne in possessione : né forse mi sarei arrischiato tanto, se la fama de la sua cortesia non m’avesse porto ardire. La prego bene, quanto più caldamente posso, che non mi voglia imputare ad arroganza l’avere scritto in materia ne la quale tante composizioni di tanti grandi uomini si vedranno : ché di ciò è stato solo cagione il desiderio che ho di mostrarle l’affezione e l’osservanza che le porto. E le bacio le mani ». Nel 1563 Bernardo e Torquato avevano preso parte alla raccolta, allestita dal Varchi, delle Rime di diversi eccellentissimi autori fatte nella morte dell’Illustriss. & Eccell. Duchessa di Fiorenza & Siena, & degli Illustriss. Signori suoi figliuoli, Ferrara, Panizza (il Tassino vi contribuiva col sonetto Com’è d’un dì sereno aperto segno, non recensito dal Solerti).

53  Cfr. Le rime di Messer Luca Contile, divise in tre parti, con discorsi, et argomenti di M. Francesco Patritio, et M. Antonio Borghesi, Venezia, Francesco Sansovino et compagni, 1560, c. 1r (Parte prima, I).

54  Cfr. E. Garin, Sulla retorica del Patrizi, « Giornale critico della filosofia italiana », 33 (1954), pp. 128-29 ; R. Scrivano, Luca Contile e Francesco Patrizi, in Id., Cultura e letteratura del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1966, pp. 183-94 ; L. Bolzoni, L’universo dei poemi possibili. Studi su Francesco Patrizi da Cherso, Roma, Bulzoni, 1980, p. 57 e passim. Per la parte del Sansovino nella vicenda dell’Accademia Veneziana cfr. in particolare B. Marx, Die Stadt als Buch cit.

55  Cfr. L. Contile, Le rime, ed. cit., c. 4r (Parte prima, XII).

56  Cfr. L. Contile, Le rime, ed. cit., c. 3r (Parte prima, VIII).

57  Sulla posizione tradizionale di Ts1 (Milano, Biblioteca Ambrosiana, S. P. 22, sigla solertiana Ar), postillato autografo della stampa Baldini (11), si rinvia a D. Isella, Il codice Chigiano cit. ed alle annotazioni di V. Martignone nell’Introduzione a T. Tasso, Rime d’amore cit.

58  Cfr. I. Sannazaro, Opere volgari, a c. di A. Mauro, Bari, Laterza, 1961.

59  Cfr. B. Rota, Egloghe pescatorie, a c. di D. Chiodo, Torino, RES, 1990.

60  Cfr. I. Sannazaro, Opera omnia latine scripta, Venetiis, apud Franciscum de Franciscis Senensem, 1593.

61  Cfr. T. Tasso, Dialoghi, edizione critica a c. di E. Raimondi, Firenze, Sansoni, 1958, II, p. 939.

62  Cfr. G. Guidiccioni-F. Beccuti, Rime, a c. di E. Chiorboli, Bari, Laterza, 1912.

63  Cfr. L. Contile, Le rime, ed. cit., cc. 5v-6r (Parte prima, XIX-XX).

64  Cfr. Scelta di rime di diversi eccellenti poeti [...] Parte seconda, Genova, Zabata, 1579 (sigla solertiana 7), p. 281. Il componimento è ripreso nelle due stampe aldine della Parte prima delle Rime, Venezia, 1581 (8) e 1582 (9) ; quindi nella Scielta di rime di Vittorio Baldini, Ferrara, 1582 (11).

65  Cfr. D. Isella, Il codice Chigiano cit.