Revue Italique

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Note per un bestiario lirico tra quattro e cinquecento

Massimo Malinverni

Se è vero (come scrive Francesco Zambon nell’introduzione alla sua versione italiana del Physiologus) 1che attraverso gli animali l’uomo ha creduto in passato di leggere o fingere, per speculum in aenigmate, verità metafisiche non altrimenti attingibili, per i rimatori volgari dei primi secoli varrà almeno, sub specie più cauta ed immanente, una suggestione continua, etica insieme e figurativa, al confronto ravvicinato con i nostri compagni di pena, o gioia, terrestre : quasi a voler quotidianamente verificare, al di là del ricorso stilizzato a topoi antichissimi, un radicamento originario e rassicurante a pulsioni, comportamenti e passioni sorprendentemente comuni. Senza contare il fascino costante e non estinguibile, nei secoli, del simbolo morale, della figura come ancoramento sintetico e potente per il nostro procedere così raramente, e fondatamente, orientato. Ed è allora facile prevedere quanto frequente, consentaneo e talvolta ossessivo divenga il ricorso ad immagini e tipi del mondo animale nell’espressiva e talvolta incontinente stagione lirica di fine Quattrocento. Segnatamente nella variante, più impaziente di canoni e monogame fedeltà imitative, dei cosiddetti « cortigiani », 2particolarmente fascinati dagli spunti rappresentativi più vivaci ed icastici. Da qui lo spunto per le poche Note, o meglio schede essenziali, che seguono. Tutte riguardanti, principalmente per assidua frequentazione di editore in fieri, il canzoniere di Panfilo Sasso : 3probabilmente, ad ogni buon conto, il più sbilanciato fra gli autori del tempo in un’accesa predilezione per l’exemplum naturalistico e animale. Valgano comunque, a parziale raffronto, almeno le sparse ma utilissime indicazioni desumibili dallo studio di Antonio Rossi sull’Aquilano, 4come dalla ricchissima annotazione di Tania Basile al Tebaldeo. 5Con la doverosa avvertenza, nel caso presente, di non aver minimamente teso ad un’impossibile esaustività dei riscontri di tradizione,né tantomeno di aver voluto ambire ad una vera e propria storia del genere « bestiario » nella sua sottospecie lirica : genere, ad immediata conferma, non sempre strettamente rispettato, in sede di analisi, a favore di comportamenti e figure propriamente extracanonici (escludendo, comunque, gli accenni generici ad animali che non svolgano un ruolo esemplarmente rilevato ed attivo).

Lo sparviero e il leone magnanimi, il gallo e la rana pusillanimi

D’un tristo ucel se sdegna el sparavero,
ben ch’abia fame, pigliar nutrimento ;
non fa preda el leon d’un vil armento,
ma d’un qualche animal superbo e fero.

Contra el vilan l’ardito cavalero
non piglia l’arme, a la sua gloria intento ;
quanto è magior fortuna e più fier vento
tanto più scorre in alto el bon nochiero.

A degna impresa un cor degno e soprano
driza el sò corso. Tu come el gal fai,
lassi la giemma per beccar el grano.

Dir m’el convien perché sforzato m’hai :
non fu chi fòr la rana del pantano
in alcun modo trar potesse mai.
(son. 47)

Agli esempi di magnanimitas, particolarmente vulgati, dei vv. 1-10 sono contrapposti in chiusura due esempi altrettanto tradizionali di comportamento pusillanime (questa volta esclusivamente dal mondo animale), a stigmatizzare sdegnosamente il tradimento della donna con un servo vile (cfr. son. 48, 9-11 : « Serviva como un cane incatenato, / e quella che m’havea ligato al laccio / m’ha per un servo vile abandonato »).

Il falcone (in questo caso sparavero, sparviero) e il leone sono già accostati come modelli di magnanimità nel bestiario « moralizzato » del Fiore di virtù, cap. XXVIII (citiamo dall’ediz. di Venezia, nel Beretin convento de la cha grande, 1474) : « E puose apropriare e asemîare la virtù del Magnanimità al Falcone : lo se lasarave inanci morire da fame che lo manzase de una carne marza, e non pîa mai se non oselli grossi. Sancto Augustino dice : lo Lione non fa guerra cum le formiche e l’Aquila non pîa mosche ». Dalla stessa tradizione derivano anche Cecco d’Ascoli, Acerba 2448-49 : « Non becca mai della putrida carne, / sia quanto vuole di fame converso » e Leonardo, Bestiario 23 : « Magnanimità. Il falcone non preda mai se non e uccelli grossi, e prima si lascerebbe morire che si cibassi de’ piccoli o che mangiasse carne fetida ». E cfr., in ambito lirico, Gallo I 113, 5-6 : « Un falcon singulare e pellegrino / a vil preda calarsi arebbe a sdegno ».

L’apologo del gallo (vv. 10-11) che nel cercare del cibo in un letamaio scopre invece una gemma, e la disprezza in quanto inutile a soddisfare la sua fame, è in fedro(Pullus ad margaritam, III 12), ma fino alla princeps del 1596 era noto soltanto attraverso l’eterogeneo corpus delle parafrasi pseudoesopiche : in particolare, nel Quattrocento, quella in distici di Gualtiero Anglico (XII sec.) : cfr. De gallo et iaspide, in Aesopus moralisatus, Verona, Giovanni e Alberto Alvise, 1479, cc. a5v-a6r. In quanto al particolare del grano, assente nell’originale (dove si parla genericamente di escam), è probabilmente derivato dalla versione volgare trecentesca di accio Zucco, immediatamente fatta seguire, in questa ed altre edizioni quattrocentesche, altesto latino : « Dice il maestro che ’l gallo, raspando / dentro al letame per trovar del grano, / maravigliosse che gli venne a mano / una preciosa pietra [...] ». Per l’espressione, di chiara origine proverbiale, dei vv. 13-14 cfr. ad es. antonio di Meglio, XIII 32-33 (Lirici toscani II 91) : « Perde tempo in chiamarla / la rana, chi vuol trarla – del pantano » ; e la rubrica del son. del feliciano, Tenne gran tempo tra le griffe un gatto (cito dal ms. α.H.6.1 [ital. 836] della Biblioteca Estense di Modena, c. 43r) : « Foeliciano affirma esser impossibil cosa trar la rana del pantano, et torcer la persona del suo naturale ».

Il sordo aspe

L’incanto fa il sordo aspe obediente,
rompe le dure pietre, abassa i monti ;
l’incanto ferma i fiumi e secca i fonti,
obscura el sol d’istade in oriente.

L’incanto el mar turbato fa la gente
passar sencia ale, sencia nave e ponti ;
l’incanto fa doi tigri, insieme agionti,
portar el duro giogo humanamente.

L’incanto pò dal ciel tirar la luna,
l’antiqua etade a la nova tornare ;
l’incanto vince Amore et la Fortuna,

et non pò la tua mente, aspra, mutare :
unde passi di orgolio, in el mondo una,
monti, fiumi, aspi, tigri, pietre e mare.(son. 241)

La donna, come dichiara l’incipit del successivo son. 242 (a questo strettamente legato : vedi più sotto) è fatta un aspe sordo al dolce incanto dei versi del poeta, e viene proposta come esempio supremo e singolare di orgoglio (ossia adamantina indifferenza, nonché ai sentimenti dell’amante, alla stessa magia dell’incanto) nel confronto con ogni animale od elemento naturale.

Ovviamente diffusissima è l’immagine dell’incantamento dei serpenti : cfr. in particolare tibullo I viii 19 ss. (probabile ispiratore della presente struttura anaforica) : « Cantus vicinis fruges traducit ab agris, / cantus et iratae detinet anguis iter, / cantus et e curru Lunam deducere temptat » ; quindi Virgilio, Aen. VII 753-55 ; ovidio, Met. VII 203 ; seneca, Medea 684-90 ; Lucano, Phars. VI 488-91 ; infine, per la sottolineatura del potere della poesia, Rvf. 239, 28-30 : « Nulla al mondo è che non possano i versi : / et li aspidi incantar sanno in lor note, / nonché ’l gielo adornar di novi fiori » ; e cfr. anche boiardo, A. L. CXI 1-2 : « Qual si move constretto da la fede / de’ tesalici incanti il frigido angue ». Ma per sordo aspe è fondamentale l’archetipo scritturale di Ps 57, 5-6 (« sicut aspidis surdae et obturantis aures suas / quae non exaudiet vocem incantantium et veneficii incantantis sapienter »), in seguito ripreso da un’amplissima tradizione leggendaria medioevale (cfr., per tutti, isidoro, Etym. XII iv 12 : « Fertur autem aspis, cum coeperit pati incantatorem, qui eam quibusdam carminibus propriis evocat ut eam de caverna producat : illa, cum exire noluerit, unam aurem in terram premit, alteram cauda obturat et operit, atque [ita] voces illas magicas non audiens non exit ad incantantem ») ed ovviamente volgare : si vedano almeno, in poesia, Rvf. 210, 7 : « che sol trovo Pietà sorda com’aspe » ; Cecco d’Ascoli, Acerba 2652-53 : « Per non sentire la magica prece, / ciascuna orecchia ottura e tien coperta » ; pulci, Morgante XIV 83, 5 : « l’aspido sordo, freddo più che lastra » (e ancora, pur con sovrasenso osceno, machiavelli, Canti carn. VI 19 : « L’aspido sordo è un tristo animale »). Mentre giusto LX 1-4 (« o dio, ch’al vento perdo le parole, / et cerco l’orso humiliar co ’l pianto, / misero, con la morte allato incanto / l’aspido sordo che ascoltar non vuole ») è il preciso riferimento per il luogo parallelo di son. 242, 1-4 :

Sei fatta un aspe sordo al dolce incanto
d’i versi mei, che verso alcun non cura ;
sei fatta un’orsa dispietata e dura
a’ mei sospir’, a’ mei lamenti, al pianto.

Meno precisamente connotata è invece l’occorrenza del sintagma nell’incipit del son. 79 :

Perché el sordo aspe dentro è per natura
tutto di crudeltade e rabbia pieno
e porta seco la fèl e ’l veneno,
la faccia ha come ’l cor turbida e scura.

Le due tigri

A fronte di un generico accenno al singolare in son. 79, 5-6 (« El tigre fa con el guardo paura / perché è spietato [...] » : normale a questa altezza la forma maschile) è invece degna di nota la persistenza in due luoghi dell’immagine dei dui tigri, pur con diversa funzionalità semantica ed espressiva. In son. 126, 5-8 :

El petto, da man destra, strugge un angue
e fa le carne mie pallide e smorte ;
dui tigri me son dati per ria sorte :
l’un straccia el cor e l’altro beve el sangue.

prevale l’intento di assimilazione icastica ad un contesto iperbolicamente « disperato ». entre in son. 241, 7-8, come si è già visto (« l’incanto fa doi tigri, insieme agionti, / portar el duro giogo humanamente »), nonostante l’accentuazione, quasi da mundus inversus, qui operata (le due tigri unite [agionti] nel portare pacificamente [humanamente] il giogo come una coppia di buoi), è pur frequente nei classici l’immagine della tigre ammansita, certo meno per opera dell’arte magica (cfr. Lucano, Phars. VI 487-88 : « Has avidae tigres et nobilis ira leonum / ore fovent blando ») che del potere fascinatorio del canto e della poesia : cfr. Virgilio, Georg. IV 510 (« mulcentem tigris » : da cui di nuovo sasso, De morte Angeli Politiani, 9 : « mulcebat tigres ») ; orazio, Carm. III xi 13-14 e Ars. poet. 393 ; ma soprattutto Claudiano, De raptu Pros. Prol. l. ii 27 : « Concordes varia ludunt cum tigride dammae » (da cui poliziano, Orfeo 163 : « la cervia e ’l tigre insieme havemo accolti »).

Il cervo

Diverse sono le pur topiche rappresentazioni della natura del cervo esperite in altrettanto differenti contesti, spesso in funzione di figurante dell’esperienza amorosa del poeta. Dal semplice quadro naturalistico di son. 139, 1-4 :

El cervo stanco al corso et affannato
beve nel fresco fonte e si riposa
in qualche cespe, in qualche valle umbrosa,
fin ch’el se sente il suo valor tornato.

e dall’acuto schizzo figurativo di un tipico atteggiamento dell’animale (son. 239, 3, all’interno di un elenco di comportamenti di impossibile imitazione) :

Chi fede pensa fida in hom mortale
trovar, pensa trar fòr del piumbo argento,
como el cervo saltar cum passo lento
e volar più d’ucel non havendo ale,

si passa, in altre due occorrenze, ad una più intensa assunzione metaforica ed esemplare, quasi sempre sulla scorta di precedenti classici e volgari. Nel son. 122 :

Cervo ferito vo de monte in monte
fugendo Citharea cruda e superba,
pascendome de bronchi e de secca herba
e bevendo affannato aqua de fonte.

Arse ho sì l’osse et alla pelle aggionte
che apena el corpo la soa forma serba,
e tanto è la mia sorte aspra et acerba
ch’io non ardisco al ciel levar la fronte.

El sole ho in odio, ogni splendor e raggio
e ’l terren verde ; in qualche selva obscura
hor sotto un pin albergo, hor sotto un faggio ;

et sì fero è il mio mal sopra natura
che d’huom son fatto un animal silvaggio,
et non ho più de vita o morte cura.

all’interno di una serie di testi sul tema della fuga del poeta disperato e quasi reso selvatico dalle pene amorose in « logi inculti, horrendi et atri », lontani dalla vita civile e da ogni luogo abitato, si assiste nell’incipit alla fusione di tre ricordi petrarcheschi : Rvf. 209, 9 (« Et qual cervo ferito di saetta » : con il passaggio dall’analogia esplicita, introdotta da « qual » e direttamente risalente al modello virgiliano di Aen. IV 69 : « [...] qualis coniecta cerva sagitta », all’assunzione metaforica diretta in sede iniziale, con evidente effetto di intensificazione simbolica) ; 129, 1 (« Di pensier in pensier, di monte in monte » : e cfr. anche, al v. 4 e sempre in rima, « fonte » di 129, 4) ; con in più una sorta di calco ritmico-tonale, certo drammaticamente ed iperbolicamente accentuato, di 35, 1 ss. (« Solo et pensoso i più deserti campi / vo mesurando... »).

Mentre nel son. 180 :

Timido, afflitto, lasso e doloroso
non perché fallito habia como el servo
che è stato contra al suo signor protervo,
vengo denanci al tuo seggio famoso ;

ma perché al primo tuo guardo amoroso
ogni mio senso, ogni mio polso e nervo
como Dïana tramutasti in cervo :
ond’io, fatto veloce et pauroso,

per non esser da’ cani empii stracciato,
che già me cominciaveno a ferire
aciò ch’io fusse del tutto impiagato,

presi consiglio de dover fugire.
Et hor sotto el tuo stral son ritornato,
stimando più che vita un bel morire.

il ricordo, ai vv. 5-12, della morte di Atteone mutato in cervo da Diana e quindi straziato dai cani (cfr. ovidio, Met. III 137 ss.) è probabilmente mediato dalla « metamorfosi » petrarchesca di Rvf. 23, 147-60 (cfr. almeno i vv. 158-60 : « et in un cervo solitario et vago / di selva in selva ratto mi trasformo : / et anchor de’ miei can’ fuggo lo stormo »).

La fenice

L’immagine della fenice eternamente rinascente dalle proprie ceneri (cfr., dall’antichità, almeno erodoto II 73 ; plinio, Nat. hist. X 2, 3 ; Phys. 7), quindi esempio moralizzato di « Constanzia » (ancora secondo l’intitolazione di Leonardo, Bestiario 25 ; in ambito lirico vedi Chiaro Davanzati XXIII 19-22 e 24, 1-4 ; Mare amoroso 270-71 [Poeti ’200 I 497] ; quindi Cecco dascoli, Acerba 2075-86), è prevalentemente usufruita dal Sasso 6come simbolo e contrario della propria infelice condizione amorosa. In son. 127, 9-14 :

Apparecchiato ho già l’ultime fasce
per far nel foco come la phenice,
e già la fiamma el tristo cor mi pasce.

Lei fortunata mòr, como se dice ;
ma tristo me se ’l mio spirto rinasce,
ché naque per non esser mai felice.

è evidente la mediazione dantesca di Inf. XXIV 111 : « e nardo e mirra son l’ultime fasce » (da cui anche le altre parole-rima « pasce : rinasce », d’altronde pressoché obbligate, ed il ricordo, al v. 107, della fenice che « more e poi rinasce »). In son. 199, 1-11 :

Io te mando, madonna, una catena
d’argento e d’or, ch’al cor me fanno un laccio,
aciò che tu conosci a quanto straccio
l’essermi fatto servo a te me mena.

L’argento ti dimostra che ogni vena
piena ho de fredda neve e duro giaccio ;
è foco l’or, nel qual sempre mi sfaccio
e come lui me afino in tanta pena ;

quel ucel ch’è nel meggio è una phenice
che mostra el fin pur de mia vita in foco,
non come el suo, ma tristo et infelice.

evidentemente la catena regalata alla donna terminava in un medaglione effigiante, in coerenza con il topos fondamentale del fuoco amoroso, una fenice (pur arrivando a negare, per il poeta, ogni consolante ipotesi di finale rinascita : cfr. il v. 11, dove el suo è riferito a el fin del v. precedente).

Il pellicano

Nel consueto contesto « disperato » :

Ombra sotto ombra sto d’un ramo secco,
assai di Erisiton più horrendo e magro,
facendo un pianto sì dolente et agro
che ogni fior per pietà mutato è in stecco.

Stracciomi el tristo cor e il sangue lecco,
misero pelican, e in giaccio flagro
più che nel fuoco ardente Meleagro,
al sempre lamentar damnato di Ecco.
(son. 124, 1-8)

è inserito, ai vv. 5-6, il ricordo della leggenda del pellicano, che risuscita i suoi nati e li nutre col sangue che sgorga dal petto che esso stesso si squarcia : cfr. Phys. 4 (probabile origine di questa « natura ») ; Chiaro Davanzati V 73-74 e XII 27-28 ; Mare amoroso 255-62 (Poeti ’200 I 497) ; Cecco d’Ascoli, Acerba 2173-81 ; Leonardo, Bestiario 38 (per altri riscontri cfr. Menichetti 22).

Lo spirto salamandra

La salamandra, tradizionalmente nota per la sua capacità di sopravvivere nel fuoco, se non addirittura di estinguerlo (cfr. Phys. 31 ; Chiaro Davanzati 28, 1-4 ; Mare amoroso 84 [Poeti ’200 I 490] ; Rvf. 207, 40-41 ; Cecco dascoli, Acerba 2193-98; Leonardo, Bestiario 39 ; e per la vasta fortuna in area romanza vedi Menichetti 23), è in un caso adibita a figurante dello spirto del poeta, in un sonetto fortemente debitore delle più tipiche, e ormai stilizzate, fisiologia e imagerie stilnovistiche :

Vola el desir fòr del mio cor dolente
seguendo el spirto ch’è sua guida e scorta :
questo piacer e quel speranza porta,
questo dai sensi e quel vien da la mente

per veder la soa luce in oriente ;
ma trovando d’Amor chiusa la porta
quel piange e crida e questo se conforta,
l’un cade in giaccio e l’altro in foco ardente.

Al fin, correndo, a me tornano in fretta
come agnel tristo alla penosa mandra
che teme haver da’ lupi acerba morte.

El cor mio, lasso, col suo spirto aspetta :
si maraviglia de sì dura sorte,
ché l’uno è uccel e l’altro è salamandra.
(son. 133)

Mentre infatti (cfr. vv. 7-8) il desir si dispera e agghiaccia (ed è definito uccel probabilmente in quanto vola [v. 1]), lo spirto si ricrea e infiamma in foco ardente (un’opposizione in piena regola, dunque, tra mente e sensi : e cfr. il v. 4). L’intero passo (vv. 10-14) è comunque debitore di Rvf. 207, 40-43 : cfr. « mirabil salamandra » (v. 41, hapax nei Rvf.) e il v. 43 : « Felice agnello a la penosa mandra ».

La biscia superba e il serpente guardiano

L’immagine della serpe, o biscia, che annuncia l’arrivo della primavera alzando superbamente e minacciosamente il capo è singolarmente cara all’icastica attitudine figurativa e naturalistica del Sasso. Evidente, sia nelle occorrenze più « neutre » e descrittive :

Zephiro spira e col sò dolce fiato
fa l’aura intorno a sé leta e serena.
Phebo, girando, a noi la luce mena
col car de raggi più che prima ornato.

L’herbetta verde riveste ogni prato ;
con dolci versi Progne e Philomena
piange, cantando la sua antiqua pena ;
la serpa va col capo al ciel levato.
(son. 97, 1-8)

Vibra la lingua e va col capo alzato
la serpe sibilante e tosicosa
nella staggion ioconda et amorosa,
né si aricorda del verno passato.
(son. 139, 5-8)

Quando leva le corne in ciel el Tauro
et fugge la stagion cruda et acerba,
leva la bissa el capo e va superba,
corren le vele dal mare Indo al Mauro ;
(son. 152, 1-4)

sia nell’isolata caratterizzazione etica del son. 95 :

Or che sei gionta de la rota in cima,
et ha sortito el tò voler effecto,
non t’impir tanto di superbia il pecto
che non considri el tò stato di prima.

Quel che troppo felice esser si stima
non ha rason in sé, non ha intellecto,
ché Fortuna crudel a il sò dilecto
or li mortali abassa, or li sublima.

Amami, e ’l capo in alto non levare
come serpa d’april in loco aprico,
ché presto a te direbbe quel parlare :

« Quando il vilan si ritrova sul fico,
tanto excellente e degno esser gli pare
che non conosce parento né amico ».

è il debito da boccaccio, Rime LXXVIII 1-3 : « Allor che ’l regno d’Etïopia sente / il rodopeo cristallo esser deluso, / e de’ sui ogni serpe leva el muso » (con l’analoga ambientazione primaverile) ; ma cfr. anche, con identica caratterizzazione di superbia (vedi qui, v. 3), boiardo, A. L. LXXXII 85 e 89-91 : « ma mentre che a le rose me apresava / [...] / scorsi una serpe de sì crudel vista / che sua sembianza ancor nel cor me atrista. / Questa superba, con la testa alciata ».

Nel caso invece di son. 168, 1-8 :

Quando io vidi apparir colei che adoro
corsemi el sangue, per soccorso, al core
come dicessi : – Ecco la dea d’amore
che vien, mandata dal celeste choro !

Ecco che già lei tira el suo stral d’oro ! –
Onde io rimasi como quel che, un fiore
coglier vogliendo, vede un serpe fòre
vibrar la lingua e minaciar martoro.

il vulgatissimo exemplum pare qui debitore (piuttosto che dei rapidi cenni di Virgilio, Ecl. III 93, Inf. VII 84, Rvf. 99, 5-6 e Tr. Cup. III 157) di Virgilio, Aen. II 379-81, almeno per il comune diffuso compiacimento descrittivo : « Improvisum aspris veluti qui sentibus anguem / pressit humi nitens trepidusque repente refugit / attollentem iras et coerula colla tumentem » (ma si tenga comunque presente anche l’analoga situazione, pur vòlta in allegoria, di boiardo, A. L. LXXXII 85 ss., appena citata).

Ancora più complessa, per l’estesa allegorizzazione, è la versione di son. 28, 1-8 :

– Avari, ove corite ? – Al bel thesoro
che Tëodora ha nel suo bianco seno. –
– Non vedete el serpente che ’l veneno
sparger minaccia, e vòl darvi martoro ?

E’ sta per guardia de li pomi d’oro
con gli occhi aperti, e di tal forcia pieno,
che vi farà col guardo venir meno
e gir extincti in el tartareo choro.

Nel serpente [...] che vi farà col guardo venir meno vi è il ricordo, seppure implicito, del mito di Medusa ; tuttavia li pomi d’oro (v. 5) sembrano indicare la contaminazione col mito delle Esperidi, già avvenuta in boiardo, Inn. I xii 26-41. Nella narrazione boiardesca, infatti, erano già presenti gli elementi del « tesoro » (xii 27, 7-8 : « et è chiamato il Tronco del Tesoro / che ha pomi de smeraldi e rami d’oro »), e del mostro visto come « serpente » (xii 39, 3-4 : « e la sua faccia candida e vermiglia / parve di serpe terribile e fera » ; ii i 27, 8 : « col specchio al scudo occise quel serpente » ; e vedi anche boccaccio, Rime LVI 1 : « Se quel serpente che guarda il thesoro », ripreso da giusto cxlix 35 : « Se il serpe, che guardava il mio tesoro » e soprattutto, di nuovo, da boiardo, A. L. LXXXII 15-16 : « Non avia visto a guardia de il tesoro / tra l’erbe il frigido angue »). È anche probabile la suggestione delle avventure di Orlando con la maga Falerina (Inn. II, iv-v), nel cui giardino incantato ritroviamo il dragone o « gran serpente » (iv 16 ss.) e l’albero dalle « pome d’oro » (V 6 ss.).

L’aquila e il sole

La facoltà leggendaria dell’aquila di fissare il sole (cfr. plinio, Nat. hist. X 3, 10 ; Lucano, Phars. IX902-6 ; Phys. 6 ; Par. I 47-48 e XX31-32 ; Rvf. 325, 59 ; Cecco dascoli, Acerba 2095-2106 ; Leonardo, Bestiario 36) compare nel son. 251, dove il motivo di fondo della perdita improvvisa dell’amore della donna è allegorizzato ed alluso, in ognuna delle prime tre unità metriche, in tre diversi esempi di sforzi vanamente compiuti (il coltivare in terreno sterile della prima quartina) o di felice e orgogliosa pienezza vitale ora mutata nel suo contrario per l’avversità del destino (la navigazione un tempo felice, ora perigliosa e tempestosa, della seconda quartina ; il potere visivo dell’aquila specularmente converso in quello di una civetta 7[notula, v. 11] nella prima terzina) :

Seminai, doloroso, in nuda arena,
onde sol bronchi e sterpi mieto e coglio ;
mutato è el dolce seme in amar loglio,
doppo longe fatiche, e in secca avena.

Solcai l’onde del mar con vela piena
lieto e contento : et hor con fèro orgoglio,
disarmata di remi, in duro scoglio
el vento irato la mia barca mena.

Como aquila guardai fisso nel sole :
hor ho la vista sì debile e frale
ch’io fo como la notula far sòle.

O quanto è vano ogni sperar mortale !
Chi crede a guardi, promesse e parole
di donna crede al ciel volar senza ale.

I selvatici addomesticati (toro, falcone, orso, cinghiale)

Col tempo el villanel al giogo mena
el tor, sì fiero e sì crudo animale ;
col tempo el falcon si usa a menar l’ale
e ritornar a te chiamato a pena.

Col tempo si domestica in catena
el bizarro orso, el feroce cingiale ;
col tempo l’aqua, che è sì molle e frale,
rompe el dur sasso come el fusse arena.

Col tempo ogni robusto arbore cade,
col tempo ogni alto monte si fa basso :
et io, col tempo, non posso a pietade

mover un cor d’ogni dolcezza casso,
onde avanza di orgoglio e crudeltade
orso, toro, leon, falcone e sasso.
(son. 19)

Testi di struttura e tema assai simile sono piuttosto frequenti nella lirica tardo-quattrocentesca. Vedi almeno dello stesso Sasso i son. 241 (esempio pressoché identico di combinazione di schema additivo ed anafora) e 365, il cap. XIV (« una specie di trionfo del tempo »8), e lo strambotto 30 (Il tor, ch’è sì terribile animale) ; un sonetto del petrucci (LXVI : cfr. i vv. 1-2 : « Col tempo se conducono allo arato / li aspri tori e tornano admansati ») e soprattutto uno di jacopo Corsi, Suole col tempo e con un poco umore (Bologna, Bibl. Universitaria, ms. 284, c. 6r ; cfr. i vv. 5-8 : « Et io, volendo intenerir un core, / trovo questi remedii esser iscarsi ; / piango, suspir, e no ’l vegio mutarsi, / ma la dureza sua farsi magiore ») ; quindi una serie di testi attribuibili all’aquilano, dal son. Col tempo passa gli anni, i mesi e l’ore (dubbie XIX), agli strambotti 9 Col tempo el fier caval si mette al freno ; Se ’l tempo ha posto in te tanta bellezza ; Se ’l tempo dona molto, el tempo toglie ; Se ’l tempo spiana ogni superba alteza ; Consuma el tempo ogni aspro et duro sasso. Ma per la più generale fortuna simbolica (segno di una profonda comune consonanza) di questo tema fra Quattro e Cinquecento si veda ad esempio, in campo figurativo, il Ritratto di vecchia di Giorgione (Venezia, Accademia), in cui la donna ritratta reca in mano un cartiglio con il motto, appunto, « Col tempo ».

Modelli già riconosciuti per gli esempi di animali addomesticati ed elementi naturali modificati dal tempo, sia di questi versi 10come naturalmente di molte delle coeve esercitazioni sullo stesso tema testé elencate, 11sono due passi gemelli di ovidio : Ars am. I 471-76 (« Tempore difficiles veniunt ad aratra iuvenci, / tempore lenta pati frena docentur equi ; / ferreus adsiduo consumitur anulus usu, / interit adsidua vomer aduncus humo. / Quid magis est saxo durum, quid mollius unda ? / Dura tamen molli saxa cavantur aqua ») ; Trist. IV vi 1-18 (cfr. vv. 1-6 : « Tempore ruricolae patiens fit taurus aratri, / praebet et incurvo colla premenda iugo ; / tempore paret equus lentis animosus habenis, / et placido duros accipit ore lupos ; / tempore Poenorum compescitur ira leonum, / nec feritas animo, quae fuit ante, manet »).

Il delfino e Arione

Di esclusiva pertinenza mitologica è la leggenda di Arione e il delfino. Arione, poeta e citaredo di Metimna, durante un viaggio per mare dalla Sicilia verso Corinto fu salvato dalle conseguenze di un ammutinamento dei marinai da un delfino accorso al suono della sua cetra : cfr. Virgilio, Ecl. VIII 56 ; properzio II xxvi 17-18 ; ovidio, Fasti II 83 ss. ; boccaccio, Rime VII 2-4 (« s’al canto d’Arïon venne il delfino / facendo sé al suo legno vicino, / al suo comando presto ed ubbidiente ») ; boiardo, A. L. CIV 2-5 e Inn. II xxvii 1, 1-4 ; basinio, Isottaeus III iii 79 (e Cyris VIII 1) : « pisce super curvo vectus cantabat Arion ». Tipicamente utilizzata a simboleggiare il potere divino del canto e della poesia, nel Sasso compare in una serie di testi accomunati dall’invocazione alla sonante cethra :

Se già facesti le serpe ascoltare
col tò suave son, sonante cethra,
et Orpheo per la tomba obscura e tetra
d’abisso sencia suspetto passare ;

Cerber tacere e Sisypho fermare
lo eterno moto de l’horribel petra,
e por giù a Nesso l’arco e la pharetra,
et Arïon su ’n pesce el mar solcare ;

se l’abete, la quercia, el faggio e ’l pino
movesti, e ’l tigre, l’aspe e la pantera
fecesti andar benigni a capo chino,

move la mente a questa donna altiera,
anci ch’io venga a l’ultimo camino :
ché pur donna è, se ben acerba e fera.
(son. 91)

Invocazione che si preciserà, nel sonetto seguente, come lode post factum alla poesia di Serafino Aquilano (cfr. son. 92, 12 : un Saraphino), riuscita nell’intento, qui solo genericamente auspicato, di muovere a compassione questa donna altiera (v. 12 : che diverrà specularmente, ad esito ottenuto, una angioletta pura) :

Fece tacer la resonante cethra
Cerbero horendo e ’l crudel Minotauro ;
svelse da la radice el faggio, il lauro,
specciò qual scoglio havea più dura petra.

Trasse da la spelonca obscura e tetra
lo indomito serpente e ’l leon mauro,
e (quel che far non pò forza e thesauro)
spinse de Morte e d’Amor la pharetra.

e thebbe e Troia circundò de mura,
fece Arïon natar sopra un delphino
e gir solcando el mar senzia paura :

maraviglia non è se un Saraphino
mossa ha col canto una angioletta pura,
ché troppo è dolce un concento divino.
(son. 92)

Una stretta affinità vi è infine col son. 101, che riprende i miti di Anfione, Arione e Orfeo :

Cinse Amphïon cum la sua dolce lyra
Tebbe di mura e col canto suave ;
Arïon de un delphin se fece nave,
e téne el vento che Neptun agira.

Compresse el docto Orpheo lo sdegno e l’ira
del re che d’Acheronte ha in man le chiave,
e firmò el sasso ponderoso e grave
che Sisipho alto e basso avolge e tira.

Tu col son de la tua arguta cethra
me facesti, con l’alma, tramutare
in una sorda, alpestra e dura petra,

et hor, vivo, me fai teco cantare :
questo è più che pasar per tomba tetra,
cinger Tebbe di mura, el mar solcare.

E per i vv. 3-4. cfr. in particolare, in questo caso, ovidio, Fasti II 83-84 e 97-98 : « quod mare non novit, quae nescit Ariona tellus ? / carmine currentes ille tenebat aquas. / [...] / forsitan, infelix, ventos undasque timebas : / at tibi nave tua tutius aequor erat ».

Il basilisco

Perché io mossi da te lontano el passo
altri so, forse, che mi danna e accusa
e fa quel che sempre hoggi di far s’usa :
cacciar quel ch’è felice al fondo, al basso.

Ma io, sentendo ogni mio spirto lasso
e già la mente turbida e confusa,
– Che fai ? – disse a me stesso – Ecco Medusa
che t’ha già mezo transformato in sasso !

Ecco che bevi, misero, el veneno
e guardi, e non ti accorgi, el basilisco. –
Ond’io fuggi’ per non venir a meno.

Et iusto fu, perché del mortal risco
campar si sforza ogni animal terreno,
ché non è uccel a cui diletta il visco.
(son. 181)

« Dai bestiari medievali proviene il motivo del basilisco, il rettile favoloso che con lo sguardo dava la morte, usato come figurante per la donna » 12. In realtà il tema risale a plinio, Nat. hist. VIII 33 e XXIX 19 ; Lucano, Phars. IX 724-26 ; Isidoro, Etym. XII iv 6 ; ma compare in seguito (per limitarsi agli esempi più notevoli della tradizione, lirica e prosastica, volgare) in giacomo da Lentini, d. 2 (Lo badalisco a lo specchio lucente, 1-2) e D. 3 (Guardando basalisco velenoso, 1-2) ; stefano Protonotaro, assai mi placeria, 42-44 (Poeti ’200 I 138) ; bondie Dietaiuti, madonna, me è avenuto similgliante, 31-32 (V 183) ; jacopone da Todi, Lauda 9a, 2 ss. (Poeti ’200 II 91) ; Proverbia quae dicuntur..., 469-70 (Poeti ’200 I 543) ; Mare amoroso 94-95 (Poeti ’200 I 490) ; Cecco dascoli, Acerba 2635-43. ; fazio Degli Uberti, Dittamondo V XVII 31-60 ; petrarca, Disperse XVIII 5-6 ; pulci, Morgante XIV 82 e XIX 66 ; boiardo, Inn. II i 27, 1-4 ; poliziano, Rime IV 4 e CVI 25 ; Lorenzo demedici, Canz. liii 7-8 e cvi 7 (quindi Comento xii 29), e Selve I 91, 5-6 e 120, 8 ; Leonardo, Bestiario 10, 50 e 75. Sempre il Rossi segnala la particolare fortuna di questo motivo nella lirica napoletana (segnatamente in sannazaro, Rime XLVIII 1-2 [ma vedi anche Arcadia II 94] e Caracciolo, Quante fïate del mio basilisco [Argo, c. 92r]) e nel più tardo ambito cortigiano (Marcello Filosseno e Olimpo da Sassoferrato). Cfr. inoltre, nel Sasso, st. 86, 5-6 (« come aquila ch’ogn’altro in vista avancia / guardava il sole, hor guardo il basilisco »), son. 373, 1-2 (in contesto politico e non amoroso : « Ha partorito un basilisco el Gallo / che tutta Italia ha di veneno infusa ») e soprattutto l’estesa e dettagliata similitudine di son. 374, 1-8 :

Ove finisse Libia è uno animale
che porta il capo pel gran peso basso,
col corpo infirmo, debil, stanco e lasso,
e non fa con l’artiglio o il dente male,

ma ne la vista ha un venen sì mortale
ch’ogni huom che ’l mira è de la vita casso,
onde molti se trovano a mal passo
non estimando in lui quel che più vale.

Il tristo agnello

Simbolo sacrificale e dunque, nell’immaginario storico collettivo, animale passivo per eccellenza, l’agnello non trova certo miglior sorte nel canzoniere del Sasso. Sia che riesca a ritornare precipitosamente in seno alla mandria dopo aver temuto l’aggressione dei lupi (nel già considerato son. 133, a figurare, nei vv. 9-11, il ritorno precipitoso del « desiderio » e dello « spirito » del poeta dal vano approccio alla donna insensibile) :

Al fin, correndo, a me tornano in fretta
come agnel tristo alla penosa mandra
che teme haver da’ lupi acerba morte.

sia che si trovi solo e sperduto, lontano da gregge, madre e pastore :

Come el timido agnel del gregge fòre
che se ritrova a caso abandonato,
a suo modo piangendo, empie dal lato
de lamenti ogni loco e di dolore

quasi chiamando la matre e il pastore,
cossì facc’io, dolente e sconsolato
poi che, del tuo bel viso alontanato,
el corpo afflitto ho sol, ché tieco è el core.
(son. 149, 1-8)

(con citazione quasi letterale da Virgilio, Georg. IV 514-15 : « flet noctem ramoque sedens miserabile carmen / integrat et maestis late loca questibus implet ». Dunque dal lato [= dallato] sarà qui probabilmente da intendersi, in quanto tentativo di resa del virgiliano late, come « d’intorno » ; e non è infine da escludere, per l’intero passo, la mediazione di Rvf. 311, 1-3 : « Quel rosignuol, che sì soave piagne, / forse suoi figli, o sua cara consorte, / di dolcezza empie il cielo et le campagne »), o che sia francamente atteso dal suo destino naturale, il macello, per opera del pastore (di nuovo in figura del trattamento ossessivamente riservato al poeta dall’implacabile belle dame sans merci) :

Ahi, cruda serpa, hor che ligato m’hai
al duro lazo, a la crudel catena,
per gionger foco e fiamma a la mia pena
superba, altera et in te stessa stai.

Così proprio al macel menato m’hai
cum parlar dolce e cum fronte serena,
come l’agnel con l’herba el pastor mena
a l’ultimo suplitio de’ sò guai.
(son. 236, 1-8)

Annexe

Abbreviazioni delle opere citate

Aquilano
Le rime di Serafino de’ Ciminelli dall’Aquila, a cura di M. Menghini, Bologna 1894 (per sonetti, egloghe ed epistole).

Basinio, Cyris
Basinio Basini, Cyris, in Le poesie liriche di Basinio (Isottaeus, Cyrys, Carmina varia), a cura di F. Ferri, Torino 1925.

Basinio, Isottaeus
Basinio Basini, Liber Isottaeus, in Le poesie liriche di Basinio cit.

Boccaccio, Rime
Giovanni Boccaccio, Rime, a cura di V. Branca, in Tutte le opere, vol. 5/1 (Rime, Carmina, Epistole e lettere, Vite, De Canaria, a cura di V. Branca, G. Padoan, G. Velli, G. Auzzas, R.  Fabbri, M. Pastore Stocchi), Milano 1992.

Boiardo, A. L.Matteo Maria Boiardo, Amorum libri, in Opere volgari, a cura di P. V. Mengaldo, Bari 1962.

Boiardo, Inn.
Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato, in Tutte le opere, I-II, a cura di A. Zottoli, Milano 1936.

Caracciolo, Argo
Joan Francesco Caracciolo, Argo, in Amori de Joan Francesco Carazolo patritio neapolitano ; Sonetti sextine et canzone cento del dicto poeta in laude de li ochi intitulati Argo, Napoli 1506.

Cecco d’Ascoli, Acerba
Francesco Stabili (Cecco d’Ascoli), L’Acerba, ridotta a miglior lezione ... dal prof. dott. A. Crespi, Ascoli Piceno 1927.

Chiaro Davanzati
Chiaro Davanzati
, Rime, edizione critica con commento e glossario a cura di A. Menichetti, Bologna 1965 (con Menichetti si rimanda al Bestiario, alle pp. XLV-LXI dell’Introduzione ; i numeri arabi si riferiscono alle singole voci).

Claudiano, De raptu Pros.
Claudio Claudiano, De raptu Proserpinae.

Erodoto
Erodoto
, Storie.

Fazio degli Uberti, Dittamondo
Fazio degli Uberti, Dittamondo, in Il Dittamondo e le rime, a cura di G. Corsi, Bari 1952, 2 voll.

Fedro
Fedro
, Fabulae.

Gallo
Rime di Filenio Gallo, edizione critica a cura di M. A. Grignani, Firenze 1973.

Giacomo da Lentini
Giacomo da Lentini
, Poesie, edizione critica a cura di R. Antonelli. I. Introduzione, testo, apparato, Roma 1979.

Giusto
Giusto de’Conti, Il Canzoniere, prima edizione completa a cura di L. Vitetti, Lanciano 1918, 2 voll.

Inf.
Dante Alighieri, La commedia. Inferno, in La commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Milano 1966-67.

Isidoro, Etym.
Isidori Hispalensis Episcopi Etymologiarum sive Originum libri XX. Recognovit brevique adnotatione critica instruxit W. M. Lindsay, Oxford 1911, 2 voll.

Leonardo, Bestiario
Leonardo da Vinci, Bestiario, in Scritti, a cura di C. Vecce, Milano 1992.

Lirici toscani
Lirici toscani del Quattrocento
, a cura di A. Lanza, Roma 1973-75, 2 voll.

Lorenzo de’ Medici, Canz.
Lorenzo de’ Medici, Canzoniere, a cura di T. Zanato, Firenze 1991, 2 tomi.

Lorenzo de’ Medici, Comento
Lorenzo de’ Medici, Comento de’ miei sonetti, a cura di T. Zanato, Firenze 1991.

Lorenzo de’ Medici, Selve
Lorenzo de’ Medici, Selve, in Opere, a cura di T. Zanato, Torino 1992.

Lucano, Phars.
Marco Anneo Lucano, Pharsalia.

Machiavelli, Canti carn.
Niccolo’ Machiavelli, Canti carnascialeschi, in Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze 1971.

Orazio, Ars poet.
Quinto Orazio Flacco, Ars poetica.

Orazio, Carm.
Quinto Orazio Flacco, Carminum libri IV.

Ovidio, Ars am.
Publio Ovidio Nasone, Ars amatoria.

Ovidio, Fasti
Publio Ovidio Nasone, Fastorum libri VI.

Ovidio, Met.
Publio Ovidio Nasone, Metamorphoseon.

Ovidio, Trist.
Publio Ovidio Nasone, Tristium libri V.

Par.
Dante Alighieri, La commedia. Paradiso, in La commedia cit.

Petrarca, Disperse
Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite, per la prima volta raccolte, a cura di A. Solerti, edizione postuma con prefazione, introduzione e bibliografia a cura di V. Cian, Firenze 1909.

Petrucci
E. Perito, La congiura dei baroni e il conte di Policastro, con l’edizione completa dei sonetti di G. A. de Petruciis, Bari 1926.

Phys.
Il Fisiologo, a cura di F. Zambon, Milano 1975.

Plinio, Nat. hist.
Gaio Plinio Secondo, Naturalis historia.

Poeti ’200
Poeti del Duecento
, a cura di G. Contini, Milano-Napoli 1960, 2 tomi.

Poliziano, Orfeo
A. Tissoni Benvenuti, L’orfeo del Poliziano. Con il testo critico dell’originale e delle successive forme teatrali, Padova 1986.

Poliziano, Rime
Angelo Poliziano, Rime, edizione critica a cura di D. Delcorno Branca, Firenze 1986.

Properzio
Sesto Properzio
, Elegiarum libri IV.

Pulci, Morgante
Luigi Pulci, Morgante e lettere, a cura di D. De Robertis, Firenze 1962.

Rvf.
Francesco Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a cura di M. Santagata, Milano 1996.

Sannazaro, Arcadia
Iacopo Sannazaro, Arcadia, a cura di F. Erspamer, Milano 1990.

Sannazaro, Rime
Iacopo Sannazaro, Rime, in Opere volgari, a cura di A. Mauro, Bari 1961.

Sasso, Epigr. Libri Pamphili
Saxi Poetae lepidissimi Epigrammatum libri quattuor. Distichorum libri duo. De bello gallico. De laudibus Veronae. Elegiarum liber unus
, Brescia 1499.

Seneca, Medea
Lucio Anneo Seneca, Medea.

Tibullo
Albio Tibullo
, Elegiarum libri II.

Tr. Cup.
Francesco Petrarca, Triumphus Cupidinis, in Triumphi, a cura di M. Ariani, Milano 1988.

Virgilio, Aen.
Publio Virgilio Marone, Aeneis.

Virgilio, Ecl.
Publio Virgilio Marone, Eclogae.

Virgilio, Georg.
Publio Virgilio Marone, Georgica.

____________

1  Il Fisiologo, a cura di F. Zambon, Milano 1975, pp. 13-15.

2  Mi sono permesso in merito qualche riflessione, blandamente provocatoria, nell’intervento al Convegno boiardesco del 1994 : cfr. La lirica volgare padana tra Boiardo e Ariosto : appunti su una transizione rimossa, in Aa. Vv., Il Boiardo e il mondo estense nel Quattrocento. Atti del Convegno Internazionale di Studi. Scandiano – Modena – Reggio Emilia – Ferrara, 13-17 settembre 1994, a cura di G. Anceschi e T. Matarrese, Padova, Antenore, 1998, vol. II, pp. 695 e 718-19.

3  In attesa dell’edizione, utilizzo per tutte le citazioni il testo critico da me stabilito in I sonetti di Panfilo Sasso dall’editio princeps di Brescia (1500) : saggio di edizione critica e commentata, Università degli Studi di Pisa, Tesi di dottorato in Studi italianistici – V° ciclo. Per una sintetica bibliografia ed una disamina della tradizione delle opere del modenese rimando a Sulla tradizione del sonetto « Hor te fa terra, corpo » di Panfilo Sasso, « Studi di Filologia Italiana », XLIX (1991), pp. 123-65.

4  A. Rossi, Serafino Aquilano e la poesia cortigiana, Brescia 1980.

5  Antonio Tebaldeo, Rime della vulgata, a cura di T. Basile. II 2. Commento, Modena 1992.

6  Con la sola eccezione dell’implicito accenno metaforico di son. 249, 5-8, all’interno dell’allocuzione del cagnol della donna già assunto in cielo : « Laura splendente più che ’l sol si vede, / più che ’l sol chiara e splendida Beatrice : / l’una e l’altra è qua vaga phenice / perché hebbeno del mal d’altrui mercede ».

7  È interessante osservare come nel Physiologus i capitoli sulla nottola (5) e sull’aquila (6) si susseguano direttamente.

8  A. Tissoni Benvenuti, La tradizione della terza rima e l’Ariosto, in Aa. Vv., Ludovico Ariosto : lingua, stile e tradizione, Milano 1976, p. 276.

9  Tutti editi in Bauer-Formiconi, Die Strambotti des Serafino dall’Aquila, München 1967.

10  Cfr. J. G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en España, Madrid 1960, p. 242.

11  Cfr. il Perito in nota a Petrucci LXVI.

12  A. Rossi, Serafino Aquilano cit., p. 99.