Revue Italique

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Una « Selva » di Giovanni Vendramini a Muzio Sforza (1550). Per la poesia manieristica a milano

Simone Albonico

Giovanni Vendramini, un autore destinato a rimanere sullo sfondo di un panorama complessivo della poesia cinquecentesca, può guadagnarsi l’attenzione degli studiosi, se non per il ruolo importante svolto a Milano nel passaggio dal governatorato del d’Ávalos a quello del Gonzaga e ai successivi, almeno per la rarità delle sue pubblicazioni. I suoi Quattro capitoli, fonte primaria di informazioni sulla Accademia dei Fenici e l’ambiente milanese di metà Cinquecento, sfuggiti all’erudizione di Apostolo Zeno ed Emanuele Cicogna, rimasero sconosciuti sino all’inizio di questo secolo, quando furono riesumati da Abd-el-Kader Salza ; allo stesso modo non si conosceva fino a pochi anni fa neppure la Selva per la nascita del figlio di Muzio Sforza marchese di Caravaggio, stampata a Milano alla fine del 1550, conservata da un esemplare estense purtroppo mutilo e ora leggibile nella sua interezza grazie alla copia della Biblioteca della Collegiata di Broni. La segnalazione dell’opuscolo è uno dei tantissimi meriti che volentieri si riconoscono al fondamentale strumento di lavoro messo a punto da Italo Pantani ;1meriti ai quali in questo caso si aggiunge anche quello di aver silenziosamente richiamato l’attenzione su di una Biblioteca che può riservare al cinquecentista più di una sorpresa, e che piace citare in questa sede come raccolta di pezzi preziosi frutto della passione collezionistica di un bibliotecario, Benedetto d’erba, e di un parroco, Giovan Battista Maggi, che sullo scorcio del Settecento si incontrarono a Pavia nell’Accademia dla Baslætta.2

La Selva si colloca all’inizio della stagione più intensa dell’attività letteraria di Vendramini : il commento alla Agia del Contile del 1552, i citati Quattro capitoli dello stesso anno, le Stanze, et capitolo del 1553, alcune rime sparse nelle antologie della poesia contemporanea (tra Quinto e Sesto libro), costituiscono le prove di un autore che, arrivato sui quarant’anni, confortato dalla presenza di una cerchia di amici attivi culturalmente senza dipendere dal potere politico, prova a spendere le poche carte di cui dispone. Un pacato esame della sua produzione – cui vanno aggiunte le cinquantasei Stanze per Bettina Doria anteriori al 1558, conservate in un manoscritto ambrosiano e poi a stampa nel 1563, e le sessanta stanze dell’ Epithalamio per le nozze (1554) di Francesco Ferdinando d’Ávalos e Isabella Gonzaga, stese tra 1555 e 1556 e tramandate dal ms. ambrosiano N 332 sup. – non consente certo inaspettate rivalutazioni, stante la minuta occasionalità e l’episodicità di un impegno privo di spinte progettuali originali.3Ma una lettura della Selva, quale qui si propone, permette di osservare da vicino una poesia costruita con materiale di reimpiego secondo quanto previsto dalle regole dell’arte, e perciò molto significativa dei gusti dominanti a metà secolo e insieme della svolta che il linguaggio poetico stava subendo nell’epoca di Giovanni della Casa e Domenico Veniero.

Per collocare il testo di Vendramini e la sua occasione si tenga poi conto che Muzio i sforza, il padre del bambino, era nato alla fine di dicembre del 1528 o ai primi di gennaio 15294da Violante Bentivoglio, figlia di Alessandro e Ippolita Sforza, e da Giampaolo primo marchese di Caravaggio, un figlio illegittimo di Ludovico il Moro che alla morte del fratello Francesco ii s’era trovato nella condizione di rivendicare l’investitura sulla base di un privilegio rilasciato a suo tempo da Massimiliano I d’Austria. Mentre il documento originale spariva per opera di Massimiliano Stampa, un impreveduto accidente causava però la morte del marchese di Caravaggio già mossosi alla volta della corte imperiale :5è probabile che questa vicenda aprisse al Vendramini la possibilità di far leva su un sentimento, sottile e limitato alla cerchia familiare ma ben vivo, di revanchismo nei confronti dei « mostri / A’ nostri danni d’Occidente usciti » identificati con francesi, tedeschi e spagnoli (170-174). La profezia delle Parche non ha un contenuto politico credibile e proponibile a quella data, e la Selva va perciò intesa come impresa encomiastica spinta all’eccesso proprio perché svincolata dal quadro della situazione politica, e come tale libera di solleticare l’orgoglio sforzesco fino a prefigurare un visionario dominio di un nuovo duca esteso all’Italia del Nord.

Quando Vendramini, sollecitato da Pietro Piantanida,6gli offrì il testo, Muzio, destinato a morire giovane (a Strasburgo il 22 novembre 1552 in seguito a una ferita riportata all’assedio di Metz),7era già un personaggio molto in vista. Il 19 giugno (secondo Domenichi il 24 ottobre) 1546 si era sposato con Faustina Sforza di Santa Fiora, auspice il fratello di lei cardinale Guido Ascanio, e i festeggiamenti milanesi che avevano seguito le nozze celebrate a Piacenza servirono al Domenichi per ambientare i dialoghi riportati ne La nobiltà delle donne (Giolito 1549). In occasione della visita a Milano del principe Filippo tra fine 1548 e inizio 1549 il giovane Sforza ebbe modo di distinguersi come uno dei giovani milanesi più brillanti ed eleganti.8L’unico figlio di Muzio fu chiamato Francesco come l’ultimo duca Sforza morto nel 1535, e se ne può fissare l’approssimativa data di nascita (fine 1550) servendosi della corrispondenza dell’oratore mantovano a Milano Annibale Litolfi,9nella quale sembra di poter cogliere un’eco della velata rivalità che potrebbe essersi creata per la concomitanza del battesimo di Francesco con quello di un figlio del governatore Ferrante Gonzaga. La Selva fu probabilmente offerta al padre in occasione del battesimo, ma quasi certamente prima di esso (12 febbraio 1551), vista l’assenza nel testo di qualsiasi riferimento alla cerimonia. Alla stessa occasione dovette legarsi la dedica a Muzio della Trinozzia del Contile, una commedia stampata nel novembre 1550 dal Francesco Marchesino che pare aver realizzato anche la Selva, e che fu poi raccolta insieme alla Pescara e alla Cesarea Gonzaga con una lettera di dedica complessiva indirizzata dal Vendramini ad Annibale Visconti.

Nella produzione di Vendramini la scelta di generi poetici classici dell’occasionalità, come ‘selva’ e ‘epitalamio’, si fa notare, e richiama immediatamente il vicino modello volgare di Bernardo Tasso, autore per l’appunto di una Selva nella morte del Signor Luigi da Gonzaga e di un Epitalamio nelle nozze del Signor Duca di Mantova (il padre di Isabella, le cui nozze avrebbe cantato il Vendramini). Il richiamo non ha nulla di generico : la celebrazione matrimoniale di Vendramini è, quanto a inventio, perfettamente sovrapponibile a quella tassiana. Si confronti l’avvio dei due testi :

Lascia le rive che co’ suoi cristalli
Bagna Aganippe, e col bel croceo velo
Vieni, o fratel d’Amor, sacro Imeneo :
Vieni, Imene Imeneo, che già nel cielo
Col lembo pien di fior purpurei e gialli
Appar l’Aurora, e così chiaro giorno
Tolt’ha di grembo a Teti e sì sereno,
Come secolo alcuno unqua vedeo ;
Cingi gioioso le tue bionde chiome
D’amaraco odorato, e sia ’l tuo seno
Di verdi allegri panni o d’ostro adorno :
Scuota la destra tua l’orrida pino,
Che con le pure fiamme l’aria allumi,
Ove lieto ciascun chiama il tuo nome.10

Lascia le rive homai, non di Peneo
Ma di Permesso, et col bel croceo velo
Vieni, fratel d’Amor, vieni Himeneo,
Che già la vaga Aurora appar nel cielo
De l’Orïente et, qual non si vedeo
Giamai più chiaro, il gran signor di Delo
A noi rimena col bel volto adorno
Il più seren che mai lucesse giorno.

Cingi i bei crini et le tue bionde chiome,
O bello iddio, d’amàraco odorato,
O di color sia di pur ostro, o come
Lo tien smeraldo, il tuo bel seno ornato,
E qui dove ciascun chiama il tuo nome
A noi sì dolce, sì giocondo et grato,
Scuoti l’horrida pino et l’aria avampa
Con la sua pura fiamma et chiara lampa.11

Il calco, camuffato appena dal trucco metrico, continua sino alla fine. Insospettiti da un simile comportamento non si tarda a individuare il modello della Selva in un’operetta concepita per analoga occasione, le Tre Parche di Matteo Bandello. Già dall’esterno il fatto è interessante : e per la ripresa di un testo del 1531, pubblicato nel 1545 ad Agen ma evidententemente ben presente ai milanesi ; e per il sottile legame familiare che esisteva tra la madre di Muzio, Violante Bentivoglio, e lo scrittore trasferito in Francia, che in onore ai genitori di lei aveva speso tanto inchiostro. La ripresa è in questo caso più libera, se non altro in virtù dell’ampiezza dei periodi rispetto alla scansione sintattica per terzine di quello bandelliane : resta, insieme ad alcuni fatti particolari richiamati qui avanti, la ridottissima autonomia inventiva di Vendramini, che fatica a scrivere senza un sostegno esterno. La riscrittura non è però priva di interesse, poiché la consistente amplificazione obbliga l’autore a intessere la gran parte del testo staccandosi da Bandello e attingendo ad altri modelli. Ecco intanto il contenuto del testo di Vendramini (V.) a confronto con quello delle Tre Parche (B.) :

Invocazione alle Muse, presenti al parto (V. 1-40, B. intr. 1-9) ; ricordo della presenza al parto di Lucina, di Venere, delle Grazie, del Po e degli altri fiumi lombardi, accompagnati dalle ninfe e dall’Insubria (V. 41-50, 51-64, 65-70, 71-84, 85-94 ; B. intr. 10-12, 13-15, 16-18, 19-21 [Adige e Garda], 28-30) ; arrivo delle Parche e inizio del canto (V. 95-107 ; B. intr. 31-57) ; invocazione al fanciullo perché crescendo corrisponda alle speranze dei genitori (V. 108-116 ; B. I 4-12) ; invito ai genitori a credere quanto sarà loro predetto (V. 116-129 ; B. I 13-24) ; paragone tra la crescita del fanciullo nell’infanzia e quella di una pianta di amàraco (V. 130-145; B. I 25-38 [mirto]) ; doti dell’adolescente, poetiche (V. 146-158 ; B. I 39-51 e ii 22-39) e militari (V. 159-194 ; B. II 37-72) ; paragone con un torrente in piena (V. 195-210 ; B. II 73-84) ; rievocazione delle imprese degli avi e preannuncio di quelle future del nuovo nato, destinate a superare quelle dei predecessori e portare a compimento quelle del padre (V. 211-271 ; B. II 85-93 e III 40-129, 154-177) ; preannuncio della cacciata per sua mano di Imperiali e Francesi, dell’assunzione del titolo di duca di Milano e dell’estensione del suo governo al Nord Italia (V. 272-296) ; preannuncio delle gesta compiute fuori d’Italia e dell’omaggio a lui reso da tutti i popoli (V. 297-311 ; B. II 97-111, anche per il punto precedente), e, alla fine di tante imprese, della chiusura del tempio della guerra (V. 312-319) ; preannuncio del ritorno dell’età dell’oro e della pace (V. 320-336 ; B. II 112-114 e iii 133-153) e della fama eterna che toccherà alle sue imprese (V. 337-335 ; B. II 115-121 e III 184-210) ; preannuncio della felicità alla quale è destinato il Milanese cui il cielo ha largito un tale spirito (V. 338-376) ; fine del canto e segnale divino dal cielo (V. 377-382 ; B. III 211-214).

Una volta riconosciuto lo stretto rapporto fra i testi poco importa condurre un confronto minuto che stabilisca quanto di Bandello resti nella Selva di Vendramini (o ancor più nel capitolo stampato con le Stanze del 1553, che ricalca da vicino, e senza passare ad altro metro, lo stesso modello). È invece più produttivo osservare in che misura la Selva attinga ad altri testi o riesca a variare il modello principale risalendo alle sue fonti : vi si trovano infatti incastonati e appena variati versi di Poliziano (« Con la città che ’l freno allenta et stringe / A i magnanimi spirti, a i regni Insubri » vv. 27-28, cfr. Stanze I 1, 2-3), Tebaldeo (« S’ergono a l’empia et dispietata morte » v. 161, cfr. vulgata 298, 1 « Se contra l’empia dispietata Morte »), e in più larga misura Bembo :

« Con soavi et dolcissimi concenti » v. 62, cfr. le Stanze 39, 3 « Se quel soave suo dolce concento » ; « Et del liquor che versa et pur non stilla » v. 153, cfr. Rime 130, 1 « Se col liquor che versa, non pur stilla » ; « Sol per ripor la misera et dolente / Italia et la sua patria in libertade » vv. 242-243, cfr. Rime 113, 3 « move a ripor la misera e dolente / Italia e la sua Roma in libertate » ; « De la nostra et di lei nimica gente » v. 258, cfr. Rime 109, 1 « La nostra e di Giesù nemica gente » ; si ha poi in sede iniziale il richiamo a una esposta tournure bembiana : « Muse, per cui de l’huom la gloria vive » v. 3, cfr. Rime 1, 5 « Dive, per cui ... » dove però si è obbligati a riconoscere un più ampio calco da Cariteo, Per la Natività di Maria, 6, 1 « Musa, per cui de l’huom vive la gloria » ; mentre i vv. 57-64 di Vendramini, sulla base di Bandello intr. 28-30, e ricordando Virg. Aen. I 402-403, ampliano Stanze 12, 1-4 (« Così detto disparve, e le sue chiome / spirâr nel suo sparir soavi odori, / e tutto il ciel, cantando il suo bel nome, / sparser di rose i pargoletti amori »).

Più discreti i ricordi di Bernardo Tasso :

52 « La bella et santa Dea madre d’Amore » cfr. Amori II xcix (a venere), 5 « Canto la bella Dea madre d’Amore » ; 90-91 « Con ghirlande di caltha et d’amaranti, / Di bianchi gigli et di purpuree rose » cfr. II xciii, 66 sgg. : « Fra fior vermigli e gialli ; / E qual di fresca caltha e d’amaranti, / Qual di gigli e d’acanti / T’orna le belle chiome » ; 111 « Phebo col foco suo vivace et chiaro » cfr. III iii, 8 : « Il foco, ch’era pria vivace e chiaro » ; 276 « Al secondo morir schermo et riparo » identico ad Amori I cxvii, 8 ;

e particolarmente significativi quelli di Luigi Alamanni, non per nulla autore di tre libri di selve :

i vv. 1-2 e 6 si avvicinano ai vv. 58-59 dell’Inno terzo : « Ditelo al mondo voi / Di Giove altere figlie » nonché al sonetto I del Casa ; i vv. 29-32 ai vv. 26-28 e 35 della Favola di Atlante : « E voi, caste Sorelle, che dal monte / Alle lingue mortai forze porgete / Di raccontar fra noi l’opre celesti / ... / Tal mi aiutate ... » ; i vv. 175-181 (sulla base di Bandello II 49 sgg.) ai vv. 70 sgg. della stessa favola : « ... e poi sovente il dorso / D’un feroce corsier premea sicuro etc. » sino alla stretta ripresa in 180-181 di 78-79 : « Così ’l frenò talor, ch’indietro o innanti / Fuor di quel che volea non mosse un piede » ; i vv. 340-345 ai vv. 724-727 del Diluvio romano : « Gl’ingegni pellegrin, con quei che sono / Dal favor delle Muse al monte accolti, / Argo e Troia lasciando, Atene e Roma, / Sol di voi narreran l’opere illustri ».

L’esule fiorentino fu anzi l’autore sul quale si può pensare che Vendramini, arrivato ai vent’anni, mettesse a punto la propria poesia, vista la ripresa frequente di sintagmi e termini da lui prediletti.12Sul versante classico la coscienza dell’esempio catulliano ripreso da Bandello (il carme lxiV, in cui le Parche presenti alle nozze di Peleo e Teti predicono il destino di Achille) comporta il rinvio esplicito dai vv. 123-124 della Selva. Anche quando la coincidenza è flagrante Vendramini non rinuncia a piccole variazioni : dove Bandello paragona la crescita del fanciullo a quella di un mirto (« Qual in bel vaso d’aprici giardini / un verde mirto che mattino e sera / senta l’umor de i fonti a lui vicini, / che ’n la fiorita e vaga primavera, / culto da verginella man polita, / ogni or si fa più bel che pria non era : / ed odorarlo ogni uom che passa invita / con le cosparse a l’aria verdi foglie, / piene di grazia c’ha l’odor unita : / indi sovente un ramuscel ne toglie / amorosa fanciulla e s’orna il seno, / soperba di sì care e amate spoglie, / tal ei ... » I 25 sgg.), l’imitatore sostituisce la pianta con l’amàraco sulla base di un’alternativa autorizzazione catulliana (LXI 6-7), cioè dell’autore da cui promana l’idea prima di quel paragone (LXII 39 sgg. : « Ut flos in saeptis ... ») ; e il classico paragone del guerriero con un torrente gonfio d’acque ai vv. 195 sgg. (da Virgilio, Aen. II 305-307 e II 496-499 sino ad Ariosto, Orlando furioso XXXVII 110 e XL 31),13risulta complicato, rispetto a Bandello,14dall’allusione a Georg. I 324 sgg. (cfr. in particolare « Escie fremendo ... / Dal cavo fondo » con « ... Implentur fossae et cava flumina crescunt »). In modo analogo la ripresa di Virgilio, Aen. I 293-296 (« ... dirae ferro et compagibus atris / claudentur Belli portae ; Furor impius intus / saeva sedens super arma et centum vinctus aènis / post tergum nodis fremet horridus ore cruento »), operata da Vendramini (315 sgg.) senza dipendere da Bandello, prevede anche il ricordo di Orlando furioso III 45, 5-6 (Borso d’Este« Chiuderà Marte ove non veggia luce / e stringerà al Furor le mani al dorso »).

Che significato dare a questi riscontri ? Certo l’imitazione che Vendramini attua va al di là di quanto normalmente è dato rilevare nella poesia rinascimentale, ma il suo comportamento ricorda in fondo quello di artisti, non per forza provinciali, che ripetono l’opera di un maestro cambiandone il segno stilistico e aggiornandone i riferimenti alla propria cultura e maniera. E davvero manieristico e lombardo appare il tono della Selva, che ripropone in funzione più emblematica che allusiva, vista la platealità della mutuazione, e all’interno di uno schema preesistente, gemme ricavate da testi che a quella data costituivano evidentemente l’orizzonte letterario di riferimento per più di un autore attivo a Milano : Poliziano, Bembo, ma soprattutto Bandello, Alamanni, Bernardo Tasso, Ariosto, scendendo sino a un vero provinciale presente tra Milano e Pavia, il parmigiano Luigi Borra, di cui, per alludere al Gravellone pavese, è citata al verso 82 proprio una selva.15Vendramini saccheggiando la lirica della generazione precedente, e in specie quella settentrionale e classicistica, ne riconosceva la versatilità e la duttilità, e pur con una discrezione prossima alla reticenza, non mancava di lanciare un segnale, citando in chiusura alla prima delle due lettere di dedica un verso del petrarchesco Trionfo della Fama (« Qual Bacco, Alcide, Epaminonda a Thebe ») già ripreso tale quale da Bandello in Tre Parche III 174. Con tutto ciò la voce di Vendramini non scompare, poiché è solo sua la campitura sintattica ampia, eventualmente appoggiata a riprese a distanza (vv. 1, 6, 21 ; 29, 33 ; 226, 236, 244 ; 320, 333, 337 ; i periodi di 116-129, 211-225 ; 226-263, 271-291 ; i paragoni di 130 sgg. e 195 sgg.; le parentetiche di 215-220, 253-255, e le altre minori), il procedere ispirato e rapinoso, sulla scorta di Catullo, del discorso delle Parche (con l’uso di legami sintattici che evidenziano la continuità, al v. 41, Così al v. 51, Le qua’ al v. 92, Et tu al v. 116, Né pur al v. 211, Ché se al v. 226, etc.) ricco di iperbati-epifrasi (6-8, 10, 49-50, 59, 83-84, etc.) ed enjambements, l’uso frequente di superlativi in sedi esposte, con una funzione ritmica normalmente tipica della prosa (16 lucidissime faville, 29 castissime sorelle, 34 nobilissimo utero fecondo, 62 dolcissimi concenti, 105 tai certissime parole, 106-107 la sempre / Veracissima lor lingua, 141 Il fanciul felicissimo, 270 et prudentissimo consiglio, 328 Con la suora santissima, 343 Lasciando i famosissimi suggetti), e infine la scelta di un lessico, spesso latineggiante, non scontato quando non francamente innovativo rispetto alla tradizione volgare :

4 sacro freno ; 5 bipartito monte ; 44 felice orto, con spostamento rispetto a Purgatorio XXX 2, dove significa ‘alba’, normalmente ripreso nella tradizione ; 45 Lucina la pietosa ; 51 Idalio colle, con riscontro in Cariteo 178, 14 ; 54 festo venir [‘sopraggiungere festoso’], quando nella tradizione si riscontra l’accoppiamento con dì o giorno sulla scorta di Rvf. 238, 6 ; 73 riverenza annosa ; 94 Diffusamente ; 115 l’alte et votive tue venture ; 121 letto genïale et sacro, già nell’Epitalamio di Bernardo Tasso, nonché nel Furioso, XLVI 77, 1 « genïal letto fecondo » in entrambi i casi proveniente da Catullo LXIV 47 ; 132 Vergine Amorosa ; 162 feroce vergine ; 189 formidabile et tremendo ; 192-193 gran strage e averse schiere (sintagmi che hanno riscontro nel volgarizzamento ovidiano di Remigio Nannini, Epistole XIV 196 e XIII 157, uscito però a stampa nel 1555) ; 203 cruccioso ; 253 invido seme ; 263 horribil stagno, forse ispirato da Catullo, lxiv 360 ; 271 terminato fine ; 277 heroici lor sudori ; 321 ferrugineo ferro, 338 « I tersi bronzi et gl’indorati marmi ».

E alcuni tratti che a prima vista classificheremmo come ripetizioni (24 e 28 Insubria-regni Insubri, 61 e 63 ingombra-ingombrando ; 183 e 185 sanguinose-sangue ; 190 e 193 ’n fuga por-a morte porre), o complicazioni sintattiche prossime all’anacoluto (153 sgg., 215 sgg. Di cui etc.), si possono forse annettere allo stile proprio della selva, che per essere scritta « subito calore et quadam festinandi voluptate » deve conservare qualcosa di non rifinito, quasi a prova di una composizione che se in Stazio è sempre protratta « non biduo longius » per la Fabula di Orpheo di Poliziano s’è svolta « in tempo di dua giorni, intra continui tumulti » e anche per Vendramini si colloca in « questi giorni passati, fra continui travagli » con la preghiera stretta « a non voler far parte ad altrui di questa mia compositione che a voi stesso solo, conciò sia cosa che, essendo essa mia Selva fatica di pochissimi giorni, non può avenire che io mi creda che ella di tutti quegli errori non si ritruovi ripiena che per lo più suole seco apportare la prestezza, non mai di tutti avertimenti bastevolmente aveduta ».16

Nota al testo

Questi gli estremi tipografici della plaquette, per la cui attribuzione al tipografo Francesco Marchesino e altre caratteristiche tecniche rinvio a « Rivista di letteratura italiana » vii (1989), p. 209 :

SELVA DEL CAVALIER VEN=|DRAMINI, NELLA QVALE SI CELE- | BRA IL NASCIMENTO DEL FIGLIVOL | PRIMOGENITO DELLO ILLVSTRISS. | SIGNOR MVTIO SFORZA,

4o, [10] carte, 2a-d2, car. rom. e cor.

[Milano, Francesco Marchesino, ca. fine 1550-ante 12 febbraio 1551].

Contenuto : c. . 1v bianca ; a c. . 2r lettera di dedica « al molto magnifico et | valoroso Signor Capitano Pietro Piantanido ; | il Caualier Vendramini. » ; a c. 2v seconda lettera di dedica « allo illvstrissimo s.or | Mutio Sforza il Caualier Vendramini. » ; da c. A1r a c. D1v il testo della Selva in endecasillabi sciolti ; a c. D1v « Il Fine. » ; c. D2r e v bianca.

Esemplari : Modena, Biblioteca Estense, 74. D. 43/10 (mancante del fascicolo A, corrispondente ai versi 1-110) ; Broni, Biblioteca della Collegiata, d iv 1, 21, 5.

Nell’edizione che qui si offre il testo è trascritto conservandone tutte le caratteristiche grafiche, coincidenti con quelle attestate dal ms. ambrosiano dell’Epithalamio, e qui semmai ancor più regolari. Nei pochi casi eccentrici ho introdotto la forma et della congiunzione davanti a parola iniziante per consonante ; ho regolato la punteggiatura cercando di rispettare il più possibile quella dell’originale, ed esplicitandone in tre casi, vv. 237, 267-268, 287, 303, e nelle lettere di dedica la funzione parentetica ; in pochissimi casi ho diviso parole unite (tipo date al v. 269, ma sempre conservando ognintorno, ognialtra, Perlaqual, etc.) ; ho riprodotto le maiuscole di rispetto (e allora anche Dio, Dive, Donna, Dee, gli aggettivi Arabo, Sirio e Pancheo, Hinni, Re, Chaonia, Avo, Duca, etc.), inserendole a 317 (Furor), 318 (Discordia) e 325 (Pace, sorella di Astrea) ; ho aggiunto apostrofi per segnalare le apocopi delle forme plurali, dei passati remoti (tipo acquistar’) e delle preposizioni articolate ; ho distinto u da v ; ho introdotto gli accenti necessari ; ho introdotto un h diacritica a 268 (Ah !), mentre considero vocativo O di 348, e ho regolato la posizione del segno a 354 (Deh). Ho infine dato evidenza alla struttura del testo introducendo alcune rientranze a inizio di verso assenti dall’originale.

Limitati gli interventi necessari per sanare refusi : 48 ch’ e’l (che ’l), 81 faconda (feconda, anche sulla base del confronto col passo di Alamanni citato alla nota 12), 124 li animoso (l’animoso), 178 bargo (largo), 179 derso (dorso), 255 heggi (hoggi), 354 Phe (Dhe, anzi Deh).

Annexe

selva
del cavalier ven
DRAMINI,
NELLA QUALE
SI CELEBRA IL NASCIMENTO
DEL FIGLIUOL
PRIMOGENITO DELLO ILLUSTRISS.
signor mutio sforza

al molto magnifico et valoroso signor capitano Pietro Piantanido, il Cavalier Vendramini

Vi mando, Signor mio, quella Selva che io questi giorni passati fra continui travagli scrissi sopra il nascimento del figliuolo primogenito dello Ill.mo Signor Mutio Sforza, quella che voi mi comandaste che io in cotal suggetto scrivessi, et che voi con tanta instantia al presente mi richiedete ; et la vi mando volentieri, sì come colui che a molto maggior biasimo mi arreco il non obidire a voi (a cui io sono, mentre mi vivo, di obidire tenuto) che lo essere da gli huomini letterati reputato nello scrivere assai male accorto e poco prudente. Ben vi prego strettamente a non voler far parte ad altrui di questa mia compositione che a voi stesso solo, conciò sia cosa che, essendo essa mia Selva fatica di pochissimi giorni, non può avenire che io mi creda che ella di tutti quegli errori non si ritruovi ripiena che per lo più suole seco apportare la prestezza, non mai di tutti avertimenti bastevolmente aveduta ; oltre che, facendo voi altramente, fareste non mediocre pregiudicio allo havermi io a’ vostri affettuosi comandamenti obedito. Ricordandovi, Signor mio, appresso di ciò, che se voi nella disciplina delle arme havete dato tal generoso saggio del vostro coraggioso valore che altri facilmente promettere di voi si può ogni cosa, per grande et honorata che ella si sia, io non così in quella delle lettere, per non essere io nella poesia a quel chiaro segno arrivato al quale voi nelle opere di cavalleria hoggimai giunto sete : acciò siate a’ nostri giorni alla vostra chiarissima patria Qual Bacco, Alcide, Epaminonda a Thebe.

Allo illustrissimo sor Mutio Sforza, il Cavalier Vendramini

Da poi che io primieramente vidi et conobbi V. S. Illu. così di subito per lo continuo affettuosamente l’amai et riverentemente la osservai, sforzato a ciò fare da quelle bellissime conditioni che ella con tanta felicità ha con esso lei recato dal suo nascimento. Queste si veggono in lei (da chi con giudicioso occhio le rimira) così fattamente acconce et composte di una certa temperata auttorità, dolce affabilità, gratiosa bellezza et costumata creanza, che sforzano chiunque la vede et conosce a rimanerle immortalmente affettionatissimo. Perlaqual cosa io, che fra gli altri infiniti infinitamente affettionatissimo le sono, desiderando sopra modo di renderla con alcuna chiara dimostratione hoggimai accorta di questo mio così affettuoso buon animo, ho voluto col mezo di questa mia Selva (con la quale mi sono accostato di celebrare il felicissimo nascimento del suo primogenito figliuolo) cominciare a scoprirle quello che insino ad hora le è stato modestissimamente da me coperto : e questo è lo amore, la observanza et la servitù che io così affettuosamente le porto et porterò mentre mi vivo ; et così etiandio la grande allegrezza et il sommo contento che io a gran ragione ho sentito della venuta al mondo di questo suo tanto desiderato figliuolo. V. S. Ill. adunque sia contenta di accettare gratiosamente in dono questa mia picciol fatica, la quale quando d’altra parte non le habbia a piacere sì le doverà ella da questa gradire, che essa in sé contiene l’affettione mia verso di lei et l’aventurosa felicità che il benigno cielo largamente promette a questo suo fortunatissimo fanciullo. Et a V. S. Ill.ma bascio inchinevolmente le mani con tutta l’affettione del core.

selva
del cavalier ven
DRAMINI,
NELLA QUALE
SI CELEBRA IL NASCIMENTO
DEL FIGLIUOL
PRIMOGENITO DELLO ILLUSTRISS.
signor mutio sforza

voi meco, voi, sante compagne et suore
Del biondo Dio, figliuole alme di Giove,
Muse, per cui de l’huom la gloria vive,
Che de l’onde et de’ lauri il sacro freno
Del bipartito monte in mano havete ; 5

Voi meco, o Dive, celebrate voi,
Lasciando di Parnaso i lauri et l’onde,
Del felice fanciullo il nobil parto
E ’l fortunato nascimento altiero,
Per cui di gioia et pien d’alto diletto 10

Si vede il reverito et santo Tebro
Portar superbo al suo Tirrheno in seno
Più che mai l’acque sue lucenti et chiare,
E i sette colli suoi famosi e aprici,
Non men di glorie che di piante adorni, 15

Splender di lucidissime faville,
Et tutti insieme alteramente lieti,
Con plauso, gaudio, giubilo et favore,
D’herbette et fiori, d’oro intesto et d’ostro,
Pomposi far meravigliosa mostra ; 20

Dite voi, meco voi dolce cantate
Del ben nato fanciullo il parto illustre,
E ’l nascimento fortunato et chiaro
Per cui la bella et sontuosa Insubria
Colma di nobil speme sen’ va altera, 25

Triomphante, festosa, alta et superba,
Con la città che ’l freno allenta et stringe
A i magnanimi spirti, a i regni Insubri.
Voi questo et quel, castissime sorelle,
Cantate voi, che dal sacrato monte 30

Porgete a le mortal’ lingue sovente
Pietosa aita, et forz’alta e ’mmortale,
Voi Dive illustri, voi, che lui che uscìo

Del nobilissimo utero fecondo
De la Donna che ’l mondo in dubbio tiene 35

Qual ella sia maggior tra casta et bella,
Accoglieste nel vostro santo grembo
Et lusingaste ne le vostre braccia,
Cingendo a lui la pargoletta fronte
D’hedere nove et giovinetti allori. 40

Né sol voi veramente, o Dee, veniste
De la gran Donna a gli honorati tetti,
Né foste sole a tanto ben presenti,
Ma con voi parimente al felice orto
Vi fu Lucina la pietosa, et porse 45

L’amica mano al gran bisogno intesa,
Ungendo di salubri succhi d’herbe
La real Donna, acciò che ’l sì gravoso
Fero dolor da le sue vaghe membra
Scacciasse, e dal bel corpo ogni passione. 50

Così vi venne dall’Idalio colle
La bella et santa Dea madre d’Amore
Per veder lei, di tutte l’altre il pregio :
Al cui festo venir giocondo et lieto
Onde gioisce et si rallegra il mondo, 55

L’aurate chiome sue vaghe et lascive
Sovra i candidi avori a l’aura sparse
Spirar’ soave, et l’aura et l’aria empiero
Di grato Arabo odor, Sirio e Pancheo ;
Et spogliate l’amene piaggie apriche 60

Del vario honor che ’l lor bel verde ingombra,
Con soavi et dolcissimi concenti
Dolce ingombrando il ciel del suo bel nome,
Sparsero l’aria i pargoletti Amori.
Venner le Gratie a le leggiadre et lievi 65

Carole intese, e fur preste d’intorno
Al gran bambino, et di celeste ambrosia
Tutto ’l lavaro, et ne l’aurate culle
Gl’Hinni dolce cantando, apparechiaro
Letto de molli et candidi ligustri ; 70

Venne da gli antri suoi spumosi anchora
De gli altri il Re superbo et nobil fiume
Po, pien di riverenza annosa et grave,
Colmo di gioia et di letitia il volto,
L’humido ventre, il petto ondoso e ’l tergo, 75

Con l’ondeggianti et molli tempie, adorno

Di musco, d’alga et di pallida salce ;
Cui seguian con gioioso applauso et grido,
Per l’amene et fruttifere contrade
Che fur sì amiche al buon seme Lombardo, 80

Adda feconda, Ambro lucente, e ’l chiaro
Tesin, col buon fratel da l’onde gravi
E gli altri cento suoi di gaudio colmi
Cerulei, molli et liquidi seguaci ;
A cui d’appresso il bel virginal choro 85

De le nimphe leggiadre habitatrici
Di lor humidi alberghi, con la vaga,
Superba et lieta Insubria, i grembi carchi
Di mille varii fior’ portavan liete,
Con ghirlande di caltha et d’amaranti, 90

Di bianchi gigli et di purpuree rose.
Le qua’ poscia che l’aureo albergo tutto
Sparser de’ fiori et d’ogni parte empiero
Diffusamente di soavi odori,
Ecco repente dal celeste regno, 95

Da l’alta soglia del gran padre eterno
Le sante Parche, a cui l’antiche membra
Veste un vel bianco, et le canute tempie
Cinge di Giove la Chaonia quercia.
Queste, poi che co’ stretti et santi amplessi 100

Abbracciar’ la gran madre, et con serena
Fronte basciaro il pargoletto infante,
Volgendo intorno a l’indorato fuso
Gli aventurosi et bei candidi stami,
Sciolsero in tai certissime parole, 105

Mirando fisso il bel fanciul, la sempre
Veracissima lor lingua divina :

« O nato sotto a i più benigni segni
Del ciel propitio, e a’ più cortesi lumi
Che mai scaldasse, da che ’l mondo alluma, 110

Phebo col foco suo vivace et chiaro,
Cresci, ben nato e aventuroso figlio,
E i tuoi gran’ genitor’ crescendo adempi
Di certo gaudio et d’infallibil speme,
Et de l’alte et votive tue venture 115

Ti rallegra et gioisci. Et tu, sì illustre
Madre, a cui nulla son quante mai furo,
Et tu, di tanto figlio inclito padre,
I quai con destro et favorevol cielo

Amor pudico et già casto Himeneo 120

Congiunse al letto genïale et sacro,
Serbate dentro a i lieti animi vostri,
Sì come Peleo et Tethi il ben futuro
Serbaro già de l’animoso Achille,
Quanto di par concordia liete a voi 125

Veridiche diciamo ; né vogliate
Già temer ch’a fraudar v’habbia giamai
Ciò ch’udirete, coppia alma et reale,
Da noi del vostro generoso seme.
Sì come suole in ben aprico et culto 130

Giardin crescer l’amàraco odorato,
Cui vergine amorosa, bella et saggia
Nutre con ogni accorto studio solo
A sue delitie, et d’humor chiaro lieve-
Mente sera et matina irriga et bagna ; 135

Quello ad ognihor più bello a poco a poco
Vago s’inalza a le piacevol’ aure,
Spargendo il grato odor lunge et d’appresso
De le sue vaghe et delicate spoglie ;
Così crescerà più, di giorno in giorno, 140

Il fanciul felicissimo et gentile,
Leggiadro, bello et d’ogni gratia pieno,
Né fra quegli anni semplicetti et puri
Ritroverà, tra quanto spira et vive,
Chi di gratia et beltà gli vada eguale. 145

Ma poi, sì tosto ch’ei verrà vicino,
Fuor de gli anni infantil’ teneri e acerbi,
Al breve dolce tempo ove altri indora
De’ primi aurati fior’ le guancie e ’l mento,
Così ratto i bei studi et le sacre arti 150

Gl’insegneran le Muse e Apollo, il saggio
Principe del sacrato Aonio choro,
Et del liquor che versa et non pur stilla
Di Cirra et d’Aganippe i sacri fonti
A ber larghe et cortesi a lui daranno, 155

E apriran liete d’ogni parte a quello
Di Pindo e d’Hemo i reveriti boschi,
C’hanno al più breve dì le fronde e i fiori.
Così anchor presto il fero et crudo
Dio Per cui tanti et sì horribili trophei 160

S’ergono a l’empia et dispietata morte,
Con la feroce vergine Bellona,

A lui, che ’n esser coraggioso et forte
Ognialtro avanzerà prisco et moderno,
Insegneranno ogni militia d’arme, 165

Acciò ch’egli habbia ad ogni impresa ardito,
Pratico, industre, armato et disarmato,
A piedi, in sella, in chiuso e aperto campo,
Quanta eccellentia in arme haver si possa.
Nessun saprà di lui più forte o destro 170

Ferir di stocco, et con la lancia in resta
Colpir con maggior forza il suo nemico,
Et così in l’altre sorti d’arme anchora
Più svelto et fiero e audace adoperarsi,
Né maneggiar con arte et con più core 175

Animoso corsier feroce, a cui
Alto, basso, a sinistra e a destra mano,
Stretto, largo, a gran’ salti, a corso e a giro
Premerà il dorso sì leggiero et pronto
Et con tanta eccellentia indietro e ’nanti, 180

Ch’ei fuor del suo voler non movrà piede.
Oh, quante volte ne’ maggior’ conflitti
De l’aspre, dure et sanguinose guerre,
Tutto ripien di generoso sdegno
Si vedrà sol, di molto sangue asperso, 185

Fra le nemiche et numerose schiere
Far sopra humane et incredibil’ prove !
E ovunque il volto et l’animosa spada
Drizzerà formidabile et tremendo
In volta e ’n fuga por gli huomini et l’arme, 190

E con molto valor, senno et fortuna,
Dopo gran strage et grave eterno danno,
Spezzar l’averse schiere e a morte porre
Chiunque gli verrà dinanzi a gli occhi.
Qual rapido torrente, a cui le pioggie 195

De l’aspro verno rio cresciute han l’acque,
Escie fremendo minaccioso et fiero
Dal cavo fondo, et con ruinoso corso
Rompe le rive e i forti argini, et svelle
L’opposte piante, et con horribil suono 200

A molte miglia d’ognintorno inonda
I campi e i paschi, et trahe seco ne l’acqu
Ciò ch’ei rincontra col cruccioso humore,
Fortunato fanciullo, a te fia dato
Dal cielo, a i voti tuoi benigno et largo, 205

Di Marte non spiegar giamai l’insegne
Contra i nemici senza gloria haverne,
Però che quante volte andrai lor contra
Tante darai vittorïoso a quelli
Chiare sconfitte e memorabil’ rotte. 210

Né pur co i tuoi gran’ fatti andrai di paro
De l’Avo tuo d’immortal lode degno
E del gran padre, in cui non minor raggio
Splende d’alto valor et di bontade,
Di cui, bench’ei sia giovinetto, et fatto 215

Anchor non habbia esperïentia alcuna,
Perché occorso non gli è, del suo valore,
Cosa non è però tanto ardua et grande
Ch’altri facil prometter non si possa
Del giovenil ardir de’ suoi verdi anni ; 220

Ma i coraggiosi e i sì mirabil’ fatti
De gli altri avoli tuoi famosi e illustri,
Mutii, Sforzi, Franceschi et Alessandri,
Ludovici, Galeazzi, Ascani et Buosi,
Di molto spatio a i tuoi rimarran dopo. 225

Ché se l’Avo tuo fece a gli Alamanni,
Scesi da gl’erti, alpestri et duri monti
Supra d’Insubria a guisa di tempesta
Dietro al furor del temerario Duca,
Lodi sembrar cotanto amara et acra 230

Che di lor corpi i grassi et lieti campi
Restar’ coperti sì che d’ognintorno
Ne fer’ gli avidi augei secure prede,
E ’l vago fiume a la città vicino
Dimostrò l’acque sue tutte di sangue ; 235

Et se ’l buon padre tuo, molto più degno
(Et ben si converrebbe a’ suoi gran’ merti),
Veramente più degno assai d’Impero
Che de l’humile stato in ch’ei si trova,
Empierà de’ suoi fatti arditi quanto 240

Ch’Appennin parte e ’l mar circonda et l’alpe,
Sol per ripor la misera et dolente
Italia et la sua patria in libertade ;
Così se gli altri antichi tuoi Sforzeschi,
Sovrano honor de gl’Italici chiostri, 245

I quai di singular pregio et virtute
Et di tante eccellentie Europa ornaro,
Dopo lunghe fatiche et lunghi affanni

Guerriggiando acquistar’ qualche paese ;
Tu la sì bella et sfortunata parte, 250

Ch’un tempo diede imperïosa al mondo
Le sacre et sante leggi et l’aurea pace,
Hor dal discorde nostro invido seme
Così divisa, travagliata et guasta,
C’hoggi ’l bel nome a gran pena le resta, 255

Tu solo renderai libera, solo,
Dal troppo grave et miserabil giogo
De la nostra et di lei nimica gente,
Cacciando fuor del suo fiorito nido
Ne gli antri loro latebrosi et cupi 260

I famelici, ingordi et strani mostri
A nostri danni d’Occidente usciti,
Facendo di lor sangue horribil stagno.
Et quanto fia dal tuo sì nobil padre,
In cui abonda virtù, manca fortuna, 265

Ah ! per più non poter lasciato adietro
(Ché spesso suole a i bei nostri disegni
Mostrarsi il cielo invidïoso et rio),
Sarà da te con sempre eterne note,
Con arme et prudentissimo consiglio 270

Condotto a lieto et terminato fine.
Et se quegli altri tuoi, quegli altri dico
Magnanimi Signor’ di tua famiglia,
Sudar’ nel ferro et travagliar’ ne l’arme
Per viver vita glorïosa, et farsi 275

Al secondo morir schermo et riparo,
Et de gli heroici lor sudori al fine
Tenir’ con giusto et riposato scettro
Ne l’Italico suolo alcuno stato,
Tu, la feroce gente a cui la Senna 280

I campi irriga, et quella che si lava
Nel freddo Rhen, con l’altra che bee l’onde
D’ambe le rive del famoso Ibèro
Naturalmente al nostro stratio intese,
Cacciate lunge da l’Ausonio clima 285

Dopo lunga fatica industre et santa
(Dhe ! homai si creda a le divine Parche),
Reso il suo antico et usurpato Impero
Al nostro invitto et glorïoso Latio,
Vestirai de gl’Insubri il ducal manto 290

Già per molt’anni a’ tuoi debito prima.

Né sol possederai l’ameno stato
De le sì altere et populose mura
d’insubria nostra, ma ’l dominio appresso
Havrai d’ogni città che di qua seggia 295

Da l’Alpi insino al bel Felsineo Rheno.
Quinci portando l’animoso ferro,
Lontan dal suolo tuo patrio e natio,
Fra l’esterne et barbariche nationi,
Empierai de’ tuoi frutti audaci il mondo, 300

Perché d’Ausonia il quasi estinto pregio
A questi giorni et l’oscurata gloria
(Così ordinato ha ’l cielo) allumerai
Co i raggi ardenti del tuo gran valore.
Reveriran le tue famose insegne 305

Del nostro mondo l’universe genti,
Di volti et lingue et d’habiti diverse,
Il fosco Ibèro et l’odorato Gange,
L’algente Scitha et l’Etiòpe adusto,
Con ciò che d’ogni lato a l’universo 310

Il gran padre Oceàn circonda et bagna.
Così tu al fin di spoglie et glorie carco,
Lieto, contento et fortunato a pieno,
Il ferro solo a le vittorie ascritto
Deporrai stanco ; poi chiudendo Marte, 315

Ov’ei non veggia per molt’anni luce,
Al Furor empio legherai le mani,
Et la dura e ’mplacabile Discordia
Relegherai tu in parte oscura et cava.
Alhor si vederà forse per sempre 320

Il ferrugineo ferro nostro farsi
Di forbit’oro, et del figliuol di Celo
A noi tornar co i buon’ tempi migliori
I semplici anni et la innocente etade :
L’alm’aurea Pace scenderà dal sommo 325

Stellante chiostro, et la celeste Astrea
Terrà il suo santo et benedetto seggio,
Con la suora santissima, fra quelli
Beati et non più miseri mortali,
Però che i loro dì contenti et queti, 330

Senza doglia, desir, speme o timore
Meneran sotto a le sì amiche stelle ;
Alhora il Vitio abominoso et brutto,
Con tutti i morbi, i quai languendo usciro

Per comun mal da l’odïato vaso, 335

Fia dal mondo scacciato et posto in bando ;
Patiranno alhor scempio illustre et chiaro
I tersi bronzi et gl’indorati marmi
Per lasciar a’ futuri eterna fede
De’ fatti eccelsi et tue mirabil’ opre, 340

Et de’ più chiari et celebrati ingegni
Le più belle et leggiadre et dotte penne,
Lasciando i famosissimi suggetti
Di Troia et d’Argo, e ’n un d’Athene et Roma,
Solo de’ gesti tuoi grandi et sublimi 345

Ordiran con memoria eterna et grido
Historie, commentari, annali et libri.
O tre volte beati, quattro et sei,
Voi, di fruire a cui fia dato in sorte
Del fortunato et buon secol migliore 350

I così allegri et riposati giorni,
Da la divina providentia eletti
A tanto, non più mai veduto, honore :
Dhe, ch’altri veggia sol per gratia tante
Rare eccellentie in un petto raccolte ! 355

Et tu, sovra d’ognialtra inclita terra
Cotanto al sommo ben cara et gradita,
A cui largir l’alto voler divino
Voluto ha così raro et nobil spirto,
Tu le feconde et ondeggianti biade, 360

Le fruttifere piante et gli altri arbusti,
Con tutto ciò che ben culto terreno,
Morbido e aprico può qua giù produrre,
Col tuo prodigo ventre in ogni loco,
Da te medesma, senz’altrui fatica, 365

Senza vomeri, aratri, innesti et marre,
La tua mercede a i buon’ secol’ darai ;
In te suderan mel l’humil’ ginestre,
Sovra le spine fioriranno i gigli,
Gli ameni fiori et l’hodorate herbette, 370

Quando ’l sol Libra et quando ’l Tauro scalda,
Al ciel più ardente e a la più algente bruma
Pingeranno il tuo vago et lieto ammanto ;
I fiumi l’acque havran di puro latte,
Et del mar l’onde, hor sì turbate et salse, 375

Da sommo ad imo fien tranquille et dolci ».
Così disser le Parche. Alhor repente

L’invisibil fattor de l’universo
Tuonò da l’alto suo mirabil throno :
Dal destro lato intorno et d’ogni parte 380

Del ciel, più che mai fosse anchor sereno,
Fulse con chiaro et luminoso lampo.

Il Fine.

____________

1  La biblioteca volgare, i, Libri di poesia, a cura di I. Pantani, Milano, 1996 (nella serie « Biblia. Biblioteca del libro italiano antico » diretta da A. Quondam), p. 312, n5094. Ho segnalato la copia estense in « Rivista di letteratura italiana » VII (1989), pp. 209-10.

2  Si vedano le notizie raccolte da F. Milani in « La bagna al nas a queai dla buratera ». Poesie e prose pavesi dell’Accademia dla Basleatta (secolo xviii), Pavia, 1996, pp. 7-9, nonché il catalogo Biblioteca della Collegiata. Broni. Codici e incunaboli, Broni, 1988 (ma 1989). Ringrazio Felice Milani e Mino Baldi per il cortese aiuto.

3  Su Vendramini cfr. E. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, tomo II, venezia, 1827, pp. 251-53, in cui sono riprese le notizie raccolte da Crescimbeni e Quadrio ; dei precedenti merita attenzione solo Apostolo Zeno, nelle annotazioni a G. Fontanini, Biblioteca dell’eloquenza italiana [...], Parma, 1803, t. I, p. 405 ; cfr. anche A. Salza, Luca Contile [...], Firenze, 1903, passim, e la scheda a mia cura in Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà del Cinquecento, Milano, 1990, pp. 310-21.

4  Cfr. M. Sanuto, I diarii, t. XLIX, venezia, 1897, col. 326.

5  Cfr. F. Chabod, Storia di Milano nell’epoca di Carlo V, Torino, 1961, pp. 18-19.

6  Il Piantanida – ricordato nella Relazione di Milano letta in Senato da Gio. Antonio Novelli segretario il 1553 (in C. Cantù, Scorsa di un lombardo negli archivj di Venezia, Milano e Verona, 1856, p. 43, poi nell’Albèri) nella sua qualità di Sergente generale, accompagnato da « fama da valoroso soldato, e fu quello che prese ultimamente Camirano » – fu ritratto da Gian Paolo Lomazzo, che lo menzionò nella Vita del auttore (Rime, Libro settimo et ultimo de’ Grotteschi, Milano, Paolo Gottardo Pontio, 1587, p. 532 : « Il Colonnello Pietro Piantanido »).

7  Cfr. P. Litta, Famiglie celebri d’Italia, tomo I, Milano, 1819, Attendolo, Sforza Duchi di Milano, tavola VI. Argelati (951) segnala una Oratio in funere Mutii Sfortiae, habita Caravagii VI. Idus Junii mdliii, Venetiis, Apud Bevilacquam, 1557 opera di Gerolamo Monti.

8  Durante l’ingresso di Filippo in città guidava una schiera di 25 gentiluomini vestiti di raso bianco : cfr. G. A. Albicante, La intrada di Milano di don Philippo d’Austria, capriccio d’historia, e F. Saxl, Costumes and Festivals of Milanese Society under Spanish Rule, From the Proceedings of the British Academy, volume XXIII, London, Humphrey Milford Amen House ; Annual Italian Lecture of the British Academy 1936, passim e pp. 44-45, e ora la riproduzione del cosiddetto Libro del sarto della Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Saggi di A. Mottola Molfino, P. Getrevi, F. Saxl [quello citato, tradotto], D. Davanzato Poli, A. Schiavon, Ferrara-Modena, 1987 ; nonché C. A. Vianello, Feste, tornei, congiure nel Cinquecento milanese, in « Archivio Storico Lombardo » LXIII (1936), pp. 384 e 387. Per un suo litigio con Nicolò Secco cfr. Gasparo Bugati nella Historia universale [...], Venezia, Giolito, 1571, p. 977.

9  Il Litta fornisce solo la data delle nozze (1567). Quella di nascita si desume da quella di battesimo : cfr. Archivio Gonzaga, Corrispondenza estera, E. XLIX. 3, 1670, 14 dicembre 1550, dove il Litolfi comunica che quel giorno è stato battezzato il figlio del Gonzaga, e che « Si farà un altro battesimo honorevole di qui a pochi dì del po figlo che nacque nella gionta n(ost)ra di qua al s. Mutio Sforza, per contenteza di che già egli apparecchia di far giostre ». Il battesimo, come segnala lo stesso Litolfi, fu impartito il 12 febbraio, in periodo di carnevale (cfr. 1671, 10 febbraio 1551). F. Rossi, Le medaglie, in I campi e la cultura artistica cremonese del Cinquecento, Catalogo della mostra, Milano, 1985, p. 355, dà notizia di due medaglie che rappresentano Francesco (ne riproduce una) e indica come data di nascita il 1547.

10  Bernardo Tasso, Rime, Volume I, I tre libri degli Amori, [a cura di D. Chiodo], Torino, 1995, p. 241. È uno dei metri più originali di Bernardo (abcba, decfed, ghfihg, ..., uvwxvu, yzxzy), impiegato anche in un’egloga e a tale proposito segnalato in M. Martelli-F. Bausi, La metrica italiana. Teoria e storia, Firenze, 1993, p. 151, mentre è sfuggita in genere la sua presenza nell’Epitalamio (anche nella recente edizione).

11  Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. N 332 sup., c. 3r-v.

12  Cfr. ad esempio 81-82 « Adda feconda, Ambro lucente, e ’l chiaro / Tesin » con Favola di Fetonte 588 « Il lucente Tesin, l’Adda feconda » ; 129 generoso seme con l’egloga XII (Admeto primo) 66 (risalendo semmai ad Ovidio, Met. IX 280 « impleratque uterum generoso semine ... ») ; il v. 149 è identico a Favola di Fetonte 25 : « Dei primi aurati fior le guance e ’l mento » ; 158 più breve dì con Coltivazione VI 187 (p. 312 dell’edizione Raffaelli) ; 176 corsier feroce con la Favola di Fetonte, 71 (e si è appena visto come tutto il passo della selva sia ricalcato su Alamanni) ; 203 cruccioso humore privilegia nell’aggettivazione un termine di largo impiego tra Due e Trecento e poi di fortuna molto limitata (in particolare in questa accezione) tranne che in Alamanni, che se ne serve con frequenza sorprendente, priva di riscontro negli autori maggiori.

13  Altra cosa è Verg. Aen. XII 523-525, ripreso in St. Theb.VIII 461-466.

14  Tre Parche II 73-81 : « Qual, ne l’orrido verno, d’alti fonti / e rupi eccelse un gran torrente cade, / che seco tira sassi, selve e monti, / ed empie di roine le contrade, / traendo armenti co i pastori insieme, / co i paschi, con li campi, con le strade, / che par che d’ognintorno il mondo treme, / con tanta furia vien balzando al basso, ch’urta ogni scontro e quel rompendo freme, / tal tu sarai ... ».

15  Cfr. L’amorose rime, nel volume « Stampato in Milano in casa di Gio. Antonio de Castiglioni ad instantia di messer Andrea Calvi l’anno mdxlii a dì XXII di decembre » (ora ristampato a cura di C. Rabitti, Roma, 1993 [ma 1994]), a c. F2r, LXIV 63 : « U’ ’l fratel del Tesin fa gravi l’onde » (la Rabitti, p. 56, non decifra l’allusione geografica e identifica erroneamente il fratel del Tesin col Po, togliendo senso al passo, che indica la posizione di Pavia, sita in corrispondenza dell’allontanamento del Gravellone dal Ticino, in cui poi torna a confluire). Il Borra raccolse con le proprie rime altre due selve, VI e LXXV.

16  Sul genere della ‘selva’ si vedano le scarne considerazioni di F. S. quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia [...], vol. II, lib. II, milano, Agnelli, 1742, pp. 343-44, e lib. I (1741), p. 418, e la più ricca voce di I. Affò, Dizionario precettivo, critico, ed istorico della poesia volgare, Parma, 1777, pp. 309-10 ; sulla varia fortuna del genere tra Quattro e Cinquecento informa ora R. Rinaldi, Le vie della selva. Appunti sulla riformulazione rinascimentale di un genere classico, in Le imperfette imprese. Studi sul Rinascimento, Torino, 1997, pp. 187-230. Per i rapporti tra l’Orfeo e la lettera di dedica di Stazio si veda A. Benvenuti Tissoni, L’orfeo di Poliziano [...], Padova, 1986, pp. 1-10.