Revue Italique

Varia

OJ-italique-1025

Al di là dell’orrore. Il tempo del ‘re giusto’ nella tragedia Semiramis di Muzio Manfredi (1593)

Massimo Scandola

La storia in versi

Nella lettera indirizzata al canonico ferrarese Orazio Ariosto del giugno del 1591, Muzio Manfredi chiedeva all’amico d’inviargli una copia della tragedia Sidonia, e prometteva di spedire al letterato estense un manoscritto della sua tragedia Semiramis che sarebbe stata pubblicata due anni dopo a Bergamo per i tipi di Comino Ventura (1593).1 Questo rinvio è soltanto uno dei numerosi esempi di autopromozione che puntellano le raccolte epistolari di Muzio Manfredi, ove si constata l’immane sforzo di rendere note le proprie fatiche al fine di portare sulla scena i suoi drammi «l’uno boscareccio delle nozze di Semiramis e l’altro tragico della sua morte».2 Nella dedicatoria della Boscareccia indirizzata a Ranuccio Farnese, l’autore voleva evidenziare il legame stretto fra i due testi pubblicati nello stesso anno; tuttavia, la Boscareccia fu scritta qualche tempo dopo la tragedia, probabilmente verso la fine degli anni Ottanta, per rimediare forse all’insuccesso della Semiramis tragica.3

Questa tensione volta all’autopromozione si sarebbe protratta durante il soggiorno a Nancy, quando Muzio Manfredi divenne segretario della duchessa Dorotea di Lorena, e sarebbe continuata anche dopo la pubblicazione della tragedia e della favola pastorale. I quarantotto elogi pubblicati in chiusura della tragedia evocano l’attenta ricerca di noti patrocinatori, perseguita senza sosta da Muzio Manfredi che, come accadde per alcuni drammaturghi dell’Accademia degli Innominati di Parma, non vedrà mai i suoi drammi calcare i palcoscenici.

Dramma sperimentale o dramma ‘scomodo’? La critica ha sinora sospeso il giudizio e collocato i versi tragici di Muzio Manfredi fra gli esiti incerti del ‘teatro cortigiano’:4 se da un lato la critica ha preso in esame la tematica ‘misogina’ oggetto della tragedia,5 dall’altro ha messo in luce le tematiche trattate nella Boscareccia, nonché la grande operazione ‘pubblicitaria’ realizzata da Muzio Manfredi.6

Senza dubbio, il motivo della femme forte regge tutto l’impianto drammatico e rappresenta una delle categorie ermeneutiche fondamentali per accostarsi allo studio delle riscritture dei miti in forma tragica; tuttavia, un’ulteriore disamina della tragedia di Muzio Manfredi consente d’evidenziare dei ‘segmenti testuali’ che richiamano altri miti, legati più alla rappresentazione del potere e della tirannia che al modello della ‘donna forte’.7

In dialogo con i contributi precedenti, il presente studio vorrebbe, infatti, evidenziare questi ulteriori aspetti emersi dall’analisi dei versi di Muzio Manfredi per collocarli in una cornice tematica più ampia, ove affiora una ‘poetica del tempo’ – strettamente connessa alla questione rinascimentale del ‘re giusto’ –, che l’autore ha composto grazie alle ‘voci’ dei personaggi e del coro.

Sullo scrittoio del drammaturgo: dall’exemplum al testo tragico

Come ha scritto recentemente Beatrice Alfonzetti, il teatro tragico fin dal Cinquecento ha sempre avuto una funzione esemplare rivolta all’educazione del principe o dei ceti dirigenti delle repubbliche aristocratiche.8 Molto spesso, ricordava la studiosa, le tragedie del Cinquecento, rispecchiano il brulicare di personaggi che popolano l’affollato ‘palcoscenico’ delle corti italiane.9 Così, i versi del testo tragico di Muzio Manfredi danno una dimensione inedita al mito, interprete della storia e della politica, e mettono in luce le tensioni della corte e l’attesa della venuta del ‘principe savio’.

Indubbiamente, Muzio Manfredi era spettatore privilegiato del mondo cortigiano e benché le sue notizie biografiche siano talvolta frammentarie, è possibile collocare la redazione manoscritta della tragedia Semiramis agli anni parmensi, dove visse dopo aver soggiornato alla corte di Ferrante II Gonzaga a Guastalla, forse come precettore del principe e poi come suo segretario.10 In quella cornice cittadina, Manfredi aveva animato i dibattiti dell’Accademia degli Innominati, ove era in corso un acceso confronto sulla poetica tragica.

L’effervescente contesto dell’accademia parmense aveva consentito a Muzio Manfredi di sperimentare linguaggi e forme nuove, ove maturò la svolta letteraria che annuncia la stesura della Semiramide (1593): l’azione teatrale ideata dall’autore congiunge per la prima volta la leggenda della regina assira, modellata sull’exemplum antico, ai cieli della tragedia.

È probabile che il Cesenate conoscesse il racconto tramandato da Giovanni Boccaccio nel De mulieribus claris e avesse consultato una delle recenti edizioni dei volgarizzamenti, curati da Francesco Baldelli, della Libraria storica di Diodoro Siculo. Le due edizioni note sono quelle pubblicate presso Gabriele Giolito de’ Ferrari a Venezia nel 1574 e nel 1575;11 inoltre, due edizioni di un primo volgarizzamento erano state realizzate sempre dallo stesso editore, a Venezia, nel 1542 e nel 1547.12 Come ha spiegato Cecilia Sideri, sin dagli anni cinquanta del Quattrocento, cioè della comparsa della traduzione latina di Poggio Bracciolini, i primi cinque libri della Biblioteca storica godettero di una grande fortuna in Italia e nel resto d’Europa.13 Come la maggior parte dei letterati del suo tempo, Muzio Manfredi preparava delle schede manoscritte sui soggetti mitologici utili per la stesura delle sue opere, specialmente quelle in versi:14 il materiale veniva consultato, riscritto o collazionato in vista della stesura finale. L’autore aveva seguito questo metodo durante la stesura delle favole pastorali, in particolare il Sogno amoroso, cioè Cento madrigali, pubblicato a Milano presso il tipografo Ponzio, prima nel 1596 e poi nel 1604, allorquando aveva rimaneggiato il materiale della Semiramis boscareccia del 1593.15

Nonostante non sia pervenuto ad oggi nessun manoscritto della tragedia, è possibile ipotizzare che Manfredi avesse redatto questo testo con le stesse modalità. Per quanto l’opera presentasse varie incongruenze rispetto al mito, Muzio Manfredi fu ligio all’estetica aristotelica e riscrisse la leggenda rispettando l’unità di tempo: il dramma mette in scena gli ultimi giorni di vita della regina d’Assiria; tuttavia, l’appiattimento cronologico è soltanto apparente, poiché il chronos si declina a più dimensioni in tutto il testo tragico: l’evocazione del ‘tempo della profezia’ si alterna al ‘tempo dell’orazione’ contrapposto a un presente ‘orrorifico’. Questo tempo declinato su vari piani apre la breccia a un ‘tempo escatologico’, dove tuttavia ogni attesa viene disillusa. Infine, dinanzi al non intervento degli dèi, il tempo assume la condizione di limite, di ‘tempo finito’. Interpretato in questa prospettiva, il tempo non è soltanto un elemento chiave della forma drammatica, ma anche un tema narrativo che emerge dalle ‘voci’ dei personaggi, anche grazie agli ‘equilibri difficili’ messi in scena dall’autore.16

Al fine di perseguire questo schema narrativo, l’ossatura della fabula segue la lezione del Libro II della Biblioteca storica di Diodoro Siculo, che basta ricordare nei punti salienti: Semiramide è la bellissima sposa del generale Mennone/Onnes, che viene raggiunto dalla moglie durante una spedizione in Battriana. Valorosa in battaglia, ella riesce a prendere la cittadella di Bactria ed è allora che re Nino d’Assiria si innamora di lei e spinge Mennone al suicidio. Il re sposa la vedova del suo generale: da questa unione nasce Nino/Ninyas. Quando re Nino morì, Semiramide gli succedette sul trono.

Secondo il racconto di Diodoro, la regina guerriera creò un impero fino ai confini dell’India. Dopo la sua prima sconfitta, sapendo che il figlio Nino/Ninyas stava cospirando contro di lei, gli consegnò gli attributi del potere e ascese al cielo in forma di colomba per essere deificata.

Diodoro riferisce anche una seconda tradizione, secondo la quale Semiramide è una splendida cortigiana innamorata del suo re Nino, che ricambia il suo amore.17 Prima serva, poi amante e infine moglie, ella convince il re a cederle il potere per cinque giorni e riesce così ad uccidere Nino e a regnare fino alla fine dei suoi giorni.

La cronaca antica offriva a Muzio Manfredi molto materiale sul quale sperimentare il genere tragico, che era molto apprezzato in quei cenacoli ove ancora echeggiava la lezione di Giovanni Battista Giraldi Cinzio: specialmente quelli che gravitavano attorno alla corte di Ferrara, ove il letterato cesenate fra il 1582 e il 1583 fu accolto con entusiasmo da Alfonso II d’Este.18

Tuttavia, della lunga schiera di nomi che si sono cimentati col genere tragico Muzio Manfredi rimane uno dei meno studiati. La fervida stagione degli autori tragici si apre con la Sofonisba di Gian Giorgio Trissino (1524), seguita poi dalla Rosmunda (1525) di Giovanni Ruccellai e dall’Antigone di Luigi Alamanni, pubblicata a Lione nel 1532, per giungere, infine, alla tragedia sperimentale di Giovanni Battista Giraldi Cinzio, l’Orbecche, scritta per la corte estense e mai rappresentata (1541).19

Come gli altri drammaturghi, Manfredi rimodellò l’exemplum su schemi tratti dalle tragedie di Seneca: si è ispirato ai modelli della mitologia erosi dal furor, presenti specialmente in maghe come Medea e regine come Fedra.20 Tuttavia, un’indagine più approfondita mostra come dalle pagine di questo autore emergano anche degli schemi narrativi già introdotti dal Tieste di Seneca. Trascurato dalla critica più recente, questo mito ha guidato forse più di altri la penna di Muzio Manfredi.21 Certamente, il Cesenate aderisce alla poetica innovativa di Giovanni Battista Giraldi Cinzio esposta nel Discorso intorno al comporre delle commedie e delle tragedie (1554), ove la dimensione raccapricciante entra con prepotenza sulla scena con lo scopo, sempre, d’indurre la catarsi. Si recepiscono anche gli schemi formali adottati dagli altri drammaturghi suoi contemporanei, come la struttura narrativa su cinque atti, e si valorizza la funzione del coro che veicola le scelte morali e diventa esso stesso ‘personaggio’ tragico.22

Forse per adeguarsi alla moda o per cercare l’ammirazione del pubblico di corte, l’autore accentua le componenti macabre al fine di far emergere il ‘destino plumbeo’ di Semiramide, che è strettamente legato più all’immaginario del potere che alla sua femminilità.23

Il ‘tempo della profezia’: i fantasmi a corte

Come nel Tieste di Seneca, la tragedia si apre con l’irruzione del soprannaturale: un tempo eterno lacera il velo della realtà. Laddove, in apertura della tragedia senechiana, Tantalo si trascinava fuori dal mondo dei morti per parlare con la Furia, il lungo monologo del fantasma di re Nino occupa tutta la prima scena dell’atto I. Questo schema è evocato anche in Dalida di Luigi Groto, precisamente, nella scena d’apertura dove re Moleonte dialoga con l’allegoria della Morte.24 Nella Semiramis tragedia, il soprannaturale attualizza il passato evocato dalle parole dell’Ombra di Nino:

Ombra di Nino:
Dal regno de la Notte e de la Morte
qui m’è concesso di venir da Pluto,
a riveder, cruccioso, i vivi e il sole.
Questo a miei prieghi affettuoso impetra
la rabbia, che là giù più mi tormenta
d’ogni altra pena, sol pensando a l’empia.
e non udita mai sceleritate
de l’empia e scelerata, ond’alta t’ergi,
vasta e immonda città, che ben sorgesti
da poi ch’io caddi ne l’Inferno, e pure
nota mi sei dal tuo principio: e questo
so ch’è il palazzo de la mia nemica
(ché nemica mi fu più che consorte)
e ch’ivi alloggia il suo figliolo e il mio:
così non foss’ei nato, o nato a pena
fosse mio precursor gito a l’Inferno.25

Coppie di contrasti – «notte» e «morte», «vivi» e «sole» – introducono l’apparizione dello spettro in scena. Benché il manifestarsi del ‘soprannaturale spettrale’ richiamasse una tradizione folclorica legata alle leggende popolari, l’«Inferno» e l’«empietà» della sovrana collocano il lettore in un mondo permeato dalla dimensione teologica della Controriforma e dei suoi insegnamenti.26

I fantasmi, voci del passato, anticipano gli eventi e appaiono in tempi e luoghi stabiliti. Di notte, nel palazzo reale di Babilonia sussurra la voce lamentosa di Nino, che chiede vendetta e lamenta l’oltraggio subito. Come una larva informe, che richiama il Tantalo di Seneca, il personaggio presenta dei «colores danteschi»:27 lo spettro è risalito dal «regno di Pluto», si aggira nel «palazzo della nemica» regina di Babilonia e le sue parole suonano da monito alla cupidigia della sovrana e a quella di tutti i sovrani. Tuttavia, contrariamente a Tantalo che è pervaso dalla volontà di voler tornare al più presto nell’Ade, l’Ombra di Nino rivendica il suo ritorno e manifesta la volontà d’abitare in un tempo che non è il suo. Infatti, Nino è «alma tormentata» che patisce le «pene dell’Averno» e appare in sogno al figlio, mentre lamenta il «furore bestiale» da cui è accecata la sua vedova:

Ombra di Nino:
E questo è ministerio a me devuto
più che a le Furie. Io son l’offeso, io sono
cui contra il tutto si commette, e quanti
da questa fera, ch’a gran torto regna,
soffersi in vita tradimenti? E quanti
dopo la morte ch’io non narro? È ver,
che quel, ch’oggi si tratta, ogni altro avanza.
Sì, c’ha mossi a pietà per me gli abissi,
e l’ombre tutte a meraviglia grande;
me no, che so benissimo per prova
qual sempre la guidò furor bestiale:
ond’altro che vergogna, e danno, e strazio
dal suo perfido oprar nulla aspettai.28

L’ombra accentua il «perfido oprar» della moglie «empia», che è causa di «vergogna, e danno, e stratio» (v. 37). Secondo una prospettiva intertestuale, il tema dell’empietà, cioè del mancato rispetto delle norme religiose, ritorna prepotentemente nel testo di Muzio Manfredi, al quale era noto, probabilmente, il passo di Paolo Orosio, ove Semiramide concepisce nella vergogna il figlioletto Nino/Nynias che, per questo, viene additato impie exposito.29 Il desiderio della vendetta di Nino amplifica la visione ciclica di un tempo che viene sempre attualizzato; tuttavia, la brama di sangue è frustrata dalla mancanza della corporeità, accentuata laddove il fantasma lamenta: «e mani avessi ancora atte al ferire / come ve le avrei pronte».30

Nel ripetersi ciclico degli eventi, la vicenda di Nino s’intreccia con quella di Mennone. Impiccatosi dopo il rapimento della moglie, la sua ombra entra in scena e, mentre osserva «Babilonia infame», si rivolge a Nino, «re ingiusto»:

Ombra di Mennone:
Riconoscimi tu? Io son Mennone.
Anco a me dato è riveder le stelle,31
e veder questa Babilonia infame,32
per tanto spazio ch’io disfoghi l’ira
contra il tuo sangue. Tu d’un sol ti duoli
(ed è Semiramis di cui ti duoli),
io di tutti mi doglio. Tu a ragione
soffristi, e soffri tradimenti; et io
da te soffersi violenza a torto.33

Questi due monologhi mettono in risalto i destini di due uomini spodestati e il vocabolario tragico è adattato al ‘linguaggio dei nunzi’: Nino torna per svolgere un «ministerio», cioè per compiere un «officio» che spetterebbe alle Furie (come nel Prologo del Tieste di Seneca): annunciare la fine dell’età dell’«error grande» e dell’«error nuovo», per riscattare il trono che è un suo «diritto», ora alla «mercé» di un sovrano che ha eretto una «casa con opre nefande» (v. 65).

I due monologhi sono accomunati dallo stesso linguaggio e da un’eguale dimensione del tempo: la sofferenza di Nino risale, certamente, all’epoca remota allorquando era in vita, ma l’offesa si attualizza, ciclicamente, anche nel regno dei morti («soffristi, e soffri tradimenti», v. 67).

Il ‘tempo dell’orazione’: il salmodiare d’Imetra

Le due ombre si contrappongono all’unico corpo virile, che è quello di Semiramide, colei che è rivestita dei simboli del potere. Debole è anche il figlio di Semiramide, che Manfredi chiama Nino (e non Ninya o Ninyas, come vorrebbe la tradizione), un «generoso e gratioso figliolo» che «uomo è finalmente» (v. 478), come dirà Imetra, la nutrice. Le sequenze del primo atto rispettano il canone tragico: la forza destabilizzatrice della sovrana viene espressa dall’intento dell’incesto. Anche in questo caso, come in Tieste, c’è la volontà d’infrangere una norma che regge la società e, prima di tutto, la famiglia. Secondo lo schema della tragedia senechiana, il personaggio della nutrice risponde a precise funzioni nel dramma: solitamente esprime il buon senso e la ragione, al fine di porre un freno al furor del protagonista. La serva devota, Imetra dalle «chiome canute ed irte», canta le «opre» della regina e prova a dissuaderla dalle sue intenzioni incestuose:

Imetra:
Tu che figlia di dea ti chiami e sei,
e dea sembri negli atti e nel sembiante,
se la tua gloria gira a par col sole,
e che fin qui chiara è com’è chiaro il sole,
a che cerchi oscurarla? A che defraudi
la Fama? A che le tronchi i più bei vanni?
Qual Dio, qual legge è, che consenta al figlio
farsi consorte de la madre, e nasca
di lor chi sia fratello, e figlio al padre
e a la madre sia nepote, e figlio?
Dunque Semiramis, donna sì chiara,
donna di tal valor, donna in cui sola
tutta la nostra età lieta si mira,
ch’empie di meraviglia il mondo, e ‘l cielo
e d’alta invidia i più sublimi regi,
ch’è de le donne altero e raro mostro,
darà principio a sì brutt’ uso? E dica
il mondo poi: «Costei bruttommi?»34 e sia
per te il femineo stuol per sempre infame?35

Il personaggio della nutrice entra in scena dopo il dileguarsi degli spettri per evidenziare non soltanto l’aspetto crudele e ambiguo della sovrana, ma anche per scandire il susseguirsi degli eventi. In un certo senso, Imetra tesse la trama temporale del racconto, perché è un personaggio di raccordo fra i diversi tempi della fabula: Imetra elogia il lungo regno di Semiramide, «donna chiara» e «donna di valore» che ha governato durante un’età «ch’empie di meraviglia il mondo» (v. 288); al tempo stesso, ella dirà che quel tempo è ormai concluso, perché la sovrana è diventata fonte d’invidie per i «sublimi regi» (v. 289). Le parole della nutrice sono sapienti ed evocano il carattere prodigioso della donna. Le scelte narrative di Muzio Manfredi ricalcano uno schema tradizionale: lo stesso messo a punto da Seneca in Agamennone e in Fedra, laddove la Nutrice, con un monologo, fronteggia, nell’una e nell’altra tragedia, l’ira di Clitennestra e della regina di Atene.36 Inoltre, Manfredi mutua questo schema non solo dai personaggi femminili senechiani, ma anche da Tieste, ove i satellites e i nunzi contengono la spietatezza del re Atreo. Anzi, l’operazione di ribaltamento del piano assiologico, riscontrabile quando la regina scardina la scala dei valori, richiama specialmente Tieste di Seneca:

Semiramide:
L’età canuta e quel tuo vivo ingegno,
che fin qui t’è durato in mio servigio,
or, se discerno il ver, venuto è meno,
e la licentia, ch’io di dir ti diedi
liberamente, or t’assicura; e voglio,
in vece di castigo, aprirti a pieno
l’intimo del mio cor, perché palese
ti sia quella cagion, ch’a far m’induce
nozze col re mio figlio. Amor m’induce
a ciò, nol nego; ma non vi è furore,
non vi è lascivia. Sai che Regno è questo,
più d’altro grande e nuovo il più. Son vivi
i re, vinti da Nino, e da me vinti
(parlo di Nin, già mio marito) ed erri,
se credi, ch’un re mai ponga in oblio
la perdita d’un regno: e che non pensi
come ’l racquisti sempre: e che la vita
non mettesse, per ciò, sempre a periglio.
Di questi, pochi son che già più volte
cerco non abbian lor consorte farmi;
né creder già, che sian d’amore spinti,
ma da disio d’occupare il tutto,
e me far serva, e tôr la vita a Nino.37

La genealogia svolge un ruolo fondamentale nella tragedia della seconda metà del Cinquecento: Manfredi scrive per le corti delle famiglie Gonzaga e Farnese e riveste d’importanza l’appartenenza a un lignaggio legittimo scandito dal susseguirsi delle generazioni: il tempo assume ancora una volta una dimensione ciclica e l’autore insinua l’attesa di una nuova ‘età delle meraviglie’, che si realizzerà solo dopo la morte di questi satrapi, perché «son vivi i re da Nino vinti» e la minaccia incombe su tutta l’Assiria. Secondo una simile prospettiva, quando Muzio Manfredi elogia l’amore di Semiramide per il figlio non evoca soltanto l’incesto, come schema narrativo del canone tragico, ma svela anche il problema che sta alla base del dramma di Semiramide, ovvero la scelta del ‘re giusto’ capace di proteggere i confini dell’impero. Tuttavia, l’amore della regina è estremo, dov’è espressa la consapevolezza che gli altri sovrani pronti a chiedere la sua mano non «sian d’amore spinti, ma da desio d’occupare il tutto» (vv. 338-339).

Imetra invita Semiramide, «figlia», a rispettare i suoi doveri di sovrana del popolo assiro e lo fa mediante una litania di prerogative regali – «valorosa e fortunata in guerra» (v. 436), «possanza immensa» (v. 438), «tu guerriera, tu prudente sagace» (vv. 455-456), «guida, guardia e sostegno» (v. 458). La lista dei titoli presenta echi biblici ispirati soprattutto ai salmi regali, ed evidenzia un registro ‘epico’, volto a suscitare enfasi ed ammirazione nel lettore, tramite un climax di attributi solenni, enumerati l’uno dopo l’altro, come già accadeva per i formulari più antichi delle litanie.38 Simili metafore regali, ordinatamente costruite e non affastellate in modo casuale, evocano un campo lessicale che non è esclusivamente militare, ma presenta vari prestiti dalla teologia e dalla politica. Questo registro s’innesta nel testo tragico e accresce l’attesa che anticipa il tramonto della sovrana e la fine del regno. I due registri evidenziano, ancora una volta, una precisa concezione ciclica del tempo: alla gloria di un sovrano segue la sua decadenza, allorquando questi ritenesse sciolto il legame esistente tra la sua autorità e la legge, che tutto governa. Muzio Manfredi mette in risalto questo aspetto, laddove Imetra richiama il legame indissolubile che dovrebbe esistere fra il sovrano, le leggi e la divinità, così come fanno la nutrice di Clitennestra nell’Agamennone di Seneca e, in mondo più marcato, i satellites nel Tieste: questo laccio è ormai affievolito dal furor e dalle tentazioni del potere. Infatti, Imetra ricorda che una postura virtuosa avrebbe dovuto scandire la durata di un intero regno e non un ‘tempo finito’; per questo, esclama: «le leggi non sono, figlia mia, dono di Dio?» (vv. 470-471).

Tra le righe, trapela l’impostazione agostiniana del tempo, inteso come dilatazione del divino, non misurabile in modo meccanico con la sabbia di una clessidra o una meridiana. A questa concezione etica si oppone Semiramide, che compie l’infrazione della legge divina, macchiandosi d’empietà e, nonostante la sua colpa, Imetra la chiama ancora una volta «regina» e «figlia di dea» o «dea». Quest’ultimo attributo ricorda un dibattito cruciale della fine del Cinquecento, cioè quello del ‘principe devoto’, cioè del sovrano reggitore anche della comunità religiosa nazionale, oltre che di quella politica.39 In questo senso, la postura di Muzio Manfredi non è inedita, poiché la trattatistica coeva aveva già apostrofato la regina assira come protettrice della religione e restauratrice del pantheon antico, perché spodestava il culto degli idoli imposto da re Nino.40

Il ‘tempo escatologico’: gli inni del coro

Nei trattati coevi come nelle tragedie, l’azione di Semiramide di distruggere gli idoli per restaurare i culti antichi richiama l’immagine biblica di re Giosia: il ‘re giusto’ che aveva demolito i tabernacoli situati nelle colline di Gerusalemme per restaurare il culto monoteistico e così iniziare un tempo nuovo.41 Manfredi insiste spesso sul carattere devoto del sovrano, come espressione del divino e, nella riscrittura tragica della leggenda, il problema del godly prince, molto diffuso soprattutto all’inizio del Seicento, diventa una via ermeneutica fondamentale per leggere la tragedia. Secondo Manfredi, tutti gli spazi della sociabilità, specialmente la corte di Babilonia, vengono riposti sotto la protezione di un sovrano devoto, timoroso degli dèi. Inoltre, l’autore invoca la protezione divina proprio quando mette in evidenzia il contrasto tra la guerra e la convivenza pacifica, la furia e l’amore. In questo modo, insegue il canone tragico e sperimenta delle forme già messe a punto nel teatro di Trissino. Il richiamo alla Sofonisba è evidente alla fine dell’atto I, ove il coro innalza una preghiera ad Amore, dio che regge il mondo. Sebbene l’inno sia pervaso da una cornice cristiana, Amore ricalca in parte le fattezze della Fortuna: è «possente e governa con la maestà suprema» ed è al tempo stesso «crudele e pio»:

Coro:
Amor che Dio ti chiami, e pur se’ Dio,
e ’l più possente sei
di tutti gli altri dèi,
e cui null’è che non inchini e tema,
tu de’ miglior pensier, tu de’ più rei,
secondo il tuo desio,
ora crudele, or pio,
governi l’opre in maestà suprema.42

Nell’inno il discorso aumenta gradatamente di forza con la disposizione dei termini in ordine crescente di valore: Amore non è solo «possente», è anche il reggitore del «mondo», che agisce come gli «pare, o piace» (v. 599); e conduce l’uomo alla rovina o alla gioia, «ora in guerra, or’in pace» (v. 600). Manfredi colloca Amore nell’orizzonte temporale dell’attesa, ove gli eventi sono in balia delle voglie di un dio «ora crudele, or pio» (v. 588). Infine, il coro chiude l’invocazione con un chiaro richiamo all’empietà: se Amore non argina le «scelerate e sfrenate voglie» (v. 665) dell’uomo iniquo ed empio soggetto non è dio, non è altro che uno «spirito, il peggiore ch’abbia l’Inferno» (v. 669):

Coro:
Tu producesti e or mantieni il Mondo
come a te pare, o piace.
Ora in guerra, or in pace,
perché hai dell’universo in man le chiavi.
L’onnipotente tua divina face,43
sdegnando core immondo,
chi tristo, e chi giocondo
rend’e, fa spesso anche i martir soavi.44
E ben par, che s’aggravi
chi non la sente e dica:
«Perché l’ho io nemica?»,
quasi sia meglio haverti empio, e protervo,
che non esserti servo,
fuor de i perigli tuoi, senza fatica.45

All’equidistanza di Amore dai dolori e dalle gioie dell’uomo, si contrappone invece l’inno al «Padre del Ciel e al re de le stelle» che governa i principi e regge le società, in chiusura dell’atto II.46 Queste scelte tematiche, talvolta contrapposte, non furono forse capite dai contemporanei che si confrontavano con motivi diversi e talvolta slegati («Amore» e «Fortuna» accanto a «Giove» e al «Padre del cielo»). Tuttavia, questi ‘nodi’ testuali, che sembrano in apparenza incoerenti, diventano la chiave per capire la rivisitazione delle forme tragiche e delle unità aristoteliche proposte da Manfredi. Inoltre, queste scelte narrative trasmettono una precisa ‘poetica del tempo’. Infatti, anche in questo caso, il tempo evocato è quello mitico dell’attesa del ‘re giusto’, che è anche un tempo utopico ove regna la divinità. Inoltre, il «Padre eterno del Ciel» è chiamato a partecipare delle pene e delle gioie dei mortali. Contrariamente ad Amore, che è demiurgo delle voglie dell’uomo, il «Re de le stelle» invocato in aiuto «frena l’ostinata madre» (v. 1161), donerà un’«eterna triegua» (v. 1165) e trasformerà il «furor in dolce amor» (v. 1167).

La tensione messa a punto dal coro pare schiudersi nell’attesa speranzosa di un tempo radioso che permea l’inno a Giove alla fine dell’atto III:

Coro:
Ora ben con ragion cantar possiamo,
che son graditi i prieghi nostri in Cielo.
Ecco di ben amar converse in zelo
le dinanzi irate menti: omai cantiamo.
Nel nostro canto la Pietà lodiamo,
la Concordia e la Pace, elle beate
e in Ciel di Giove nate,
han forza di legar benigne i cori
tutti di santi amori:
e già ne abbiamo in questa reggia segno;
onde tost’anco sarà lieto il Regno.47

Il vocabolario degli inni sacri modella il linguaggio assunto dal coro: la comunità alza i «prieghi» a Giove che è il «datore e servator di tutti i beni» (v. 1121); inoltre, Concordia e Pace sono lodate, gli «amori» cantati sono «santi» (v. 1908) e gli «spirti angelici» (v. 1911). Così, il Cesenate adorna la forma tragica d’interferenze ‘liturgiche’, che rinviano probabilmente al linguaggio omiletico della Controriforma. Inoltre, mediante queste scelte linguistiche, Manfredi sembra prendere le distanze dai toni cupi del coro finale del Re Torrismondo di Tasso. Quegli echi oraziani e biblici presenti nella tragedia di Tasso, in particolare quelli tratti dal libro dell’Ecclesiaste sulla vanità dell’esistenza umana che si ripete con un moto eterno sotto il sole, sono sostituiti dai richiami ai salmi regali: il «fuggir del tempo» e la vita scorrono protetti dal dio, probabilmente Giove, che come il «sole risplende» sulle «leggi» e gli «elementi» (v. 1922). Mediante gli inni, la ‘voce’ del coro implora gli dèi per la venuta di un ‘re giusto’, affinché giunga un principe capace di governare con saggezza. Allo stesso tempo, le preghiere del coro accrescono la tensione sulla scena e contrastano la fine brutale che attende tutti i personaggi. Quando la regina scopre che in verità il figlio Nino è sposato segretamente con Dirce, una delle sue fantesche, esterna tutta la sua ferocia e uccide la moglie del figlio. Manfredi accentua la tragicità ad un punto tale che fa di Dirce la figlia segreta di Semiramide. Gli dèi invocati si sono beffati della sovrana.48

‘Il tempo finisce’: l’empietà e il limite

Nella scena seconda dell’atto IV, Manfredi ricalca ancora una volta Tieste di Seneca: il racconto della serva Atirzia evidenzia i dettagli raccapriccianti dell’uccisione di Dirce e dei suoi due figli e richiama la scena dello sterminio dei principi, avvenuto nel bosco, da parte del re Atreo. La regina, posseduta da un furore incontrollabile, si sveste degli attributi regali e con una corda lega Dirce alla finestra, mentre la figlia/ nuora infelice la implora di risparmiare almeno gli «innocenti fanciulli, e figli (o Dio) / di tuo figliolo» (vv. 2118-2119): la bambina morrà sgozzata, mentre il maschietto, Nino, verrà colpito al petto. La regina risponde con queste parole alle suppliche disperate di Dirce:

Atirzia
                              
Allora
la fiera madre tua, nel volto accesa
d’un color velenoso, ancor rispose:
«Ardisci, temeraria, di pregarmi
d’alcuna grazia? E sì sfacciata sei,
che speri d’ottenerla? I tuoi figlioli,
come son nati d’una mia nemica,
così per le mie man come nemici
morranno or ora: e se gli hai tu di furto
a Nino partoriti, io che di Nino
son madre, a te palesemente or voglio
qui levargli per sempre; e che veggia
la morte lor, s’ebber da te la vita.49

In questo testo, la caratterizzazione di Semiramide muta. Dopo il delitto terribile, gli dèi le impongono un tempo limite: il «finir del tempo» caratterizza le azioni della regina, così come i gesti delle Ombre erano marcati dalla finitezza, cioè dal poco tempo, che gli dèi hanno concesso loro, di restare tra i vivi. Così come ad Atreo, nel Tieste, traballa la corona sul capo mentre compie l’eccidio dei nipoti, così anche la regina perde i suoi attributi regali e diventa una «lupa ingorda» (v. 2197) che «sbrana», «sdegna» e «sprezza» gli agnelli (v. 2198). L’immagine della bramosia di un pasto, che diventa ‘infernale’, richiama evidentemente il banchetto blasfemo della tragedia senechiana. Al tempo stesso, anche la rappresentazione della «lupa ingorda» è un’interferenza testuale che allude probabilmente alla «tigre digiuna» del Tieste, immagine con la quale il Nunzio descrive al coro la furia di Atreo mentre uccide i figli di suo fratello nel bosco sacro, prima di darglieli in pasto:

Atirzia:
Ma la regina, quasi una lupa ingorda,
ch’a gli agnelli sia intenta, e sdegna, e sprezza
le madri, lo mi tolse, e disse a Dirce:
«Ecco de la mia fè, de l’amor mio,
ver te, mia nuora, la seconda mostra».
Ahi – gridò Dirce –, e fin a quando andrai
a por modo a la rabbia? Ahi basti, ahi basti
quant’hai ne la fanciulla adoperato.50

Secondo il canone tragico, la furia vendicativa ha la stessa forza del furor riscontrato nella Dalida di Luigi Groto e nell’Orbecche di Giraldi Cinzio.

La visione raccontata da Beleso, il sacerdote, è ancora d’ascendenza senechiana: come in Tieste, l’astro in cielo inverte il suo moto, cosicché il sole che «risplende» diventa un «sol turbato» (v. 2479), il terremoto si abbatte sul tempio e due falci appaiono all’orizzonte e iniziano a girare vorticosamente:

Beleso:
Chi negherebbe a’ vostri prieghi, o donne,
gentili, e care di narrarvi il vero?
Quand’arrivai, e me n’entrai nel tempio,
benché fosse giorno, era sì scuro,
ch’esser più non potria di meza note.
Pur alquanto due faci il rendean chiaro,
che d’intorno scorrean, senza vedersi
chi le portava, e le scoteva: e anco
s’udia un rumor continuato e tale
ch’io ne rimasi spaventato e mesto:
tanto più, che tremava il tempio a guisa
di lieve canna, da più venti scossa;
e pur saprete com’è forte e grande.
Al fin le faci, dopo molti giri
e molti scotimenti, si calano
giù rovinose, e s’ammorzâr sotterra.
Fermossi il tempio, illuminollo il sole,
ma sol turbato: e vi restò un fetore,
che tal l’ha forse di Mefite il lago.
S’intese intanto il furioso fatto
de la Regina, ond’io restai da l’opra
confuso e tristo; e qui tornai dolente,
per saper quanto avëa da fare.51

Nella tragedia, le ‘voci’ ancora una volta rispondono a una ‘poetica del tempo’: Imetra rimpiange l’‘età delle meraviglie’, mentre il sacerdote Beleso, lamenta le sventure che in futuro s’abbatteranno sulla dinastia e deplora il matricidio di Nino, che ha infranto l’attesa del ‘re giusto’. La tragedia di Muzio si chiude con l’avvertimento ai tiranni. Un destino ineluttabile accompagna anche Nino che, un tempo «generoso e gratioso figlio» (v. 478), dopo essersi macchiato del sangue di sua madre è destinato ad uccidersi. Purtuttavia, come avverte l’ombra di Mennone all’inizio della tragedia, la «semenza» dei principi assiri continuerà nel tempo.

Beleso, che si rivolge al coro e alle donne che lo ascoltano, esprime il pianto della communitas che si appresta a sottostare ad un altro re che ha sovvertito tutte le leggi. L’infrazione di ogni legge da parte di Nino non fa di lui un ‘re giusto’ e anche per questo la sua dinastia non sarà immune dalla decadenza. Al pianto di Beleso fa seguito un inno d’avvertimento contro la tirannia, una sorta di preghiera volta a ‘Giove irato’, recitata dal coro alla fine dell’atto IV:

Coro:
Ahi, perché dunque alzar tanto il disio?
Perché tanto bramar cittadi e regni?
Perché dell’oro altrui tanto haver sete?
Meglio pur fora il riposarsi in Dio;
meglio che imperi han quei che ne son degni:
meglio si sta chi un sol suo campo miete.
Ne le povere case è la quiete,
ne i palazzi i travagli. I Re non hanno
mai, come schivin le moleste cure,
i rischi e le paure.
Gli altri di chi temer già mai non sanno:
e sempre allegri e riposati stanno.
Oh come cerca il mal, come il ben fugge
chi di regnar si strugge!
I re, quand’esser più pensan felici,
del vero accorti cadono infelici.52

L’inno è un invito ai sovrani a non «bramar cittadi e regni» (v. 2547) e a pensare piuttosto a «riposarsi in Dio» (v. 2549). L’immagine di ‘Giove irato’ non è casuale ed è evocata ben due volte dal coro in soli dieci versi: secondo la tradizione greca, il dio è rappresentato in preda all’ira allorquando patisce l’offesa arrecata alla sua discendenza. Infatti, il dio ‘irato’ scaglia la folgore contro i Titani dopo che costoro hanno dilaniato il figlio Dioniso, cosicché dalle loro ceneri possano sorgere gli uomini; così dal sangue sparso dei principi d’Assiria potrà sorgere un giorno una nuova dinastia, dopo che l’ira del dio sarà placata.

Conclusione. Il ‘tempo del re giusto’

La forma tragica elaborata da Muzio Manfredi rivela l’emergere di una rielaborazione dell’unità di tempo; come se la misura aristotelica strutturata lungo i momenti che scandivano la giornata e offrivano uno schema coerente entro cui ordinare i drammi, non potesse esprimere la complessità della fabula. Muzio Manfredi inventa, così, un rapporto originale con la temporalità, che può essere anche riletto evidentemente in chiave controriformistica. Infatti, sebbene la fabula rispettasse la struttura canonica della forma tragica, le ‘voci’ dei personaggi attestano, in verità, un tempo più esteso e dilatato, inteso come profezia, preghiera ed escatologia, che richiama a ben vedere una dimensione più antica, sorretta da una visione agostiniana. Il dramma di Muzio Manfredi può sembrare enigmatico, perché costruito su ‘equilibri difficili’ e fortemente incentrato sulla figura politica della sovrana, ma al tempo stesso privo di una sua ‘originalità’ rispetto ai modelli tragici coevi. Per tali motivi, sarebbe anacronistico parlare di una ‘modernità’ di Muzio Manfredi, perché l’autore colloca il tempo e il suo protagonista in una dimensione ‘collettiva’ che è forse quella del mito o della politica. Questa ‘forma corale’ esprime, probabilmente, l’epopea di un popolo, di una famiglia principesca o di un regno e si adatta alle necessità della tragedia.

Lungo questo lasso temporale dilatato, cadenzato dai dialoghi fra i personaggi e il coro, si colloca l’azione dei sovrani, distinta per età, da quella delle ‘meraviglie’ e della ‘fine del regno’ che, ciclicamente, si ripetono.

Alla luce di queste considerazioni, la tragedia di Muzio Manfredi appare, inevitabilmente, un testo ‘scomodo’, che ha le fattezze d’un ‘dramma politico’, ove la ricerca del ‘re giusto’ faceva riapparire i ‘fantasmi’ che abitavano le corti italiane ed europee della fine del Cinquecento.

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1 La questione della stesura della Semiramis di Muzio Manfredi è trattata da Grazia Distaso, Introduzione, in Muzio Manfredi e Antonio Decio, La Semiramis / Acripanda. Due regine del teatro rinascimentale, a cura di Grazia Distaso, Lecce, Lisi, 2002, pp. 9-19. Da questa edizione, sono tratti i testi citati nel presente contributo. Rinvio alla Lettera n° 181, Nancy, 1° luglio 1591, in M. Manfredi, Lettere brevissime di Mutio Manfredi, il Fermo Academico Olimpico, & c. scritte tutte in un anno, cioè una per giorno, & ad ogni condition di persone, & in ogni usitata materia, Venezia, Roberto Meglietti, 1606, p. 149. Per un profilo sull’autore si veda la voce curata da Franco Pignatti, Manfredi, Muzio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LXVIII, Roma, Treccani, 2007, pp. 720-725.

2 Cfr. Lettera n° 187, in M. Manfredi, Lettere brevissime, cit., p. 183.

3 Sulla fortuna della Semiramis di Muzio Manfredi si veda Grazia Distaso, Introduzione, cit., pp. 9-19. Rinvio allo studio di Franco Tomasi, Muzio Manfredi e i Gonzaga attraverso le lettere in Luca Morlino e Daniela Sogliani, I Gonzaga digitali. La cultura letteraria in età moderna, Milano, Skira, 2016, pp. 45-68.

4 Sul teatro tragico si veda Marco Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974, unitamente alla silloge di testi curata da R. Cremante, che cito alla nota 19. Rinvio anche a Danielle Boillet, La Semiramis (1593) tragédie de Muzio Manfredi, in Christophe Couderc, Hélène Tropé, La tragédie espagnole et son contexte européen, XVIe-XVIIe siècles, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle, pp. 2013, pp. 56-69.

5 Cfr. Virginia Cox, Women’s Writing in Italy, 1400-1650, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2008, pp. 166-194, Alison Beringer, The Sight of Semiramis: Medieval and Early Modern Narratives of the Babylonian Queen, Temple, Arizona, ACMRS, 2017.

6 Si veda Elisabetta Selmi, Nodo d’amore e d’eroismo. Riscrittura e allegoria nelle pastorali del primo Seicento, in Daria Perocco, Tra boschi e marine: per la pastorale del Seicento, Bologna, Archetipo Libri, 2013, pp. 353-393. Inoltre cfr. F. Tomasi, Muzio Manfredi e i Gonzaga, cit., pp. 45-68.

7 Cfr. Cesare Questa, Semiramide redenta: archetipi, fonti classiche, censure antropologiche nel melodramma, Urbino, QuattroVenti, 1989.

8 Rinvio a Beatrice Alfonzetti, Dramma e storia. Da Trissino a Pellico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013, pp. 25-45.

9 Ibid., pp. 4-17.

10 Cfr. Grazia Distaso, Introduzione, cit., pp. 9-19 e F. Tomasi, Muzio Manfredi e i Gonzaga, cit., pp. 45-68.

11 Rinvio alla descrizione dettagliata in EDIT16, https://edit16.iccu.sbn.it identificativi: CNCE 17222 e CNCE 17223 (data ultima consultazione 2 novembre 2022).

12 Si veda la descrizione dettagliata in EDIT16, https://edit16.iccu.sbn.it, identificativi: CNCE 17220 e CNCE 17221 (data ultima consultazione 2 novembre 2022).

13 Cfr. Cecilia Sideri, Due volgarizzamenti quattro-cinquecenteschi della Biblioteca storica di Diodoro Siculo: prime indagini sulle fonti latine, in «StEFI. Studi di Erudizione e di Filologia Italiana», 8, 2019, pp. 437-518.

14 Rinvio in questo caso alla raccolta Cento donne, pubblicata a Parma da Erasmo Viotti nel 1580. Un esemplare di questa edizione è conservato presso la Fondation Barbier-Mueller (Università di Ginevra). Si veda la descrizione in EDIT16, https://edit16.iccu.sbn.it, identificativo: CNCE 38913 (data ultima consultazione 2 novembre 2022).

15 Versioni manoscritte di sonetti, canzoni e rime sono conservate presso la Biblioteca Civica di Bergamo, Fondo principale, MM.693 e 67.R.8 (6) e presso la Biblioteca Angelica di Roma, Fondo Manoscritti, Ms. n°1690, c. 3r.

16 Cfr. D. Boillet, La Semiramis (1593), cit. pp. 68-69.

17 Il rinvio è a Diodoro Siculo, Biblioteca storica. Testo greco a fronte, a cura di Giuseppe Cordiano, Marta Zorat, Milano, Rizzoli, 2014, II, 20. 3. 5, p. 479; inoltre si veda C. Questa, Semiramide, cit., p. 19.

18 Si veda F. Tomasi, Muzio Manfredi e i Gonzaga, cit., pp. 45-68.

19 Fondamentale per questo periodo la silloge riccardiana curata da Renzo Cremante, Teatro del Cinquecento. La tragedia, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988. Cfr. Paola Trivero, Il Cinquecento italiano: soggetti e varianti del canone tragico, in Michele Mastroianni, La tragédie et son modèle à l’époque de la Renaissance entre France, Italie et Espagne, Torino, Rosenberg & Sellier, 2015, pp. 177-190.

20 Cfr. Corinne Lucas-Fiorato, Entre explosions sanguinaires et étouffement des forces vives, «Arzanà», 14, 2012, pp. 69-91.

21 La questione è stata evocata da G. Distaso, Introduzione, cit., p. 8 e C. Questa, Semiramide redenta, cit., p. 25.

22 Si veda Marco Ariani, Introduzione, in Id., Il teatro del Cinquecento. La Tragedia, Torino, Einaudi, 1977, pp. VII-LXXX.

23 Cfr. C. Questa, Semiramide redenta, cit., p. 25.

24 Cfr. Bernard Huss, Il dittico tragico di compassione e orrore nella Adriana e nella Dalida di Luigi Groto, «Italique», 18, 2015, sul web alla pagina http://journals.openedition.org/italique/403 (data ultima consultazione 2 novembre 2022).

25 M. Manfredi, La Semiramis, cit., vv. 1-16 p. 42.

26 Si veda Francesco Orlando, Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme, Torino, Einaudi, 2017, 3603 di 4462 [epub].

27 L’espressione è di C. Questa, Semiramide redenta, cit., p. 25.

28 M. Manfredi, La Semiramis, cit., vv. 26-38, p. 41.

29 Cfr. C. Questa, Semiramide redenta, cit., p. 25.

30 M. Manfredi, La Semiramis, cit., vv. 49-50.

31 Ibid., v. 62, la citazione è dantesca («E quindi uscimmo a riveder le stelle», Inferno, XXXIV, 139).

32 Ibid., v. 63. L’autore rinvia all’allegoria del potere politico proposta nell’Apocalisse di Giovanni, XVIII, 2-3.

33 M. Manfredi, La Semiramis, cit., vv. 61-68.

34 Ibid. v. 293. Calco dantesco che rinvia al linguaggio che descrive l’aizione di Filippo Argelati («S’i’ vegno, non rimango; ma tu chi se’, che sì se’fatto brutto?», Inferno, VIII, vv. 34-35).

35 M. Manfredi, La Semiramis, cit., vv. 276-294.

36 Lucio Anneo Seneca, Tutte le Opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2000, pp. 1178, 1242.

37 M. Manfredi, La Semiramis, cit., vv. 317-339.

38 Si veda, a titolo d’esempio, l’interpretazione politica di Lutero del Cantico dei Cantici presa in esame da Max Engammare, Qu’il me baise des baisiers de sa bouche. Le Cantique des Cantiques à la Renaissance. Étude et bibliographie, Genève, Droz, 1993, pp. 305-308.

39 Cfr. James M. Estes, The Role of Godly Magistrates in the Church: Melanchthon as Luther’s Interpreter and Collaborator, « Church History », 3, 67, 1998, pp. 463-483.

40 Giovanni Tarcagnota, Delle Istorie del Mondo, lequale contengono quanto dal prinicipio del Mondo è successo, sino all’anno 1513, Venezia, Giunti, 1592, p. 15.

41 Ibid., p. 17.

42 M. Manfredi, La Semiramis, cit., vv. 582-589.

43 Prestito dantesco che rinvia alla Preghiera di san Bernardo alla Vergine Maria nel Paradiso, XXXIII, vv. 10-12: «Qui se’ a noi meridiana face / di caritate, e giuso, intra ‘mortali, / se’ di speranza fontana vivace».

44 Il testo ricorda i Sonetti e canzoni di Jacopo Sannazzaro: «singular fenice, che fa lievi i martìr, soavi i danni» (II, 80, v. 6). Si veda Iacopo Sannazzaro, Opere volgari, a cura di Alfredo Mauro, Bari, Laterza, 1961, pp. 451-461.

45 Ibid., vv. 598-611.

46 Ibid., vv. 119-1190.

47 Ibid., vv. 1900-1910.

48 Cfr. P. Trivero, Il Cinquecento italiano, cit., pp. 177-190.

49 M. Manfredi, La Semiramis, cit., vv. 2121-2132.

50 Ibid., vv. 2197-2204.

51 Ibid., vv. 2462-2483.

52 Ibid., vv. 2545-2560.