Varia
OJ-italique-1025
Per una descrizione delle Rime tripartite di Girolamo Gualdo (1569)
Il profilo poco noto di Girolamo Gualdo (1492-1566), protonotaro apostolico e canonico della cattedrale di Vicenza, si delinea attingendo principalmente dalle memorie dei discendenti, da studi storici locali e da pochi altri documenti.1 Nato a Vicenza, Gualdo si forma a Roma, dove stringe amicizia con Giovan Giorgio Trissino ed entra nell’entourage del cardinale Pompeo Colonna.2 Nel 1532, alla morte del protettore, rientra in patria, dove coopera con altre famiglie nobili affinché la città di Vicenza sia pronta a ospitare quel Concilio indetto da Paolo III che solo dopo, sfumato il progetto inziale, diverrà tridentino.3 È questo l’impegno pubblico di maggior rilievo del canonico di cui le fonti lasciano testimonianza, mentre la presenza del suo nome nell’odierna critica letteraria e artistica si lega piuttosto alla figura del mecenate e agli interessi culturali cui attende per gran parte della propria vita. Interessi nutriti dal soggiorno romano e sfociati poi, una volta tornato a Vicenza, nella progressiva trasformazione della propria abitazione di borgo Pusterla in museo e luogo di adunanza, dove accogliere collezioni artistiche e circoli letterari sul modello della villa trissiniana di Cricoli.4 Il museo di casa Gualdo, dunque, si può considerare il lascito culturale maggiore del canonico: una sorta di Wunderkammer particolarmente ricca, degna di competere con le maggiori espressioni del collezionismo veneto del tempo.5 Tuttavia, nonostante gli sforzi di preservazione operati da Gualdo, questo piccolo gioiello artistico della Vicenza cinquecentesca è andato irrimediabilmente perduto alla morte dell’ultimo erede della famiglia: i particolari noti della villa-museo, anch’essa distrutta, e della collezione all’altezza del XVII secolo, si devono a quei discendenti che hanno voluto dedicare alcuni loro scritti ai fasti della casata.6 Su Girolamo Gualdo mecenate, dunque, si dispone di una buona bibliografia di ambito specialistico che, sebbene offra un’organica trattazione di documenti e notizie biografiche, testimonia d’altra parte la marginalizzazione della figura del letterato, su cui mancano studi dedicati e che riaffiora solo in relazione alla storia dei principali consessi della vita culturale vicentina di metà Cinquecento, a partire dalla più nota e longeva Accademia Olimpica. I maggiori esponenti di quest’ultima risultano tra i corrispondenti in versi del canonico e alcuni di loro si ritrovano anche tra le fila degli accademici Costanti, nati nel 1556 a solo un anno di distanza dall’istituzione dell’Accademia Olimpica e, stando agli studi, probabilmente in opposizione a essa. L’Accademia dei Costanti, sodalizio di stampo aristocratico, vede Gualdo tra i suoi promotori e fondatori, e trova nella villa-museo di borgo Pusterla la principale sede delle proprie adunanze. Negli ultimi anni di vita Gualdo risulta protettore anche della più giovane Accademia dei Secreti, dedita a interessi scientifici ma che, come i due precedenti sodalizi, consta della partecipazione degli stessi esponenti del milieu culturale vicentino.7
Nel contesto di tali reti culturali nascono gli scritti di Gualdo, elencati confusamente dalle fonti e per una parte significativa perduti,8 aspetto che ha contribuito a offuscarne la memoria di scrittore, oggi nota solo per i circa cinquecento componimenti raccolti nelle Rime del reverendo monsignor Girolamo Gualdo vicentino pubblicate postume nel 1569 a Venezia presso Andrea Arrivabene, per le cure del nipote Giuseppe Gualdo.9 Non sono note ristampe o riedizioni,10 né antologie a stampa che accolgano liriche del canonico, come di scarsa consistenza risultano le testimonianze di una circolazione manoscritta: si è individuata, a oggi, un’unica miscellanea con un manipolo esiguo di otto sonetti, di cui solo tre rientrano nell’edizione con alcune varianti testuali.11 Se Gualdo abbia goduto ai propri tempi di una fama letteraria maggiore – o anche solo meno locale –, non è dato ricostruirlo con i pochi documenti disponibili, e forse ai fini della presente indagine non è necessario stabilirlo. L’interesse per le sue rime, infatti, risiede nel contributo che possono offrire allo studio di quelle tendenze culturali che, nel corso del Cinquecento, portano all’ideazione di raccolte liriche strutturalmente innovative rispetto al modello petrarchesco. L’esperienza di Gualdo, pur nella propria marginalità, si caratterizza per una chiara tripartizione della raccolta, che dispone in tre libri distinti prima le liriche amorose, poi quelle occasionali e infine le morali: tre libri che, sebbene privi di titolature macro-tematiche, anticipano al 1569 la soluzione editoriale che Torquato Tasso, verso la fine del secolo, sceglierà per i propri componimenti, sancendo «l’avvenuta esplosione della forma canzoniere» di stampo petrarchesco.12 La citazione di Guglielmo Gorni, da ascrivere all’ultimo decennio dello scorso secolo, conserva la propria valenza anche alla luce degli studi più recenti, che ancora guardano al caso tassiano come a un punto di svolta nella ridefinizione strutturale delle raccolte di rime quattro-cinquecentesche d’autore (e, in misura minore, anche non autoriali). I progressi nella ricerca, tuttavia, hanno dimostrato l’esiguità del campione di ‘canzonieri’ fedeli alla struttura dei Fragmenta e hanno quindi imposto di cambiare i termini della questione: ogni raccolta lirica diviene interessante non tanto nel rapporto biunivoco con il modello-Canzoniere, quanto piuttosto nel concretizzare un tassello del processo di rielaborazione del modello stesso, soprattutto tenendo conto della coscienza parziale che i letterati rinascimentali hanno dei meccanismi macro-strutturali del Canzoniere.13 Anche il progetto editoriale tassiano dunque, piuttosto che una pietra miliare priva di precedenti, andrebbe considerato come uno dei risultati più rilevanti e produttivi di questo processo: un processo indagato dalla critica poiché funzionale a quel riesame della categoria di ‘petrarchismo’ da tempo ormai in atto per consentire un’interrogazione nuova della produzione in versi tra i secoli XV e XVII. L’ampiamento stesso dell’arco cronologico da cui attingere i materiali è conquista delle ultime indagini che, appurata la miopia di una visione che sovrappone – quasi identificando – il Cinquecento lirico con il culto per Petrarca, confermano la necessità di vagliare le propaggini della rielaborazione del modello anche dopo Tasso e oltre Giovan Battista Marino. Ragionando in termini di analisi di un processo, dunque, ogni esperienza è suscettibile di offrire un apporto più o meno significativo, ed è in quest’ottica che si vuole tentare uno studio delle rime di Gualdo.14
In diversi si sono interrogati sulle origini dell’idea tassiana quanto di quelle che soggiacciono alle raccolte liriche dei maggiori poeti del tempo, individuando due possibili influenze da soppesare – insieme a quella petrarchesca – nell’analisi strutturale di una raccolta: una è l’ordinamento dei Fragmenta proposto da Alessandro Vellutello; l’altra risiede nel modello dei classici latini, e soprattutto nella ricezione e diffusione a stampa dell’opera di Orazio.15 Senza dilungarsi in un attraversamento di tali teorie, assunte come propedeutiche, occorre piuttosto riflettere sulla possibilità di trasporle dal piano dell’analisi del singolo autore al livello più ampio del fervido contesto letterario di pieno Cinquecento, quando, insieme ai ‘canzonieri’ autoriali, si moltiplicano anche i casi di raccolte postume dall’autorialità discussa. Per queste ultime la documentazione potrebbe risultare troppo esile per discutere i modelli e gli indirizzi di poetica che hanno ispirato autore o curatore, o per comprendere il confine tra la volontà del primo e l’azione del secondo.
Come mostra l’esempio di Gualdo, i meccanismi organizzativi riconoscibili nelle sue Rime hanno convalidato nella critica l’idea che l’edizione sia basata su un progetto autoriale, pronto in un cassetto, aperto da Giuseppe Gualdo e portato alla stampa. Non pochi, tuttavia, sono gli elementi che fanno dubitare di tale interpretazione, lasciando emergere l’ipotesi di un intervento del curatore sull’ordinamento delle rime, intervento comunque difficile, in ultima istanza, da soppesare. Nella lettera dedicatoria al cardinale di Sermoneta Nicola Caetani (1526-1585), Giuseppe rivendica il proprio ruolo di curatore e dichiara l’operazione di ‘raccolta’ delle liriche («[…] le quali da me insieme con altre raccolte sotto così honorata tutela produco in luce […]», c. [A jiii r]), ma in un contesto evidentemente topico, scevro di valore probatorio. Non essendoci prove documentarie che favoriscano una delle due ipotesi, resta da tentare una primissima analisi della raccolta alla ricerca di qualche indizio, analisi che si ispira – senza pretese di esaustività – alla linea guida definita da Simone Albonico, con una precisazione: lo studioso offre un vademecum per l’analisi strutturale di un ‘canzoniere’ che, latamente e sinteticamente, si può definire come una raccolta di liriche imperniata – più spesso – su una vicenda amorosa, intorno a cui il poeta dispone anche altri componimenti di argomento vario per tracciare un’autobiografia ideale. In Gualdo questa vicenda amorosa si concentra tutta nel primo libro, primo atto di un ‘canzoniere’ più ampio, esteso sugli altri due libri, per i quali sarà dunque opportuno declinare alcuni indicatori del suddetto vademecum.16
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Il volume delle Rime conta un totale di 569 componimenti, distribuiti in tre libri avviati da un sobrio titolo a mezza pagina. Il primo (cc. 1r-35v) racchiude 102 componimenti (95 sonetti, 1 ballata mezzana, 3 canzoni, 1 sestina, una serie di 24 ottave e 1 capitolo ternario conclusivo); il secondo si presenta bipartito: da c. 36r a c. 73v sono raccolti 136 componimenti (tutti sonetti, tranne due canzoni), cui segue una lettera dedicatoria di Girolamo Gualdo a Isabella Nogarola Valmarana (cc. 74r-75v), datata 1558 e introduttiva a una sezione epicedica di 35 sonetti (cc. 76r-84v) per il defunto di lei marito Giovanni Luigi Valmarana. Il terzo e ultimo libro, che da c. 85r è chiuso a c. 161v dall’explicit, risulta il più corposo, con un totale di 296 componimenti (tutti sonetti, esclusa una canzonetta). Di seguito una schematizzazione della raccolta:
Libro I (cc. 1r-35v) – 102 componimenti.
1-21. sonetti; 22. ballata mezzana; 23-24. canzoni; 25. sonetto; 26. sestina; 27. canzone; 28-100. sonetti; 101. ottave; 102. capitolo.
Libro II (36r-84v) – 171 componimenti.
1. sonetto; 2. canzone; 3-31. sonetti; 32. canzone; 33-136. sonetti; Lettera dedicatoria a Isabella Valmarana; 137-171. sonetti.
Libro III (85r-161v) – 296 componimenti.
1-192. sonetti; 193. canzonetta; 194-296. sonetti.
La suddivisione in libri, come anticipato, segue un criterio macrotematico: il primo sviluppa la materia amorosa, il secondo racchiude delle rime di carattere occasionale, il terzo raccoglie i componimenti di argomento religioso e morale. Il numero complessivo superiore a 500, non estraneo a esperienze liriche precedenti o coeve e tuttavia privo di una valenza intrinseca, sembra sostenere l’ipotesi di una raccolta nata per accumulo, piuttosto che per selezione dei testi e ispirazione a un modello. Se, d’accordo con la critica, tra gli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento iniziano a configurarsi due modi di strutturare un ‘canzoniere’, uno aderente all’esempio di Pietro Bembo e l’altro alle sperimentazioni di Luigi Alamanni e Bernardo Tasso, si può affermare che la raccolta di Gualdo corrobora la vivacità e produttiva del secondo.17 Tra le esperienze del tempo con cui è possibile riscontrare una maggiore affinità prevale il canzoniere di Antonio Minturno, «raccolta in volgare di impianto oraziano» che si propone sulla scena letteraria coeva come una «reazione alla crisi della forma canzoniere», distanziandosi da Bembo e Sannazaro. Le Rime di Gualdo condividono con il canzoniere di Minturno, edito nel 1559, non solo il valore di «summa della sua attività di rimatore in volgare», ma anche la tripartizione, che nel caso del partenopeo appare allestita senza un criterio sistematico, né di tipo cronologico, né tematico, nonostante in questo «ammasso alla rinfusa» siano individuabili sparuti blocchi tematici, al punto che la critica valuta come «fittizia» la tripartizione, un espediente scelto da Minturno per conferire alla raccolta un «aspetto classicheggiante», ispirato al modello di Orazio.18 Per le rime di Gualdo, invece, è possibile riscontrare qualche criterio ordinante, da quello macro-tematico dei singoli libri alle seriazioni che li scandiscono dall’interno. Queste consentono di vagliare l’operatività di altri modelli strutturali: nel primo libro il computo totale di 100 componimenti (ma anche quello di 102, includendo gli ultimi due metri lunghi 101 e 102), rimandano direttamente all’imperante modello oraziano (in cui i poeti del tempo contavano 103 testi complessivi a stampa); scomponendo il secondo libro, invece, è isolabile una prima parte di 136 componimenti che contribuisce a confermare l’«attrattiva» del numero 135 per diverse raccolte del tempo che, come segnalato da Albonico, tentano l’innovazione oltre l’adesione all’esempio dei classici.19 Sulla sezione funebre per Luigi Valmarana preme richiamare su tutti il modello dei Sonetti del s. Berardino Rota in morte della s. Portia Capece sua moglie (Napoli, Cancer, 1560), che conta appunto 36 sonetti. È inoltre possibile individuare, così come si proverà a illustrare, delle micro-sezioni interne a ogni libro.
Il primo libro si avvia con una seriazione di 30 testi dedicata a una vicenda amorosa che coinvolge l’io e una donna. Al sonetto proemiale, che guarda retrospettivamente agli anni trascorsi nelle sofferenze d’amore, segue un sonetto che ricorda la nascita della passione (2) e altri due sulla ferita insanabile che ne consegue (3-4).20 Dopo un sonetto che lamenta l’atteggiamento schivo della donna (5), tre sonetti sviluppano un’immagine di amore giunto ormai in tarda età (6-8); ne seguono due sulla lontananza dell’amata (9-10), quello sul suo ritorno (11), una breve parentesi di cinque sonetti in cui toni di corrispondenza (12 e 14) si alternano a toni moraleggiati (13 e 15-16), e altri due sonetti sul ritratto dell’amata (17-18).21 A un nuovo sonetto retrospettivo sugli anni d’innamoramento (19) e uno di disillusione (20), segue un sonetto drammatico, dove si inscena un dialogo del poeta con la donna che, alla fine, gli promette mercede (21). Con la ballata successiva si apre la sezione ‘in morte’ dell’amata (22-27), dove si raccolgono tutti i metri diversi dal sonetto presenti nel primo libro (a esclusione delle ottave e del capitolo finali). Si è giunti così al ventisettesimo componimento e, con il testo che segue, si racimolano le ultime liriche dedicate a questo amore (28-30), prima che un altro sonetto proclami la nascita di una nuova passione (31). Fa seguito un gruppetto apparentemente eterogeneo, con due componimenti di invocazione ad Apollo (35-36) e un sonetto che contrappone Amore celeste e Amore terreno (38). Si inaugura poi una serie di testi dedicati a diverse donne (39-78), intervallando gli elogi con componimenti stagionali (sonetti 44, 46 e 47), testi che inseriscono le figure femminili nel contesto di un giardino (sonetti 49 e 50), due di invocazione alla cameretta (sonetti 55 e 78) e uno mitologico (77). Esclusi alcuni testi privi di riferimenti o senhal, i sonetti sono dedicati principalmente a donne di nome Elena, Attalanta e Cinzia, accanto alle quali figurano sporadicamente una Isabella, forse un’Angela, una Diana, una Ginevra e una nobildonna originaria della Toscana ma residente a Roma: tutte certamente esponenti della nobiltà veneta – se non strettamente vicentina – del tempo, per le quali risulta ancora acerbo avanzare ipotesi di identificazione.22 Un sonetto di rimembranza (79) introduce poi a una sezione ‘in morte’ (79-90), in cui si canta la scomparsa di alcune figure femminili che la miscellanea manoscritta sopracitata consente di identificare con Lucilla Thiene, moglie del conte Orazio Thiene, e Laura Garzadori, i cui decessi sono rievocati anche da altri poeti vicentini del tempo.23 Peculiare è il raggruppamento successivo (91-100): dopo aver dichiarato un ritorno alla poesia a esclusione di quella amorosa (91), il poeta dedica dieci sonetti all’esaltazione della fontana fatta costruire da Bartolomeo Ammanati nel giardino di casa Gualdo.24 Due metri lunghi, una serie di 24 ottave (101) e un capitolo di 82 versi (102), concludono in libro con il ricordo della mitica età dell’oro. Così scandito l’aspetto del primo libro non si distanzia molto da altri canzonieri del tempo, dove alla principale vicenda amorosa – qui racchiusa nei primi 30 testi – segue l’encomio di altre donne, mentre di altre ancora si lamenta la scomparsa. Esaurita la vena amorosa, il canzoniere si conclude con una zona latamente ecfrastica (incentrata sull’esaltazione della fontana di casa Gualdo) e con il rimpianto per la perduta età dell’oro. In tale distribuzione testuale, la traccia del percorso biografico appare labile, e pochi sono i riferimenti interni che consentono una collocazione nel tempo e nello spazio dei testi e delle loro occasioni: tra i componimenti del micro-canzoniere iniziale, ad esempio, si ravvisa nel quarto sonetto un’allusione al vano tentativo di sedare la forza della passione «lasciando il nobil fiume d’Arno» (v. 3); all’altezza del dodicesimo sonetto (che sembra di corrispondenza) il poeta si rivolge a una donna esponente della famiglia vicentina dei Capra («Sì cruda a noi mortali e tanto acerba / non è la stella onde ’l cognome avete», vv. 1-225), consolandola del suo amore infelice; infine, nel sonetto 15 sembra possibile cogliere il riferimento a una poetessa che piange la perdita del marito («Sol una donna, ove ogni onor si chiude, / con rime elette e ben purgato inchiostro / l’estinto sposo vuol che eterno viva»). All’inizio del nuovo percorso poetico, nel sonetto 31, il poeta indica la durata del proprio amore: «Quindici lustri omai l’età che vola / quasi ha in me chiusi e di tormenti ’l petto / ho ingombro» (vv. 1-3). Nell’avvalorare l’ipotesi di un progetto autoriale, dalla posizione di questo sonetto dovremmo dedurre che il poeta colloca – idealmente o in aderenza alla realtà – tutti i componimenti a seguire nell’ultimo anno di vita. Anche questa zona di accumulo sembra deporre a favore di un progetto che predilige l’ordinamento tematico su quello narrativo, raccogliendo componimenti dai toni encomiastici e morali fuori dalla principale vicenda amorosa. Non diverse risultano le conclusioni cui si giunge guardando alla distribuzione dei metri diversi dal sonetto, che non sembrano avere una valenza strutturale, se non quella di concludere il micro-canzoniere iniziale, costituendo l’intera sezione ‘in morte’ della donna amata. La canzone finale, che per metro ricalca Rvf 207 (7 stanze di 13 versi, endecasillabi e settenari, di rime ABCBAC cDdEeFF e congedo aBbCcDD), enuncia il dolore per la morte dell’amata ma non accenna a moti di pentimento. La collocazione dei metri lunghi in zone liminari rappresenta di certo una soluzione in linea con altre esperienze liriche del tempo, cui le rime di Gualdo sembrano omologarsi addensando i metri lunghi prima a margine del micro-canzoniere (componimenti 22-24, 26-27) e poi del libro (testi 102-103).26
Il secondo libro si apre invece all’insegna della contemporaneità, dedicando un raggruppamento di testi alle guerre d’Italia, ai conflitti religiosi nel contesto europeo e alla lotta contro il Turco (1-39): dopo una preghiera iniziale a Dio e la denuncia della corruzione morale dei tempi (1), si individuano una serie di componimenti incentrati sulle guerre di religione e sulla necessità di contrastare l’eresia che dalla Francia si propaga tutt’intorno (2-7). Dopo un breve accenno alle guerre d’Italia (8-10), comincia una densa sezione dedicata alla minaccia turca, mentre sono le invocazioni alla pace tra Impero e Francia (36-39) a chiudere questo segmento politico, che tuttavia risulta parco di riferimenti utili a una datazione pur vaga dei testi: insieme ai due sonetti sulla presa di Malta (19 e 34), si possono annoverare il sonetto 6, che canta una vittoria non altrimenti specificata; il sonetto 31, che allude alla presenza sul trono inglese di Elisabetta I; e infine il sonetto 35, dove affiora il ricordo del Sacco di Roma. In questa sezione politica si collocano le uniche due canzoni del secondo libro: la prima di queste, la canzone 3, in cui il poeta invoca Dio e chiede la pace e la cooperazione tra le potenze cristiane, presenta lo stesso schema metrico di Rvf 331 (9 stanze di 12 endecasillabi, con un solo settenario, di rime ABCABC CDEeDD e congedo AaBB). Nessuna delle due canzoni scandisce, con la propria posizione, il passaggio da un argomento bellico all’altro. Seguono dei componimenti dedicati all’Accademia dei Costanti e a diversi sodali (40-58). Il primo, indirizzato a un esponente della famiglia Porto, potrebbe rivolgersi a Giovanni de’ Porti, che le fonti nominano tra i padri fondatori del sodalizio insieme Gualdo e Giovanni Luigi Valmarana. Dopo alcuni testi di ammonimento morale e di esortazione all’esercizio dell’intelletto, si trovano due componimenti rivolti a Conte de Monte, altro membro noto del consesso (43-44), e solo a questa altezza si colloca il sonetto dedicato alla fondazione dell’Accademia (45).27 Con i sonetti 48 e 52 si affacciano sulla scena anche l’Accademia Olimpica e l’Accademia dei Secreti, di cui Gualdo fu protettore, ma già con il componimento 54 e fino alla fine della seriazione si svolge la denuncia per la decadenza dell’Accademia dei Costanti. I testi a seguire (59-98), di corrispondenza, sono per buona parte indirizzati a membri di questo sodalizio, profilandosi così quasi come un’appendice sub nomine della serie precedente. Una circostanza che invita a riflettere ancora sul motivo ordinante dei testi, che anche qui sembra propendere alla seriazione per affinità tematica: come accade per il micro-canzoniere che apre il primo libro, i componimenti 40-58 percorrono per sommi capi la storia dell’Accademia; tuttavia la linea cronologica non è abbastanza salda per tradursi in narrazione, né maggiori dettagli si traggono dalla lunga sequela di testi di corrispondenza, derubricati a seguire in base al destinatario. È evidente difatti come dopo i sonetti 59-69, in cui si susseguono nomi di diversi, dal sonetto 70 all’85 il corrispondente sembra essere un unico esponente della famiglia Porto; si distinguono poi tre sonetti in lode del pittore e poeta Giovanni Battista Maganza (90-92),28 tre a un Muzio (forse da identificare o con Claudio Mutiano, consigliere dell’Accademia, o con il sodale Troilo Muzan) e altri due a Giulio Capra.29 Di carattere più spiccatamente encomiastico risulta la sezione che segue (99-126), inframezzata da qualche componimento ancora legato al consesso dei Costanti (101 e 115): oltre a vari sonetti in lode di Venezia, dei Gonzaga di Mantova, dei cardinali Alvise Corner e Alvise Priuli, del duca di Guisa Francesco I di Lorena, segue una sezione epicedica (127-135) con un raggruppamento di quattro testi in morte di Carlo V (128-131), mentre un isolato testo genetliaco (136) separa questa conclusiva sezione funebre dalla micro-raccolta per la scomparsa dell’amico e sodale Luigi Valmarana.
Nel terzo libro sono raccolte una mole considerevole di testi morali e religiosi, di cui un’analisi che ne precisi sottogeneri e ordinamento si riserva ad altra sede. È possibile comunque annotare fin da subito alcune osservazioni: anzitutto, occorre sottolineare la predominanza assoluta del sonetto, metro da cui si differenzia solo la canzonetta 193 (due stanze di otto versi; schema AbAbBaDD) dove, al ricordo degli anni trascorsi nell’inconsapevolezza del dominio della fortuna, segue una preghiera a Dio cui il poeta affida il tempo rimasto. Difficile soppesare il valore strutturale del testo, che si colloca a circa a due terzi del libro, e a una prima lettura non si nota uno stacco tematico tra i sonetti che precedono e seguono. La collocazione isolata della canzonetta (c. 135v), che lascia vuoto mezzo specchio di stampa sia a c. 135r che c. 135v, si giustifica con esigenze tipografiche: in ogni carta, infatti, rientrano 29 righe di stampa (due sonetti + la riga bianca di separazione). La canzonetta, con i suoi 16 vv. totali, non rientra nella carta precedente (dove è già presente un sonetto) e toglie spazio al sonetto successivo, imponendo così – in ottica di un risparmio complessivo – di essere isolata. Nel libro, inoltre, si riscontra l’unico caso di uno stesso incipit condiviso da due componimenti differenti: così come il sonetto 12, anche il sonetto 280 principia «Quando piacque al Fattor de l’universo». Se il confronto quantitativo dei testi lascia emergere una propensione di Gualdo per la poesia spirituale, genere in cui andrà forse cercato il suo complessivo profilo poetico, la duplicazione dell’incipit potrà spiegarsi in due modi: essa potrebbe o sottendere la scelta dell’autore stesso di riutilizzare tessere e segmenti in una produzione massiva (che non è dato sapere se legata a occasioni concrete di scrittura), come potrebbe rappresentare un ulteriore elemento a riprova di una raccolta che prende forma assorbendo tutti i componimenti del poeta, senza selezione o limature testuali. Si segnala inoltre che anche nel terzo libro è riscontrabile almeno una sequenza tematica di sonetti legati al lamento per l’imperversare di diluvi e siccità (277-296), sezione che conclude l’intera raccolta e che lascia presagire un’aggregazione per argomento operante anche nel resto del libro. Gli eventi naturali fatti oggetto di poesia appartengano alla cronaca del tempo e sono motivo di ispirazione per molti poeti coevi, ma un’analisi ravvicinata della sezione mostra l’assenza di una successione cronologico-stagionale dei sonetti, sfasando possibili ipotesi di datazione a partire dai riferimenti interni ai testi.30
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A margine dei primi risultati esposti in questa sede (la riconoscibilità di alcuni numeri strutturali ispirati ai modelli dei classici e degli autori coevi; la labilità di una biografia ideale consegnata dal poeta alla raccolta), il volume sembra testimoniare una coerenza interna affidata, per i tre libri, essenzialmente a raggruppamenti tematici. Vero è che, intorno agli anni della pubblicazione delle rime di Gualdo, si contano già delle raccolte strutturate in più parti, dove un più canonico ‘canzoniere’ occupa la prima posizione e a seguire si collocano – estrapolati e separati dalla vicenda amorosa principale – altri testi accorpati per argomento, da quello occasionale allo spirituale (ne è un esempio, tra i molti, la pubblicazione su diversi anni delle rime di Benedetto Varchi). In altri casi la segmentazione in parti segue un criterio metrico (si pensi al modello delle Opere toscane di Luigi Alamanni). Eppure in nessuna di queste esperienze si ottiene quella simmetria tra libro-tema scandita in tre tempi che caratterizza la raccolta di Gualdo, rendendola un caso degno di essere approfondito, soprattutto nell’ottica di un percorso di tale assetto da questa altezza fino al successivo, più noto e speculare, progetto tassiano. Occorre esplicitare tuttavia, a discapito di equivoci, che nessuna linea di derivazione diretta può essere tracciata da Gualdo a Tasso, almeno a questo punto delle indagini. A scoraggiare un confronto diretto tra le due raccolte intervengono due questioni principali: la prima, che non vi è alcuna possibilità di documentare la conoscenza da parte di Tasso dell’opera di Gualdo, la seconda è quella dell’autorialità. Mentre per il caso tassiano è documentabile la volontà dell’autore di ordinare la propria produzione lirica in una struttura tripartita, per Gualdo non è possibile accertare né la paternità né i motivi della forma che assume la sua raccolta. Seppur non sistematicamente, con Tasso si assiste a una selezione che rispecchia (insieme all’autocommento) una volontà di autopresentazione poetica non riscontrabile nell’opera postuma di Gualdo. La questione dell’autorialità delle raccolte postume si è già imposta nel dibattito critico-letterario per canzonieri più prestigiosi, differenti tra loro anche per disponibilità documentaria di partenza,31 restando tuttavia ancora aperta e bisognosa di un bacino di esempi più ampio che permettano un approfondimento. Per le finalità dello studio qui condotto sulle Rime del canonico vicentino, stabilire con maggiore certezza se il progetto attenga all’autore o al curatore permette di interpretare le relazioni strutturali che corrono tra l’opera di Gualdo e quella tassiana. Uno studio e una comprensione dei meccanismi ordinanti della raccolta vicentina alla luce della temperie culturale coeva, che ne soppesi l’originalità e l’adeguamento a istanze liriche condivise, potrebbe forse contribuire a precisare la parte avuta nell’edizione dall’anziano Girolamo o dal più giovane Giuseppe: i due Gualdo, infatti, condividono lo stesso milieu culturale da cui emergono quei modelli lirici che, come la tripartizione in atto nel Gualdo e poi nel Tasso, importano alla fine del secolo nuove configurazioni strutturali di canzonieri e raccolte liriche.
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1 Le principali fonti biografiche sul vicentino sono raccolte da Maria Elena Massimi (a cura di), Gualdo, Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani (DBI), LX, 2003: https://www.treccani.it/enciclopedia/girolamo-gualdo_(Dizionario- Biografico)/ (data ultima consultazione 2 novembre 2022). Tra i titoli citati, si rimanda soprattutto al profilo tracciato da discendente Paolo Gualdo nelle cc. 12-32 del cod. It. VI 146 (=5979) della Biblioteca Marciana di Venezia; quello stilato dall’omonimo pronipote Girolamo Gualdo jr. nel ms. G.5.3.28 (=1907), cc. 59r-63r della Biblioteca Bertoliana di Vicenza; fino al successivo di Gian Maria Mazzucchelli, anch’esso allo stadio manoscritto a c. 106r del codice Vat. lat. 9278 della Biblioteca Apostolica Vaticana (Città del Vaticano): https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.9278/0227 (data ultima consultazione 2 novembre 2022). Altre notizie sono raccolte da Paolo Calvi (Angiolgabriello di Santa Maria), Biblioteca e storia di quei scrittori così della città come del territorio di Vicenza, I-VI, Vicenza, Vendramini Mosca, 1772-1782, VI (1782), pp. iv-vii; e da Antonio Magrini, Notizie di Girolamo Gualdo canonico e fondatore del Museo Gualdo in Vicenza nel secolo XVI, Vicenza, Eredi Paroni, 1856.
2 Sui rapporti intercorsi tra Trissino e Gualdo restano a testimonianza due lettere inviate da Gualdo, una nel maggio del 1538 e l’altra nell’agosto del 1546, edite in Girolamo Gualdo, Due lettere del canonico Girolamo Gualdo, Vicenza, Parodi, 1881. A periodi diversi (aprile 1517 e poi 1549) risalgono invece le due lettere note di Trissino al canonico, entrambe conservate nel codice It. X 68 (=6401), cc. 2r-3v, della Biblioteca Marciana di Venezia ed edite da Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino: Monografia d’un gentiluomo letterato nel secolo XVI, Firenze, Successori Le Monnier, 1894, p. 405 (doc. n. XXXVII) e p. 441 (doc. n. LXXX). Colgo l’occasione per ringraziare Francesco Davoli del confronto sempre puntuale e amichevole sulla figura di Trissino.
3 Documento di questa iniziale fase organizzativa del Concilio è la prima delle lettere note di Gualdo a Trissino, e pertanto cit. da Bernardo Morsolin, Il concilio di Vicenza. Episodio della storia del concilio di Trento (1537-38), «Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», 7 (1888-1889), pp. 555, 564, 575-577. L’autografo della lettera, conservato presso la Bibliothèque Nationale de France, ms. Rothschild 3078 (1875 a), I, 7, 13 (t. II), lett. n. 74, è consultabile nella versione digitalizzata all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b10091085b/f180.item (data ultima consultazione 2 novembre 2022). Da verificare è la presenza di altre lettere a nome di Gualdo conservate nel codice It. X 63 (=6397) della Biblioteca Marciana di Venezia e nella Staatsbibliothek di Berlino, Lat. fol. 667, c. 20, indicate da Paul Oscar Kristeller (a cura di), Iter italicum II 275 e III 484b.
4 Per le attività accademiche della villa trissiniana si rimanda a B. Morsolin, Giangiorgio Trissino, cit., p.12 sgg. e p. 199 sgg.; Michele Maylender (a cura di), Storia delle Accademie d’Italia. V, Rinomati-Zitoclei, Bologna, Cappelli, 1930, pp. 352-353; Lionello Puppi, Un letterato in villa: Giangiorgio Trissino a Cricoli, «Arte Veneta», 25 (1971), pp. 72-91; e Francesco Leonelli, Ut Architectura Poesis. Un rapporto speculare: Trissino e Palladio, «Studium», 6 (2014), pp. 918-945.
5 Per la storia e una descrizione della villa-museo dei Gualdo risultano utili ancora oggi gli studi critici di Bernardo Morsolin, Le collezioni di cose d’arte nel secolo decimo sesto in Vicenza, Vicenza, Burato, 1881, pp. 10-15; e di Id., Il museo Gualdo in Vicenza, «Nuovo Archivio veneto», 8 (1894), pp. 173-220 e 373-440; da integrare con le ricognizioni bibliografiche e aggiornamenti dei più vicini Lanfranco Franzoni, Antiquari e collezionisti nel Cinquecento, in Storia della cultura veneta. III.3, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza, Pozza, 1981, pp. 255-259; e di Irene Favaretto, Arte antica e cultura antiquaria nelle collezioni venete al tempo della Serenissima, Roma, L’erma di Bretschneider, 1990, pp. 118-121.
6 Il rimando è anzitutto agli scritti secenteschi di Nicolò Basilio, Il Museo Gualdo di Vicenza nei secoli XVI-XVII, a cura di Lorenzo Panizza, Vicenza, Eredi Parodi, 1854; e dell’erede Girolamo Gualdo jr., 1650. Giardino di chà Gualdo, a cura di Lionello Puppi, Firenze, L. S. Olschki, 1972.
7 Per l’Accademia degli Olimpici, ampiamente studiata e ancora oggi attiva, si rimanda brevemente allo studio di Enrico Niccolini, Cultura e società a Vicenza nel Rinascimento. L’Accademia Olimpica, Costabissara, A. Colla, 2006, con bibliografia. Meno documentate le attività dell’Accademia dei Costanti, di cui offre una prima ricognizione M. Maylender (a cura di), Storia delle Accademie d’Italia. II, Certi-Filotomi, cit., 1927, pp. 114-117; e ancor più scarse sono le informazioni sul sodalizio dei Secreti, per cui cfr. ibid., V, cit., pp. 148-149. Per una bibliografia selecta sulle accademie vicentine del tempo e per i rapporti tra i tre consessi citati cfr. Bodo Guthmüller, Il movimento delle accademie nel Cinquecento. Il caso di Vicenza, «Quaderni veneti», 25 (1997), pp. 9-43, che aggiorna alcune informazioni già offerte da Fedele Lampertico, Scritti storici e letterari, I-II, Firenze, Le Monnier, 1882-1883, I (1882), pp. 159-167. Segnalo che in merito all’Accademia dei Secreti ho individuato, nel ms. 238 della Biblioteca Comunale Leonardo Leonij di Todi (cc. 87v e 88r secondo la numerazione moderna a lapis), due sonetti del giureconsulto vicentino Sebastiano Montecchio dedicati il primo all’impresa del sodalizio (rubrica: «Sopra l’Impresa dell’Accademia dei Secreti ch’hanno i quattro elementi. Sonetto»; incipit: «Proteo del Bacchiglion l’onde solcava»), il secondo dal principe del consesso (rubrica: «Al Principe del Accademia. Sonetto»; incipit: «Principe invitto à cui d’ottimo Zelo»), il cui nome, il conte Odoardo Thiene, viene esplicitato solo alla c. 163r. Salvo sviste, si tratta di componimenti inediti (di altra natura sono le opere note di Montecchio) e di materiali nuovi per la storia del sodalizio vicentino (motivo per cui, si opta qui e oltre per una trascrizione diplomatica dal manoscritto): stando alla documentazione esposta da B. Guthmüller, Il movimento delle accademie nel Cinquecento, cit., pp. 34-35, almeno il secondo componimento dovrebbe essere databile tra il 1565, anno della prima attestazione di una riunione del consesso in casa dello stesso Thiene, e il 1567, quando quest’ultimo fugge da Vicenza in seguito alle accuse di calvinismo.
8 G.M. Mazzucchelli, nel ms. vaticano già ricordato, afferma che Gualdo «fu molto studioso di Dante sopra del quale compose alcuni dotti dialoghi», di cui nulla resta; non meno vaghe sono le informazioni riguardo a due orazioni che «recitò ivi [nella villa-museo Gualdo] Girolamo alla presenza di Girolamo Mocenigo Podestà, e di Luigi Giorgio Capitanio» (cfr. P. Calvi, Biblioteca e storia, cit., p. vi), così come non si ha prova della sua versatilità nelle lettere classiche di cui avrebbero fatto testimonianza «gli elogj con altre poesie latine e greche, de’ quali n’è piena la casa sua di Pusterla sotto le rare pitture de’ più famosi artefici del suo tempo», come scrive nelle sue memorie manoscritte G. Gualdo jr. (c. 59r). Se si escludono le già citate lettere (cfr. note 2 e 3), nulla della produzione di Gualdo rimasta allo stato manoscritto sembra essere sopravvissuto alle soglie del secolo scorso, considerando che le ultime indicazioni a riguardo – e non di seconda mano – restano nelle fonti secentesche e nel riferimento a codici veneziani non più riscontrabile di F. Lampertico, Scritti storici e letterari, cit., p. 163.
9 Giuseppe Brogliani acquista il cognome Gualdo alla morte dello zio Girolamo, che lo designa per via testamentaria quale erede e custode dei propri possedimenti (e, soprattutto, della collezione di casa Gualdo). Di lui offrono un puntuale profilo il già citato G.M. Mazzucchelli (cc. 106v-107v), e P. Calvi, Biblioteca e storia, cit., pp. vii-ix (che ripete diverse delle informazioni del primo). Al di là della fama acquisita come giureconsulto, conviene qui richiamare gli interessi letterari e le prove di scrittura testimoniate dalle fonti, ad oggi non più reperibili: Mazzucchelli ne ricorda anzitutto le opere di natura giuridica, aggiungendo che «oltre lo studio di legge era ornato di bellissime cognizioni in quasi tutte le professioni, onde ne’ suoi Consigli legali si veggono sparsi molti graziosi commenti di filosofia, di Medicina, e di Teologia. Tra gli altri autori era studiosissimo di Platone, e si vede un suo bellissimo dialogo tutto platonico sopra la favola di Psiche descritta da Apuleio. Si vede una sua elegante orazione italiana fatta da lui come uno de’ deputati nella presenza d’un chiarissimo rettore di casa Gabriele. Compose un dialogo in versi volgari sopra la proposizione che si legge nel profeta Daniele, se fosse più potente il vino, la donna, il re o la verità. Vi è un suo libro di sonetti e canzoni volgari. Lo dilettava di sonare il liuto (…). Scrisse anco in lingua rustica padovana e si vede un suo sonetto stampato nel primo libro delle Rime di Magagnò, Menon, e Begotto nel quale ha trasportata quasi tutta un’oda di Orazio». Calvi aggiunge un «sonetto fatto in Roma nella morte di N.N. la più bella donna di quel tempo; e alcune altre cose» di cui naturalmente non si ha traccia. Del sonetto in dialetto padovano, che principia El n’è d’agn’hora turbio el Bacchigion, bisogna correggere l’indicazione di Mazzucchelli, trovandosi la lirica ne La terza parte de le Rime di Magagnò, Menon, e Begotto. Novamente poste in luce (Venezia, Bolognino Zaltiero, 1569) a c. [F5r]. Questo profilo culturale del curatore della raccolta in esame tornerà utile per le riflessioni sviluppate nel saggio. Per ora preme solo aggiungere la curiosa notazione, qui non affrontabile, per cui le rime del canonico, noto al tempo per la sua ferma opposizione alle professioni protestanti e calvinista, vengono stampate per tramite di Giuseppe da un Andrea Arrivabene inquisito perché avrebbe messo a disposizione la propria tipografia per la diffusione di testi eretici: cfr. Erika Saccocci (a cura di), Arrivabene Andrea, in Dizionario dei tipografi e degli editori italiani. 1, Il Cinquecento, Milano, Editrice Bibliografica, 1997, pp. 45-46; e i luoghi ad indicem in Marco Santoro (coordinato da), Dizionario degli editori, tipografi, librai itineranti in Italia tra Quattrocento e Seicento I, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2013.
10 Per una accurata descrizione della stampa si rimanda alla scheda del catalogo della Fondazione Barbier-Mueller (https://www.fondation-italienne-barbier-mueller.org/GUALDO-Girolamo-Rime-1569 – data ultima consultazione 2 novembre 2022) da ritenersi valida per le circa venti copie superstiti: buona parte di queste presentano le stesse caratteristiche e gli stessi errori tipografici dell’esemplare ginevrino consultato, come verificato, su richiesta, dai diversi istituti conservatori contattati.
11 Si tratta del già menzionato ms. 238 della Biblioteca Comunale Leonardo Leonij di Todi, di cui si offre una descrizione in Laura Andreani (a cura di), I manoscritti moderni della Biblioteca comunale «L. Leonii» e dell’Archivio storico comunale di Todi, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2008, pp. 177-192. Rimandando a questo studio per una presentazione più ampia e dettagliata del manoscritto, si rilevano di seguito le informazioni necessarie all’analisi qui condotta. Databile tra fine Cinque e inizio Seicento, il codice è una miscellanea di liriche raccolte dal letterato todino Pirro Stefanucci (sec. XVI ex.), che le organizza in quattro sezioni titolate Rime di diversi e numerate progressivamente. Le parti prima e seconda sono rispettivamente seguite da una tavola con indice degli autori citati e incipit dei relativi componimenti; tavola che per la terza parte si riduce ad un elenco degli autori e che manca del tutto per la quarta. Alcune liriche presentano una rubrica, replicata o integrata nella tavola delle parti prima e seconda, dove spesso si trovano didascalie a incipit di testi privi di rubrica. Si tratta dunque di un progetto editoriale non concluso, su cui occorrerebbe riflettere più da vicino e alla luce delle modalità di indagine suggerite dalla critica più recente (cfr. soprattutto Simone Albonico, La lirica del Cinquecento, in Claudio Ciociola (coordinato da), Storia della Letteratura italiana. X, La tradizione dei testi, Roma, Salerno, 2001, cap. XV, pp. 693-740; Monica Bianco, Elena Strada (a cura di), ‘I più vaghi e i più soavi fiori’: studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso; Franco Tomasi, Studi sulla lirica rinascimentale (1540-1570), Roma-Padova, Antenore, 2012; Enrico Malato, Andrea Mazzucchi (a cura di), La tradizione dei florilegi nella letteratura italiana. Atti del convegno internazionale di Roma 27-29 ottobre 2014, Roma, Salerno Ed., 2016). Sarebbe interessante comprendere come e perché il letterato todino decida di dedicare la parte seconda della raccolta ad autori vicentini, tra cui compare anche Girolamo Gualdo, presente con otto sonetti (cc. 45r-48v). Si precisa che, mentre nella tavola finale di sezione il nome del canonico risulta ben leggibile («Mons.or Girolamo Gualdo Canonico Vicentino», c. 140v), non lo è altrettanto nell’intestazione alla trascrizione dei suoi testi (da cui la mancata identificazione del canonico sia in Iter italicum VI 223b; che in Laura Andreani (a cura di), I manoscritti moderni della Biblioteca comunale «L. Leonii», cit., p. 181). Questi gli otto incipit: a) «Se la mia vita, ch’ogn’hor più vicina»; b) «Non fu dà proprij can cotanto morso»; c) Rettor del Ciel dapoi, che nel’estremo»; d) «Invide stelle, e tu, ch’il terzo cielo»; e) «L’aura soave in queste piagge apriche»; f) «L’isola, che fu già sacrata al Sole»; g) «Ove già di giunone era adorata»; h) «Non di virtù, ma di miseria esempio». Nessuno dei testi è accompagnato da rubrica, ma Stefanucci offre alcune informazioni nella tavola (cc. 140v-141r): si scopre così che i componimenti a-c sono scritti «in una sua gravissima infirmità»; che i sonetti d-e sono dedicati alla compianta Laura Garzadori («in morte della S.ra Laura Garzadora»); mentre i sonetti f-g sono scritti «sopra la guerra di Malta» e, infine, l’ultimo sonetto è indirizzato «Al S.or Valerio Chieregato Cavaliere in risposta di quel che segue». Nella tavola, infatti, così come nel corpo dei testi, segue il sonetto «Benche siate qui in terra unico esempio» di Valerio Chiericati (c. 49r), proposta del precedente di Gualdo. Di questi otto testi, come anticipato, solo quattro (d-g) sono a stampa nelle Rime del 1569, con poche varianti testuali. Le più significative tra queste varianti, ma soprattutto i sonetti inediti, divengono testimonianza di una tradizione extravagante delle rime del canonico e di una loro circolazione in forma manoscritta anche fuori dal compatto milieu vicentino. Sempre che si tratti effettivamente di liriche del canonico: in assenza di documenti, infatti, non si può tacere il dubbio che alla produzione del canonico si sia mischiata quella dell’erede Giuseppe Gualdo, di cui sono noti (o, almeno, lo furono) gli interessi letterari.
12 Guglielmo Gorni, Metrica e analisi letteraria, Bologna, il Mulino, 1993, p. 133.
13 Nell’impossibilità di fare riferimento anche a tutte le edizioni critiche di singole raccolte foriere di interessanti dati e prospettive di indagine, per le linee teoriche il rimando è anzitutto a Simone Albonico, Ordine e numero: studi sul libro di poesia e le raccolte poetiche nel Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006; e da Andrea Comboni, Tiziano Zanato (a cura di), Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2017; cui si dovranno aggiungere Massimo Danzi, Roberto Leporatti, Il poeta e il suo pubblico. Lettura e commento dei testi lirici nel Cinquecento. Convegno internazionale di studi (Ginevra, 15-17 maggio 2008), Ginevra, Droz, 2012; Franco Tomasi, Studi sulla lirica rinascimentale, cit.
14 Sono le prospettive di ricerca che si possono raccogliere dalle più recenti pubblicazioni di Franco Tomasi, Osservazioni sul libro di poesia nel secondo Cinquecento, in Alessandro Metlica e Franco Tomasi (a cura di), Canzonieri in transito. Lasciti petrarcheschi e nuovi archetipi letterari tra Cinque e Seicento, Milano-Udine, Mimesis, 2015, pp. 11-36; e dai contributi raccolti in Valeria di Iasio, Franco Tomasi, Il libro di rime tra secondo Cinquecento e primo Seicento, «Italique», numero monografico 24 (2021): https://doi.org/10.4000/italique.831 (data ultima consultazione 2 novembre 2022).
15 Per le riflessioni critiche e la ricognizione bibliografica più aggiornate si rimanda a Sabrina Stroppa, Oltre la questione dell’«ordine mutato»: sul commento di Alessandro Vellutello al Petrarca volgare, «Atti e Memorie dell’Accademia Galileiana di scienze lettere ed arti», 131, parte iii (a.a. 2018-2019), pp. 375-399; e nell’introduzione della stessa ad Alessandro Vellutello, Commento a «Le volgari opere del Petrarcha» (Venezia, G.A. da Sabbio, 1525), edizione anastatica dell’esemplare della Biblioteca Reale di Torino (P.M. 1286), introduzione e indici a cura di Sabrina Stroppa, Treviso, Antilia, 2021 («Commenti antichi dei Rerum vulgarium fragmenta e dei Triumphi», 2), pp. 7-25: 14-29. Per i primi, puntuali riscontri di come la «temperie oraziana di metà secolo» agisca sulla struttura delle raccolte liriche, cfr. Stefano Carrai, Classicismo latino e volgare nelle rime del Minturno, in I precetti di Parnaso: metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 167-191; Simone Albonico, Sulla struttura dei ‘canzonieri’ nel Cinquecento, in Ordine e numero, cit., pp. 29-46 (la precedente citazione è ivi, p. 41); e Franco Tomasi, Introduzione a A. Piccolomini, Cento sonetti, cit., pp. 7-30: 23-30.
16 Cfr. S. Albonico, Sulla struttura dei ‘canzonieri’ nel Cinquecento, cit., pp. 34-35, dove viene presentato il seguente elenco di indicatori: a) numero complessivo dei testi in rapporto a eventuali modelli; b) grado di coerenza/incoerenza totale; c) grado di continuità/discontinuità lessicale, stilistico retorica e diegetica; d) fatti metrici, nella distribuzione delle forme, nei rapporti minuti di schemi rimici o singole parole rima tra testo e testo; e) legami tra testi distanti e le eventuali simmetrie o specularità; f) posizione dei testi, distanze tra i singoli testi e proporzioni tra singole sequenze e raccolta; g) profilarsi o meno di una vicenda personale collocata nel tempo e nello spazio; h) riconoscibilità o meno delle occasioni originarie dei testi; i) posizione e funzione dei singoli testi in redazioni precedenti o successive delle raccolte. Si rimanda ad altra sede la trattazione dei punti d-e, salvo casi rilevanti o funzionali all’argomentazione condotta. Il punto i, a causa della scarsa documentazione, non consente uno sviluppo significativo.
17 Come anticipato, moltissime di queste riflessioni strutturali si svolgono alla luce delle indagini e del metodo offerti da S. Albonico, Ordine e numero, cit. A lui si deve l’osservazione critica del valore di spartiacque che le esperienze liriche di Bembo, Tasso e Alamanni assumono nella prima metà del XVI secolo (ivi, pp. 37-40).
18 Lo studio del canzoniere di Minturno, da cui si traggono in modo sparso le citazioni a testo, è svolto da S. Carrai, Classicismo latino e volgare nelle rime del Minturno, cit.
19 Per la rilevazione dell’influenza esercitata dai numeri e dalla struttura delle opere a stampa dei classici cfr. nota 15); mentre per la pregnanza strutturale del numero 136 il rimando è ancora a cfr. S. Albonico, Ordine e numero, cit., pp. 38-39.
20 Anche in Petrarca, in posizione incipitaria, Rvf 2 e 3 sviluppano il tema della ferita provocata dalla passione amorosa.
21 Torna il modello petrarchesco del dittico sul ritratto di Laura (Rvf 77 e 78).
22 Di Elena, che il poeta afferma essere veneziana, si allude forse come poetessa o cantante (sonetto 40, vv. 1-4: «Là nel sen d’Adria a le famose arene, / ove ’l Leon alato il gran nido have / verginia del mar ninfa sì soave / canta, che i cigni vince e le sirene»); mentre potrebbe trattarsi di un’ipotesi troppo ardita l’interpretazione di sonetto 42, vv. 13-14 («se v’assembrate al bel parto di Leda, / qual meraviglia è poi se un’Angel sete?») come senhal per il nome della famiglia, vagamente sostenuta dal gioco onomastico che si riscontra anche in sonetto 53, ma forse più indicativo di una donna di nome Angela (vv. 1-6: «Di stirpe d’Angel nata, et in famiglia / de la celeste venere fu inserta / questa nuova Fenice, che ben merta / non d’uom mortal, ma di Giov’esser figlia. / Chi vide al mondo mai tal meraviglia, / un’Angela del velo human coperta?», dove però mancano riferimenti più diretti a Elena). Ancor più vaghe sono le informazioni deducibili per Attalanta e Cinzia. Della prima il poeta sembra ricordare il legame coniugale (sonetto 57, vv. 9-10: «Copia felice; a voi mi volgo ancora / a cui dat’è sì bella donna in sorte»), e ne racconta l’incontro insieme a una non altrimenti citata Isabella nel sonetto 55 («Ben dovresti, o mia stanzia esser gioiosa / (…) poi ché di beltà adorne e di valore, / Attalanta e Isabella in te fer posa»). Di Cinzia è ipotizzabile l’origine vicentina (sonetto 59, dove compare insieme alla non nominata donna di origine toscana), mentre è dubbia la sua identificazione con la dama che «di ginebro il capo cinto / vuol che da questo il nome suo si dica» (sonetto 60, vv. 13-14): se così fosse, e non si trattasse di un’altra donna di nome Ginevra, si potrebbe aggiungere tra le informazioni a suo riguardo lo stato nubile e l’appartenenza alla «Portia gente» (ivi, v. 8). Si opta per una trascrizione dalla stampa con minimi ammodernamenti che agevolino la lettura (si interviene su accenti e apostrofi, punteggiatura, grafie etimologiche o pseudo etimologiche, plurali in -io; maiuscole e minuscole). Il numero dei componimenti è quello della relativa posizione nella seriazione del libro, per ognuno dei quali la numerazione ricomincia.
23 L’individuazione di Lucilla Thiene consente di sciogliere anche i dubbi intorno al sonetto 85 della stessa sezione, una consolatio per la perdita della moglie rivolta dal poeta al conte Orazio Thiene, così celato dalla perifrasi iniziale: «Se di quel che difese il ponte solo / avete il nome, se vittorioso / sete e costante» (vv. 1-3), con una probabile allusione all’appartenenza del conte al sodalizio dei Costanti. Sulle rubriche e le varianti che i sonetti funebri di Gualdo per Laura Garzadori presentano nel ms. todino 238 si è già discusso in nota 11. Nello stesso manoscritto sono presenti altri 5 testi scritti in morte della nobildonna (ne sono autori, in ordine di apparizione, Spirito Pelo Anguiscola [Anguissola]. Paolo Chiappino, Sebastiano Montecchio, Claudio Ferramosca); mentre a c. 142v della seconda tavola si legge la didascalia «Questi tre son. son fati in morte della S.ra Lucilla Thiene moglie del Conte Horatio» in riferimento a tre testi di Spirito Pelo Angusciola che ha contribuito a confermare l’identità di Lucilla Thiene nel riferimento incrociato con La terza parte de le Rime di Magagnò, Menon, e Begotto, cit., c. [K8r], componimento per le nozze della coppia Thiene. Utili, a riguardo, anche studi storici come quelli di P. Calvi, Biblioteca e storia, V, cit., pp. lxvi, che, ricorda le liriche per la morte di Laura Garzadori composte dal vicentino Giambattista Gorgo; o ancora la raccolta allestita in sua lode da Anton Maria Angiolello.
24 Per le relative notizie storico-artistiche cfr. N. Basilio, Il Museo Gualdo di Vicenza, cit., pp. [2-3]; G. Gualdo jr., 1650. Giardino di chà Gualdo, cit., pp. 39-40; e soprattutto i più vicini I. Favaretto, Arte antica e cultura antiquaria nelle collezioni venete, cit., pp. 118-121; e Lionello Puppi, Bartolomeo Ammannati a Vicenza, in Niccolò Rosselli del Turco, Federica Salvi (a cura di), Bartolomeo Ammannati scultore e architetto 1511-1592, Firenze, ADSI, sezione toscana, Alinea, 1995, pp. 79-83.
25 L’interpretazione della stella di v. 2 come riferimento alla costellazione del Capricorno e la conseguente ipotesi di identificare la donna cantata con un’esponente della famiglia Capra sono proposte sulla scorta del sonetto 97 del libro secondo (c. 64r), La capra che nudrì Giove Amalthea, dedicato a Giulio Capra, che così è introdotto dal testo stesso: «La capra che nudrì Giove Amalthea / ch’or stella è in cielo, onde ‘l cognome avete, / v’infonde la virtù che possedete / come la fonte de la vostra idea. / Giulio è poi ‘l nome dal figliuol d’Enea» (vv. 1-5).
26 Si pensi all’accurata disposizione di ballate, canzoni, sestina e capitolo che Pietro Bembo opera nella propria raccolta e che è stata ben rilevata e illustrata da S. Albonico, Come leggere le Rime di Pietro Bembo, in Ordine e numero, cit., pp. 9-15; lo stesso, sulla scorta di altri studi, ricorda come anche Trissino scelga di concludere il proprio ‘canzoniere’ con una ballata (cfr. Id., La struttura dei ‘canzonieri’ nel Cinquecento, cit., p. 33). Sulla disposizione dei capitoli all’interno delle raccolte, oltre ai primi rilievi dello stesso Albonico e le riflessioni condotte da Nicole Volta, Il canzoniere di Ludovico Ariosto nel ms. Rossiano 639. Edizione e commento, tesi di dottorato discussa presso la “Sapienza” Università di Roma il 28/07/2021, prof. relatore Italo Pantani, pp. 29-36, si attende un volume, di prossima pubblicazione, dedicato proprio al capitolo lirico nel Rinascimento, per le cure di Franco Tomasi e insieme Francesco Davoli e Nicole Volta. Il primo libro di Gualdo è l’unico per cui un vaglio più accurato del ruolo strutturale dei metri lunghi può fruttare qualche risultato critico. A margine di queste brevi annotazioni, si aggiunga che oltre alla sestina 26 con retrogradatio cruciata (parole rima legno-vele-mare-stella-onde-porto), che richiama il modello di Rvf 237, e alla sopracitata canzone 30, anche lo schema metrico della canzone 23 rimanda a Rvf 126 (6 stanze di 13 settenari ed endecasillabi di schema abCabC cdeeDfF e congedo AbB).
27 Per l’analisi e l’interpretazione di questi testi, soprattutto in relazione alla storia dell’Accademia dei Costanti nel contesto vicentino, cfr. B. Guthmüller, Il movimento delle accademie nel Cinquecento, cit. Oltre alla già argomentata natura aristocratica dell’Accademia, che trova nel sonetto 43 a Conte de Monte una possibile riprova (il destinatario è indicato come modello di vita condotta all’insegna delle due arti, quella militare e quelle liberali), dalle rime di Gualdo è forse possibile dedurre degli interessi artistici del consesso (sonetto 49, vv. 5-11: «Dal dì che tanti e così chiari ingegni / mossi da generoso alto discorso / per por al tempo e a la fortuna il morso / dier principio a lor vaghi e bei disegni, / indi poi con più eletti color vivi / s’han formato una imagine sì rara / ch’Apelle o Zeusi mai non la fer pare»).
28 Solo a testimonianza delle indagini, ancora da condurre, sugli ambienti letterari e culturali vicentini, varrà ricordare che ne La terza parte de le Rime di Magagnò, Menon, e Begotto, cit., c. [H5r], edita proprio nell’anno della morte di Gualdo, è presente un epitaffio di Maganza rubricato «Per il Magnifico, et reverendo Monsignor, il Signor Gieronimo Gualdo».
29 Meno certe le altre personalità nominate: il Valerio destinatario del sonetto 61 potrebbe essere lo stesso Valerio Chiericati di cui si conserva il breve scambio di due sonetti nel ms. todino 238 (cfr. nota 11). Il sonetto 62, indirizzato a un non altrimenti specificato Giulio, è identificato dalla critica con Giulio Thiene (cfr. B. Guthmüller, Il movimento delle accademie nel Cinquecento, cit., p. 18). I sonetti 67 e 68 potrebbero essere rivolti a Luigi Valmarana (nel primo con la perifrasi «Poi che la valle onde ’l cognome havete», nel secondo chiamato per nome). Il componimento 75 accosta a Porto, principale destinatario, anche un Godi, identificabile con il Vincenzo membro dell’Accademia dei Costanti («di ciò fan del mio Porto e del bon Godi / i superbi edificii intera fede», vv. 12-13). Si legano ancora agli ambienti del sodalizio il componimento al Porto (sonetto 77) e altri due sonetti a un destinatario non identificato (88-89), cui Gualdo chiede di intervenire a favore dell’ormai logoro consesso. Forse a Livio Pagello è invece indirizzato l’ultimo sonetto (98) di questa serie. Le ipotesi, i dubbi e le identificazioni ancora in sospeso testimoniano la necessità di un lavoro di scavo storico e documentario ancora tutto da compiere, ma che certamente potrebbe contribuire a una migliore conoscenza dell’Accademia dei Costanti e delle reti culturali vicentine in cui si inserisce.
30 L’argomento fu probabilmente condiviso tra i poeti vicentini, se anche nel ms. 238 di Todi, in quella seconda parte dove si collocano i testi di Gualdo e di molti altri poeti vicentini, si registra un sonetto d’incerto «Nell’inondation del tevere l’anno 1557» (rubrica dalla tavola, c. 145v). Per un confronto con altri testi e per una paruta analisi di questa sezione, sia consentito il rimando al contributo di chi scrive Note su una sequenza diluviale-mitologica nelle ‘Rime’ di Girolamo Gualdo, in Miti e mitologie tra creazione e interpretazione, a cura di Raffaele Ruggiero e Onofrio Vox, Lecce, Pensa, 2021, pp. 225-246; contributo da aggiornare con i risultati raggiunti in questa sede.
31 Cfr. Giovanni della Casa, Rime, a cura di Stefano Carrai, Milano, Mimesis, 2014; Giacomo Zane, Rime, a cura di Giovanna Rabitti, Padova, Antenore, 1997; e Martina Dal Cengio, Le Rime di Girolamo Molin (1500-1569) e la poesia veneziana del Cinquecento. Edizione critica e commento, tesi di dottorato discussa presso la Scuola Normale Superiore di Pisa il 12/06/2020, tutor il prof. Andrea Torre.