Revue Italique

Varia

OJ-italique-1025

Soldati e atleti nell’immaginario di corte : le canzoni di Gabriello Chiabrera sul calcio fiorentino

Barbara Tanzi Imbri

Nominato «gentiluomo del Granduca di Toscana» nel 1599, Gabriello Chiabrera poté finalmente soddisfare il desiderio di legarsi alla corte medicea e a quell’«esemplare tessuto di società colta e sensibile» che credette di riconoscere a Firenze; animata dalla camerata dei Bardi, dai Caccini e da Rinuccini, «nella quale era potuta nascere l’illusione raffinata di un nuovo sodalizio tra musici e poeti, alla maniera dei Greci».1

Numerosi furono i componimenti dedicati da Chiabrera a membri della famiglia Medici, il primo dei quali, indirizzato a Giovanni, fu pubblicato nella raccolta Delle Canzoni del 1586. Dopo il 1599 gli omaggi si infittirono toccando un vastissimo ventaglio di occasioni: nascite, morti, nozze, battaglie, investiture e giostre; una ricca produzione che nel biennio 1618-19 annovera anche quattro canzoni dedicate al calcio in livrea, meglio noto, oggi, come calcio storico o calcio fiorentino, Per lo gioco del pallone celebrato in Firenze l’Estate dell’Anno 1618, Loda i Giocatori del Pallone in Firenze l’Estate dell’Anno 1618, Per li giocatori di pallone in Firenze l’estate de l’anno 1619 e Per Cinzio Venanzio da Cagli vincitore ne’ giuochi del pallone celebrati in Firenze l’estate dell’anno 1619.

La passione per il calcio fu già di Lorenzo di Piero de’ Medici (il Magnifico), che ne intuì l’utilità politica e la sfruttò come strumento per consolidare la propria posizione. Lo attestano i primi due componimenti sul tema oggi noti: l’uno di Giovanni Frescobaldi, ascrivibile alla prima metà degli anni ’50 del ’400, l’altro anonimo, collocabile intorno agli anni ’60 dello stesso secolo.2 Si tratta di due cronache in ottave, in cui vengono descritte le diverse fasi del gioco e i momenti che precedono e seguono le competizioni. In entrambi i casi sono citati nomi di famiglie illustri, tra cui esponenti e alleati dei Medici, e la cronaca dell’evento si configura per lo più come pretesto per rendere omaggio a Lorenzo. Non a caso, nei versi vengono sottolineati «l’unità politica tra le classi sociali» e «il consenso unanime che certe casate vantano all’interno della cittadinanza»,3 nonché «l’armonia» che regnava «in città a partire dalle nuove leve della classe dirigente».4 A tal proposito, Matteo Bosisio sottolinea la «discreta diffusione», già a metà del Quattrocento, «delle varie tipologie letterarie a fine celebrativo – qualunque fosse il pretesto (caccia, calcio, giostra, armeggeria) – presso l’élite fiorentina dell’epoca».5

Dopo la morte di Lorenzo, l’interesse per il calcio continuò a essere coltivato dai suoi successori, tra i quali il figlio Piero, ritratto da Jacopo Nardi come sovrano poco attento alla politica e «troppo inclinato […] al giuoco della palla col pugno e col calcio, in tanto che molti singulari giucatori di tutta Italia venivano per far con esso di quella arte esperienza».6 Fu tuttavia Alessandro, figlio di Lorenzo duca di Urbino, il primo a utilizzare il calcio in livrea «come forma di festeggiamento», segnando «l’inizio di una serie di sontuose partite, che venivano organizzate in occasione di feste nuziali, oppure della visita di ospiti importanti»,7 dunque anche al di fuori del periodo di Carnevale, normalmente deputato allo svolgimento dei giochi. Ancora nel 1570, Ferdinando I, figlio di Cosimo I, organizzò alle terme di Diocleziano una partita in onore del padre, che nel gennaio dello stesso anno era stato incoronato Granduca di Toscana da papa Pio V. Significativa fu la scelta del luogo, che nell’omaggio a Cosimo I univa «il carattere mediceo del calcio inteso come festa di corte con l’aura dell’antichità».8

Divenuto a tutti gli effetti un intrattenimento ufficiale, nel Cinquecento il calcio fu oggetto di composizioni per lo più di carattere burlesco e carnascialesco, come la Canzona del Calcio dell’Ottonaio, pubblicata per la prima volta a Firenze nel 1559 con il titolo Canto del calcio,9 e il capitolo In lode della palla al calcio del Lasca, composto intorno al 1565;10 testi che «fanno la parodia del carattere serio e celebrativo» di un ludus ormai «entrato a pieno diritto nel rituale delle feste medicee».11 Non sorprende, quindi, che nel 1580 Giovanni Maria de’ Bardi abbia dedicato a Francesco I, figlio di Cosimo I e fratello di Ferdinando I, il primo trattato sul tema, il Discorso sopra il giuoco del calcio fiorentino del Puro Accademico Alterato.12 In esso, il Bardi, «oltre a fissare i vari ruoli e le regole del gioco, definisce il calcio un’attività meramente fiorentina e aristocratica, finalizzata a guadagnare l’“honore” (c. 9). In aggiunta lo scrittore, mediante un calibrato processo di legittimazione culturale, collega il calcio ai giochi con la palla cantati nell’Odissea e ad alcuni ludi degli antichi Romani».13 Si tratta di un’operazione normativa e istituzionale che oltre a soffermarsi sulle regole del gioco ne offre «un’interpretazione nobile secondo gli orientamenti della politica culturale medicea, interessata a porre sotto l’egida della dinastia regnante le feste e gli spettacoli del periodo repubblicano».14

Se gli aspetti citati interessano da un punto di vista politico e socioculturale perché identificano il gioco del calcio come espressione del potere mediceo, i tre fattori che agli occhi del Bardi lo caratterizzano, soggetto, natura e utilità, permettono di chiarire, secondo la prospettiva dell’autore del Discorso, quali fossero i cardini della sua nobiltà. Il soggetto rinvia a un paragone con l’antichità, quando il gioco della palla era praticato dalle «persone degl’Eroi, le quali […] a questo solo, come più nobile de gli altri, e più degno giuoco, s’esercitarono; e noi similmente il fiore della Nobiltà, […] a questo scegliamo».15 La natura ne è il carattere intrinseco, nobile perché il calcio richiedeva abilità in diversi esercizi, tra cui «il Corso, il Salto, la Lotta, il Disco, il Pugilato, che i più pregiati erano dagli antichi», e «ciascheduna cosa tanto è più nobile, quanto è più universale, e più cose sotto di sè ordinate a fine di lei, e quasi a suo servigio comprende».16 Proprio l’“universalità” della disciplina, che implica «tutti gli agitamenti, e tutte le fatiche dell’animo, e del corpo che mai potette insegnare tutta l’arte Gimnastica», ne determina infine l’utilità, poiché «quei tanti frutti di quella [: ginnastica], tanto celebrati da tanti Filosofi, e Medici e Grammatici, e altri gravi, e dotti scrittori, tutti nel calcio saranno per necessaria conseguenza. Ciò sono in sustanza, fare il corpo sano, e destro, e robusto, e l’animo svegliato, e forte e vago di virtuosa vittoria».17

Interessante è soprattutto il discorso sugli ultimi due fattori, la natura e l’utilità, discutendo dei quali Bardi sottolinea l’importanza delle diverse abilità fisiche e delle qualità morali sviluppate dal calcio accennando all’«arte Gimnastica» e ai Filosofi, Medici e Grammatici che si espressero sulla cura del corpo. Il dato è curioso, perché soltanto una decina di anni prima, nel 1569, il medico di formazione umanista Girolamo Mercuriale aveva pubblicato il De arte gymnastica, il primo trattato moderno che, nel solco delle posizioni galeniche, considera l’esercizio fisico da una prospettiva medica. L’opera sistematizza lo studio della disciplina recuperandone anche le radici storiche e ne evidenzia l’importanza ai fini del mantenimento di uno stile di vita sano e salutare. Ma ciò che più colpisce è il giudizio espresso da Mercuriale sui giochi con la palla, che riprendendo Galeno affermava: «videlicet quod tum animorum virtutem pariant, tum omnes corporis partes accomodate exercendo bonam corporis valetudinem ac membrorum concinnitatem efficiant»,18 parole alle quali sembrano richiamarsi i rilievi del Bardi.

Pochi anni prima, anche l’antiquario e numismatico lionese Guillaume du Choul aveva toccato il tema della ginnastica antica nel Discorso dei bagni et essercitii antichi de’ Greci e de’ Romani, opera di grande successo nota anche a Mercuriale, pubblicata in latino e in francese nel 1555 e tradotta in italiano lo stesso anno da Gabriele Simeoni.19 Pur muovendo da una prospettiva storica invece che scientifica, anche il du Choul, sulla scorta di Celso, affermava che «l’essercitarsi, leggere forte, maneggiare le armi, giuocare alla palla, correre, passeggiare […] sono tutte cose, che conservano la sanità, numerata da i Filosofi tra le felicità, e beni divini».20 Ciò non significa necessariamente che Bardi conoscesse il Discorso sui Bagni o il De arte gymnastica, ma contribuisce a individuare nella riscoperta dell’antichità classica uno sfondo comune a intellettuali di ambiti diversi, sul quale si inserisce anche il rinnovato interesse per la ginnastica che, «so valued by the ancients and so beneficial to their health, […] was to all intents and purposes defunct».21 Lo dimostra il fatto che proprio durante il Rinascimento «doctors were beginning, tentatively at first and then with growing assurance, to evince a renewed interest in physical exercise; and not only doctors, but also educationalists and teachers of every kind».22

Negli anni successivi al trattato di Bardi il calcio continuò a mantenere la propria centralità come forma di festeggiamento ufficiale sotto il governo di Cosimo II, figlio di Ferdinando I e suo successore, sceso in campo anche nella partita giocata il 20 ottobre 1608 per festeggiare le sue nozze con Maria Maddalena d’Austria. Numerose furono le partite organizzate non solo durante i carnevali, ma anche in occasioni solenni, come la visita dell’ambasciatore spagnolo Don Ferrante Borgia nel 1610 e le nozze tra Caterina de’ Medici e Ferdinando Gonzaga nel 1617, competizione, quest’ultima, in cui fu ancora schierato Cosimo, fratello della sposa.23 La prima canzone di Chiabrera risale proprio all’anno successivo, il 1618, e si segnala nella tradizione come il primo componimento poetico estraneo sia al genere burlesco, sia alla narrazione in ottave, preceduto nel 1611 dalla Narratio inclyti certaminis Florentinorum graecis versibus, quod apud illos calcio apud antiquos vero Arpastum appellatur di Paolo Coresio (Venezia, Pinelli), poemetto in esametri greci tradotto in latino dallo stesso autore,24 lettore di lingua greca all’Università di Pisa dal 1609 al 1615. Il componimento si configura come una descrizione in versi che dedica molto spazio alle tecniche e alle regole del gioco, per la quale Coresio aveva senz’altro presente il Discorso di Bardi, fonte per esempio, della definizione del calcio come attività «continens cursum, atque palestram, / Pilam, et pugnam» (vv. 17-18).25 Tuttavia, gli elementi più interessanti sono la considerazione delle competizioni sportive come esercizi di addestramento alla guerra e il paragone tra le partite di calcio e le battaglie, sui quali Coresio si sofferma a lungo, e che costituiscono un’ulteriore espressione dell’interesse rinascimentale per la cultura delle civiltà antiche:

     Tale certamen est arpastum multum superans
Omnia certamina, splendore praestans.
     Dator, vitae praexercitatio belli gaudium hominum,
Vitij corruptor contrarij virtutibus.
     Hoc certamen nobilium est opus,
Forte, et pulchrum pugnatoribus desiderabile,
     Demostrans Florescentium fortitudinem, et animum cuiuslibet
In certamine perspicuus demonstrator fortis.
[…]
     In hoc manus et pes instrumenta exercentur
Pugnantium virorum servat ordinem optimum.
     Quam periti bellorum veritatem sciunt.
Et tandem si bellum honorem certe permagnum habet,
     Principes, et civitates in magnitudine conservans,
Certe talis illi imago in omnibus similis
     Honorem et gloriam consequitur immortalem.
(vv. 353-372)

Diverso, in questo caso, il Discorso del Bardi, nel quale si trova soltanto un cenno alla volontà dei giovani di dimostrare al signore il proprio valore e la propria attitudine a servirlo «nei gravi, e alti affari», mentre la guerra non è mai citata esplicitamente:

quello honore, che ciaschedun desidera giocando acquistare, non si ristringe ne’ soli termini di esso giuoco […]: ma a più alto fine trapassa, cioè di essere da V. A. S. veduto, e lodato, e conosciuto per valoroso, e prode e atto a servirla ancora nei gravi, e alti affari: per questo corrono, per questo s’affrontano, per questo si battono l’uno l’altro, e s’ammazzano di fatica, esercitandosi nel Calcio campioni sì valorosi, e sì gentili, e in tale contesa si fanno coraggiosi, e forti, e atti a mettersi a ogni impresa, e conseguire ogni vittoria.26

In entrambi i testi, tuttavia, lo stretto legame tra competizione sportiva e battaglia è ricondotto alle usanze dei popoli antichi, che nell’educazione dei giovani includevano l’attività fisica e le gare agonistiche. Entrambi gli autori enumerano gli esempi virtuosi del passato, a partire dalla civiltà spartana, e accennano alle rovine delle terme e delle palestre per dimostrare l’estrema attenzione riservata all’esercizio fisico e alla cura del corpo nell’antichità. Così in merito il Bardi:

Sparta infino che seguì le dure leggi di Ligurgo, e travagliò in asprissime fatiche i corpi giovenili; si mantenne, e accrebbe senza altre mura, che quelle de’ durissimi petti dei suoi cittadini. I Pesiani mentre che seguirono la severa disciplina di Ciro, essendo avvezzi alle dure fatiche della caccia, dal Levante al Ponente, e dalla tramontana al mezzo dì, corsero vincendo. I Macedoni sotto Alessandro il Grande divenuti per lo essercizio prodi, e feroci, ruppero con l’impeto loro i Darij, e qualunque altro Imperatore venne loro a petto. I Romani mentre nelle scuole, e nelle palestre si esercitarono fur si robusti, che sotto gravissimi fasci caminando, e gli’anni interi nelle armi stando, distesero senza termini l’Imperio […]. Mostrano ancor le Reliquie, oltre alle antiche scritture, quanti magnifici Teatri, e Cerchi, e Mete, e Therme, e altre superbissime moli fussero in Olimpia, in Isthmo, in Athene, Roma e per tutta Italia edificate; solo per esercitare, e mantenere la lor gioventù feroce, e gagliarda.27

Più sintetico Coresio, che lo riprende quasi scopertamente:

Certe enim bellicosos Sparthanos isti [: i fiorentini], Licurgi
     Sciebant laboriosis obedientes legibus.
Pectoribus non fortibus fidentes moris illos
     Occidentes paucis multitudines pugnantium.
Praeterea Romanorum, et Persarum magnae famae
     Victorias exercentium corpora gymnasiis.
Certe et Mars Macedonicus multis timorem circumposuit
     Omnibus talibus erant cara gymnasia.
(vv. 375-382)

Soprattutto nel caso di Bardi, il riferimento a «Teatri, e Cerchi, e Mete, e Therme, e altre superbissime moli» è notevole perché come il cenno all’«arte Gimnastica», sul quale mi ero soffermata, richiama il trattato di Mercuriale. Il medico forlivese, infatti, «passionately enthused by Greek and Latin, immersed in the classicizing circles of the Farnese court», poté ammirare le antiche rovine durante i sette anni di permanenza a Roma (1562-1569), e nella prefazione alla prima edizione del De gymnastica del 1569 dichiarava: «ad id [: salvare la ginnastica dall’oblio] aggrediendum eo magis assidue inflamabar, quoniam, dum superbissimas illas planeque admirandas thermas, sive gymnasia a Graecis atque Romanis ob exercitationes solum magnificentissime extructas considerabam».28

Ulteriore testimonianza dell’interesse archeologico suscitato dalle rovine antiche è il Discorso sui Bagni del du Choul, nel quale l’autore dedica molte pagine soprattutto alla descrizione degli spazi fisici delle terme e delle palestre chiarendone le diverse funzioni e soffermandosi, come detto, sugli esercizi in uso soprattutto tra i greci.

Le prospettive naturalmente sono diverse, ma ancora una volta si possono ricondurre sullo sfondo rinascimentale di una rifiorita curiosità per la storia e per la cultura antica, sia da un punto di vista erudito e archeologico, sia come riscoperta dei grandi autori e filosofi tradotti dagli umanisti. Una curiosità che nel caso del Bardi, mosso da ragioni del tutto diverse da quelle di du Choul e di Mercuriale, significa recupero di un immaginario in cui atleti e soldati sono figure pressoché sovrapposte, strette in relazione sotto l’egida dell’eroismo. Lo stesso paragone, e probabilmente lo stesso immaginario, benché forse maggiormente influenzato dalla tradizione epica e lirica greca, agiranno anche in Chiabrera, che insieme all’esaltazione degli atleti come futuri valenti soldati non mancherà di ricordare «Il magnanimo ardir de’ cor Spartani» (Loda i giocatori, v. 84).29

A distanza di sette anni dalla Narratio del Coresio, fuori dal filone trattatistico, Chiabrera riprenderà il tema del calcio in livrea nel solco del genere encomiastico, guardando alla tradizione greca e a Pindaro in particolare, come testimonia la citazione scoperta ai vv. 14-16 di Loda i giocatori: «Vergine bella chiede / Per sé vaghi ornamenti / Ma nobile om brama di Pindo i canti». Come noto, costante fu il rapporto instaurato da Chiabrera con la poesia pindarica, dal quale deriva anche parte dello sperimentalismo metrico del savonese, rapporto dichiarato dal poeta per la prima volta nella dedicatoria anteposta alla raccolta Delle canzoni pubblicata nel 1586:

La primiera volta che io lessi i versi di Pindaro, posso dire con verità che io sospirai sopra la ventura di molti uomini nostri, percioché io pensava che se i principi della Grecia per la velocità nel corso e per la destrezza loro nella lotta meritarono divine lodi da quello eccellentissimo ingegno, i cavallieri d’Italia, per le maggiori prove ne i pericoli della guerra maggiormente l’avrebbero meritate; ma gli scrittori de’ nostri secoli hanno solamente di loro detta nelle istorie la verità e non hanno adoperata la virtù della poesia a fare meravigliose le loro azioni […]. Et io per questi pensieri mi sono più prontamente affaticato intorno a queste canzonette.30

Dal rammarico per l’assenza di contemporanei che dedicassero versi alle imprese dei «cavalieri d’Italia», attraverso il quale Chiabrera giustifica la propria raccolta di Canzoni celebrative delle vittorie di alcuni illustri condottieri, affiora la prospettiva dell’uomo di corte di fine Cinquecento, tradita dall’ipotetica «se i principi… meritate», che colloca le competizioni sportive su un piano inferiore rispetto alle guerre. È dunque prevedibile che l’espressione del vero pindarismo chiabreresco si trovi nelle canzoni eroiche, dedicate a vittorie belliche, non certo nella celebrazione di un gioco, per quanto nobile, promosso in tempo di pace per infiammare il pubblico con sorprendenti gesta atletiche.

Ciò significa, piuttosto, che Chiabrera aveva spogliato le competizioni antiche del loro significato autentico. Olimpiche, Pitiche, Istmiche e Nemee, infatti, erano considerate dai popoli greci tutt’altro che mere gare sportive, ma momenti spettacolari «di una festa religiosa che aveva il suo fondamento nel culto», oltre che un notevole impatto politico e sociale.31 Nelle canzoni chiabreresche il tema calcistico ricorda gli antichi agoni sportivi, così come la lode dei calcianti ammicca alle celebrazioni pindariche degli atleti, ma tanto le competizioni quanto l’elogio dei vincitori rimangono sullo sfondo. I quattro componimenti interessano invece per le forme assunte dall’elogio di Cosimo e per i modi in cui il poeta intrecciò l’omaggio al signore con la memoria degli antichi epinici. Considerando ancora i vv. 13-15 della canzone Loda i giocatori, oltre all’esplicito riferimento al modello greco («di Pindo i canti», v. 15), importa rilevare due accenni ad altrettanti motivi pindarici. Il primo si identifica nel predicato brama (v. 15), in cui risiede il desiderio degli atleti di essere eternati dal canto dei poeti. Esso infatti esaltava non solo il vincitore della competizione e la sua cerchia, ma anche l’intera comunità. Ne offre una testimonianza l’Olimpica VII, che «celebrando la vittoria di Diagora nel pugilato, narrava l’origine mitica dell’isola di Rodi» ed «era incisa a lettere d’oro nel tempio di Atena Lindia».32 Il secondo accenno corrisponde all’attributo nobile (v. 14), che identifica gli atleti come tali, così come nei componimenti pindarici, dove però l’uomo nobile in senso lato era tale in quanto predestinato dagli dèi. Il canto dei poeti antichi, che spesso attribuiva origini mitiche alla stirpe del vincitore, metteva in risalto proprio questo aspetto, assente invece in Chiabrera, secondo il quale «Nobile è quei che nobil cose adopra» (Loda i giocatori, v. 104). Quanto al mito, presenza costante negli epinici pindarici, esso è tale anche in Chiabrera, che però lo impiega con una funzione del tutto diversa, fondata su una prospettiva opposta, come ha rilevato Francesco Luigi Mannucci:

Per Pindaro, l’elogio del vincitore della gara agonistica è un puro motivo occasionale; ciò che in lui costituisce la ragione essenziale del canto, è il mito; un mito […] suggellato da sentenze di vasta comprensività morale e riconnesso idealmente con l’istituzione dei giuochi o ricavato dalla storia leggendaria degli avi e della patria dell’eroe. Per Chiabrera, invece, l’elogio individuale è tutto; il mito riappare sì nelle sue canzoni, ma come accessorio o ingrediente tipicamente pindarico. Non abbiamo più, quindi, il cantore rapito dalla visione di lontane e divine memorie, il banditore di verità eterne che si concretano e s’incarnano misteriosamente in antiche vicende; bensì il cortigiano moderno, il panegirista di professione, cui è piaciuto atteggiarsi a Pindaro in quanto Pindaro s’accinge sempre a lodare un valoroso, un personaggio eccellente sugli altri per virtù propria.33

L’osservazione di Mannucci è valida, mi pare, non solo per le canzoni eroiche che celebrano nobili combattenti, ma anche per i quattro componimenti dedicati al calcio in livrea, in cui il ricordo del mito è spogliato delle implicazioni civili e religiose proprie delle odi pindariche.34 Prive di tali valori, del resto, erano le stesse competizioni, che per quanto portassero lustro a Firenze non avevano certo la risonanza di giochi cultuali disputati in onore degli dèi, che coinvolgevano tutte le regioni della Grecia. Vivace ed eloquente, in tal senso, il quadro tracciato da Bruno Gentili:

Olimpia e i suoi giochi sacri costituivano un’irripetibile occasione di incontro aperta a tutti i Greci. Una folla multiforme si radunava ogni quattro anni presso il santuario di Zeus Olimpio: atleti e allenatori, delegati ufficiali e privati cittadini, rappresentanti delle famiglie aristocratiche più illustri e personalità della vita pubblica e culturale, ma anche semplici spettatori sia greci sia stranieri, aspiranti artisti e intellettuali alla ricerca di visibilità, prestigiatori, indovini, prostitute, venditori ambulanti d’ogni genere.35

Inoltre, se in Pindaro il mito è il fulcro dell’ode e l’elogio «un puro motivo occasionale», in Chiabrera i ruoli si invertono, cosicché il primo diventa ornamento piacevole ed erudito del secondo, ossia dell’omaggio al signore, tessuto attraverso la celebrazione di una competizione o di un abile atleta. Anche l’idea del valore sacrale proprio dei giochi panellenici naturalmente è assente dalle canzoni di Chiabrera, che ne recupera, superficialmente, e sotto un diverso punto di vista, soltanto quello civile. Lo si evince, del resto, dall’introduzione citata alle Canzoni del 1586, in cui il poeta accenna ai giochi panellenici come a un’occasione di minore prestigio rispetto alle guerre combattute dai «cavalieri d’Italia». In tal senso, significative sono altresì le parole della dedicatoria anteposta alle Canzoni per la vittoria delle galee toscane contro i turchi, dove ritorna il medesimo concetto: «Hassi egli da pareggiare il corso in Olimpia col corso delle galere Toscane, le quali non per la polve de’ campi Elei trastullano i riguardanti, ma fra le tempeste del mare sgomentano i barbari».36

Guardando ora i quattro testi più da vicino, importa prima di tutto sottolineare che a differenza di molti componimenti encomiastici nessuna delle quattro canzoni chiabreresche sul calcio fiorentino reca nel titolo il nome di Cosimo II; indicano invece l’occasione per cui furono scritte e l’ultima è addirittura indirizzata a un calciante. L’elogio esplicito, invece, si trova sempre all’interno dei versi, nei quali, in tre casi su quattro, affiora una sorta di sillogismo, per cui se il calcio è gioco virtuoso, e Cosimo II suo energico sostenitore, allora Cosimo II è sovrano virtuoso. Non si tratta di una formula o di una sentenza, ma di un messaggio che traspare dall’associazione tra l’elogio del gioco e il ritratto del Granduca come sovrano che onora gli atleti e promuove la pratica di un’attività nobile e utile, come ai vv. 28-36 di Per lo gioco del pallone (1618):

Non è vil meraviglia
Dal diletto crearsi giovamento;
Quinci ben si consiglia
Cosmo ne l’ozio alle bell’opre intento;
Io ben già rammento
Sul campo Eleo la gioventute Argiva
Far prova di possanza,
Et oggi godo in rimirar sembianza
Di quel valor su la Toscana riva.

Dietro l’esaltazione del calcio, o dei suoi protagonisti, uomini nobili, capaci di grandi gesta atletiche è dunque, sempre, l’omaggio a Cosimo II. I termini onore e virtù presenti nelle canzoni non devono perciò ingannare, perché i componimenti celebrano il gioco come passatempo, adatto a giovani nobili desiderosi di mostrare il proprio valore nella competizione sportiva in attesa di guadagnarsi l’onore sui campi di battaglia. E in tal senso, in apertura di Per lo gioco del pallone, il calcio è collocato proprio sotto l’egida di Marte: «Se ’l fiero Marte armato / Fremendo vien su formidabil rote, / De le rie trombe al fiato / Ogni sposa d’orror turba le gote; / Ma fulgida asta scote / La giovinezza de’ campioni altieri» (vv. 1-6); motivo circolarmente ripreso anche nei versi conclusivi: «E per ogni stagion fu visto il gioco, / Ch’a ragion si può dir gioco di Marte» (Per lo gioco del pallone, vv. 98-99).

Il parallelismo tra guerra e competizione sportiva era già di Pindaro, che nella Nemea I esaltava la Sicilia come regione cui Giove diede «Belli areis instrumentis utentis / Studiosum populum, hasta ex equo pugnantem, / Qui sape etiam foliis aureis Olimpyacarum / Olivartum se immiscuit» (vv. 23-27). Ancora una volta, tuttavia, il confronto va sfumato; come si è visto, infatti, Chiabrera riteneva il calcio un passatempo virtuoso e preparatorio alla battaglia, ma a essa non equiparabile, mentre Pindaro considerava la guerra e gli agoni «due aspetti di una stessa realtà».37 L’identificazione tra agonismo e attività bellica affonda le radici nelle narrazioni omeriche di feste e giochi sacri ai quali i soldati partecipavano come contendenti sportivi. Emblematici, per esempio, sono i giochi funebri organizzati da Achille in onore di Patroclo, durante i quali «gli atleti di ora sono i guerrieri di prima» e «portano nella gara la medesima mentalità con la quale combattono, lo stesso furore e la stessa violenza» anche se «durante la prova sportiva non possono e non debbono uccidere».38 Fuori dal mito, invece, significativo è l’esempio della società spartana, nella quale preparazione alla guerra e gare sportive erano strettamente imparentate, tanto che proprio Sparta «nell’epoca della maggior militarizzazione conquistò il più alto numero di corone olimpiche».39

Con il passare dei secoli, tuttavia, il quadro si complica, soprattutto da quando, intorno al V secolo a. C., si assiste all’avvento del professionismo. Da questo momento soldati e atleti non sono più figure sovrapponibili e i regimi di vita e di allenamento cui gli uni e gli altri sono sottoposti sono anzi considerati antitetici. Platone, per esempio, nella Repubblica, III 404a-b, biasima le abitudini alimentari degli atleti, «sonnolente e nocive alla salute», e implicitamente censura anche il tipo di preparazione, auspicando per i guardiani della città «un allenamento più raffinato» perché «come cani devono avere il sonno leggero, vista e udito acuti, e affrontare nelle campagne frequenti variazioni delle acque, degli altri cibi, del calore solare e del freddo invernale, senza che tutto questo possa minarne la salute». Al contrario, gli atleti «dormono tutta la vita, e, se si discostano anche di poco dalla dieta prestabilita, […] soffrono di gravi e violente malattie».40

Il discorso viene approfondito nelle Leggi, nelle quali Platone non tocca più il tema del professionismo, ma sottolinea la funzione fondamentale della ginnastica come strumento preparatorio alla guerra e come forma di educazione civile che determina le lodi dei virtuosi e il biasimo di chi non si dimostra tale:

non in guerra ciascuno deve esercitarsi nella guerra, ma nella vita pacifica. Ebbene ogni mese una città che possiede senno deve prestare servizi militari per non meno di un giorno, e di più, secondo che anche i magistrati lo ritengano opportuno […]. E sempre si devono escogitare insieme ai sacrifici alcuni bei divertimenti, affinché vi siano degli scontri fatti apposta per la festa, il più possibile chiaramente a imitazione delle battaglie di guerra […].
(VIII 829b-c)

E il legislatore di questi cittadini […] non legifererà forse, ordinando di fare esercitazioni militari, e precisamente quelle piccole ogni giorno senza le armi, […] mentre ordinerà di fare alcuni esercizi per così dire più grandi e più piccoli non meno di una volta al mese, e che i cittadini sostenendo combattimenti tra loro in tutta la regione, combattendo per la conquista di luoghi e per tendere agguati, e imitando la guerra in ogni suo aspetto, lottino davvero con i guantoni fatti a sfera e con armi da getto il più vicine possibile a quelle vere, usando proiettili che comportano un certo pericolo, affinché non sia del tutto privo di paura il gioco che fanno gli uni contro gli altri, ma arrechi timori e in qualche modo mostri chi è coraggioso e chi non lo è, e distribuendo correttamente agli uni onori, agli altri segni di disonore, renda tutta la città valida nel corso della vita per il vero combattimento […]?
(VIII 830d-831b)41

Fuori dalla riflessione filosofica, e in contesto più strettamente medico, i primi riferimenti alla ginnastica come strumento per preservare la salute si trovano nel De diaeta, una delle opere del Corpus Hippocraticum, che sostiene la possibilità di prevenire malattie attraverso una dieta corretta e degli esercizi fisici adeguati (lb. II, par. 61-65).42 Fu tuttavia Galeno ad ampliare e ad approfondire lo studio della ginnastica nel De sanitate tuenda, e sempre Galeno, nella Lettera a Trasibulo, fu il primo a parlare di ginnastica «veram seu legitimam», utile a mantenersi sani e in forze, in contrapposizione alla ginnastica «vitiosa», cioè all’allenamento degli atleti, considerato pericoloso per la salute.43 Tale prospettiva fu ripresa in epoca rinascimentale da Mercuriale, che proprio sulla scorta del medico romano divideva la ginnastica in tre categorie: «bellica, legitima sive medica, et vitiosa seu athletica», separando così l’esercizio fisico atto alla guerra dall’allenamento degli atleti, ed entrambi dalla ginnastica medica.44 Invero, la ginnastica militare, assente dalla classificazione di Galeno, è una categoria introdotta da Mercuriale, che ammette: «De hac gymnastica clare locutum Galenum non reperio, nisi velimus ipsum, dum legitimam celebrat, sub ea istam comprehendere, quod et ipsa bono habitui comparando incumbat, licet ad bellicam peritiam et aptitudinem cuncta sua studia dirigat».45 La considerazione sottende dunque un giudizio positivo della ginnastica militare, ritenuta da Mercuriale, in accordo con Platone, necessaria all’addestramento di uomini, donne e ragazzi affinché «in bello sese fortiter gerere et hostes propulsare et patrias tueri».46 Ben diverso, invece, il giudizio sull’allenamento degli atleti, considerato, nel solco di Ippocrate e di Galeno, «a predictis [: bellico e medico] degenerans» poiché «quaeve robori, non sanitati operam daret».47

Lungi, probabilmente, da una conoscenza approfondita della storia dell’agonismo nell’antichità, e certo disinteressato alla prospettiva medica di Mercuriale, l’aspetto tenuto in maggiore considerazione da Chiabrera, per di più in una forma idealizzata, era quello della competizione sportiva come dimostrazione di virtù, di coraggio e di abilità atletiche applicabili alla guerra, che lasciavano presagire grandi gesta da parte degli atleti destinati a cimentarsi in battaglia. Si tratta di una semplificazione dettata dal fine encomiastico, che unisce il mito di Sparta, già ripreso da Bardi e da Coresio come esempio emblematico di società che allenava giovani per avere futuri soldati virtuosi, e l’esaltazione dei campioni di influenza pindarica.

Assumendo Pindaro a principale modello, infatti, Chiabrera intendeva tessere le lodi degli atleti e del signore accostando indirettamente le partite di calcio agli antichi agoni, prescindendo anche dal carattere individuale delle competizioni panelleniche.

Oltre alla sovrapposizione idealizzata tra eroi-guerrieri e atleti, e all’impiego del mito come motivo strutturante, di piena ascendenza pindarica è lo svolgimento delle quattro canzoni, strutturate per associazione di idee, cosicché un rapido cenno apre la strada, spesso, a un grande affresco mitologico, come nel caso di Per lo gioco del pallone, in cui l’origine del calcio è fatta risalire a Ulisse:

In sul campo arenoso
Gittò [Ulisse] de l’aure averse otri gonfiati;
Indi in vista gioioso,
Così parlava a’ popoli turbati;
Non han d’Eolo i fiati
Per li regni del mar lunga fermezza;
Doman lieto, e sereno
Empierà vento a nostre vele il seno,
Et oggi di nocchier l’arte disprezza.
Di lor sì fatto è l’uso;
Ma quel che ’n voi noiando or si diletta
Eccolo qui rinchiuso:
L’avete in man; fate di lui vendetta,
[…]
Sì disse, e su quel piano
La sciocca plebe a i non intesi accenti
E con piedi, e con mano
Battea le pelli e fea balzare i venti;
Poscia le saggie menti
Spesero intorno a ciò l’ingegno e l’arte;
E quinci in ogni loco,
E per ogni stagion fu visto il gioco
(Per lo gioco del pallone, vv. 73-98)

Interessante, in questo caso, è non solo l’attribuzione di un’origine mitica al gioco, ma anche l’intreccio, già rilevato da Antonio Bongioanni, delle due tradizioni che hanno dato luogo all’immagine: quella omerica, richiamata attraverso il ricordo dei compagni di Ulisse che aprirono l’otre in cui Eolo aveva imprigionato i venti avversi (Odissea X, vv. 1-55), e probabilmente quella delle Georgiche virgiliane, la seconda delle quali ritrae una festa bacchica in cui i pastori cercano per gioco di schiacciare otri colmi di vino: «non aliam ob culpam Baccho caper omnibus aris / caeditur et veteres ineunt proscaenia ludi, / praemiaque ingeniis pagos et compita circum / Thesidae posuere, atque inter pocula laeti / mollibus in pratis unctos saluere per utres» (Georgiche II 380-384).48 Un inserto, quest’ultimo, che smorza notevolmente il tono dell’immagine epica riportando la scena entro la dimensione dei passatempi ludici. Si perde dunque la solennità omerica e, con essa, anche quella pindarica, ma affiora l’attitudine del poeta a «cogliere e far propri echi classici, al filtrarli e fonderli in una sorta di intarsio».49

In questa prima canzone (Per lo gioco del pallone) l’elogio di Cosimo risiede nel breve accenno ai già citati vv. 28-36, nei quali i calcianti sono paragonati agli atleti greci, e il giovamento cui Chiabrera accenna («Non è vil meraviglia / Dal diletto crearsi il giovamento», vv. 28-29) è la dimostrazione del valore data dai giovani che in tempo di pace si preparavano per la guerra, come sottolinea lo stesso poeta poco oltre:

Gode il teatro e lieti
S’odon gridar per meraviglia i cori;
Intanto i forti atleti
Per le trascorse vie versan sudori;
Quali armati furori
Virtù d’uomin sì destri e sì possenti
Unqua terranno a segno?
Trastullo militar, scherzo ben degno
Del saggio Re che n’arricchì le genti.
(Per lo gioco del pallone, vv. 55-63)

I «forti atleti» sono qui contrapposti agli «armati furori», dunque alle schiere di nemici che non avrebbero potuto prevalere su combattenti di tanta virtù, benché per il momento dimostrata soltanto sul campo da gioco. Il «saggio Re» è Ulisse, e da questi versi prenderà avvio la digressione sull’origine del gioco alla quale ho accennato. Le competizioni, dunque, per quanto accuratamente ricondotte a passatempo, sono insieme fonte di diletto, tanto del popolo quanto del signore, e dimostrazione di forza e abilità militare («Trastullo militar», v. 62). L’aspetto bellico, del resto, è centrale in tutta la prima canzone, aperta e chiusa, si è visto, nel nome di Marte. La competizione calcistica risulta così incorniciata entro il domino del dio della guerra, e si contrappone al godimento di «tazze e vivande» (Per lo gioco, v. 16), occupazione di una «Sviata gioventute» che, come sottolineato nella canzone Loda i giocatori, dissipa i suoi anni «’n fruir piume et agi / Et in dadi malvagi» (vv. 73-76), cioè ell’ozio e in attività immorali. È curioso, per tale aspetto, che affermazioni simili siano presenti anche in Mercuriale, ma in una prospettiva del tutto contraria, che riprende il giudizio di Plutarco secondo il quale gli atleti a causa della «gymnastica vitiosa […] ab armis delapsi sunt, contenti pro strenuis atque fortibus militibus se ipsos bonos palaestritas et athletas dici».50 Se Chiabrera pone i giovani partecipanti alle competizioni sportive in antitesi rispetto ai coetanei che si abbandonano all’ozio o a passatempi improduttivi, Mercuriale compie il procedimento opposto mettendo in relazione il professionismo nella pratica sportiva e il disinteresse per la guerra, alla quale gli atleti preferivano gli onori delle vittorie agonistiche. Da una parte, dunque, l’impegno nello sport rappresenta l’alternativa virtuosa all’indolenza, dall’altra ne è la causa pressoché diretta.

Se nel primo componimento l’elogio del calcio, e dunque di Cosimo, deriva da un paragone, nel secondo è reso attraverso un’audace sovrapposizione che ricalca i molti sottintesi pindarici. Cosimo, infatti, è ancora ritratto come promotore di competizioni paragonate ai giochi panellenici, ma allo stesso tempo si configura come illustre spettatore che desidera le lodi dei partecipanti, di fatto identificati, attraverso un notevole salto logico, con i campioni dell’antichità:

Certo rapido piede
E braccia ben possenti
E petti in travagliar non anelanti,
Animosi sembianti
E fra sudori sparsi
Essempi di destrezza,
Se merto uman s’apprezza,
Lungo l’onde d’Eurota hanno a lodarsi,
E, s’attenta rimiri,
Cosmo, Re nostro, o Clio, par che ’l desiri.
Ei le piaghe di guerra
Sa consolar co’ premi
E ne la pace i valorosi onora;
     Et oggidì […]
[…]
Non sdegna far dimora
Entro confini angusti
Di popolato agone
Ove più d’un campione
Usa sfidare in prova i più robusti,
Ciascun fatto gagliardo
Sotto i cortesi rai del regio sguardo.
(Loda i giocatori, vv. 17-39)

Il brusco passaggio dagli atleti ellenici, adombrati negli «Essempi di destrezza» apprezzabili sulle rive dell’Eurota, alla volontà di Cosimo di elogiarli (vv. 24-26) dà luogo a un’identificazione diretta e immediata dei calcianti con gli eroi antichi, chiarita nei versi successivi (vv. 30-39). Questa seconda ode, tuttavia offre anche un altro vivace esempio di sviluppo pindarico. Dai versi citati, infatti, si sviluppa il paragone tra le azioni di gioco e la tempesta generata dallo scontro tra Austro e Borea, dunque un accostamento tra gli atleti e i due venti impetuosi (vv. 40-65); segue la stanza, in parte citata, in cui il poeta denuncia la mollezza della gioventù dedita a passatempi oziosi, preferiti a «l’arte / Di vibrare asta e farsi caro a Marte» (vv. 77-91), entro la quale si inserisce il ricordo dei «duri giochi e strani», che ormai «Sembrano […] indegni di vera nobiltate». In clausola di componimento, si trova ancora una digressione su Polluce (Loda i giocatori, vv. 92-104), sigillata dal motto «Nobile è quei che nobil cose adopra» (v. 104), che ricorda, benché con un significato diverso, Pindaro, Olimpiche IV 31-32 «experientia enim / mortalium est index». La sentenza pindarica sancisce infatti la dichiarazione di sincerità della lode rivolta al campione, mentre il motto di Chiabrera definisce un concetto di nobiltà non solo di sangue ma di valori e di virtù, del tutto estraneo al poeta tebano, secondo il quale, come rilevato, e sottolineato da Castagna, «Iudicatur autem fortitudo hominum per numen divinum» (Pindaro, Istmiche V 11).51

La sentenza è un tratto caratteristico delle odi pindariche e insieme al mito adempie alla funzione politica e morale degli epinici, nei quali il connubio tra favola e gnome concretizza il messaggio rivolto dal poeta al suo pubblico.52 Sull’esempio di Pindaro, anche Chiabrera introduce almeno una sentenza in ogni componimento, sempre in concomitanza con snodi significativi o in luoghi rilevati, come nel caso citato, in cui il motto si trova in clausola dell’ultima stanza della canzone. In Per lo gioco del pallone, invece, se ne incontrano due: l’uno, «Condennato consiglio, infamia grande / Sprezzar prodezza e traviar da gli avi» (vv. 17-18), segna il passaggio dal biasimo dei passatempi oziosi alla rassegna dei virtuosi, quali le corse a cavallo, le regate e il tiro al bersaglio con il giavellotto; l’altro, «Non è vil meraviglia / Dal diletto crearsi il giovamento» (vv. 28-29), pochi versi dopo, introduce l’elogio di Cosimo. La stessa «funzione strutturale di raccordo» caratterizza le sentenze pindariche,53 ma esse ammoniscono o invitano alla riflessione su temi di carattere morale e religioso; aspetti estranei ai motti chiabrereschi, che del modello riprendono soltanto l’aspetto formale, smorzandone il tono, e assumono sfumature più simili al proverbio.

Considerando ora le due canzoni del 1619, importa rilevare, prima di tutto, che Per Cintio Venantio da Cagli vincitore ne’ giuochi del pallone celebrati in Firenze l’estate dell’anno 1619 si caratterizza per l’assenza delle digressioni mitologiche e per una diversa aderenza al modello, non più ripreso ad ampie campate, ma ricalcato più da vicino, per tratti più minuti, che implicano l’introduzione di motivi assenti dagli altri componimenti. L’altro testo, Per li giocatori di pallone in Firenze l’estate de l’anno 1619, presenta invece le caratteristiche degli antecedenti (del 1618), dunque il contesto agonistico sullo sfondo, l’encomio degli atleti e un impianto pindarico segnato da uno svolgimento non lineare, che stringe in relazione presente e passato mitologico. A differenza dei componimenti precedentemente analizzati, però, in esso si intravede anche l’eco più circoscritta di un’immagine; la necessità di trovare una pianta idonea a incoronare i campioni, per la quale il poeta si rivolge a Melpomene (Per li giocatori, vv. 11-14), che ricorda la ricerca condotta da Ercole e approdata alla scelta dell’ulivo, poi piantato in Olimpia dallo stesso eroe (Pindaro, Olimpiche III, 11-35). Nella stessa canzone si riconosce anche l’intreccio di un’altra memoria, segnalata da Bongioanni ai vv. 55-60 («Acero in selva dava caccia ad orso / Terribile, feroce, / Et ecco il piè veloce / Piantasi in terra, e gli vien meno il corso / E verdi rami gli si fer le braccia / E rozza scorza gli adombrò la faccia») nei quali lo studioso rileva il ricordo della trasformazione di Dafne nelle Metamorfosi di Ovidio tradotte dall’Anguillara: «La cinge intorno una novella scorza / Che dal capo à le piante si distende. / Crescon le braccia in rami, e ’n verdi fronde / Si spargon l’agitate chiome bionde. // Il piè veloce s’appiglia al terreno, / E con radice immobil vi si caccia» (I, st. 150-151). Si ritrova dunque la tendenza chiabreresca alla sovrapposizione di più fonti.

L’encomio di Cosimo, in questo testo (Per li giocatori), non è fondato sul carattere virtuoso della competizione, ma è reso per via più diretta e tende a esaltare la generosità del Granduca, svilendo però il senso della vittoria, celebrata da un compenso materiale. Premi in denaro erano talvolta concessi anche ai vincitori dei giochi panellenici, ma ben altri onori e risonanza avevano i trionfi degli atleti, coronati di alloro, ulivo, apio o rosmarino, secondo la competizione, come «segno modesto di una grande gloria».54 Non così nella Firenze medicea, in cui Chiabrera sminuisce anche l’omaggio offerto da Clio, la musa del canto epico: «Con picciol premio lusingando onora / La mortale fatica / Clio, che, di cetre amica, / Su le piagge febee fa sua dimora; / Ma Cosmo, la cui luce alma rischiara / D’Italia i bei sembianti, / I cui fulgidi vanti / Anco l’Invidia a reverire impara, / Di cui poggiano al ciel pensieri e voglie, / Largo de l’oro, arricchirà le foglie» (Per li giocatori, vv. 71-80). Si tratta evidentemente di un’iperbole funzionale all’elogio del Granduca, da cui emerge l’appropriazione e la ricontestualizzazione delle memorie classiche, impiegate come una sorta di grammatica poetica dalla quale attingere temi e sfondi da riutilizzare con significati nuovi. Tutta la stanza, del resto, si costituisce come ribaltamento della prospettiva antica, non solo per la corona che si arricchisce d’oro, ma anche per il ritratto dell’Invidia riverente al cospetto di Cosimo (v. 80).

Proprio il motivo dell’invidia costituisce un ulteriore tratto di memoria pindarica, ancora una volta riletto secondo una sfumatura encomiastica, lontana sia dalla definizione di «sentimento pernicioso rivolto contro l’uomo di successo, che va esorcizzato», sia dalla caratterizzazione come «importante categoria che enfatizza la lode, poiché soltanto la persona valente e ammirata è oggetto di invidia».55 In Pindaro talvolta essa sottende l’invito alla giusta misura, poiché un’eccessiva ostentazione della propria condizione e dei propri successi può portare a conseguenze funeste.56 Il tema risulta dunque del tutto capovolto in Chiabrera, che spoglia l’Invidia dei suoi tratti di pericolosità per il dedicatario della lode (l’atleta nel caso di Pindaro, Cosimo in quello di Chiabrera) al quale, invece, essa si sottomette. Ancora una volta si incontra la ripresa di un motivo puntuale, ma privato del monito di carattere morale e piegato a marcare l’elogio del Granduca.

Ancora sull’invidia si concentra la clausola dell’ultima canzone, Per Cinzio Venanzio da Cagli, che si conclude nel nome di Cosimo: «Deh che promisi? In sul formar gli accenti / Quasi cangiò sembianti, / Che darli alla bilancia delle genti / È risco a’ nuovi canti, / Ma sia vano il sospetto; / Io sulla cetra vo’ seguir mio stile. / Esser cosa non può, salvo gentile, / Ove Cosmo ha diletto: / Invidia, taci e le rie labbra serra! / Il re dell’Arno in suo piacer non erra» (vv. 61-70). A differenza di quanto rilevato in merito alla canzone Per li giocatori, in cui Chiabrera quasi capovolgeva la prospettiva pindarica, in questo caso la ripresa del motivo ne lascia intravedere alcune sfumature. Nella sentenza finale (vv. 67-70), in cui è messa in discussione la “gentilezza”, ossia, latinamente, la nobiltà del gioco, affiora il ricordo dell’invidia come sentimento che induce al biasimo dell’atleta, del quale è sminuita la vittoria, come in Pindaro, Olimpiche VI 124-127 «Vituperatio autem / Ex aliis impendet invidis, illis, / Quibus aliquando primum ad dodecimum / Cursum agitantibus eques veneranda»,57 e VIII, vv. 70-77 «Voluptas autem inter homines par erit nulla. / Si igitur ego Melesia ad gloriam / Quam adeptus est iam ab annis imberbibus, recurrerim hymno / ne patet me lapide aspero ividia. / Et apud Memeam enim similiter / Idem hoc ornamentum, / Et postea virorum pugnam / In Pancratio». Nel secondo esempio, infatti, il poeta è indotto a enumerare ulteriori successi del dedicatario per confermarlo meritevole di elogio.

Se si considerano invece i dubbi sollevati da Chiabrera sul giudizio «delle genti» (vv. 61-64) in merito all’opportunità di dedicare a un atleta versi di impronta pindarica, si può riconoscere la memoria dei luoghi in cui Pindaro protesta la veridicità delle proprie lodi contro l’invidia, come ai vv. 30-32 di Olimpiche IV, già parzialmente citati: «Non mendacio tingam / Orationem experientia enim / Mortalium est index». In clausola della canzone Per Cinzio Venanzio (vv. 67-70), infatti, Chiabrera mette a tacere l’invidia sottolineando la nobiltà delle competizioni calcistiche, certo, e per sua stessa ammissione, non paragonabili alle battaglie, ma soggetto altrettanto degno dei toni alti di Pindaro. Il tentennamento, di fatto, trova immediata soluzione nel segno dell’omaggio a Cosimo, «re dell’Arno», che può trarre diletto soltanto da «cosa gentile». Proprio in questa affermazione è il ribaltamento del primo sillogismo citato, secondo il quale Cosimo era un sovrano virtuoso in quanto promotore di un gioco virtuoso, mentre nel caso in questione il presupposto inconfutabile è rappresentato dalla nobiltà del Granduca, sovrano “gentile”, che può trarre diletto soltanto da passatempi gentili. La prospettiva, dunque, si stravolge, e lo stesso vale per il sillogismo, che muta come segue: Cosimo II è sovrano nobile, cui si addicono soltanto piaceri nobili, dunque, se Cosimo II prende diletto dal calcio, il calcio è passatempo nobile.

Ulteriore tratto che caratterizza la canzone Per Cinzio Venanzio in senso fortemente pindarico è il soggetto; non più il gioco in sé, né collettivamente tutti i giocatori, ma un singolo calciante, come i campioni di volta in volta onorati da Pindaro. A ciò si aggiunge il ritratto del poeta come viaggiatore diretto nella città in cui avranno luogo le competizioni, o in quella di origine del dedicatario, come in Olimpiche IV 1-6 «Vibrator altissime tonitrui / Pedibus infatigabilis, / Iupiter, (tua enim horae / Revolutae cum varia cithara canta / Me miserum, / Altissimorum testem certaminum».58 Il tema, estraneo ai componimenti precedentemente considerati, si trova ancora una volta restituito in tono leggero da Chiabrera, che nei versi iniziali afferma di essere troppo vecchio per intraprendere il viaggio verso Urbino, dove invia Euterpe affinché canti gli onori del campione: «Io per soverchia età piedi ho mal pronti / Sull’Alpe a far camino: / Tu muovi, Euterpe, e d’Appennin su’ monti / Ritrova il vago Urbino / Ed ivi narra come / Un bramoso d’onor germe di Cagli / In bel teatro di gentil travagli / S’inghirlandò le chiome» (Per Cinzio Venanzio, vv. 1-8). Da rilevare, al v. 7, l’ossimoro «gentil travagli», che sottolinea l’aspetto nobile (gentil) del gioco, circolarmente ribadito al già citato v. 67.

Nella seconda stanza, in cui sono enumerate le città da cui erano giunti gli atleti sconfitti dal dedicatario, il tentativo di avvicinare Pindaro non avviene con la ripresa di un luogo o di un motivo in particolare, ma attraverso la rievocazione dell’aspetto più grandioso e spettacolare delle competizioni cui erano dedicati gli epinici: il fortissimo richiamo che essi esercitavano sulla popolazione di tutta la Grecia, che ogni due o quattro anni, a seconda della competizione, partecipavano a vario titolo ai giochi. Di impronta pindarica è anche la sentenza ai vv. 51-54 «Cinzio, sentier di desiata gloria / Ha passi gravi e forti, / Ma pena di virtù, siati in memoria, / Non è senza conforti», con cui il poeta dopo la digressione sugli sfidanti di Cinzio, sui frangenti del gioco e, ancora, sulla contrapposizione tra passatempi oziosi e la competizione calcistica, riprende l’elogio del campione, che sarà ricompensato con «l’acqua celeste» di «Pindo», ossia il canto che ne eternerà le gesta (Per Cinzio Venanzio, v. 60). Fortemente ancorata al presente del poeta è proprio la denuncia dei passatempi immorali, già espressa nella canzone Loda i giocatori (v. 76), peraltro con lo stesso cenno ai «dadi malvagi», ancora contrapposti ai «guerrieri affanni».

Il tema di memoria pindarica, quale può definirsi la competizione calcistica, per quanto corale e non individuale, dà luogo a componimenti che di Pindaro recano per lo più echi distanti, più strutturali che tematici, con rare tessere puntuali, che tuttavia richiamano costantemente lo sfondo delle antiche competizioni. Per contro, l’elogio di Cosimo risiede proprio nella sovrapposizione tra le gare dell’antichità e le manifestazioni coeve, cui l’attribuzione, reale o fittizia, di significati che trascendono il mero fine ludico, implica la trasposizione di quegli stessi valori a colui che ne ha promosso lo svolgimento. Così, la celebrazione del gioco diventa elogio del sovrano virtuoso, ispirato dai grandi esempi del passato, in contrasto con un presente in decadenza, rappresentato dalle attività oziose e malvagie sempre più diffuse tra i giovani nobili. L’antichità, tra storia e leggenda, entra nelle quattro canzoni chiabreresche non diversamente dall’esempio di Pindaro, ossia come ricco dizionario da cui il poeta attinge immagini, scene e paragoni, talvolta topici, entrati nell’immaginario collettivo e perciò capaci di rievocare immediatamente ideali eroici di grandezza e di virtù.

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1 Nicola Merola, Chiabrera, Gabriello, in DBI, vol. 24 (1980), p. 468.

2 Il testo di Frescobaldi, Volendo seguitare il mio disegno, si legge in due codici manoscritti conservati rispettivamente alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, C 35 sup., e alla Biblioteca Venturi Ginori Lisci di Firenze, ms. 3 (seg. ant. 374); le ottave anonime, intitolate La palla al calcio, in un codice manoscritto conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze, ms. Magliabechiano VII, 1034. Un confronto tra i due componimenti è in Matteo Bosisio, Molto più di un gioco. Il calcio storico fiorentino nella letteratura tra Quattro e Cinquecento, in «Griseldaonline», 17 (2018), pp. 1-21, alle pp. 8-18.

3 M. Bosisio, Molto più di un gioco, cit., p. 10.

4 Ivi, pp. 14-15.

5 Ivi, p. 13.

6 Istorie della città di Firenze di Iacopo Nardi, pubblicate a cura di Agenore Gelli, Firenze, Le Monnier, 1858, vol. I, p. 21. Sull’importanza del calcio fiorentino negli anni del principato mediceo, vd. Horst Bredekamp, Calcio fiorentino: il Rinascimento dei giochi, Genova, Il Melangolo, 1995, passim.

7 H. Bredekamp, Calcio Fiorentino, cit. p. 44.

8 Ivi, p. 47. Lo stesso Ferdinando compare come giocatore della squadra dei Turchini opposta agli Incarnatini nella prima delle Liste di gentiluomini giocatori al calcio sulla piazza di S. Croce, e operanti in altre pubbliche funzioni presenti nel ms. Riccardiano 2480, segnalatemi dal professor Massimo Danzi che ringrazio. Nessuno degli elenchi è datato, quindi non è possibile chiarire le occasioni in cui furono organizzate le partite, ma la presenza di diversi nomi di famiglie illustri, tra cui Rinuccini, Salviati, Ginori, Riccardi, Strozzi, Capponi, Piccolomini, Guicciardini, Ricasoli per citarne soltanto alcuni, testimonia lo schieramento sul campo da gioco degli esponenti dell’alta società cittadina, alcuni dei quali pare che prendessero regolarmente parte alle competizioni (il nome di Neri Capponi, per esempio, compare in quasi tutti gli elenchi).

9 Tutti i trionfi, carri, mascherate o canti carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del Magnifico Lorenzo vecchio de Medici quando egli ebbero prima cominciamento, per infino a questo anno presente 1559, Firenze, [Lorenzo Torrentino], 1559. Cfr. la voce di Isabella Innamorati, Dell’Ottonaio Giovanni Battista, detto l’Araldo, in DBI, vol. 38 (1990).

10 Franco Pignatti, Antonfrancesco Grazzini. Capitolo sul gioco del pallone, in «Ludica», XV-XVI (2009-2010), pp. 167-172.

11 M. Bosisio, Molto più di un gioco, cit., p. 3.

12 Discorso sopra il giuoco del calcio fiorentino del Puro Accademico Alterato, Firenze, Giunti, 1580.

13 M. Bosisio, Molto più di un gioco, cit. p. 2. Anche la prima edizione del Vocabolario della Crusca del 1612 definiva il calcio un «giuoco, proprio, e antico della Città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata, con una palla a vento, rassomigliantesi alla sferomachía, passato da’ Greci a’ Latini, e da’ Latini a noi. Lat. harpastum» (Vocabolario degli Accademici della Crusca, Venezia, Alberti, 1612, a. v.); cfr. Luciano Artusi, Il calcio in livrea: origine, arte e storia del gioco fiorentino, foto di Giovanni Rodella, Treviso, Zeta, 2004, p. 17.

14 Così si è espresso Franco Pignatti, Antonfrancesco Grazzini, cit., p. 169, in merito al trattato del Bardi.

15 Discorso sopra il giuoco del calcio, cit., p. 6; poco prima, infatti, Bardi aveva sottolineato che «questo [: il gioco della palla] solo pone Omero avere quegli Heroi giuocato» (Ivi, p. 5).

16 Ivi, p. 6.

17 Ivi, pp. 7-8.

18 Girolamo Mercuriale, De arte gymnastica V, IV 33-35. Si cita sempre da Girolamo Mercuriale, De arte gymnastica, edizione critica a cura di Concetta Pennuto, traduzione inglese a fronte di Vivian Nutton, in Id., De arte gymnastica, Firenze, Olschki, 2008, pp. 2-772.

19 Guillaume du Choul, Discorso de bagni et essercitii antichi de greci et de Romani, in Discorso sopra la castramentatione, et disciplina militare de romani, composto per il S. Guglielmo Choul, Gentilhomo Lionese, Consigliero del Re, et Presidente delle Montagne del Delfinato, con i Bagni, et essercitij antichi de Greci, et Romani, et tradotto in lingua Toscana per M. Gabriel Symeoni, a Lione, appresso Guglielmo Rovillio, 1556.

20 Ivi, p. 37.

21 Jean-Michel Agasse, Girolamo Mercuriale – Humanism and physical culture in the Renaissance, in G. Mercuriale, De arte gymnastica, cit., pp. 863-1110, a p. 863.

22 Ivi, p. 919.

23 Cfr. Descrizione delle feste fatte nelle reali nozze de’ serenissimi principi di Toscana D. Cosimo de’ Medici e Maria Maddalena Arciduchessa d’Austria, in Firenze, appresso i Giunti, 1608, e H. Bredekamp, Calcio Fiorentino, cit., pp. 48-49.

24 Di seguito il titolo in greco: Διήγησις τοῦ κλεινοῦ ἀγῶνος τῶν Φλορεντινῶν, διὰ στίχων, ὅσος παρἑκείνοις μὲν κάλτζιον, παρὰ δὲ τοῖς ἁρχαίοις καλεῖται ἁρπάστον, ποιηθεῖσα παρὰ Γεοργίου Κορεσσίου τοῦ Χίου. Il componimento sarà poi tradotto in endecasillabi sciolti da Antonio Maria Salvini e pubblicato nel 1688 con il titolo Descrizione in versi del nobil giuoco de’ Fiorentini, che da loro Calcio si chiama, e dagli antichi Harpaston nelle Memorie del calcio fiorentino tratte da diverse scritture e dedicate all’altezze serenissime di Ferdinando principe di Toscana e Violante Beatrice di Baviera curate da Pietro di Lorenzo Bini (Firenze, S. A. S.), alle pp. 65-76. Il testo italiano si può leggere anche in L. Artusi, Il calcio in livrea, cit., pp. 52-57.

25 Il testo della Narratio inclyti certaminis Florentinorum di Coresio si cita sempre dalla versione latina dello stesso autore nell’edizione Narratio inclyti certaminis Florentinorum graecis versibus, quod apud illos calcio apud antiquos vero Arpastum appellatur facta a D. Georgio Coresio Chiensi, nobili Bisantino linguae Grecae in sapientissimo Pisarum Gymnasio professori, Venezia, Pinelli, 1611.

26 Discorso sopra il giuoco del calcio, cit., p. 35

27 Ivi, pp. 3-4.

28 Alexandro Farnesio Cardinali Hyeronymus Mercurialis felicitatem, in G. Mercuriale, De arte gymnastica, cit., pp. 781-784, a p. 783, e cfr. J-M. Agasse, Girolamo Mercuriale, cit., p. 864.

29 Se non diversamente indicato i componimenti di Chiabrera si citano sempre da Gabriello Chiabrera, Opera lirica, a cura di Andrea Donnini, voll. 5, Genova, RES, 2005.

30 Ivi, vol. I, p. 1. Sul pindarismo di Chiabrera, dopo i precoci studi di Ferdinando Neri, si veda almeno Luigi Castagna, Pindaro, le origini del pindarismo e Gabriello Chiabrera, in «Aevum», a. 65, fasc. 3 (settembre-dicembre 1991), pp. 523-542.

31 La citazione è da Privitera, Introduzione, in Pindaro, Le Istmiche, a cura di Giuseppe Aurelio Privitera, 5a edizione, Milano, Mondadori, 2009, p. XIII, ma vd. anche Bruno Gentili, Introduzione, in Pindaro, Le Olimpiche, introduzione, testo critico e traduzione di B. Gentili, commento a cura di Carmine Catenacci, Pietro Giannini e Liliana Lomiento, Milano, Mondadori, 2013, p. XXIV e Paola Angeli Bernardini, Il soldato e l’atleta. Guerra e sport nella Grecia antica, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 204-229.

32 Maria Cannatà Fera, Introduzione, in Pindaro, Le Nemee, a cura di M. Cannatà Fera, Milano, Mondadori, 2020, p. XVI.

33 Francesco Luigi Mannucci, La lirica di Gabriello Chiabrera. Storia e caratteri, Napoli-Genova-Città di Castello, Società anonima editrice Francesco Perrella, 1925, p. 76.

34 Cfr. B. Gentili, Introduzione, in Pindaro, Le Pitiche, introduzione, testo critico e traduzione di B. Gentili, commento a cura di Paola Angeli Bernardini, Ettore Cingano e Pietro Giannini, Milano, Mondadori, 2000, pp. XVI-XVIII.

35 B. Gentili, Introduzione, in Pindaro, Le Olimpiche, cit., p. XXI.

36 Canzoni di Gabriello Chiabrera per le galere della Religione di S. Stefano. Al Serenissimo G. Duca di Toscana Cosmo Secondo, Firenze, Zanobi e Pignoni, 1619; cfr. F. L. Mannucci, La lirica, cit., pp. 73-74. Il libretto raccoglie dodici canzoni riferite a episodi diversi che videro coinvolti i Cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano tra il 1602 e il 1617, periodo in cui al comando della flotta era il volterrano Iacopo Inghirami. Sulla storia delle flotte stefanine, vd. Gino Guarnieri, I Cavalieri di Santo Stefano nella storia della Marina italiana (1562-1859), 3a edizione, Pisa, Nistri-Lischi, 1960, del quale mi sono avvalsa per circoscrivere le date di composizione delle canzoni.

37 M. Cannatà Fera, Commento a Pindaro, Le Nemee, cit., p. 270, n. 16-18. Pindaro si cita sempre dalla traduzione latina di Henri Estienne, dall’edizione Carminum poetarum novem, lyricae poeseos principium fragmenta, cum Latina interpretatione, partim soluta oratione, partim carmine, editio II, multis versibus ad calcem adjectis locupletata, s. l., Excudebat Henr. Stephanus, illustris viri Huldrichi Fuggeri typographus, 1566 individuata da Mannucci (La lirica, cit., pp. 61-65) come l’edizione di cui Chiabrera, che non conosceva il greco, si avvalse per leggere i lirici. Sulla questione, vd. anche L. Castagna, Pindaro, cit., pp. 528-530.

38 P. Angeli Bernardini, Il soldato e l’atleta, cit. p. 16.

39 Ivi, p. 14.

40 Platone, La Repubblica, a cura di Mario Vegetti, Milano, Rizzoli, 2006.

41 Platone, Le leggi, introduzione di Franco Ferrari, traduzione di Franco Ferrari e Silvia Poli, Milano, Rizzoli, 2005.

42 Hippocrate, Du régime, texte établi et traduit par Robert Joly, Paris, Les Belles Lettres, 1967.

43 Galeni ad Thrasybulum liber, utrum medicinae sit an gymnastices hygieine, in Claudii Galeni Opera omnia, editionem curavit Carl Gottlob Kühn, t. 22, Lipsiae, Car. Cnoblochii, 1821-1833, t. 5, pp. 806-898, in particolare i par. 10-11 (pp. 821-824) e 35-37 (pp. 872-879); e cfr. G. Mercuriale, De arte gymnastica I, XIII 15.

44 De arte gymnastica I, XIII 20-29. L’avversione di Mercuriale per l’allenamento finalizzato alle competizioni sportive, e le sue ragioni, sono espresse nel capitolo De vitiosa Gymnastica sive athletica, ivi, pp. 177-185.

45 De arte gymnastica I, XIII 51-54.

46 Ivi, I, XIII 30-32.

47 Ivi, I, XIII 119-120. E nel capitolo successivo Mercuriale ricorda che già Ippocrate censurava l’«habitus athletarum veluti periculosos maximisque aegritudinibus obnoxios» (Ivi, I, XIV 23).

48 Cfr. Antonio Bongioanni, Gli scrittori del giuoco della palla. Ricerche e discussioni letterarie, Torino, Loescher, 1907, pp. 155-156, prima indagine sul tema del gioco della palla in letteratura, dall’antichità classica alla tradizione italiana. Le Georigiche si citano da Virgilio, Georgiche, Introduzione di Gian Biagio Conte, testo traduzione e note a cura di Alessandro Barchesi, Milano, Mondadori, 1980.

49 L. Castagna, Pindaro, cit., p. 541.

50 De arte gymnastica I, XIV 26-29 e cfr. la nota relativa che identifica la fonte in Plutarco, Questioni romane 40, ripreso da Mercuriale quasi alla lettera (corsivo mio): «i Romani […] credono che per il Greci nulla è stato causa di servitù e di mollezza come i ginnasi e le palestre, in quanto ingenerano molta dissipazione e ozio nelle città e perdita di tempo, nonché la pederastia e la rovina fisica dei giovani con sonno, passeggiate, movimenti ritmici, pasti rigorosamente determinati. Perciò senz’accorgersene hanno perso interesse per le armi e si sono accontentati di essere chiamati abili come ginnasti e lottatori anziché validi come soldati e cavalleggeri» (Plutarco, Questioni romane, a cura di Nino Marinone, prefazione di John Scheid, Milano, Rizzoli, 2007), p. 107.

51 Cfr. L. Castagna, Pindaro, cit., pp. 529-530.

52 Cfr. B. Gentili, Introduzione, in Pindaro, Le Pitiche, cit., pp. XIV-XVIII.

53 Gentili, Introduzione a Olimpica VIII, in Pindaro, Le Olimpiche, cit., p. 200; cfr. per esempio, Olimpica VIII.

54 G.A. Privitera, Introduzione, cit., p. XIX.

55 Cfr. B. Gentili, commento a Pindaro, Le Olimpiche, cit., I 47, p. 372. Si consideri inoltre la sentenza di Pitiche XI 45-46 «Sustinet enim opulentia non minorem, invidiam. / Qui autem humilia aspirat, obscure fremit» (cfr. B. Gentili, Introduzione a Pindaro, Le Pitiche, cit., p. LVII).

56 In proposito vd. Pindaro, Le Pitiche XI e relativa introduzione.

57 Cfr. B. Gentili, commento a Pindaro, Le Olimpiche, cit., VI 125, p. 464, n. 74-75/76.

58 Gli esempi sono moltissimi, registrati da Carlo Odo Pavese, I temi e i motivi della lirica ellenica, introduzione, analisi e indice semantematici, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1997, pp. 257-258.