Revue Italique

Ricezione dei classici

OJ-italique-941

Tradurre «per ischerzo»: sull’Eneide del Caro nella storia dei volgarizzamenti virgiliani

Paola Cosentino

Nella lettera datata 14 settembre 1565 e presumibilmente diretta al Varchi in quel momento a Firenze, dopo aver fatto allusione a un possibile incontro nella città di «Viterbo o a Bagnarea»,1 Annibal Caro dichiara di aver tradotto i «libri di Virgilio», ricorrendo non all’«ottava rima», ma ai «versi sciolti».2 Il valore documentario dell’epistola è assai noto: essa testimonia l’avvenuta versione volgare, «cominciata per ischerzo», dei primi dieci libri dell’Eneide e, insieme, consente di «far conoscere […] la ricchezza e la capacità di questa lingua, contra l’opinion di quelli che asseriscono che non può aver poema eroico, né arte, né voci da esplicar concetti poetici, che non sono pochi che lo credono».3

Della versione dell’Eneide Annibale aveva già dato notizia all’Anguillara, nell’aprile del 1564: ringraziandolo per il dono dei primi due libri del poema virgiliano in ottave, il Caro ipotizzava, come «ricompensa», l’invio «d’un’altra traduzione di fino a quattro libri del medesimo Virgilio, che ancor io per una certa mia prova mi trovo aver fatta in versi sciolti».4 Lo scrittore è consapevole di aver intentato un’operazione apparentemente ancillare, che nasce dalla rinuncia alla redazione di un poema originale e, di conseguenza, dalla volontà di cimentarsi con una trasposizione da una lingua all’altra. Il lavoro sembra coinvolgerlo fino a un certo punto, tanto che, scrivendo qualche tempo dopo a Bernardino Bianchi (la lettera è del 30 marzo 1566: Caro annuncia che l’opera è quasi finita), potrà dire: «se traduco Vergilio è per trattenimento de lo scioperio piuttosto che per impresa. Vi sono entrato per caso, e ho perseverato non volendo».5 E, tuttavia, quanto ha ribadito rivolgendosi al Varchi sulla necessità di dimostrare la maturità ormai raggiunta dalla lingua volgare, merita un sovrappiù di attenzione: chi sono, infatti, coloro che affermano «che [ella] non può avere poema eroico»? Si tratterà, in prima battuta, di ricostruire il contesto, anche per cogliere a pieno il senso di un’affermazione che sembra essere una vera e propria dichiarazione di poetica.6 Sullo sfondo, possiamo riconoscere alcune considerazioni fatte dal Varchi stesso nella sua terza lezione accademica intitolata Del verso eroico toscano (1553). A chi sosteneva che la poesia volgare non solo «non ha poeti eroici infino a qui avuto mai», ma anche «per l’avvenire ancora [non] può averne»,7 lamentando pure la mancanza di un verso come l’esametro, l’autore dell’Ercolano rispondeva che «i Toscani più tosto abbondano ne’ versi eroici», avendo a disposizione ben tre «maniere» di versificazione.8 Anche da questa testimonianza, ove è evidente l’apertura di credito concessa alla lingua toscana, ricaviamo un dato importante, che certo autorizza a dare un peso diverso alle osservazioni del Caro, sceso nell’agone per restituire dignità a una lingua ormai capace di rivaleggiare con i modelli del passato.

Sono anni significativi, questi, strettamente connessi a un cambiamento di gusto e di prospettiva: l’Eneide costituisce, di fatto, una voce altra rispetto a quanto sta accadendo sul fronte epico-cavalleresco. Una voce che prende vita dalla scelta di confrontarsi con un capolavoro, reinterpretato alla luce di una nuova sensibilità e tradotto in quegli sciolti cui si erano affidati soprattutto i poeti tragici e didascalici d’area fiorentina, i primi, sulla scorta della Sofonisba del Trissino, i secondi, ovvero Alamanni e Rucellai, impegnati a trasferire, in lingua e versi moderni, la Georgica di Virgilio.

Alla definitiva affermazione del Furioso era seguita, all’incirca alla metà del secolo, la capillare diffusione della Poetica aristotelica, tradotta in volgare da Bernardo Segni nel 1549 e poi più volte fatta oggetto di analisi da parte di diversi, e attrezzatissimi, commentatori, dal Robortello (1548) al Piccolomini (1575): se il modello ariostesco veniva sottoposto a una serie di critiche fondate sulla mancanza di verosimiglianza, sull’assenza di unità (rispetto all’azione), sul relativismo programmatico, d’altro canto si riaffermava il valore dei poemi antichi, in primo luogo dell’epopea omerica e virgiliana.9 Su questa strada si era collocato Gian Giorgio Trissino, autore di un’Italia liberata dai Goti che aveva fatto proprie le istanze classicheggianti legate al recupero del verso sciolto, alla scelta di un argomento storico (la guerra dei Bizantini contro i barbari) e alla diretta imitazione dell’Iliade omerica. Il poema, edito nel 1548, è collocabile all’interno di un progetto ben preciso che aveva visto il vicentino muoversi sul doppio fronte della sperimentazione metrica e di un realismo più vicino alla letteratura greca che a quella latina: dalla Sofonisba (1524) fino alla pubblicazione di una Poetica in sei libri (1562) lo scrittore veneto aveva perseguito con tenacia un progetto di rilancio della tradizione ellenica atto a potenziare, in un confronto costante con l’antico, la lingua volgare. Ebbene, proprio contro l’Italia liberata si era scagliato il Giraldi Cinzio, che, dal canto suo, insieme col Pigna, aveva rilanciato il Furioso quale grande classico contemporaneo, erede dell’Odissea, ma anche delle Metamorfosi ovidiane, in virtù della straordinaria varietas narrativa esibita. Del poema trissiniano spiaceva, fra l’altro, il ricorso a un verso sciolto che, pur sforzandosi di emulare l’esametro dei modelli non riusciva a competere con la composta misura dell’ottava cavalleresca.

Secondo Stefano Jossa,10 il 1554 segna un preciso discrimine nella storia del poema cinquecentesco: superata la diatriba fra romanzo d’ascendenza ariostesca ed epos di imitazione omerica, sembra infatti affermarsi un genere nuovo, il poema eroico, il cui atto di fondazione è costituito dall’Ercole del Giraldi Cinzio uscito nel 1557. Molto vivaci sono le discussioni teoriche di questo periodo, capaci di coinvolgere i maggiori intellettuali del momento: oltre al Giraldi e al Pigna, si distinguono il Molza, lo Speroni, i due Tasso. A una narrazione che trae la sua linfa dalla molteplicità delle azioni e dei punti di vista (il Furioso) si oppone un poema storico, di materia prevalentemente bellica, e basato su un personaggio emblematico, le cui avventure possono sostanzialmente fungere da exempla morali. Le posizioni dei diversi critici sono assai varie: se Giraldi, nel Discorso, cerca di mediare fra le diverse linee individuate, è forse il Pigna autore de I romanzi ad approfondire la differenza esistente fra antichi e moderni e quindi ad affidare a un nuovo trattato, Gli Eroici, la definizione di un poema capace di superare insieme le due tradizioni, quella classica e quella romanza. Nella direzione di un epos incentrato sulle imprese di un solo protagonista (a fronte dell’epica omerica e collettiva del Trissino) si muovono quindi, oltre all’Ercole del Giraldi, il Costante del Bolognetti (1565) e i poemi dell’Alamanni, il quale, offrendo al pubblico francese prima il Gyrone il Cortese (1548) e poi l’Avarchide (1570, postuma), aveva provato a rispondere alle esigenze di rinnovamento messe in campo dalla riscoperta della Poetica. Sul fronte del romanzesco, ma corretto in senso eroico, si colloca invece l’Amadigi di Bernardo Tasso (1560), per il quale il Dolce spende parole particolarmente interessanti, riconoscendo il valore di una tradizione (quella volgare) sí vincolata all’imitazione dei classici, ma pure libera di compiacere i lettori:

Dico adunque che, se coloro che tengono sempre in mano le bilance d’Aristotile, et hanno tutto dì in bocca gli essempi di Virgilio e di Homero, considerassero la qualità de’ tempi presenti, e la diversità delle lingue, e vedessero ch’a la prudenza del Poeta si conviene l’accomodarsi alla dilettatione […] non sarebbono d’openione che si dovesse scriver sempre ad un modo.11

All’altezza dell’anno di pubblicazione dell’Amadigi, tuttavia, e nonostante i diversi tentativi favoriti dall’impegno teorico, il poema eroico volgare, capace di rinnovare i fasti dell’epica antica, non aveva ancora trovato la sua strada.12 Per questo, credo sia assai significativo il passaggio della lettera del Caro citato in esordio, ove l’autore manifesta l’intenzione di misurarsi con il capolavoro virgiliano, e in polemica esplicita con quanti non reputavano il volgare adeguato a un compito tanto arduo.13 Un’ipotesi recente vuole che Annibale risponda, qui, a Bartolomeo Piccolomini,14 il quale, nella dedicatoria ad Aurelia Petrucci premessa alla sua traduzione del IV libro dell’Eneide, giustificava le mancanze della sua iniziativa («e forse parrà che la tradottione mia non arrivi alla fama, et alla qualità di Vergilio») con le difficoltà manifeste del linguaggio insieme con i limiti del versificatore («sarà o per essere veramente impossibile d’arrivarvi con questa lingua, o per non haver io saputo degnamente tradorlo»).15 È però più probabile che l’autore degli Straccioni dialoghi con i suoi contemporanei, impegnati a definire le caratteristiche di un nuovo genere e quindi a mettere l’accento sulle possibili lacune della lingua come del verso prescelto. Anche sulla scia di quanto aveva affermato Girolamo Muzio nel primo libro della sua Arte poetica del 1551, quando aveva sottolineato l’assenza di un poema eroico («né fino ad ora la tromba di Marte / post’ha la bocca alcun con pieno spirto»), capace di raccontare la guerra e non «di dilettar le femine e la plebe».16 Nel 1559, poi, Francesco Patrizi aveva dato alle stampe il suo Eridano, poemetto «in nuovo verso» accompagnato da uno scritto teorico nel quale lo scrittore di Cherso dichiarava che, «nel luogo dell’eroico», non era ancora stato trovato un metro idoneo, in grado di «cantare le cose gravi e i fatti degli uomini illustri».17 Di qui, la sua proposta prosodica, quella «riproduzione in toscano dell’esametro classico»18 che rispondeva alla ricerca indefessa di un verso capace di emulare l’antico tipica della seconda metà del secolo.

All’interno di questo panorama che appartiene, all’incirca, a quegli anni ’60 in cui il Caro poneva mano alla sua Eneide, s’intrecciano quindi differenti linee interpretative, utili a spiegare (anche se non del tutto) il senso del riferimento al poema eroico e, al contempo, l’impegno assunto da un intellettuale capace di confrontarsi con un grande modello antico, ove si potevano facilmente rinvenire tutti gli elementi ritenuti ormai indispensabili a un epos moderno.

Dal 1563, dopo aver lasciato il servizio presso il cardinale Farnese, il Caro si era ritirato nella sua dimora di Caravilla, nei dintorni Frascati.19 Suo intento precipuo era quello di dedicarsi agli otia da tempo vagheggiati, che, come attestano alcune lettere,20 potevano consentirgli di pubblicare agevolmente i suoi diversi lavori. Fra i quali possiamo annoverare i numerosi esperimenti di traduzione che aveva realizzato in gioventù, durante il suo difficile apprendistato letterario: dalla Retorica di Aristotele, stampata postuma nel 1570, fino alla versione assai libera degli Amori pastorali di Dafne e Cloe risalente al 1538 (passando per la parafrasi del I idillio di Teocrito datato 1534),21 lo scrittore si era impegnato in una serie di esercizi che possiamo considerare preparatori alla grande impresa dell’Eneide volgare. Agli esordi, il Caro si era confrontato con il latino – volgendo in italiano la prima delle lettere di Cicerone al fratello Quinto –, ma soprattutto con il greco, dimostrando una capacità di dialogo con i classici che sarà appunto alla base della traduzione virgiliana: nonostante i risultati non sempre eccellenti, il rapporto con la poesia antica si pone fin dall’inizio sotto l’egida dell’emulazione che autorizza, quindi, una libera interpretazione del testo di partenza. Pure, l’impegno sul poema di Virgilio si allontana decisamente dalle traduzioni in ottave che si erano susseguite nel corso della seconda metà del secolo e mette alla prova un volgare che si dimostra assai maturo, capace com’è di affrontare qualsivoglia genere letterario. Riscrivendo quindi l’originale, il traduttore fa uso di una lingua messa al servizio dell’attualizzazione dell’opera e ricorre a un metro che garantisce, nel discorso, la necessaria continuità narrativa. Nell’elaborazione teorica di questa scelta non possiamo poi non tener conto dell’esperienza dei Versi, et regole della nuova poesia toscana cioè del programma messo in atto da Claudio Tolomei all’interno della pubblicazione del 1539, alla quale prese parte il Caro stesso: la scelta nei confronti della cosiddetta metrica “barbara” pare essere un vero e proprio preludio alla scelta di un verso atto a trasferire, in volgare, l’antico esametro latino, poi recuperato, in ossequio alla tradizione italiana, attraverso l’uso dell’endecasillabo sciolto.22

Annibal Caro si misura con una tradizione assai ampia, legata alle versioni di Virgilio che si intensificarono a partire dagli anni ’40, soprattutto grazie all’operato congiunto di stamperie e poligrafi: esperimenti irrelati o raccolte di volgarizzamenti di uno o più libri dell’Eneide, questi esercizi di traduzione, talvolta in versi sciolti oppure in ottave, costituiscono un bacino cui il Caro guardò senz’altro.23 Nota è, ad esempio, l’impresa condotta dal cardinale Ippolito de’ Medici sul II libro del poema, oggetto d’una pubblicazione autonoma (nel 1538, presso l’editore romano Antonio Blado, in seguito ripresa da diversi editori) poi inserita nella silloge intitolata Sei primi libri de l’Eneide di Vergilio tradotti à più illustre et honorate Donne (Venezia, Comin da Trino, 1540) e concepita all’interno del circuito degli Intronati di Siena.24 Sei i «gentilhuomini» autori delle traduzioni e sei le dedicatarie, cui vengono proposti una serie di modelli comportamentali appunto ricavabili dall’archetipo virgiliano. La versione volgare di ogni libro è dunque collocata entro una vera e propria cornice, che apparenta questa operazione editoriale a numerose raccolte cinquecentesche e mette in scena in primo luogo un dialogo con le illustri donne menzionate.25

All’interno del contesto fiorentino, tuttavia, si era già mosso in direzione virgiliana non solo il Pazzi de’ Medici autore della Dido in Cartagine in dodecasillabi, ma anche un altro dei tragediografi ellenizzanti, quel Ludovico Martelli, morto giovane e celebrato con grandi elogi dal Varchi, che aveva tentato la strada della traduzione, volgarizzando il libro di Didone pubblicato, insieme alle sue altre opere, nel 1548. Inoltre, proprio l’esperimento destinato alle donne veniva rilanciato da una nuova iniziativa editoriale: nel 1556 usciva, presso i Giunti di Firenze, la raccolta delle Opere di Vergilio cioè la Bucolica, la Georgica, et l’Eneida, nuovamente da diversi eccellentissimi auttori tradotte in versi sciolti, curata da Ludovico Domenichi, che comprendeva pure alcune delle traduzioni antologizzate nella precedente raccolta, qui rivolta a un pubblico più ampio, non soltanto femminile.26 Sono infatti chiamati in causa quei nobiluomini che erano in grado di apprezzare le capacità del volgare nel momento in cui si confrontava con un capolavoro del passato: così, presentando solo l’argomento del libro, Tommaso Porcacchi si rivolgeva a Sigismondo d’Este (per il V), Bernardino Daniello a Bernardo Zane (per l’XI) e Paolo Mini a Pier Filippo Ridolfi (XII). Un caso a sé, sul quale torneremo, è costituito dal IX libro, tradotto dal vescovo di Arezzo Bernadetto Minerbetti e sottoposto all’attenzione, con tanto di epistola dedicatoria – l’unica, appunto, della silloge –, di Benedetto Varchi.27

Il momento d’arrivo di questa stagione, e nonostante i precedenti in sciolti, è però il primo, vero corpo a corpo con l’intero poema virgiliano, divenuto, grazie ai buoni offici di Aldobrando Cerretani, l’Eneida in Toscano (Firenze, Torrentino, 1560):28 l’ottava è il metro prescelto, dal momento che l’autore guarda al modello volgare più in auge in quel momento, il Furioso. A fronte della brevitas linguistica e quindi dell’inarrivabile concisione del modello, il poema virgiliano veniva riscritto, dilatato, talvolta smembrato e ricomposto per favorire la rima: l’attualizzazione, spesso a scopo didattico, incoraggiava l’abbellimento del discorso, anche a discapito delle avventure narrate. La princeps dell’Eneide cariana, edita postuma a Venezia, presso Bernardo Giunti (1581), segna tuttavia un punto di non ritorno: dedicata dal nipote Lepido Caro al cardinale Alessandro Farnese, essa viene presentata come l’estremo «frutto dell’ingegno» del poeta, bisognoso di favore e protezione, dal momento che usciva «in Theatro con habiti diversi da quelli, che da Virgilio li furono lasciati», e poteva «haver bisogno d’introduttione et di difesa» (cc. 2-4rv). Alla prima pubblicazione seguiranno l’edizione mantovana del 1586 (presso Francesco Osanna) e quella, ancora presso i Giunti veneziani, del 1592: diverse saranno poi le stampe seicentesche che ci danno, evidentemente, la misura della discreta fortuna dell’opera.29 Guardando a ritroso, una testimonianza assai significativa del lavoro del Caro è il manoscritto conservato alla Laurenziana di Firenze (Ash 410, 1-2) che presenta numerose correzioni autografe, solo in parte introdotte all’interno della prima pubblicazione. Rilevante appare inoltre una miscellanea poetica conservata a Venezia (si tratta del codice Marciano IX 144) che tramanda i primi cento-cinquanta versi dell’Eneide cariana collocabili in una posizione intermedia fra il codice laurenziano e la stampa veneziana.30

Nella storia dei volgarizzamenti come dei rifacimenti dei classici il rapporto con la fonte ha sempre tenuto conto di due prospettive: da un lato, quella della traduzione di tipo mimetico, legata a una restituzione fedele al testo di partenza, dall’altro, quella legata a un’interpretazione più libera, capace di modernizzare la fonte antica. Difficile stabilire il confine esistente fra queste due modalità di approccio alla tradizione greco-latina: sul fronte dell’epos, del resto, l’oscillazione è affidata soprattutto alla forma metrica prescelta poiché, se da un lato la stanza narrativa costituisce una struttura autorizzata dalla recente esperienza del romanzo cavalleresco, dall’altro, il verso sciolto veicola quella continuità di dettato che appartiene all’esametro dei poemi di Omero e Virgilio. A quest’ultimo si rifà il Caro, la cui versione volgare dell’opera di Virgilio tende a rispettare la struttura dell’archetipo e ad offrire al lettore un’amplificazione che tende alla spiegazione e al commento dei fatti raccontati.31 Sulla sponda opposta, sarà da tener conto, oltre che dell’Eneida del Cerretani, anche del rifacimento in ottave dei due primi libri del poema ridotti dall’Anguillara, interlocutore proprio del Caro, (libri datati 1564-1566) e poi delle due riscritture firmate dal Dolce, L’Enea e L’Achille e l’Enea (editi postumi fra il 1568 e il 1570) che rappresentano un nuovo scarto, tutto orientato a un “riuso” della fonte, sottoposta, in entrambi i casi, a un generale riadattamento stilistico e talvolta contenutistico. In tanto “fervore” traduttorio che precede e poi affianca la riscoperta di Aristotele in chiave normativa, sarà quindi necessario mettere a confronto i diversi esperimenti prodotti, soprattutto per capire la specificità dell’operazione cariana, che si rivelerà essere quella vincente, se pure con alterne vicende.32

Dopo le ristampe d’inizio Seicento, sull’Eneide tornerà, nel secolo successivo, Francesco Algarotti, autore di quelle Lettere di Polianzo ad Ermogene (1744) in cui venivano messi in evidenza i pregi e i difetti di un’opera assai vicina al gusto barocco, abbondante di acutezze e ornamenti:33 diverse le lacune grammaticali (con tanto di esempi atti a documentare gli errori di interpretazione) e poetiche (le «Poetiche colpe»),34 notabile l’eccesso di prolissità di un poema incorso «in quella superfluità che sazievole diviene»35 e che appare del tutto contraria alla «brevità» di Virgilio. All’essenzialità dell’epos antico il Caro aveva infatti aggiunto quegli elementi artificiosi declinati, ancora secondo il critico veneziano, in termini di «concetti», di «“bischicci”», di «freddure», vicini a un gusto ormai superato.36 Un altro significativo contributo di questa stagione è quello del Foscolo,37 che molto ha insistito sul verso sciolto impiegato dal poeta cinquecentesco, sebbene quest’ultimo possa considerarsi autore di un’opera la cui cifra specifica era un’«imprudentissima infedeltà».38 Più originale la testimonianza di Giacomo Leopardi, diverse volte intervenuto sul Caro,39 e poi quella di Pietro Giordani, che inaugura, in questa storia, una modalità di fruizione della traduzione dell’Eneide destinata ad avere, negli anni successivi, un’apprezzabile fortuna.40 Se il poeta di Recanati si discosta da un pregiudizio ormai consolidato, quello relativo al “seicentismo” della traduzione, per insistere soprattutto sull’approccio del Caro al testo originale, che, pur realizzato con «scioltezza»,41 era certo ben lontano dall’emulazione dei classici proposta da Monti e, in special modo, da Parini, Giordani riesce invece a rileggere il poema tradotto alla luce di una cultura rinascimentale in cui Virgilio era soprattutto il cantore delle avventure romanzesche di Enea, al quale facilmente si affiancava il personaggio eponimo del Furioso, ovvero Orlando.42

Proprio dalle considerazioni del Giordani voglio partire per tornare ad analizzare il rapporto fra la traduzione cariana e il poema di Ariosto, Ariosto che, come notano i commentatori,43 è nominato soltanto una volta all’interno dell’epistolario, e in occasione di una celebre lettera dedicata all’iconografia del palazzo di Caprarola (lo scrittore allude all’Arabia posta dal poeta nella casa del Sonno).44 Secondo il Giordani, Annibal Caro «non promise un ritratto dell’Eneida; non ebbe proponimento di tradurla, cioè di recarne all’italiano le forme latine; ma solo di prenderne la materia e informarla di sembianze italiane»,45 preoccupandosi soprattutto dello stile. Caro non volle essere veramente un traduttore, ma solo un poeta, capace, come appunto altri nell’età sua, di ripetere una «storia la quale fu già raccontata da un grande antico».46 E lo potrà agevolmente dimostrare un esame ravvicinato dei versi tradotti, che ci consentono di riconoscere, in primo luogo, quella vocazione eroica di Enea, fin dal primo verso apostrofato, appunto, quale «grand’eroe» e quindi esemplato sulla figura epica per eccellenza, l’errante Ulisse dell’Odissea omerica. La pietas che appartiene al personaggio dovrà poi confrontarsi con i valori dell’universo cortigiano cui lo stesso Caro apparteneva: le regole che ispirano il comportamento dei singoli personaggi nelle occasioni più diverse, dalle battute di caccia ai banchetti, paiono fare riferimento al mondo contemporaneo, talvolta capace di riaffiorare attraverso le orazioni, i discorsi, le strategie retoriche.47 Nel panorama affollatissimo di figure celeberrime dell’Eneide virgiliana spiccano, naturalmente, la Didone languida e appassionata del IV libro, come pure il grande nemico di Enea destinato alla sconfitta, quel Turno che sembra incarnare gli arcaici costumi di una civiltà ormai al tramonto. Ancora, e lo vedremo a breve, il traduttore interpreta con straordinaria perizia uno degli episodi più noti del poema, grazie non solo alla mediazione del Furioso, ma anche ai precedenti esperimenti in volgare, realizzati in sciolti oppure in ottave.

*

Nella seconda parte dell’Eneide, durante il conflitto che vede schierarsi, da un lato, i profughi troiani, dall’altro, i Rutuli e i loro alleati, si distingue, quale esempio di nobile e disinteressata amicizia maschile, l’infelice, ma eroica impresa di Eurialo e Niso.48 All’interno del libro IX viene infatti narrata la sortita notturna dei due compagni d’arme, ripresa, talvolta quasi alla lettera, dal XVIII canto del Furioso: si tratta della celeberrima spedizione di Cloridano e Medoro, decisi a recuperare il corpo del loro re Dardinello sulla scorta di altri due eroi epici, Opleo e Dimante, protagonisti del X libro della Tebaide di Stazio.49 Di questa sezione del libro virgiliano ha fornito un’interessante traduzione Benedetto Varchi, proprio negli anni in cui l’erudito toscano si misurava con un passo del tredicesimo libro delle Metamorfosi di Ovidio (relativo alla contesa fra Aiace ed Ulisse, che si disputano le armi di Achille).50 Pubblicata nella silloge ottocentesca intitolata Opuscoli inediti di celebri autori toscani […],51 la traduzione è preceduta da una dedicatoria a Bernardo Salviati, priore di Roma, datata 12 luglio 1541, in cui Varchi illustra le ragioni della scelta di un libro ove l’autore latino, sulla scorta delle affermazioni di Platone, celebra la natura di una «vera, e perfetta amicizia»,52 quella che appunto univa Niso, «coraggioso cittadino», ed Eurialo, «prode e costumato garzone troiano».53 L’offerta di questa parziale versione volgare in endecasillabi sciolti, versione condotta, dice Varchi, «più per mia esercitazione e quasi diporto che per altro»,54 è strettamente legata all’apprezzamento mostrato da alcuni illustri sodali dello scrittore nei confronti della traduzione delle orazioni di Aiace e di Ulisse: di conseguenza, essa vuole essere un dono «non indegno», sebbene non sia stata sottoposta a una revisione di cui forse avrebbe avuto bisogno. E tuttavia questo esercizio molto ci dice delle riflessioni dello scrittore toscano, impegnato ad interrogarsi, in questo come in altri frangenti, sulle difficoltà «di poter tradurre verbum de verbo».55 Nel testo virgiliano la vicenda dei due eroi troiani, esemplata su quella di Ulisse e Diomede narrata nell’Iliade, segue la decisione di Turno di attaccare il campo di Enea e poi di bruciare le navi del nemico che, comunque, vengono salvate (e trasformate in ninfe) dall’intervento di Cibele. Dopo il prodigio, interpretato positivamente dal re dei Rutuli, i due eserciti si concedono una notte di riposo. Virgilio colloca Eurialo e Niso, legati l’uno all’altro da un’affettuosa complicità, a guardia di una porta dell’accampamento:

Nisus erat portae custos, acerrimus armis,
Hyrtacides, comitem Aeneae quem miserat Ida
Venatrix, iaculo celerem levibusque saggittis;
Et iuxta comes Euryalus, quo pulchrior alter
Non fuit Aeneadum troiana neque induit arma,
Ora puer prima signans intonsa iuventa
His amor unus erat pariterque in bella ruebant:
Tum quoque communi portam statione tenebant.
(vv. 176-183)56

La descrizione del legame fra due giovani si rifà a un topos epico assai noto, quello dell’affinità virile, riletto anche attraverso le caratteristiche assegnate al primo, Niso, apprezzato combattente, e a quelle attribuite al secondo, Eurialo, di cui si sottolinea soprattutto la giovanile bellezza. Così traduce il passo Benedetto Varchi:

Era alla guardia della porta Niso
Figliol d’Irtaco, valoroso, e forte,
Cui compagno ad Enea mandato avea
Ida, sua madre cacciatrice, presto
A lanciar dardi e saettar quadrella;
E ’l caro e fido suo compagno presso
Eurialo, di cui nessun più bello
Tra gli Eneadi fu; né vestì arme
Troiane alcun più grazioso, e lieto
Di prima barba giovinetto ancora.
Questi un medesmo amore teneva, e sempre
Givano in guerra insieme, e allora
Anco facean la guardia della porta insieme.57

Il dettato appare rispettoso della fonte, sebbene l’autore tenda a raddoppiare e ad abbellire l’immagine del legame amicale fra i due («comes» scrive Virgilio al v. 179, che, nella versione del Varchi diviene «e ’l caro e fido suo compagno») o quella dell’avvenenza di Eurialo, rispetto al quale leggiamo nel testo latino «pulchrior alter / Non fuit Aeneadum troiana neque induit arma» (vv. 179-180), poi tradotto con «né vestì arme / Troiane alcun più grazioso, e lieto». E proprio al Varchi, come dicevo, Bernadetto Minerbetti, vescovo di Arezzo e fondatore dell’accademia degli Umidi,58 avrebbe poi dedicato l’intera traduzione del IX libro dell’Eneide. Nell’epistola rivolta al letterato toscano, per spiegare l’origine di quell’esercizio poetico, l’autore impiega un’espressione simile a quella già utilizzata dall’illustre destinatario («vi mando il nono libro dell’Eneide di Virgilio da me in versi sciolti, nella lingua nostra finalmente tradotto […] havendo io fuori della mia professione più per diporto, che per altra cagione cominciato»),59 per poi sottolineare l’impegno del lavoro svolto, cui certo saranno necessarie «correzioni» e «ammendazioni» da parte del Varchi stesso. Leggiamo il passo relativo all’impresa di Eurialo e Niso:

Guarda Niso una porta, acerbo e fiero
D’Hirtaco figlio, e dalla Cacciatrice
Ida mandato al gran Troiano, e l’arco,
E ’l dardo lancia a meraviglia bene.
Eurialo garzon di prima barba,
Di bella guancia e colorita
È compagno a costui, né fra i Troiani
Non fu più bel, né tal s’armò fra essi.
Un amor, una fede, un sol pensiero
Giunti sempre gli guida in ogni impresa.
E l’uno e l’altro a quella porta allora
Facean la guardia vigilando insieme.60

Rispetto al testo di partenza, l’«acerrimus» (v. 176) che connota il virgiliano Niso diviene, secondo un procedimento assai consueto nella traduzione volgare, una dittologia sinonimica («acerbo e fiero»), mentre scompare l’allusione al «comitem Aeneae» (v. 177: quest’ultimo diventa il «gran Troiano») e l’aggettivo «celerem» (v. 178) si trasforma in un verbo («lancia a meraviglia bene»). Più interessante la presentazione di Eurialo: il verso virgiliano «Ora puer prima signans intonsa iuventa» (v. 181), che, nella fonte, chiudeva il ritratto del personaggio, è spostato all’inizio della frase e risolto attraverso un’amplificazione volta a sottolineare l’immagine luminosa ed innocente del giovane soldato, qui «garzon di prima barba», come nel testo del Varchi, cui si addice una «bella guancia e colorita». Proprio quest’ultima espressione – che trasforma un plurale, «ora», nel singolare «guancia» – sembra poi mettere in relazione questa traduzione in sciolti con la riscrittura che, dell’episodio virgiliano, fornisce Ariosto nel XVIII canto del Furioso. Niso è divenuto Cloridano, mentre Eurialo ha assunto le fattezze di Medoro, destinato, con abile sovvertimento dell’esito tragico della fonte, a far innamorare la bella quanto sfuggente Angelica. Nella prima delle ottave che recuperano la materia dell’Eneide il poeta ferrarese scrive:

(ott. 165)
Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro,
d’oscura stirpe nati in Tolomitta;
de’ quai l’istoria, per esempio raro
di vero amore, è degna esser descritta.
Cloridano e Medor si nominaro,
ch’alla fortuna prospera e alla afflitta
aveano sempre amato Dardinello,
et or passato in Francia il mar con quello.61

La trasformazione ariostesca più significativa è legata alla provenienza della coppia di amici, che appartengono all’esercito dei nemici («Duo Mori») e che sono pure di «oscura stirpe». D’altro canto, la storia narrata, esempio raro di «vero amore» soggiunge lo scrittore ferrarese, non riguarda solo il loro stretto legame di amicizia («his amor unus erat», recita il verso virgiliano), ma anche l’affetto nei confronti del loro re, morto in battaglia. Nell’ottava successiva, il traduttore riscopre invece alcuni elementi della fonte latina, soprattutto nella contrapposizione fra Cloridano, già nel pieno della giovinezza, e Medoro, cui invece vengono attribuiti i tratti topici, almeno nella poesia volgare, della bellezza mulìebre (gli occhi neri e i capelli biondi e «crespi»):

(ott. 166)
Cloridan, cacciator tutta sua vita,
di robusta persona era et isnella:
Medoro avea la guancia colorita
e bianca e grata ne la età novella;
e fra la gente a quella impresa uscita
non era faccia più gioconda e bella:
occhi avea neri, e chioma crespa d’oro:
angel parea di quei del sommo coro.62

Prima di accostarci all’Eneide dello scrittore marchigiano, sarà bene leggere un altro esercizio di traduzione, quello di Aldobrando Cerretani, che, come sappiamo, pubblica l’intero poema nel 1560, dedicandolo a Cosimo I. Ai versi virgiliani che abbiamo isolato corrispondono due ottave:

[…]
Era guardiano a le gran porte alhora
Niso d’ Italia figlio in armi ardito
Qual Idea da le selve tratto fuora
Mandato havea già libero e spedito
La cacciatrice, e a Enea compagno il dette
Con stral veloce, e con lievi saette.
A cui presso il compagno Eurialo stava
Di cui (ciascun vincea) l’alma beltade.
alcuno ch’Enea bramoso accompagnava
Par che nell’armi più leggiadro vada
Da primi peli il ben volto segnava
Il giovinetto a la sua verde etade.
Stava fra questi uguale amore, et erra
Sempre insieme ciascuno a l’aspra guerra.63

La misura metrica della stanza costringe il traduttore ad ampliare il dettato poetico, in questa sede, più che altrove, assai vicino all’originale. Il testo si arricchisce soprattutto di aggettivi – Niso è «libero e spedito», Enea diventa «bramoso», la guerra è definita «aspra» – e di ridondanze – nella prima ottava, «mandato / il dette» rafforza il «miserat» della fonte – che nulla aggiungono all’immagine descritta nei versi latini: il poema eroico si piega alle lusinghe del romanzo e a quella frammentazione del ritmo narrativo che giunge a mutarne anche lo stile. In questo senso il volgarizzamento del Caro appare più coerente con la struttura dell’archetipo, dal momento che ne rispetta la linearità di base. Come dimostrano gli sciolti che seguono:

[…] Un de’ piú fieri in arme
Niso, d’Irtaco il figlio, ad una porta
era preposto. Da le cacce d’Ida
venne costui mandato al troian duce,
gran feritor di dardo e di saette.
Eurïalo era seco, un giovinetto
il piú bello, il piú gaio e ’l piú leggiadro
che nel campo troiano arme vestisse;
ch’a pena avea la rugiadosa guancia
del primo fior di gioventute aspersa.
Era tra questi due solo un amore
ed un volere; e nel mestier de l’armi
l’un sempre era con l’altro, ed ambi insieme
stavano allor vegghiando a la difesa
di quella porta.
(vv. 257-271)64

Il primo dei due protagonisti della tragica impresa narrata da Virgilio balza subito in primo piano, anche grazie all’abile costruzione del verso, che, per via di enjambements, enfatizza il ruolo di Niso («acerrimus» diventa «un de’ più fieri») e del compito di costui presso la porta dell’accampamento troiano. Una pausa sintattica introduce poi il successivo elemento della descrizione (l’«Ida venatrix» che lo ha inviato presso Enea)65 e mette in risalto le abilità del troiano con gli strumenti della caccia («celerem» viene reso con un’immagine potenziata, assente nel testo di partenza: «gran feritor», traduce il Caro). Nella seconda parte, campeggia invece Eurialo, la cui bellezza trionfa attraverso un tricolon inesistente nella fonte: trasformando il comparativo «pulchrior», il volgarizzatore introduce una serie di altisonanti superlativi, «il più bello, il più gaio, e ’l più leggiadro», che coincidono con un intero verso. Ma sono i tratti della giovinezza estrema a colpire il lettore: la «guancia», già nella riscrittura di Ariosto come nella traduzione del vescovo di Arezzo, è qui «rugiadosa» e «aspersa» dei colori della prima età. L’amore fra i due, infine, viene sottolineato da quel comune «volere», introdotto dal Caro, che spinge entrambi alla battaglia come alla veglia notturna.

Nei versi successivi Niso comunica all’amico la volontà di raggiungere Enea per avvertirlo della difficile situazione in cui versa il campo troiano, circondato dai Rutuli. Eurialo, che secondo il compagno non dovrebbe allontanarsi dall’accampamento soprattutto per restare vicino alla vecchia madre, si mostra invece desideroso di gloria e fermamente risoluto ad affiancare il compagno nella spedizione. Dopo aver ottenuto l’autorizzazione all’impresa, i due si avviano, nella notte, fuori dei recinti. Si legga, qui di seguito, il passo latino:

Egressi superant fossas noctisque per umbram
Castra inimica petunt, multis tamen ante futuri
Exitio. Passim somno vinoque per herbam
Corpora fusa vident, arrectos litore currus,
Inter lora rotasque viros, simul arma iacere,
Vina simul. Prior Hyrtacides sic ore locutus:
– Euryale, audendum dextra; nunc ipsa vocat res.
Hac iter est. Tu, ne qua manus se attollere nobis
A tergo possit, custodi et consule longe.
Haec ego vasta dabo et lato te limite ducam. –
(vv. 314-323)66

È il momento che precede la strage all’interno degli alloggiamenti del nemico. Varchi traduce con efficacia:

Saltan le sbarre e per l’ombrosa notte
Sen vanno al campo dei nemici; e molti
Pria n’ancidranno: e per tutto, dal vino
Vinti e dal sonno, ritrovar per l’erba
Corpi distesi e tra i carri, che dritti
Eran nel lido, in questa parte e ‘n quella,
Uomini ed armi e vin ghiacere [sic] insieme.
Onde Niso così cominciò pria.
– Or è tempo Eurialo, or bisogna
La destra oprar, quinci è la strada: guarda
Tu che nessun dietro le spalle venga,
E guarda ben lontan; qui farò io
col ferro piazza
e per ampio cammino
ti condurrò –.67

Se «fossas» viene reso con «sbarre», se l’avverbio «passim» che apre la descrizione dello stato assai desolato in cui versa il campo nemico viene reiterato più avanti («in questa parte e ‘n quella»), ad enfatizzare, nella traduzione, l’inerme condizione dei soldati, indeboliti dal vino e dal sonno, se, infine, viene introdotto quel «ferro» con il quale Niso compirà il massacro e che tornerà nelle successive versioni volgari, la resa del passo è complessivamente fedele all’originale, come dimostra l’immagine della «notte ombrosa» (che recupera il virgiliano «noctisque per umbram»). Sarà ora proficuo controllare la riscrittura ariostesca dell’episodio, in cui, ricordiamolo, non è Cloridano – esemplato su Niso – a proporre la sortita, quanto Medoro, che, emulo di celebri figure tragiche del passato, intende dare dignitosa sepoltura al corpo di Dardinello, anche a costo di mettere a repentaglio la vita. Il passo virgiliano è ripreso nelle seguenti ottave:

(ott. 172)
Così disposti, messero in quel loco
le successive guardie, e se ne vanno.
Lascian fosse e steccati, e dopo poco
tra’ nostri son, che senza cura stanno.
Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco,
perché dei Saracin poca tema hanno.
Tra l’arme e’ carrïaggi stan roversi,
nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi.

(ott. 173)
Fermossi alquanto Cloridano, e disse:
– Non son mai da lasciar l’occasïoni.
Di questo stuol che ‘l mio signor trafisse,
non debbo far, Medoro, occisïoni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni;
ch’io m’offerisco farti con la spada
tra gli nimici spazïosa strada. –68

Il testo segue da presso la fonte, come dimostra la ripresa delle «fosse» e degli «steccati», delle «armi» e dei «carrïaggi» riversi, delle truppe rese inoffensive dal «vin» e dal «sonno». La variatio di rilievo si registra nell’ottava seguente, quando appunto Cloridano suggerisce a Medoro di non lasciarsi sfuggire «l’occasione» di portare scompiglio fra i nemici. Seminando morte e distruzione fra gli artefici della fine del loro re. Il poeta ferrarese recupera poi i versi latini, ove è Niso a chiedere all’amico di fare attenzione (così scrive Ariosto: «gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni»), promettendo di sgombrare il cammino grazie all’impiego della sua «spada». E saranno proprio alcuni degli elementi qui evidenziati a tornare nella traduzione del Minerbetti. Che così scrive:

[…] e le trinciee
Già saltate hanno, e per l’oscura notta
Vanno al campo nemico, u’ presto sieno
Cagione à molti di lor morte, e scempio.
Per tutto di vin pieni, e d’alto sonno
Per l’herba i corpi straniamente stesi
Veggono, e i carri, e le briglie, e le ruote
Ghiacer con l’armi sconciamente in terra
Mescolate col vino. E però Niso
Primo dice: – hora è tempo alcuna cosa
Degna con mano oprar fra gli nemici;
Non son mai da lasciar l’occasioni,
E ’l cammino è di qua, che a fare havemo
Habbi tu l’occhio e da lungi, e da presso,
Ch’alcun di dietro non m’offenda, ch’io
Col ferro ti farò ben larga strada. –69

Qui, il traduttore si concede alcuni abbellimenti poetici («exitio» si sdoppia in «morte, e scempio») e reintroduce quelle «briglie» e quelle «ruote» che il Varchi aveva lasciato cadere nella sua versione. Più interessante, ai fini del nostro discorso, l’inserimento del verso «non son mai da lasciar l’occasioni» che, assente nella fonte, si rifà invece, con esplicita citazione, al passaggio dell’ottava ariostesca sopra evidenziato. Dimostrando la pervasività di un poema le cui immagini si intersecano, arricchendole di nuovi spunti, con quelle proposte dalla fonte. Minerbetti accoglie il suggerimento ariostesco e come lui farà il Caro che sfrutterà, da par suo, la battuta affidata a Cloridano nel Furioso. Sarà utile, prima, accostarci ancora una volta alla traduzione in stanze del Cerretani. Che volge così i versi virgiliani:

[…]
Già delle porti [sic] erano usciti fuora
E trapassate le gran fosse anchora.

Ohimé per l’ombra de le notti erranti
Tristi
sen vanno a le nemiche schiere
Ma ben di molte sien ruina tanti
Già vicini si potea da loro vedere
E dal vino e dal sonno in tutti i canti
Per l’herba sparsi i corpi indi giacere
Al lido sopra, e i carri abbandonati.
E tra i freni e le ruote uomini armati

Erano l’armi e ’l vino ugual sozzopra.
E pria d’Hirtaco il figlio prende a dire:
Hor fa mestiero Eurialo a l’immensa opra
Cola destra mostrar forza et ardire
Tempo opportuno incitarne s’aduopra
Tu di quel c’hor ’n in vita habbi desire
Questa è la via donde pensier ti punga
Che dietro a noi nessun mai sopraggiunga.70

Al di là dei limiti imposti dalla rigida struttura dell’ottava, l’autore si adegua alla lettera del testo, non senza variare in alcuni punti specifici, probabilmente per valorizzare, rafforzandoli, alcuni snodi: l’ombra della notte si trasforma nel plurale «notti erranti», i due compagni vengono definiti «tristi», infine «audendum dextra» è trasformato nei due versi «Hor fa mestiero […] cola destra mostrar forza et ardire». Quest’ultimo esempio ci serve ancora una volta per attestare il diverso tenore dell’impegno traduttorio del Caro, che sfrutta il potenziale narrativo dello sciolto e rinnova il racconto, aggiungendo e, talvolta, commentando la fonte:

Escono alfine. E già varcato il fosso,
Da le notturne tenebre coverti,
Si metton per la via che gli conduce
Al campo de’ nemici, anzi a la morte.
Ma non morranno, che macello e strage
Faran di molti in prima. Ovunque vanno
Veggion corpi di genti che sepolti
Son dal sonno e dal vino. In carri vòti
Con ruote e briglie intorno, uomini ed otri
E tazze e scudi in un miscuglio avvolti.
Disse d’Irtaco il figlio: – Or qui bisogna,
Eurïalo, aver core, oprar le mani,
E conoscere il tempo. Il cammin nostro
È’ per di qua. Tu qui ti ferma, e l’occhio
Gira per tutto
, che non sia da tergo
Chi n’impedisca; ed io tosto col ferro
Sgombrerò ’l passo, e t’aprirò il sentiero. –
(vv. 485-501)71

È già stato notato che, proprio in questo passo, il letterato marchigiano riesce a suggerire con abilità il destino che attende i due giovani eroi, i quali «morranno» sì, ma non prima di aver ucciso molti dei soldati nemici.72 Rilevanti appaiono poi le due immagini che seguono, la prima legata alla rappresentazione della confusione che regna nel campo (si noti l’uso eloquente dell’enjambement: «uomini ed otri / E tazze e scudi»), la seconda alla sequenza dei consigli che Niso rivolge all’amico (di nuovo un tricolon: «aver core, oprar le mani, / conoscere il tempo»). Ma sono ancora i versi di Ariosto a fare capolino nella parte finale: a fronte del testo latino, che recita «custodi et consule longe», Caro si ricorda del verso del Furioso, di quel che Cloridano dice a Medoro («gli occhi e gli orecchi da ogni parte poni»), e scrive infatti: «e l’occhio / gira per tutto». Mentre di nuovo «col ferro» Niso si appresta a liberare il cammino.

All’aristia dei due eroi, durante la quale Eurialo riesce a trafugare una preziosa armatura come premio dell’azione compiuta, segue la fuga nel bosco all’arrivo dei cavalieri latini. Tuttavia, se Niso riesce facilmente a scappare, il compagno, appesantito dalle spoglie nemiche, viene raggiunto dal drappello di soldati comandati da Volcente. Così il primo sarà costretto a tornare sui suoi passi per cercare di salvare l’amico. E, per questo, rivolgerà una celebre preghiera alla luna di cui qui riportiamo il testo:

Ocius adducto torquens hastile lacerto,
Suspiciens altam Lunam sic voce precatur:
Tu, dea, tu praesens nostro succurre labori,
Astrorum decus et nemorrum Latonia custos.
Si qua tuis unquam pro me pater Hyrtacus aris
Dona tulit, si qua ipse meis venatibus auxi
Suspendive tholo aut sacra ad fastigia fixi,
Hunc sine me turbare globum et rege tela per auras.
(vv. 402-409)73

Ripercorriamo ora, e rapidamente, le traduzioni in sciolti di questo passo, che seguono da vicino la fonte, concedendosi in realtà poche e significative variazioni. Scrive il Varchi:

Tosto avventando un forte dardo indietro
Tirato il braccio, e risguardo al cielo
La bella luna con tal voce priega:
          – Tu, Dea, tu favorevol soccorri
All’alta impresa perigliosa, o figlia
Di Latona
, ornamento delle stelle,
E de boschi guardiana; se mio padre
Irtaco dono alcun sovra i tuoi altari
Per me giamai t’offerse, e s’io medesmo
Della mia cacciagion gli accrebbi, e dentro
Il sacro tempio tuo n’appesi, e fissi;
Reggi il dardo per l’aria, e lascia ch’io
Questa turba sbaragli; […] –74

Al corpo celeste, qui divinità soprattutto boschiva, è riservato l’aggettivo «bella» al posto di «altam»; l’attributo «Latonia» diviene poi «figlia di Latona», mentre l’espressione «il sacro tempio» rende l’immagine, doppia nella fonte, del «tholo» (la volta) e dei «sacra ad fastigia» (i sacri frontoni). Anche il Minerbetti traduce attenendosi fedelmente al testo:

Tosto tirando il braccio adietro un dardo
Avventa, e gli occhi al Ciel levati
La bella Luna con tal voce prega:
– Tu Dea hor mi soccorri in tai fatiche,
Delle stelle ornamento, e delle selve
Guardiana, se mai Irtaco porse
Per me suo figlio, a’ tuoi sagrati altari
Doni, o s’io pur giamai delle mie caccie
Alle travi sospeso, o al sacro Tempio
A te dovuti doni, hor mi concedi,
Ch’io possa perturbar questo squadrone
E queste armi per l’aria reggi, e guida. –75

Qui il volgarizzatore riprende taluni suggerimenti del Varchi, come il verbo «avventa» (si veda il gerundio «avventando» del brano precedente), o la coppia «bella luna» o ancora l’allusione al «sacro Tempio». Dal canto suo, il Cerretani sembra, anche in questo specifico passaggio, attenersi al testo di partenza, di cui rispetta il dettato, nonostante le amplificationes richieste dal metro impiegato. Si leggano le ottave seguenti:

[…]
Tosto a sé il braccio tratto, un dardo spiega
L’alta Luna mirando, e così prega.

Benigna Dea, celeste almo splendore
Soccorri omai tu a queste mie fatiche
O santa figlia di Latona honore
Ch’i boschi guardi ove anch’io m’intriche
S’Irtaco mai a l’immenso tuo valore
Del figlio in vece, a’ tuoi desiri amiche
Offerte fece già nel sacro altare,
O s’a te giovai mai col mio cacciare.
Se dono alcuno al tempio tuo sospesi
O gli ficcai sopra le sacre cime
Deh fa che questi ne miei danni accesi
Spaventi e turbi il tuo poter sublime
O tu reggi gli strai per l’aure resi. –76

Il traduttore reintegra l’espressione «alta Luna» della fonte, ma aggiunge pure alcuni elementi atti a potenziare l’atmosfera sacra che contraddistingue la preghiera alla Dea, chiamata «Benigna» e poi ancora «santa figlia di Latona». In questa stessa direzione vanno l’evocazione del «tempio tuo», ma anche delle «sacre cime»: entrambi siglano il legame esistente fra il cacciatore Niso e la divinità che ha assunto l’aspetto del satellite notturno. E che comparirà nei versi ariosteschi, ispirati, in questa circostanza, non tanto alla supplica del Niso virgiliano, quanto alle parole di Dimante il quale, nel X libro della Tebaide (vv. 365-370), chiede a Cinzia, «arcanae moderatrix […] noctis» e, insieme, nume dalla triplice forma, di fargli trovare il corpo insepolto del suo re. Ancora, e sempre tenendo conto del modello staziano, sarà Medoro a rivolgersi alla Luna, e non tanto per avere soccorso in un’impresa disperata, quanto per chiedere di illuminare il campo ove giace Dardinello:77

(ott. 183)
Medoro in ciel divotamente fisse
verso la Luna gli occhi, e così disse:

(ott. 184)
– O santa dea, che dagli antiqui nostri
debitamente sei detta triforme;
ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
l’alta bellezza tua sotto più forme,
e ne le selve, di fere e di mostri
vai cacciatrice seguitando l’orme;
mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti,
che vivendo imitò tuoi studi santi. –

Il giovane fante interpella la Dea «divotamente», usando appunto un linguaggio che veicola una pietas tutta cristiana (sebbene Medoro appartenga alla schiera dei musulmani): per questo la divinità è detta «santa» come «santi» sono gli «studi», ovvero quelle attività venatorie sacre a Diana che il sovrano moro aveva onorato in vita. Non poteva mancare, poi, l’omaggio all’«alta bellezza» della casta dominatrice del cielo, della notte e degli Inferi, che rinvia a Virgilio e, insieme, a una tradizione lirica legata all’elogio dell’avvenenza femminile. Alla fine di questo excursus, all’interno del quale si innestano molteplici voci, e non soltanto volgari, possiamo tornare alla traduzione del Caro, affidata a una suggestiva interpretazione dei versi virgiliani, la cui originalità, rispetto agli altri esperimenti, sta non tanto nelle scelte lessicali, quanto nel ritmo affidato alla dizione:

Così risolve, e prestamente un dardo
S’adatta in mano; e vòlto in vèr la Luna,
Ch’allora alto splendea, così la prega:
Tu dea, tu de la notte eterno lume,
Tu regina de’ boschi, in tanto rischio
Ne porgi aìta. E se d’Irtaco mio padre
Per me de le sue cacce, io de le mie
Il dritto unqua t’offrimmo; e se t’appesi,
E se t’affissi mai teschio né spoglia
Di fera belva
, or mi concedi ch’io
Questa gente scompigli, e la mia mano
Reggi e i miei colpi
. –
(vv. 624-634)78

L’espressione virgiliana «altam Lunam» si trasforma in una subordinata che dice della lontananza ma anche della bellezza («Ch’allora alto splendea») del lume notturno; in maniera analoga, la definizione parallela di «Astrorum decus» e di «nemorrum Latonia custos» si scioglie nell’anafora dei versi d’esordio della preghiera: «Tu dea, tu de la notte eterno lume, / Tu regina dei boschi». Ancora, l’esametro bipartito «Suspendive tholo aut sacra ad fastigia fixi» acquista movimento, anche grazie a una suggestiva inarcatura «e se t’appesi/ E se t’affissi mai», che allude alle prede, «mei venatibus», nel testo latino, resi dal Caro con un’immagine più cruenta, in cui compaiono il «teschio» e la «spoglia» della belva uccisa. Infine, a sigla della supplica rivolta alla dea, i «tela» si raddoppiano, diventando «la mia mano» accostata a «i miei colpi», con l’aggiunta di una straordinaria sospensione determinata dalla posizione del verbo «reggi», collocato ad inizio di verso.

Questo breve percorso, costruito a partire da alcuni, significativi brani del libro IX, consente un bilancio, che, se pure parziale, pone l’accento sulle differenze esistenti fra le prove di traduzione dell’Eneide susseguitesi per tutta la prima metà del secolo e l’esperimento del Caro, la cui interpretazione di Virgilio tende all’amplificazione, alla coloritura, all’arricchimento delle immagini reinterpretate alla luce di un gusto già manierista, come pure alla continua riformulazione del linguaggio, in nome di un nuovo classicismo che si avvale di evidenti tessere dantesche e petrarchesche. Sullo sfondo si staglia il Furioso, modello inarrivabile e, insieme, archetipo moderno rispetto al quale marcare le distanze: i passaggi presi in esame attestano, stando almeno al limitato episodio di Eurialo e Niso (poi divenuti, nel testo ariostesco, Cloridano e Medoro), una presenza pervasiva che però non impedisce un fecondo confronto con il poema virgiliano, riletto attraverso una ormai matura consapevolezza stilistica e lessicale. Si muove in questa stessa direzione l’assunzione definitiva dell’endecasillabo sciolto a metro capace di riprodurre il continuum dell’esametro antico: se diverso sarà il destino, in ottave, dell’epos capace di rinnovare le glorie della storia cristiana, Caro potrà tuttavia dirsi l’artefice più accreditato di quel poema eroico in volgare ricercato strenuamente dagli intellettuali del tempo.

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1 Cfr. Annibal Caro, Lettere familiari, edizione critica con introduzione e note di Aulo Greco, Firenze, Le Monnier, 1961, v. III, p. 249. In una lettera successiva a Laura Battiferri del gennaio 1566, il Caro riferisce, aitto, della morte del Varchi (avvenuta nel dicembre dell’anno precedente) e racconta di averlo aspettato invano a Viterbo, dove appunto avrebbe potuto discutere con lui della sua «ultima fatica» (ivi, p. 257), ovvero della traduzione dell’Eneide. Una nuova edizione dell’epistolario sarà allestita all’interno di un progetto coordinato da Enrico Garavelli: lo si apprende dal contributo di Emilio Russo, Appunti e proposte per una nuova edizione dell’epistolario di Annibal Caro, in Paolo Marini, Enrico Parlato, Paolo Procaccioli (a cura di), Per un epistolario farnesiano, Atti della giornata di Studi, Viterbo, 28 gennaio 2021, Manziana, Vecchiarelli editore, 2022, pp. 127-144. Per inquadrare la poliedrica attività culturale del marchigiano proprio partendo dalle lettere si veda poi Ilaria Burattini, Annibal Caro editore. Postille a un epistolario, in «Prassi ecdotiche della modernità letteraria», 5, 2020, pp. 21-37.

2 Caro, Lettere familiari, cit., p. 249.

3 Ibidem.

4 Ivi, p. 192. Del letterato d’origine viterbese (era nato a Sutri nel 1517), soprattutto noto per la versione in ottave del capolavoro ovidiano, si occupa Gabriele Bucchi nel suo «Meraviglioso diletto». La traduzione poetica del Cinquecento e le Metamorfosi di Ovidio di Giovanni Andrea dell’Anguillara, Pisa, Edizioni ETS, 2011, che fornisce, nella premessa e poi nel primo capitolo più specificamente dedicato ai volgarizzamenti, un’analisi dettagliata del ruolo assunto dal traduttore nel corso del Rinascimento come dal pubblico cui questi esperimenti erano via via destinati.

5 Ivi, p. 275. Bernardino Bianchi, poi prevosto della Scala, era stato uno dei corrispondenti della prima ora del Caro (come attesta, ad esempio, la lettera del 12 dicembre 1544, in A. Caro, Lettere familiari, cit., I, pp. 322-24).

6 Sulle motivazioni, psicologiche e letterarie, che portarono il Caro sulla strada della traduzione del capolavoro latino si vedano le osservazioni Gianfranco Crupi, L’Eneide di Virgilio di Annibal Caro, in Letteratura italiana. Le Opere. II. Dal Cinqucento al Settecento, Torino, Einaudi, 1986, pp. 563-580, spec. alle pp. 564-565.

7 Benedetto Varchi, Opere, II, Trieste, Lloyd austriaco, 1859, p. 711b. Il letterato toscano riprenderà gli argomenti della sua lezione nel dialogo intitolato L’Ercolano (si veda l’edizione critica a cura di Antonio Sorella, Pescara, Libreria dell’Università editrice, 1995, t. I-II, p. 560 sgg.).

8 Ivi, p. 719b. Mi rifaccio qui alle osservazioni di Guido Arbizzoni che, nel suo Esperimenti di metrica eroica tra Cinque e Seicento («Il contesto», 3, 1977, pp. 183-207, spec. pp. 186-87), analizza la lunga vicenda del verso eroico volgare partendo dalla presa di posizione del Giraldi Cinzio, favorevole all’innovazione romanza legata all’ottava rima (cfr. il Discorso intorno al comporre dei romanzi), e da quella del Trissino per giungere agli esperimenti metrici del Baldi, dell’Imperiali, del Chiabrera.

9 Per una puntuale ricostruzione della vicenda (del resto assai nota), si veda il contributo Marco Corradini, Torquato Tasso e il dibattito di metà Cinquecento sul poema epico, pubblicato in «Testo», XXI, luglio-dicembre 2000, pp. 159-69.

10 Si veda Stefano Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico tra Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, 2002, p. 19.

11 Cito dalla lettera Ai Lettori premessa a L’Amadigi del S. Bernardo Tasso […], in Vinegia, Appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDLX, c. ii. La mia trascrizione si limita, qui come altrove, a regolarizzare la punteggiatura e a sciogliere le eventuali abbreviazioni.

12 Sulla complessa questione teorica del poema cinquecentesco si veda pure l’ampio e perspicuo saggio di Matteo Navone, Epica italiana, in Il lessico della classicità nella letteratura europea moderna, v. II, t. I, L’epica, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2012, pp. 297-388. Prende in esame, invece, le intersezioni fra romanzo ed epos, attraverso i tre diversi casi del Gyrone di Alamanni, dell’Ercole del Giraldi e dell’Amadigi del Tasso, orientati in parte a correggere il modello del Furioso, Zsuszanna Rozsnyói, Dopo Ariosto. Tecniche narrative e discorsive nei poemi postariosteschi, Ravenna, Longo editore, 2000.

13 Sulla posizione del Caro rispetto al volgare, e quindi sull’appartenenza dello scrittore alla linea “toscanista” di Tolomei, Firenzuola, Alamanni e Guidiccioni che avversava l’arcaismo bembiano e teorizzava un’imitazione eclettica, rimando alle pagine di Enrico Garavelli, Annibal Caro e la Questione della lingua, in Enrico Garavelli e Elina Suomela-Härmä (a cura di), Atti del VII Congresso degli italianisti scandinavi, Helsinki, 3-6 giugno 2004, Helsinki, Société Néophilologique de Helsinki, 2005, pp. 97-106.

14 Per il quale si veda la voce Carli Piccolomini Bartolomeo, redatta da Rita Belladonna e Valerio Marchetti (in DBI, v. 20, 1977, pp. 194-196).

15 Cfr. I primi sei libri dell’Eneide di Vergilio, a più illustri et honorate donne […], Venezia, Comin da Trino, 1540, c. 65v. Per il legame esistente fra l’affermazione del Caro e le parole della dedicatoria, rinvio a Carlo Santini, Strategie e tecniche per ‘tradurre’ l’Eneide: Annibal Caro e la vicenda di Didone, in Diego Poli, Laura Melosi, Angela Bianchi (a cura di), Annibal Caro a cinquecento anni dalla nascita, Atti del Convegno di Studi, Macerata, 16-17 giugno 2007, Macerata, Eum, 2009, pp. 201-217, spec. a p. 205.

16 Si vedano le Rime diverse del Mutio Iustinopolitano, In Vinegia, Appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDLI, c. 74r.

17 Il rimando è allo scritto in prosa intitolato Sostentamenti del nuovo verso eroico di Francesco Patrizio preposto all’Eridano e pubblicato in La poesia barbara nei secoli XV e XVI, a cura di Giosuè Carducci, edizione anastatica dell’edizione 1881, con presentazione di Emilio Pasquini, Bologna, Zanichelli, 1985, p. 443.

18 Si veda ancora G. Arbizzoni, Esperimenti di metrica eroica tra Cinque e Seicento, cit., p. 195.

19 Il Caro fa per la prima volta allusione al suo buen retiro sui colli romani nella lettera a Monsignor Commendone redatta l’8 maggio del 1563, dove parla di una «vignetta» appena acquistata (Cfr. A. Caro, Lettere familiari, cit., III, p. 156).

20 Nel saggio L’Eneide di Virgilio di Annibal Caro, cit., Crupi fa riferimento ad alcune epistole utili a definire il programma “letterario” del Caro: ad esempio, nella lettera al Varchi del 20 giugno 1562, il marchigiano ricorda la sollecitudine di Paolo Manuzio (che lo esorta a pubblicare i suoi scritti) e si sofferma quindi sulle rime, di cui dovrà senz’altro occuparsi «perché ci vanno quasi tutte da loro così lacerate e scambiate e malmenate da le copie e da le stampe» (Cfr. A. Caro, Lettere familiari, cit., III, p. 111), sulle lettere e sulla Retorica, tradotta «non con altro fine, che d’intenderla, se potea, e di farmela familiare» (ibidem). Nella successiva missiva, invece, datata 5 luglio, l’autore degli Straccioni menziona la versione volgare di Longo Sofista, «scrittore d’un amor pastorale» (ivi, p. 113).

21 Così Claudio Mutini, che appunto parla di «parafrasi» a proposito della versione volgare del I Idillio di Teocrito: ma si veda comunque l’intero capitolo intitolato Annibal Caro o l’arte della traduzione, in Nino Borsellino e Walter Pedullà (a cura di), Storia generale della letteratura italiana, IV, Rinascimento e Umanesimo. Il pieno Cinquecento, Milano, Federico Motta editore, 2004, pp. 325-356; il riferimento è a p. 329.

22 «Con la sua traduzione dell’Eneide», sostiene Alfredo Giuliani (nel suo L’Eneide al paragone. Il secondo libro nelle versioni di Annibal Caro e del giovane Leopardi, in «Il Verri», settembre-dicembre 1994, 3-4, pp. 25-41), «l’endecasillabo sciolto diventa un’istituzione letteraria. Non lo si discute più, lo si usa» (p. 36). Accostando gli esperimenti volgari del Caro e del Leopardi attraverso il «furore critico» (p. 25) di alcune pagine desanctisiane, lo studioso insiste, da un lato, sulle trasformazioni, in chiave romanzesca e melodrammatica, operate dal volgarizzatore cinquecentesco, dall’altro sull’evoluzione della traduzione leopardiana, che, più fedele al modello, fu più volte rivista, dopo la prima stampa, e poi ritrovata fra le carte di Ranieri.

23 A non voler tener conto della traduzione quattrocentesca in terzine dell’intero poema di Tommaso Cambiatore (poi rivista da Paolo Vasio): cfr. La Eneide di Virgilio tradotta in terza rima, in Vinegia, per Bernardino di Vitali Venetiano, 1532.

24 Sintetizzo, qui, le informazioni fornite da Luciana Borsetto nel suo Tradurre Orazio, tradurre Virgilio. Eneide e Arte Poetica nel Cinque e Seicento, Padova, CLEUP, 1996: all’interno dell’ampio panorama tracciato, relativo alle traduzioni cinquecentesche dell’Eneide, l’autrice si sofferma sui Sei primi libri mettendone in evidenza «la formula editoriale, volta a privilegiare singoli libri staccati del poema latino, ciascuno dei quali incentrato su altrettanti episodi relativi alla parte ‘odissiaca’ della fabula classica […] risemantizzata in chiave di didattica comportamentale e amorosa» (p. 16). Inoltre, non solo i libri sono dedicati a molte nobildonne senesi (fa eccezione il Medici che si rivolge a Giulia Gonzaga), ma viene impiegato l’endecasillabo sciolto, metro che, per la versione volgare del IV libro, era già stato utilizzato da Niccolò Liburnio. Sui Sei primi libri e sull’ambiente senese a cui questa pubblicazione appartiene, pubblicazione rivolta a far conoscere Virgilio al pubblico femminile, si veda pure l’introduzione della studiosa alla ristampa anastatica I sei primi libri de l’Eneide di Virgilio tradotti. L’Eneida in toscano, a cura di L. Borsetto, Bologna, Arnaldo Forni editore, 2002, p. V sgg.

25 Sempre Borsetto fornisce (nel suo L’ «Eneida» tradotta. Riscritture poetiche del testo di Virgilio nel XVI secolo, Milano, Unicopli, 1989, p. 29 sgg.) un utile prospetto relativo alle convergenze esistenti fra le dedicatorie e i temi, come la pietà, i pericoli del mare, la fides, il legame parentale, affrontati nei primi libri dell’Eneide. Solo in un caso l’esempio fornito – l’eccesso di passione di Didone nel libro IV – si contrappone alla virtù e quindi al «felice amore» della destinataria della lettera.

26 Secondo Chiara De Caprio (nel suo Volgarizzare e tradurre i grandi poemi dell’antichità (XIV-XXI secolo), in Atlante della Letteratura Italiana, a cura di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, v. III, Dal Rinascimento a oggi, a cura di Domenico Scarpa, Torino, Einaudi, 2012, pp. 56-73, p. 59) queste due raccolte rappresentano una «fase intermedia fra libri singoli e traduzioni integrali» dell’Eneide: a fronte di una stagione primo-cinquecentesca in cui i volgarizzatori avevano preferito misurarsi con alcuni episodi del poema, nella seconda metà del secolo, immediatamente dopo la pubblicazione delle due sillogi, aveva prevalso un confronto più maturo con il capolavoro virgiliano, tradotto o riscritto per intero.

27 Completano il quadro la versione volgare del VII libro offerto a Lionarda da Este Bentivoglia, quella dell’VIII, di cui si dà solo il traduttore, Leonardo Ghini, infine quella del X che Ludovico Domenichi dedica a Lavinia Sanvitale Sforza.

28 Più di recente, Moreno Savoretti ha insistito sulla nuova consapevolezza acquisita dai traduttori cinquecenteschi rispetto ai loro predecessori: lo scopo dei volgarizzatori dell’Eneide, ripresa parzialmente o per intero, è infatti quello di «“migliorare” ed attualizzare il testo virgiliano in base ai canoni del gusto e della poesia volgare» (cfr. L’Eneide di Virgilio nelle traduzioni cinquecentesche in ottava rima di Aldobrando Cerretani, Ludovico Dolce e Ercole Udine, in «Critica Letteraria», 112, 2001, pp. 435-57, spec. p. 437). Prendendo in esame le traduzioni integrali del poema, lo studioso individua un preciso percorso che dalla versione del Cerretani, propenso ad adeguare lo stile del capolavoro latino al modello del Furioso ariostesco, arriva alle riscritture del Dolce e al recupero “filologico” del dettato virgiliano da parte di Ercole Udine, autore di un ultimo e fallimentare esperimento portato a termine anche in contrapposizione a quello, più fortunato, del Caro.

29 Si segnalano le stampe romane presso Ruffinelli (1600, 1601, 1604, 1608), quella presso Deuchino, a Treviso, nel 1603, infine quelle padovane presso Tozzi (1608, 1609, 1613, 1627) e presso Pasquardi (1630, 1631). A camuffare l’Eneide con panni berneschi fu Giovan Battista Lalli, autore di un’Eneide travestita pubblicata a Venezia nel 1632.

30 Su questa raccolta, «allestita in ambiente beccadelliano», ha insistito di recente Silvia Morgani che ha sottolineato l’importanza di un congruo numero di versi inseriti alle cc. 78r-83r e collocabili fra la prima stesura della traduzione, poi corretta dall’autore, e la stampa postuma del 1581. Probabilmente il Caro volle inviare al Beccadelli una parte del suo esercizio di traduzione, «per un omaggio poetico o per un autorevole parere del letterato nella fase di revisione del testo»: se non è agevole stabilire con precisione la storia del volgarizzamento dell’Eneide, è certo tuttavia che i 158 sciolti presenti nel codice marciano costituiscono un nuovo, significativo tassello della diffusione del Caro, qui proposto all’interno di una silloge ove comparivano i migliori poeti dell’epoca. Si veda Silvia Morgani, Un nuovo testimone dell’Eneide tradotta da Annibal Caro, in «L’Ellisse», V, 2010, pp. 191-200. Della stessa autrice è utile pure il volume Un’antologia manoscritta del XVI secolo: il ms. Marciano it. 9. 144 (6866), Casoria, Loffredo, 2009.

31 Nel capitolo intitolato In che maniera di verso e dedicato al complesso dibattito sulla forma metrica più idonea alla poesia eroica (del suo Il furto di Prometeo. Imitazione, scrittura e riscrittura nel Rinascimento, Torino, Edizioni dell’Orso, 1990, pp. 179-222), Borsetto chiarisce il rapporto esistente fra Caro e la sua fonte, parlando infatti di «commento» capace di amplificare il testo di partenza e di inserire «spiegazioni o anticipi sullo sviluppo narrativo della fabula per renderla comprensibile» (p. 210). Va detto – aggiunge la studiosa – che il marchigiano attua anche il procedimento inverso, volto a sintetizzare, talvolta in un’immagine o in un giro di frase, il dettato virgiliano.

32 Secondo Enrico Garavelli, ed è opinione del tutto condivisibile, «la traduzione del Caro, certamente letta e discussa fin dal secolo precedente» si è però «imposta come versione canonica dell’Eneide solo verso la metà del XVIII secolo», entrando a far parte, e nonostante le polemiche che di qui a poco vedremo, del «canone classicista». Nell’Ottocento, poi, la versione cariana del poema «si insedia stabilmente in tutte le collezioni economiche o scolastiche dei classici». Cito dall’introduzione a Annibal Caro in Europa. Libri, lettori, bibliofili, a cura di Enrico Garavelli, in «Quaderni dell’osservatorio Annibal Caro», I, Roma, Aracne, 2021, pp. 9-26; spec. alle pp. 14-15. In appendice al volume segnalo, poi, il contributo di Nunzio Bianchi, La biblioteca di Annibal Caro. L’inventario Ferrajoli 752, pp. 157-215 (sull’Eneide, cfr. p. 152).

33 Un’utile panoramica relativa alla storia della critica della traduzione cariana è contenuta nel volume di Caterina Oliveri, L’Eneide del Caro, Torino, Paravia, 1965, pp. 19-45 (qui, più specificatamente, ho fatto riferimento alle pp. 19-26).

34 Cito dalle Lettere di Polianzo ad Ermogene intorno alla traduzione dell’Eneide del Caro, seconda edizione accresciuta ed illustrata, In Venezia, Per Giovan Battista Albrizzi, 1745, p. 31.

35 Ivi, pp. 53-54. Nella seconda parte delle lettere, Algarotti insiste sulla necessità di riprendere, emendandolo, proprio il volgarizzamento del Caro, superiore a molti dei suoi emuli, mentre nella terza ed ultima parte – le cosiddette Lettere ultime – evoca la traduzione che il Dryden ha realizzato del poema virgiliano.

36 Cito dalle pagine che all’Algarotti (ma anche a Foscolo e a Leopardi) dedica Ettore Bonora in Consensi e dissensi intorno all’«Eneide» del Caro del 1958 ristampato all’interno del volume intitolato Retorica e invenzione. Studi sulla letteratura italiana del Rinascimento, Milano, Rizzoli, 1970, pp. 199-209 (spec. alla p. 201). Lo studioso menziona poi il Bettinelli che riprendeva le osservazioni del critico veneziano sia nel Discorso sopra la poesia italiana che nelle Lettere virgiliane. Si rifà alle osservazioni di Bonora Tommaso Casini, nel suo Tra lessico pittorico e iconografia: Annibal Caro e la fortuna della traduzione dell’Eneide in Gli dei a corte: letteratura e immagini nella Ferrara estense, a cura di Gianni Venturi e Francesca Cappelletti, Firenze, Olschki, 2009, pp. 115-134, alle pp. 133-34.

37 Autore di una serie di giudizi occasionali, rinvenibili nelle Osservazioni sul poema del Bardo, nella nota Sulla traduzione dell’Odissea, infine nel saggio dedicato a Caro e Alfieri traduttori di Virgilio.

38 Si vedano ancora le considerazioni contenute nell’articolo critico Intorno alla traduzione de’ due primi canti dell’Odissea (1809), in Opere edite e postume di Ugo Foscolo, II, Prose letterarie, Firenze, Le Monnier, 1850, p. 217.

39 Leopardi fa riferimento alla traduzione del Caro nella premessa alla sua versione del II libro dell’Eneide, poi nelle sue note di preambolo alla traduzione della Titanomachia ricavata dalla Teogonia di Esiodo (dove avanza qualche riserva sulla «semplicità vaghissima» e sulla pur «nobile famigliarità» dello stile: cfr. Giacomo Leopardi, Poesie e prose, v. I, Poesie, a cura di Mario Andrea Rigoni, con un saggio di Cesare Galimberti, Milano, Mondadori, 1987, p. 593), infine in alcuni passi dello Zibaldone, che gli consentono di elogiare la libertà del Caro, soprattutto rispetto all’imitazione eccessivamente servile del modello petrarchesco praticata nel Cinquecento.

40 Sulla posizione assunta dal Leopardi e poi dal Giordani si veda ancora E. Bonora, Consensi e dissensi intorno all’«Eneide» del Caro, cit., pp. 207-209.

41 «o volete disinvoltura», aggiunge il poeta (vedi ancora G. Leopardi, Poesie e prose, cit., p. 592): come sottolinea Francesco Venturi, nel suo «E chi non sa l’inferno… di quell’impiccio petrarchesco»? Leopardi e Caro poeta, in Leopardi e il Cinquecento, a cura di Paola Italia, prefazione di Stefano Carrai, Pisa, Pacini editore, 2010, pp. 145-155, il volgarizzamento dell’Eneide fu, per il recanatese, un esempio di traduzione infedele caratterizzata da un generale abbassamento tonale, ma insieme anche un modello da seguire in quanto «primo tentativo di poema eroico in volgare» (p. 151). Un affondo ancora più convincente sui debiti contratti con la traduzione cinquecentesca da parte del giovane Leopardi è quello di Giulia Corsalini, che, nel suo La traduzione del secondo libro dell’Eneide: Caro e Leopardi (in Annibal Caro a cinquecento anni dalla nascita, cit., pp. 359-384), prende in esame il confronto ingaggiato con la versione volgare del poema fin dai Puerilia e poi proseguito grazie ai primi esperimenti di traduzione, ove Leopardi cerca di superare il rifacimento cariano soprattutto nella definizione di uno stile poetico alto, nobile, e senz’altro più vicino alla magnificenza epica della fonte.

42 Cfr. Di un giudizio di Giacomo Leopardi circa il Caro e il Davanzati raccolto nelle Opere di Pietro Giordani, Firenze, Le Monnier, 1846, II, pp. 369-74.

43 Rimando ancora a C. Oliveri, L’Eneide del Caro, cit., p. 61.

44 Cfr. A. Caro, Lettere familiari, cit., III, p. 137.

45 Di un giudizio di Giacomo Leopardi circa il Caro e il Davanzati, cit., p. 370.

46 Ivi, p. 372.

47 Cfr. G. Crupi, L’Eneide di Virgilio di Annibal Caro, cit., p. 570.

48 I due eroi erano apparsi per la prima volta nel libro V, in occasione della gara svoltasi per i ludi noveniali in onore di Anchise: su questo passo tradotto dal giovane Manzoni e messo a confronto con la versione del Caro si veda Remo Fasani, Il Manzoni e la corsa a piedi. Sul canto V dell’Eneide, in «Versants», 20, 2001, pp. 229-35.

49 Al topos dell’amicizia fra eroi nei poemi antichi e moderni dedica un’interessante analisi Maria Cristina Cabani nel suo Gli amici amanti. Coppie eroiche e sortite notturne nell’epica italiana, Napoli, Liguori, 1995: dopo un’apertura riservata agli archetipi della tradizione – Ulisse e Diomede, Achille e Patroclo (Omero), Eurialo e Niso (Virgilio), Opleo e Dimante (Stazio) – la studiosa si sofferma in prima battuta proprio su Ariosto, che non solo opera un’intelligente contaminazione fra le due fonti latine, ma «si fa beffe di un orizzonte di attesa ormai solidamente orientato» (p. 19), salvando Medoro e avviandolo fra le braccia di Angelica. Ai fini della nostra indagine si rivelano proficue, poi, le pagine sui traduttori, in special modo sul Dolce dell’Enea e de L’Achille et l’Enea, traduttori che si rifanno espressamente al Furioso e al rapporto ariostesco con i modelli classici.

50 Sugli esperimenti del Varchi, e quindi sulla loro progressiva evoluzione, ha scritto un lungo e persuasivo saggio Dario Brancato, Per una tipologia delle traduzioni di Benedetto Varchi, «L’Ellisse», a. XIII/1, 2018, pp. 11-28, che, partendo dalle prime versioni italiane dal latino – ovvero da Ovidio e da Virgilio –, giunge fino al confronto dello scrittore fiorentino sia con un’egloga (sempre latina) di Castiglione che con i testi greci. È ancora Brancato a suggerirmi che il Varchi tradusse altri passi dell’Eneide (come delle altre opere di Virgilio) rendendoli sempre in endecasillabi sciolti. Ad esempio, nel Seneca de’ benifizii, pubblicata a Firenze, presso Torrentino, nel 1554, ma risalente al 1546, compaiono alcuni versi tratti dal IV libro («Vivuta io sono, e quel che mia fortuna / corso dato m’havea, tutto ho fornito», p. 136, corrispondente a Aen. IV, v. 653; oppure: «Lui che dal mare era gittato a terra / raccolsi e, stolta, del mio regno a parte / il posi», p. 199, Aen. IV, vv. 373-374; e ancora: «S’io meritai di te molto, nè poco, / se mai ti feci benifizio o cosa, / dolce già mai del corpo mio ti venne», ivi, Aen. IV, vv. 317-318), dal V («Dove a destra ten vai sì lunge? Il corso / qua drizza e presso il lito a manca corri», p. 150, Aen. V, v. 162), dal VI («Questo pensier de [!] petto tuo disgombra», p. 190, Aen. VI, v. 85), infine dal XII («Che di bianchezza le nevi e di corso / trapassavano i venti», p. 198, Aen. XII, v. 84).

51 Cfr. Opuscoli inediti di celebri autori toscani l’opere dei quali sono citate dal vocabolario della Crusca, Firenze, Nella stamperia di Borgo Ognissanti, 1807-1816. Il testo del Varchi, conservato presso la BNCF, VII, 1189, cc. 18v-31r, è nel secondo volume. Di questa versione l’autore riferisce in una lettera a Piero Vettori del 18 agosto 1541: «Io tradussi già del nono di Vergilio la morte d’Eurialo e Niso, ma per non parermi cosa da voi, non ho voluto darvi questa briga e impedirvi sì begli studi; pure, volendola vedere, ho scritto a ser Benedetto d’Albizo, notaio in vescovado, a chi la mando, che ve la dia, ma vi conforto a seguitare le onoratissime e utilissime fatiche vostre» (cfr. Benedetto Varchi, Lettere 1535-1565, a cura di Vanni Bramanti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, p. 107).

52 Cfr. Opuscoli inediti di celebri autori toscani, cit., p. 13.

53 Ibidem.

54 Ivi, p. 14.

55 Mi rifaccio, ancora una volta, alle osservazioni di D. Brancato, Per una tipologia delle traduzioni di Benedetto Varchi, cit., p. 15.

56 Cito da Virgilio, Eneide, introduzione e traduzione di Rosa Calzecchi Onesti. Testo originale a fronte, Torino, Einaudi, 1989, p. 344.

57 Cfr. Opuscoli inediti di celebri autori toscani, cit., p. 16. D’ora in avanti i corsivi sono miei.

58 Su questo si veda la voce del DBI a cura di Paola Volpini (vo. 74, 2010). Il Minerbetti, cui Cosimo I affidò diverse missioni in qualità di ambasciatore, fu amico di Vasari e di Michelangelo. Giovan Francesco Grazzini, suo segretario, volle dedicargli una sua commedia intitolata La gelosia nel 1550. Compare inoltre in una lettera del Tansillo indirizzata proprio al Varchi e datata 28 maggio 1552. Cfr. Lettere a Benedetto Varchi (1530-1563), a cura di Vanni Bramanti, Manziana, Vecchiarelli, 2012, p. 285.

59 Cfr. Opere di Vergilio cioè la Bucolica, la Georgica, et l’Eneida, nuovamente da diversi eccellentissimi auttori tradotte in versi sciolti, In Fiorenza, appresso i Giunti, 1556, c. 255v.

60 Ivi, c. 261v.

61 Cfr. Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, introduzione e commento di Emilio Bigi, a cura di Cristina Zampese, indici di Piero Floriani, Milano, Rizzoli, 2012, p. 626.

62 Ibidem.

63 Cfr. L’Eneida in toscano del generoso et illustre giovine il signor cavaliere Cerretani, In Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino, 1560, p. 163. Sull’Eneida del Cerretani e sulla sovrapposizione delle istanze narrative del traduttore, che appunto utilizza l’ottava, alla voce dell’auctor del testo originale si veda ancora l’introduzione di L. Borsetto a I sei primi libri de l’Eneide di Virgilio tradotti. L’Eneida in toscano, cit., pp. XXIII sgg. Cerretani, ricorda la studiosa, compariva pure nella miscellanea senese dei primi sei libri pubblicata nel 1540 (come estensore del V libro), miscellanea che sarà ampiamente utilizzata dallo stesso traduttore, capace di mescolare, all’interno della sua versione integrale del poema, espressioni virgiliane con i volgarizzamenti in sciolti.

64 Non disponendo ancora di una moderna edizione critica, si rinvia a Annibal Caro, Eneide, a cura di Arturo Pompeati, Torino, UTET, 1969 [1954], p. 364. Claudia Bonsi, nel suo «La miglior lezione è quella del buon giudizio»: Monti postillatore dell’Eneide del Caro, in «Prassi ecdotiche della modernità letteraria», 3 2018, pp. 109-138, spec. a p. 130, cita la nota al testo dello stesso Pompeati, che illustra rapidamente il percorso seguito nell’allestire la sua edizione, fondata sulla precedente versione del Lipparini (a sua volta frutto del lavoro di Mestica e Cian). Nel saggio si prendono in esame i rilievi del Monti sull’esemplare dell’Eneide pubblicato da Sonzogno a Milano nel 1816 e conservato in biblioteca Trivulziana.

65 L’espressione virgiliana – «Ida venatrix» – ha in realtà dato luogo a due diverse interpretazioni, dal momento che essa può essere riferita sia alla madre che alla patria di Niso. Lo sottolinea Massimo Gioseffi, in un passaggio del suo intervento Amici complici amanti: Eurialo e Niso nelle Interpretaziones Vergilianae di Tiberio Claudio Donato (in «Incontri triestini di filologia classica», 5, 2005-2006, pp. 185-208, spec. a p. 195) dedicato all’analisi, e quindi al commento fornito dal grammatico romano, di un episodio assai complesso, all’interno del quale sono stati spesso messi in discussione l’eroismo dei due compagni, la legittimità dell’azione compiuta nel campo dei Rutuli, infine l’incuria – fatale – del giovanissimo Eurialo.

66 Cfr. Virgilio, Eneide, cit., p. 352.

67 Cfr. Opuscoli inediti di celebri autori toscani, cit., p. 22.

68 Rinvio ancora all’Orlando Furioso, cit., pp. 628-29, e all’annotazione del curatore che sottolinea la stretta dipendenza di queste ottave dal testo virgiliano.

69 Cfr. Opere di Vergilio cioè la Bucolica, la Georgica, et l’Eneida, cit., cc. 264v-265r.

70 Cfr. L’ Eneida in toscano, cit., pp. 166-67.

71 Cfr. A. Caro, Eneide, cit., pp. 370-71.

72 Rimando, di nuovo, alle considerazioni di L. Borsetto nel suo Il furto di Prometeo, cit., p. 209.

73 Cfr. Virgilio, Eneide, cit., p. 356.

74 Cfr. Opuscoli inediti di celebri autori toscani, cit., p. 26.

75 Cfr. Opere di Vergilio cioè la Bucolica, la Georgica, et l’Eneida, cit., cc. 266v-267r.

76 Cfr. L’Eneida in toscano, cit., pp. 168-169.

77 Insiste sulle somiglianze, ma anche su alcune, sostanziali, differenze fra la spedizione notturna dei due personaggi ariosteschi e quella degli eroi virgiliani, Alba Subrizio, nel suo Le precationes di Niso e Medoro: da retorica fallimentare a orazione efficace. Un esempio di riscrittura virgiliana nell’Orlando Furioso, in Sergio Audano e Giovanni Cipriani (a cura di), Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea, Atti della tredicesima giornata di Studi, Sestri Levante 11 marzo 2016, Campobasso, Il Castello, 2017, pp. 59-91.

78 Cfr. A. Caro, Eneide, cit., p. 374.