Ricezione dei classici
OJ-italique-941
L’orazio satirico di Lodovico Dolce
Nel 1559 viene stampata a Venezia, presso Gabriel Giolito de’ Ferrari, una delle tante fatiche letterarie di Lodovico Dolce intitolata I dilettevoli Sermoni, altrimenti Satire, e le morali Epistole di Horatio, illustre poeta lirico, insieme con la Poetica. Ridotte da m. Lodovico Dolce dal poema latino in versi sciolti volgari. Con la Vita di Horatio. Origine della Satira. Discorso sopra le Satire. Discorso sopra le Epistole. Discorso sopra la Poetica.1
Il volume, come recita il titolo, è corredato da un ricco apparato paratestuale e ripropone inoltre, in una veste in parte diversa e aggiornata, anche la traduzione dell’Ars Poetica pubblicata nel 1535 presso la stamperia Bindoni e Pasini e ristampata l’anno successivo senza indicazioni tipografiche.2 Non si tratta dunque del primo incontro del poligrafo veneziano con Orazio, ma si tratta invece della prima e unica traduzione in volgare delle Satire e delle Epistole nel Cinquecento, se si esclude la successiva versione del toscano Giovanni Fabrini, la cui natura è del tutto differente trattandosi di una poderosa parafrasi commentata di tutte le opere oraziane.3
Siamo di fronte, nel caso del Dolce, a un prodotto di consumo pensato e costruito con intenti divulgativi e commerciali e che presuppone la presenza di un pubblico di non specialisti. Un prodotto il cui scopo dichiarato è offrire la possibilità di leggere Orazio, e di poterne godere gli insegnamenti morali, anche a coloro che non conoscono il latino:
La onde ottenendo questo Poeta dopo Virgilio il primo luoco fra Poeti Latini, mi venne disiderio di ridur nella nostra lingua i suoi Sermoni, che altro, che Satire non sono, e le sue Epistole: i quali componimenti essendo ripieni di morali e di Filosofici precetti, stimai, che non picciolo utile potessero porgere a coloro, che non gli possono vedere nella sua natia favella, e disiderano di ornar di qualche bella virtù l’animo: ove io affaticato mi sono di rappresentar più i sensi, che le parole, per render quegli, che sono a molti oscuri, chiari, quanto più si potesse a ciascuno, usando in ciò i versi sciolti, come al mio parere più acconci a simil materia.4
Ritroviamo in queste poche righe i capisaldi della “poetica traduttoria” dolciana: l’utile come fondamento e fine ultimo e la riflessione teorica sulle difficoltà della pratica traduttoria e sulla scelta del metro di volta in volta più idoneo a riprodurre i sensi e lo «stilo» delle opere originali a seconda del genere. Argomenti sui quali il Dolce insiste e torna a più riprese nelle varie dedicatorie e negli avvisi ai lettori5 di tutte le sue traduzioni (ad esclusione della prima) e su cui vale la pena soffermarsi brevemente.
La prima dedicatoria, in ordine di tempo, è quella indirizzata a Pietro Aretino in occasione della pubblicazione dell’Ars Poetica nel 1535 e presenta una struttura e un’impostazione leggermente diverse rispetto alle dedicatorie degli anni successivi.
Partendo dalla critica nei confronti di quella schiera di poeti contemporanei non solo privi di talento ma anche dei «primi elementi» che si imparano a scuola, il Dolce pone l’accento sull’utilità del proprio lavoro e chiama in causa l’autorità dell’Aretino per sostenere il discorso che maggiormente gli sta a cuore, cioè la funzione di modello teoricoletterario che il testo oraziano può e deve rappresentare per i poeti dell’epoca. Il messaggio è chiaro e diretto: se tutti coloro che si arrogano il titolo di poeti senza possederne le qualità avranno la compiacenza di leggere la sua traduzione, si troveranno di fronte a un bivio che prevede da un lato la scelta di «darsi agli studi latini» e dedicarsi seriamente, con grande impegno e sacrificio, alla poesia e dall’altro la presa di coscienza della propria incapacità, liberando così il mondo dalla presenza di una poesia scadente:
La quale opera, Signor mio, se mai fu utile e necessaria ad alcun tempo, è ella maggiormente a’ nostri dì, essendo hoggi un numero infinito de Poeti a i quali peraventura sarebbe vie più d’honore l’affaticarsi d’imparar quello che di questa materia scrisse Horatio, che gir affettando con tanto desiderio il titolo che essi non meritano […]. Perché veggiamo che non pure con poca intelligentia di lettere, anzi con niuna essercitatione, non pochi s’innalzano a poetare, ma senza saper i primi elementi anchora che i fanciulli imparano nelle schole. […] Per la qual cosa, havendo io questa opera dall’antica favella tradotta nella lingua d’hoggi, et affaticatomi, per quanto ho potuto, che Horatio si avezzasse a parlar Thoscano con quel più agevole modo che potesse da tutti venir inteso, giudicai non sconvenevole in tutto il darla fuori, pensando una di due cose avenir potesse che, overo leggendola questi (se essi pure si degneranno di leggerla), e considerando la difficultà di ciò che essi per cosa facile tenevano, gli venga disio di darsi a gli studi latini, overo in tutto si rimangono di sollevarsi in aria con l’audacia di Phetonte poetando, per non dare al meno di sé riso alle genti a guisa di Simie che, quanto più si innalzano per parer belle, tanto maggior segno danno della lor brutezza a chi le mira.6
Il valore della traduzione, sembra dire il Dolce, non va ricercato nella sua capacità di rendere Orazio “toscano” affinché se ne possano apprezzare le doti poetiche, quanto nel suo essere strumento e modello che consenta di recuperare e attualizzare l’insegnamento del poeta latino per ricavarne precetti di tipo teorico-stilistico da adattare alle esigenze del moderno contesto culturale e letterario.
Apparentemente, in questo che è anche il suo primo esperimento di traduzione, il Dolce sembra togliere valore alla propria iniziativa con il riferimento alla necessità degli «studi latini» che consentano una più corretta lettura e comprensione dei classici. In realtà ne definisce i contorni e implicitamente ne sottolinea il valore in quanto tramite indispensabile per veicolare e rendere fruibili i precetti oraziani, seppure in un ambito ancora ristretto e ben definito. Non dunque una platea allargata, ma un pubblico di un determinato livello culturale e letterario, il pubblico dei poeti, o presunti tali, di coloro cioè per i quali il magistero oraziano assume valore in quanto intimamente connesso alla pratica poetica (e la scelta dell’Aretino come destinatario della dedica ne è la chiara dimostrazione).
Di tutt’altro tenore appaiono le dedicatorie che accompagnano le traduzioni approntate per conto della stamperia di Gabriele Giolito a partire dagli anni ’40 e che si inscrivono all’interno di una linea editoriale ben definita e con scopi prettamente commerciali. Le considerazioni che vi si leggono non rispondono alla necessità di presentare i testi tradotti come modelli poetici, ma mirano alla giustificazione e alla messa in risalto del valore pratico, e se vogliamo pedagogico, del volgarizzamento stesso, in quanto prodotto di consumo. Si passa insomma da un orizzonte sostanzialmente letterario a un’operazione di vero e proprio marketing, che mira alla commercializzazione della cultura e che presuppone la presenza di un pubblico sempre più allargato di lettori comuni, desiderosi di avvicinarsi alla letteratura classica per poterne apprezzare la bellezza e trarne giovamento, pur senza conoscere la lingua latina.
È quanto si legge per esempio nella dedica a Guidubaldo d’Urbino che accompagna la traduzione in versi sciolti del primo libro delle Metamorfosi di Ovidio.7 Il senso e il valore della traduzione si trovano, ancora una volta, nella sua utilità, nel suo saper offrire «cibi […] utili et soavi» a coloro che non hanno «cognitione» del «sermone latino»:
ne i tempi adietro mi posi a tradurre dalla favella Romana nel volgare Thoscano i quindici libri delle Trasformationi d’Ovidio, parendomi di poter per cotal via, quasi col far nostre le piante levate dal terreno d’altrui, apportare a quelli che cognitione non hanno del sermone latino, cibi non meno utili et soavi, che cari et piacevoli all’intelletto.8
Il pubblico a cui si rivolge il Dolce è dunque quello sempre più numeroso dei borghesi e dei commercianti che non sono in grado di leggere i testi antichi nella lingua originale o non possono farlo perché troppo impegnati nei «maneggi della mercatura», e ai quali bisogna fornire un prodotto di consumo facilmente fruibile e soprattutto che rechi loro «utile» e «giovamento». Concetti più volte ribaditi nelle dedicatorie premesse al Dialogo dell’oratore9 e alle Orationi10 di Cicerone:
considerando l’utile che dalla lettione di questo libro può venire a infiniti huomini a i quali, per qual si voglia difetto, è tolto di poter sentir ragionare Cicerone nella sua lingua […] non ho voluto tenerlo più ascoso;11
Né havrei eletto di entrare sotto questo peso, essendo temerità pur solamente il pensarvi, se, chi poteva in me, non m’havesse a ciò fare persuaso, e quasi per forza indotto, stimando che la intentione e il disiderio di giovare altrui si debba anteporre ad ogni proprio e particolare rispetto. E quantunque la gravità dello stile, la eleganza della lingua, e i lumi de gli ornamenti di esse Orationi siano tali […] ch’è impossibile a qual si voglia eccellente ingegno in questo nostro volgar sermone acconciamente spiegarli […] non ne segue però che elle non possono recare al diligente Lettore il medesimo giovamento Volgari, che Latine […] E sì come a coloro che non possono vedere le divine Pitture di Michele Agnelo, di Rafaello, o di Titiano, basta molte volte un semplice abbozzamento, che le appresenti, di mano di altrui, […] se io non m’inganno, potrà porger frutto questa mia traduttione a chi non può udir Cicerone favellar nella sua natia lingua […]. Percioché, havendo io fermissima openione di dover giovare a coloro i quali lettere latine non sanno, ove l’utile comune ne segua, poco debbo curarmi de gl’invidi e de’ maligni.12
L’altro aspetto importante che emerge dalle dedicatorie è la riflessione teorica sul proprio fare traduttorio, nelle sue implicazioni teoriche e pratiche e che si esprime in una tendenza autoassolutoria, spesso ribadita, rispetto alle evidenti e inevitabili devianze dall’originale e alla necessità di doversi limitare a «rappresentar più il senso che le parole». Una necessità che si giustifica e si impone in nome delle difficoltà insite nella traduzione stessa, tanto più «malagevole» quanto più illustri sono gli autori e le opere con cui ci si deve confrontare, primo fra tutti Cicerone, le cui opere non si possono emulare per grandezza e perfezione, ma soltanto «portare acconciamente nella nostra favella» e riprodurre cercando di conservarne «la stessa forma, le stesse sentenze, e la forza de gli argomenti, del muovere, e del persuadere»:
Io confesso havermi posto, Magnifico et Eccellente S. Camillo, a grandissima e difficilissima impresa, e di gran lunga maggiore delle mie forze, nel tradurre le presenti Orationi di Marco Tullio Cicerone. Percioché, oltre che ’l recare qual si voglia componimento d’una in altra lingua è cosa malagevole per sé, questo è il Prencipe della Romana eloquenza, e delle sue molte opere questa è la più lodevole e la più rara […]. E quantunque la gravità dello stile, la eleganza della lingua, e i lumi de gli ornamenti di esse Orationi siano tali, […] ch’è impossibile a qual si voglia eccellente ingegno in questo nostro volgar sermone acconciamente spiegarli, non che giostrar di pari col Roman Cicerone, non ne segue però che elle non possono recare al diligente Lettore il medesimo giovamento Volgari, che Latine; conciosia cosa che, se non vi rimane la stessa grandezza e perfettione, vi rimane la stessa forma, le stesse sentenze, e la forza de gli argomenti, del muovere, e del persuadere13
Dall’una parte spaventavami la difficultà del tradurre, et spetitalmente quest’opra, la quale è veramente la più dotta, la più elegante, et la più difficile che fosse scritta da Marco Tullio, sì per la qualità delle varie scienze che in lei sono raccolte, et tra per alcuni luoghi da molti poco intesi, et di alcuni etiandio che non si possono portare acconciamente nella nostra favella, et sì perché, havendo io nella maggior parte della mia traduttione atteso a rappresentar più il senso che le parole, temeva d’essere in ciò ripreso da molti i quali, quanto meno sono capaci a penetrar nelle midolle d’alcuno autore, tanto più accusano di temerità coloro che, in questa parte seguitando il consiglio di Cicerone, s’affaticano di fare a chi legge comprender la mente et l’animo di colui che interpretar vogliono. Il che non si può far gentilmente se l’interprete non ha risguardo alle proprietà, a i termini et alle figure della lingua nella quale procaccia di ridurlo.14
Ma non è tutto. Alle difficoltà nel «recare qual si voglia componimento d’una in altra lingua», con l’impossibilità della resa verbo e verbo dei versi latini, si aggiunge l’ulteriore problema della scelta del metro più idoneo a riprodurre la metrica quantitativa latina. Si tratta, con tutta evidenza, di un aspetto tutt’altro che secondario, che prevede un approccio fatto di tentativi, oscillazioni e ripensamenti e che comporta anche soluzioni di segno opposto nel corso del tempo, come nel caso della Satira I di Orazio, in un primo tempo tradotta in terza rima e poi riproposta in versi sciolti nel volume del ’59, o delle Trasformationi, tradotte in ottave nella versione definitiva ma precedute, come già ricordato, dalla traduzione in versi sciolti del solo libro primo:
Ma considerando dall’una parte la difficultà del tradurre, et quanto sia faticosa impresa a isprimere leggiadramente gli eleganti concetti, le belle sententie et le mirabili proprietà di questo Poeta, et rivolgendo da l’altra nel mio animo la maniera del verso da me usato, non perciò senza l’autorità di molti ingegni approvati et dal giudicio et dalla dottrina, sì come più vicino all’Heroico et più atto a questo ufficio che la rima, tra per la prima cagione, et tra per essere egli anchor nuovo.15
Sulla scelta della terzina per il primo esperimento di traduzione della Satira I è lecito ipotizzare che abbia influito il modello delle Satire ariostesche.16 È probabile che agli occhi del Dolce fosse logico seguire l’esempio di colui che dell’opera oraziana aveva offerto un corrispettivo in lingua volgare di indubbio valore, senza tuttavia considerare le intrinseche peculiarità e difficoltà della pratica traduttoria, che richiede, almeno in via teorica, la massima cura nella ricerca di un’aderenza quanto più possibile rigorosa al testo originale. Il risultato evidentemente non dovette soddisfarlo, al punto che, recuperando a distanza di anni il progetto di traduzione delle Satire e delle Epistole, optò decisamente per il verso sciolto in virtù della sua maggior duttilità e adattabilità all’impostazione discorsiva e al tono prosastico delle satire stesse rispetto alla rigidità delle terzine che gli imponevano un continuo lavoro di ridimensionamento e dilatazione del dettato oraziano.
Tornando al volume oggetto del nostro lavoro, vale la pena indagare più nel dettaglio l’apparato paratestuale particolarmente ricco che lo accompagna e che in un contesto di natura divulgativa e commerciale deve avere un peso e una efficacia predominanti, nonostante i tempi stretti e i ritmi di lavorazione dettati dalla stamperia Giolito. Certo non siamo di fronte alla situazione delle Trasformationi, che furono approntate in fretta per combattere la concorrenza dell’Anguillara e sulle quali, nelle ristampe successive, il Dolce dovette intervenire per correggere il testo.17 In questo caso non vi è la necessità di anticipare un concorrente, tuttavia il poco tempo a disposizione e i tanti impegni legati all’attività spesso frenetica di curatore editoriale probabilmente non concedevano molto tempo per corredare le varie pubblicazioni, e questa traduzione in particolare, di saggi e interventi critici più approfonditi. Considerata poi la natura del pubblico cui il prodotto è rivolto, l’intento è fondamentalmente quello di fornire informazioni minime o comunque sufficienti a contestualizzare l’autore e la sua opera per poterla in qualche modo rendere accessibile al maggior numero di lettori.
A tale scopo la traduzione è accompagnata da alcuni brevi testi che ne facilitano la fruibilità e la piena comprensione da parte di un pubblico che necessita di essere edotto non solo sulle due raccolte ma anche sulle caratteristiche della satira in quanto genere letterario. Oltre alla Vita di Horatio discritta da M. Lodovico Dolce, che apre il volume, dunque, il Dolce ritiene di dover aggiungere in chiusura alcune pagine relative all’origine della Satira (Origine della Satira descritta da M. Lodovico Dolce) e tre discorsi dedicati rispettivamente alle Satire, alle Epistole e all’Ars Poetica (Discorso del medesimo sopra le Satire, Discorso sopra le Epistole, Discorso sopra la Poetica).
Pagine senza alcuna pretesa di esaustività, con una finalità eminentemente didascalica, e che tuttavia contengono considerazioni non banali non solo sulla poesia di Orazio –18 come quella rilevata a suo tempo da Curcio sulla «natura e lo stile delle Satire»19 («Serbò etiandio Horatio un certo mezo tra l’acerbità di Lucilio, antico scrittore di Satire, di cui egli fa mentione, e tra la soavità (che così dir si puote) che serbò dipoi Giuvenale») –,20 ma anche sulle caratteristiche della traduzione e sulle motivazioni che ne hanno determinato la ragion d’essere, vale a dire il diletto e, soprattutto, l’utile che ne possono trarre i lettori («E nel vero sono queste Epistole non pur morali, ma piene di ottimi e santissimi ricordi, e degne non solo di esser lette, ma di tenersi sempre in mano, cavandosi dalla loro lettione e diletto et utile parimente»).21
A confermare la natura divulgativa e pedagogica del volume concorrono anche i sommari che introducono i testi, enucleandone in una frase l’argomento principale, e le note esplicative che li accompagnano.
I sommari non si limitano a riassumere in una frase il contenuto del testo, ma in certi casi ne abbozzano anche un’ipotesi interpretativa, seppure semplice, oppure si dilungano maggiormente qualora vi sia la necessità di chiarire aspetti poco noti al lettore o che potrebbero apparire ambigui. Nell’Argomento che precede l’Epistola I 19, per esempio, il Dolce si sente in dovere di rimarcare come Orazio non consideri affatto Omero un «beone», nonostante lo definisca ironicamente «vinosus»:
Biasima gl’imitatori, dimostrando lui non haver seguito veruno in comporre i suoi versi; e molto più danna alcuni Poeti, i quali non potendo conseguir le virtù di coloro, che si sforzavano d’imitare, pareva loro di agguagliarli, contrafacendo i lor vitii: come facevano quelli, i quali intendendo Homero essere stato vago del vino, e (per così dire) beone, stimavano di poter divenir buoni Poeti, se essi ancora nel bere lo seguitavano. Il che è però detto da Horatio per via di giuoco; e non, perché egli tenesse vera la openion di Cratino; o che Homero havesse havuto cotal vitio».22
In particolare, attraverso rimandi a opere o autori contemporanei, il Dolce intende attualizzare il testo oraziano per consentirne una rilettura in chiave moderna che ne dimostri l’universalità e la tenuta dei valori morali anche in un contesto del tutto diverso.
È il caso dell’Ariosto, che nell’Argomento premesso all’Epistola I7 viene ricordato per averne ripreso e imitato i concetti: «Scusasi di non havere atteso alla promessa, e mostra quanto sia da prezzare la libertà. Il che fu leggiadramente in una sua Satira imitato dall’Ariosto».23 Ma è anche il caso di un poeta meno noto come Giovanni Mauro, che si rifà al modello oraziano dell’Iter Brundisinum per descrivere il proprio viaggio da Roma a Bologna in occasione dell’incontro tra Carlo V e il Papa e che per tale motivo viene ricordato nell’Argomento della Satira I 5:
A imitation di Lucilio, che discrisse un suo viaggio da Roma insino allo stretto di Sicilia, discrive Horatio un suo dalla medesima insino a Brandizzo: et in questo il gentilissimo Mauro imitò ancora egli leggiadramente questo Poeta.24
Anche le note a margine, che nulla concedono allo sfoggio di erudizione, hanno una funzione esclusivamente pratica, che si palesa nella ricerca della semplicità e nella capacità di adattarsi alle esigenze di un lettore non specialista, come si può osservare nella nota relativa al termine «precone» (‘praeco’ in Orazio, Sat. I 6, 86), che il Dolce rende più efficace e comprensibile attraverso un riferimento alla realtà veneziana e chiamando in causa direttamente il pubblico della sua città («Preconi quei, che noi in Vinegia dimandiamo comandatori, che fanno le citationi, publicano i mandati, e vendono le robbe a gl’incanti»),25 o come nel caso della celebre sentenza «est modus in rebus» della Satira I 1, tradotto con «È certo modo ne le cose umane» e accompagnato da una postilla che consenta una corretta interpretazione della poesia oraziana chiarendo il valore del sostantivo ‘modo’ in questo specifico contesto: «Modo qui è posto per misura».26
Accanto alle glosse di natura lessicale trovano spazio anche notizie relative ai personaggi citati, ai diversi aspetti della cultura e della storia romana o alle consuetudini e agli usi quotidiani ben presenti ai lettori di Orazio ma non più noti ai lettori moderni destinatari del volume, come la scrittura sulle tavolette di cera o l’obbligo del velo per le adultere («Scrivevano gli antichi in alcune tavole incerate»;27 «Le donne, che erano adultere, venivano costrette per infamia a vestir la toga»).28 Il fine didascalico impone, come si vede, un registro medio e un linguaggio semplice che consentano di veicolare in maniera immediatamente comprensibile anche nozioni apparentemente basilari, ma che il pubblico a cui si rivolge il volume evidentemente ignorava, come quelle relative ai Lari («Erano questi dei da gli antichi chiamati Lares»),29 al tempio di Giano («Si apriva il Tempio di Giano, quando si faceva alcuna guerra»)30 o alla battaglia di Azio («Accio, hoggi la Prevesa, ove fur vinti da Augusto in battaglia Navale Cleopatra e Marc’Antonio»).31 La stessa impostazione caratterizza le note relative agli argomenti mitologici, evidentemente considerati estranei alla cultura del lettore medio. Troviamo così notizie su eroi omerici come Glauco e Diomede («Glauco venuto a pugna con Diomede, cambiò le sue arme, ch’erano d’oro con quelle di Diomede, che erano di ferro, e di assai minor bontà»)32 o su personaggi mitici come Castore e Polluce («Castor si dilettava di Cavalli, / E quel, che nacque del medesmo ovo, / Godeva de la lotta»: «Polluce suo fratello, che nacquero amendue dell’ovo, che fece Giove trasformato in Cigno in grembo a Leda»),33 così come spiegazioni sui nomi e gli attributi delle divinità («Feronia è la medesima, che Giunone»;34 «Libero dinota Bacco, così detto, perché libera l’huomo da travagli e da noiosi pensieri»;35 «Mercurio è finto da Poeti Dio non pur della eloquenza, ma anco del guadagno»;36 «Laverna era Dea de’ ladri»).37
Per gli aspetti legati all’interpretazione dei passi oraziani più complessi o all’identificazione di personaggi e fatti ignoti, il Dolce si affida invece all’autorità di due commenti: quello di Pomponio Porfirione38 e quello più recente di Giovanni Britannico, pubblicato nel 1516 da Alessandro Paganini e ristampato nel 1520 da Guglielmo de Fontaneto de Monteferrato.39
Il commento imprescindibile per chiunque si avvicinasse a Orazio era senz’altro quello di Porfirione, e lo dimostra il fatto che lo stesso commento del Britannico ne è fortemente debitore, al punto che in molti casi non è possibile determinare da quale commento il Dolce tragga informazioni che si ritrovano più o meno identiche in entrambi, come accade nella Satira I 4 con le note relative all’attività di delatori e avvocati di Sulcio e Caprio («Hi acerrimi delatores et causidici fuisse traduntur»)40 o quelle – peraltro non presenti nel testo oraziano41 e dunque certamente desunte dai due commenti – sulla passione di Albio per i vasi di Corinto:
Per l’argento intende una credenziera di belli argenti, e per il rame di metallo i vasi Corinthij42
Albium, quem infra quoque male viventem ostendit, cupiditate vasorum et signorum Corinthiorum teneri ait43
Albium quem etiam infra male viventem ostendet: cupiditate vasorum & signorum corinthiorum teneri ait».44
D’altro canto, che il Dolce avesse sotto mano entrambi i commenti è fuor di dubbio, poiché egli stesso li cita in una nota relativa al personaggio di Evandro nella Satira I 3 («Evandro è da Porfirio esposto per uno artefice di que’ tempi: la quale openion non è tenuta dal Britannico»)45 e perché nelle note si ritrovano, a seconda dei casi, osservazioni presenti soltanto in uno dei due commenti, come quelle sul personaggio di Petilio della Satira I 4 che si leggono unicamente nel testo di Porfirione:
Fu costui accusato di haver rubato certe corone nel Campidoglio46
Petillius autem Capitulinus cum Capitoli curam ageret, coronae subreptae de Capitulio causam dixit, absolutusque a Caesare est.47
In altri casi il Dolce riporta invece notizie che non si trovano nel commento antico e che ricava con ogni probabilità dal Britannico (anche se non si può escludere la possibilità che si sia servito di ulteriori commenti). Per esempio, nella Satira I, 5, il famoso oppidulum che per ragioni prosodiche non può essere messo in versi, e che Porfirione identifica con Aequum Tuticum («Aequum Tuticum significat, cuius nomen exametro versu compleri non potest»),48 viene indicato con il nome di Equitutio («Era questo castello detto Equitutio»),49 probabile volgarizzamento della forma unita proposta dal Britannico («Equututium»).50 Altrettanto probabile il debito nei confronti del Britannico nell’Epistola I 18 a proposito del personaggio di Eutrapelo, dove il Dolce non si limita a indicare il significato del nome ma accenna, senza indicarlo, a un possibile altro significato, che potrebbe essere quello riportato dal commento:
Eutrapelo è voce Greca, e dinota huom piacevole e faceto. Pigliasi anco in altro significato, che in questo luogo non conviene51
Eutrapelus: graece comis & facetus Latine dicitur. Eutrapeli etiam dicuntur qui supra annorum rationem grandi corpore crescunt: citoque moriuntur.52
Così evidenti da non lasciare dubbi sulla dipendenza dal commento cinquecentesco sono invece due passaggi presenti nelle satire II 4, e I 9: nel primo il «pingui […] mero» oraziano, che Porfirione rende con «musto»,53 è tradotto con «mulso» secondo la lezione del Britannico («hoc est mulso»)54 e accompagnato dalla nota «Questo si faceva con vino e mele»;55 nel secondo, la nota sulla consuetudine di toccare l’orecchio a qualcuno per chiamarlo a testimone ricalca con ogni evidenza il testo del Britannico, come dimostrano la specificazione «tre volte» («ter») e il sostantivo «ricordanza» (che riprende il «memento» del modello) assenti nel commento di Porfirione:
Colui, che voleva appresentare al giudicio il debitore, che non ci era comparuto, tirava tre volte l’orecchia per segno di ricordanza a chi accettava di essere in ciò testimonio56
Hoc Horatius dicit. Porro autem qui antestabatur quem, auriculam ei tangebat atque dicebat: Licet te antestari?57
Ille enim qui antestabatur: auriculam ei ter tangebat dicens memento quod tu mihi in causa testis eris.58
Un discorso a parte meritano le note inserite per giustificare quei passi della traduzione che si discostano in modo radicale dal testo oraziano o ne stravolgono il dettato con interventi di censura a carico delle espressioni più licenziose o considerate “pericolose”. Non è facile stabilire con certezza quali siano le ragioni di questa scelta, tuttavia, considerando che il volume viene pubblicato nel 1559, cioè pochi anni prima della chiusura del Concilio di Trento, non è da escludere che gli effetti della Controriforma comincino a farsi sentire e gli editori debbano prestare particolare attenzione alla correttezza dei propri prodotti, la cui responsabilità è spesso affidata anche ai collaboratori e ai curatori editoriali.59 È altresì possibile che certi argomenti mal si accordino con l’impostazione stessa del volume, il cui scopo esplicitamente dichiarato consiste nell’«ornar di qualche bella virtù» l’animo dei lettori attraverso i «morali e […] Filosofici precetti» di Orazio. In ogni caso un dato è certo: si tratta senza dubbio di interventi consapevoli e non dovuti all’uso di un testo latino a sua volta già censurato, poiché i passaggi “incriminati” sono presenti nel commento del Britannico e pertanto il Dolce non poteva in alcun modo ignorarne l’esistenza.
Sostanzialmente gli interventi riguardano due ordini di argomenti, quello sessuale e quello religioso, ma soltanto in questo secondo caso i tagli sono segnalati esplicitamente con un commento a margine: nella Satira I 5, per esempio, non vengono tradotti i versi relativi al principio dell’imperturbabilità degli dèi derivata dalla filosofia epicurea60 («I tre versi e mezo che a questi seguono, per accostarsi Horatio burlando alla perversa openion de gli Epicuri, non habbiamo tradotti»),61 mentre nella Satira I 9 «per buon rispetto» non viene riportata la battuta di Aristio Fusco nei confronti degli Ebrei con l’uso del verbo «oppedere», cioè ‘scoreggiare’, e il riferimento alla mancanza di scrupoli religiosi esibita dal narratore62 («Quivi habbiamo lasciato fuori per buon rispetto quattro versi»).63
Nella gestione degli argomenti sessuali, al contrario, la censura non viene esplicitata in nota, ma messa in atto direttamente nella traduzione, in molti casi semplicemente eliminando tout court i termini e le locuzioni oraziani troppo espliciti. E così nella Satira I 2 vengono cassati il verbo permolere (‘fottere’), il sostantivo cunnus (‘prostituta’) e l’aggettivo depugis (‘dalle magre natiche’), mentre nella Satira II 7 addirittura scompaiono interi versi dove si fa riferimento al membro maschile (turgentis […] caudae) o a una particolare posizione assunta dalla donna durante l’atto sessuale (clunibus aut agitavit equum lasciva supinum):
[…] non alienas
permolere uxores […]
(Orazio, Sat. I 2, 34-35)
[…] non recar vergogna
Ai letti maritali […]
(Dolce, I dilettevoli Sermoni, cit., p. 24)
[…] «Nolim laudarier» inquit
«sic me» mirator cunni Cupiennius albi
(Orazio, Sat. I 2, 35-36)
Dice Cupennio; io non vorrei tal loda:
Si come quello, a cui fuor di misura
Soglion solo gradir le maritate
(Dolce, I dilettevoli Sermoni, cit., p. 24)
[…] «O crus, o bracchia!»; Verum
depugis, nasuta, brevi latere ac pede longo est
(Orazio, Sat. I 2, 92-93)
Ecco tu loderai le braccia, e ’nsieme
Le gambe d’una, che sarà nel resto
Diforme, e havrà di prima un lungo naso,
Et un gran piede, magra e senza fianchi
(Dolce, I dilettevoli Sermoni, cit., p. 27)
[…] Acris ubi me
natura intendit, sub clara nuda lucerna
quaecumque excepit turgentis verbera caudae,
clunibus aut agitavit equum lasciva supinum,
dimittit neque famosum neque sollicitum, ne
ditior aut formae melioris meiat eodem
(Orazio, Sat. II 7, 47-52)
Ch’io non riguardo, quando la natura
M’invita, qual sia questa, o qual sia quella;
E non ho tema, ch’un di me più ricco,
O di più bella forma nel mio loco
Vada, e mi privi, e me ne cacci fuora
(Dolce, I dilettevoli Sermoni, cit., p. 149)
In altri casi il Dolce si toglie dall’imbarazzo facendo ricorso a perifrasi o locuzioni che attenuano la portata delle immagini oraziane troppo esplicite, come nella Satira I 2,64 dove il verbo permixerunt (‘stuprarono’) viene reso con un più vago «fu mal trattato / In altra guisa» e il sostantivo puga (‘natica’) diventa, con evidente fraintendimento, «l’instrumento, onde si fa la gente»,65 o come nella Satira I 8, dove il fallo di Priapo esplicitamente descritto da Orazio viene evocato con una semplice allusione:
[…] nam fures dextra coercet
obscenoque ruber porrectus ab inquine palus
(Orazio, Sat. I 8, 4-5)
Però, che la mia destra gli allontana,
Et altro ancor, di cui fia il tacer bello
(Dolce, I dilettevoli Sermoni, cit., p. 69)
Ora, per venire alla traduzione vera e propria, è del tutto ovvio che questa impostazione, che risponde a una precisa linea editoriale, abbia ripercussioni non solo sulla struttura del volume ma anche sulla traduzione stessa, in relazione agli scrupoli di fedeltà all’originale.
Da questo punto di vista, se volessimo rifarci alla nota distinzione ciceroniana tra interpres e orator66 non potremmo non inserire il Dolce nel secondo gruppo, tra coloro cioè che consapevolmente si avvicinano al testo classico con l’intento di veicolarne in prima istanza i contenuti, «rifiutando l’officio di semplice traduttore»:
in tutta la mia traduzione ho tenuto un certo temperamento di non mi obbligare ad ogni particolare di così gran poeta, né di scostarmene molto: se non in quanto ho giudicato che la volgar lingua, e il costume di oggidì non lo comporti, rifiutando l’officio di semplice traduttore.67
Un approccio pragmatico e scevro da scrupoli di esasperata correttezza filologica, determinato evidentemente dalla natura commerciale e divulgativa delle traduzioni, così come dai ritmi serrati di lavorazione e, forse, dalla consapevolezza dei propri limiti. E tuttavia questa traduzione, almeno relativamente alla parte delle Satire, presenta caratteristiche in parte differenti rispetto al modus operandi riscontrabile nelle altre traduzioni dolciane, un metodo che il Dolce è molto attento a descrivere nel dettaglio nel Discorso del medesimo sopra le Satire già ricordato, contraddicendo esplicitamente quanto dichiarato nella dedicatoria indirizzata a Bernardino Ferrario che invece apre il volume («affaticato mi sono di rappresentar più i sensi, che le parole»):
Onde mi sono affaticato ancora io nel tradurre di seguitar lo istesso stilo e maniera di versi e di parole, per lo più non terminando la sentenza in un verso, ma riducendola nel mezo del seguente, e lasciandolo alcuna volta cadere, et alzandolo in alcuni luoghi, ove esso giudiciosamente lo innalza.68
È un’osservazione particolarmente interessante e sintomatica di come rispetto ai volgarizzamenti in ottava rima dei poemi epici –69 in realtà veri e propri rifacimenti – o anche alle stesse Trasformationi, questa traduzione delle Satire e delle Epistole appaia più controllata e attenta alla resa fedele del dettato oraziano (tenendo conto, ovviamente, dei già ricordati interventi di censura). Ponendosi in controtendenza rispetto alle proprie abitudini e alle stesse dichiarazioni anticipate nella dedicatoria – ma anche all’evoluzione del genere stesso della traduzione, che a partire dagli anni ’50 del secolo passa «dalla pratica neutra della transcodifica linguistica all’esibizione della diversità» e «dalla fedeltà e subordinazione all’originale al suo “miglioramento”» –,70 il Dolce si mantiene aderente al testo latino non solo nei contenuti ma anche nella forma, nel senso di una maggiore attenzione a conservarne lo «stilo» e la stessa «maniera di versi e di parole», limitando per quanto possibile le consuete intromissioni, le libere interpretazioni e gli interventi indebiti.
In tal senso può essere utile il confronto incrociato fra la versione in terza rima del 1535 e quella in versi sciolti del 1559 della Satira I (la sola presente in entrambi i volumi), fatta salva la necessaria premessa che tale confronto va considerato al netto del differente statuto metrico e dell’inevitabile scarto prodotto dall’obbligo di adeguamento alla misura del verso e di rispetto del vincolo della rima attraverso un continuo lavoro di taglio e integrazione. Luciana Borsetto, proponendo un analogo confronto tra le due versioni dell’Ars poetica contenute negli stessi volumi, osserva come nella prova più tarda «l’omogeneità del lavoro traduttorio condotto sulle Satire e sulle Epistole […] imponga eleganza, scorrevolezza, omogeneità anche al dettato della Poetica», ma rileva altresì come in entrambe le traduzioni emerga una «sostanziale identità del procedimento traduttorio, ispirato agli stessi principi di libertà nel tradurre».71 A esiti in parte diversi conduce invece la comparazione tra le due versioni della Satira I, che presentano alcune differenze, anche sostanziali, a livello di aderenza all’originale.
Ecco, per esempio, come si presentano i due incipit:
Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
contentus vivat, laudet diversa sequentis?
(Orazio, Sat. I 1, 1-3)
Onde avien Mecenate, onde si vede;
Che nessun si contenta de la sorte,
Ch’over sua stella, o elettion gli diede?
(Dolce 1535)72
Onde avien Mecenate, che nessuno
Di sua condition viva contento;
O che di volontà se l’habbia eletta,
O da Fortuna gli sia posta avanti:
Anzi loda color, che seguitando
Van da lo stato lor cose diverse?
(Dolce 1559)73
A un primo sguardo la sproporzione tra le due traduzioni, almeno dal punto di vista quantitativo, sembra evidente a favore della prima, apparentemente più misurata e asciutta. E tuttavia a un’analisi più attenta si può osservare come invece la versione in sciolti presenti un grado di fedeltà al testo classico di gran lunga superiore. Innanzitutto ne mantiene la stessa struttura sintattica, senza aggiunte («onde si vede») o, peggio ancora, vere e proprie cancellature, come quella che nella traduzione del 1535 porta alla scomparsa dell’intero emistichio «laudet diversa sequentis»; e poi presenta soluzioni meno personali e maggiormente orientate nella direzione di una resa più precisa dell’originale, come nel caso di «viva contento» in luogo del precedente «si contenta» per rendere in maniera letterale il «contentus vivat» oraziano, oppure alcune scelte lessicali più appropriate, come la sostituzione di «elettion» con «volontà» per tradurre «ratio» o di «stella» con «Fortuna» per rendere il latino «fors». Mancano inoltre le ridondanze, le ripetizioni, le perifrasi, e soprattutto le interpolazioni e le eliminazioni immotivate, che sono invece tratto distintivo dei volgarizzamenti in ottave più tardi e che si trovano già nella Satira I del 1535. Ecco un esempio fra i tanti:
Quid iuvat inmensum te argenti pondus et auri
furtim defossa timidum deponere terra?
(Orazio, Sat. I 1, 41-42)
Ma che ti giova? dato che possedi
Quant’oro ascose mai Patholo od Hermo;
Et habbi in ciò quanto domandi e chiedi?
Se sempre col pensier timido e ’nfermo,
Che non ti manchi, il sepellisci; e lassi
Patirne il core, in lui serrato e fermo?
(Dolce 1535)74
Lo scarto tra la brevitas oraziana e la dispersività del Dolce è talmente evidente che non sarebbe neppure il caso di sottolinearla e si quantifica nella misura triplicata dei versi: ben sei endecasillabi per tradurre due esametri. Una dismisura del tutto ingiustificata e affidata non solo a perifrasi debordanti (un endecasillabo e mezzo per rendere il solo «timidum»), ma anche all’aggiunta di elementi pleonastici («Et habbi in ciò quanto domandi e chiedi?») e specificazioni che vanno ad alterare il pensiero oraziano addirittura a livello di inventio (clamoroso l’accenno ai fiumi Pàtolo ed Ermo in virtù delle loro acque aurifere per enfatizzare il concetto di ricchezza smisurata reso da Orazio semplicemente con «inmensum […] argenti pondus et auri»).
E la distanza di questi versi dagli esametri oraziani si fa ancora più evidente se li si paragona all’essenzialità degli sciolti del 1559, dove timidum è tradotto con un più sobrio e corretto «pien di timidezza», così come l’avverbio furtim con il corrispettivo italiano «nascostamente», e dove soprattutto viene mantenuta la stessa struttura sintattica dell’originale:
Or, che ti può giovar così gran massa
D’oro e d’argento, pien di timidezza
Nascosamente sepellir sotterra?
(Dolce 1559)75
La peculiarità di questa traduzione rispetto alla comune prassi dolciana si può ritrovare, allora, nella ricerca di una maggiore fedeltà al modello: un’impostazione che in qualche modo stupisce se si considera quanto letto nelle dedicatorie e soprattutto quanto avviene qualche anno più tardi con i volgarizzamenti dei poemi virgiliani e omerici. E tuttavia è una scelta che appare meno sorprendente se si tiene conto del carattere di fondo di questa traduzione, l’idea su cui si regge l’intera operazione editoriale, cioè la centralità del fine didascalico-pedagogico che richiede una maggior attenzione al dettato oraziano e non consente intromissioni e libere interpretazioni personali che potrebbero comprometterne il valore e provocare fraintendimenti da parte del pubblico a cui è rivolto. Se così fosse, il Dolce avrebbe fatto una scelta di tipo conservativo non tanto per scrupoli di ordine filologico, quanto per un preciso calcolo imprenditoriale che prevede, in questa particolare situazione, la necessità di porre in primo piano l’aspetto del docere rispetto al delectare, lo stesso calcolo che, mutato di segno e volto alla ricerca del diletto, sarà invece alla base dei rifacimenti dell’Eneide e dell’Iliade.
____________
1 I dilettevoli Sermoni, altrimenti Satire, e le morali Epistole di Horatio, illustre poeta lirico, insieme con la Poetica. Ridotte da m. Lodovico Dolce dal poema latino in versi sciolti volgari. Con la Vita di Horatio. Origine della Satira. Discorso sopra le Satire. Discorso sopra le Epistole. Discorso sopra la Poetica, in Vinegia appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1559. Per le citazioni mi sono attenuto a un criterio conservativo, limitandomi a uniformare gli accenti alle moderne convenzioni e allo scioglimento delle abbreviazioni.
2 La poetica d’Horatio tradotta per messer Lodovico Dolce, in Vinegia per Francesco Bindoni, & Mapheo Pasini compagni, del mese di Agosto 1535 (ristampata l’anno successivo). Per le traduzioni dell’Ars poetica nel Cinquecento si rimanda a Luciana Borsetto, Tradurre Orazio, tradurre Virgilio. Eneide e Arte poetica nel Cinque e Seicento, Padova, Cleup, 1996, pp. 221-277. Sulla fortuna di Orazio nel XVI secolo si veda anche: Antonio Iurilli, Orazio nella letteratura italiana. Commentatori, traduttori, editori italiani di Quinto Orazio Flacco dal XV al XVIII secolo, Manziana, Vecchiarelli, 2004.
3 L’opere d’Oratio poeta lirico comentate da Giovanni Fabrini da Fighine in lingua vulgare toscana, con ordine, che ’l vulgare è comento del latino, et il latino è comento del vulgare, ambedue le lingue dichiarandosi l’una con l’altra, in Venetia appresso Gio. Battista Marchiò Sessa & fratelli, 1566.
4 I dilettevoli Sermoni, cit., pp. 4-5.
5 Cfr. Lodovico Dolce, Dediche e avvisi ai lettori, a cura di Donatella Donzelli, Manziana, Vecchiarelli, 2017 (per tutte le citazioni relative alle dedicatorie mi sono servito di questa edizione).
6 Dedica a Pietro Aretino della Poetica di Orazio, ivi, pp. 23-24.
7 Il primo libro delle Trasformationi d’Ovidio da M. Lodovico Dolce in volgare tradotto, impresso in Vinegia per Francesco Bindone, & Mapheo Pasini, del mese di maggio 1539.
8 Dedica a Guidubaldo d’Urbino del Primo libro delle Trasformationi di Ovidio, in L. Dolce, Dediche e avvisi ai lettori, cit., p. 36.
9 Il dialogo dell’oratore di Cicerone. Tradotto per M. Lodovico Dolce. Con la Tavola. Con Privilegio. In Vinegia appresso Gabriel Giolito de Ferrari, 1547.
10 Le orationi di Marco Tullio Cicerone, tradotte da M. Lodovico Dolce. Prima parte. Con la vita dell’autore, con un breve discorso in materia di Rhetorica. Et con le sue tavole per ciascuna parte. Con privilegi. In Vinegia appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1562.
11 Dedica a Giovanni Lippomano del Dialogo dell’oratore di Cicerone, in L. Dolce, Dediche e avvisi ai lettori, cit., p. 68.
12 Dedica a Camillo Trevisan della Prima parte delle Orationi, ivi, p. 274.
13 Ivi, pp. 273-274.
14 Dedica a Giovanni Lippomano, cit., pp. 67-68.
15 Dedica a Guidubaldo d’Urbino, cit., pp. 36-37.
16 Un’edizione delle Satire di Ariosto, tra l’altro, esce anche presso gli stessi Bindoni e Pasini nel luglio del 1535, cioè un mese prima del volume dolciano: Le Satire di m. Lodouico Ariosto nouissimamente stampate et alla loro sana lettione ridotte, in Vinegia per Francesco Bindoni, et Mapheo Pasini compagni, del mese di luglio 1535.
17 Nei suoi Tre discorsi Girolamo Ruscelli aveva aspramente criticato la traduzione del Dolce, ricordando all’autore, tra le altre cose, che «il poema è del poeta il quale finge e ritrova e spiega il soggetto, e finalmente il poema è di chi compone, non di chi traduce» (Tre discorsi di Girolamo Ruscelli, a M. Lodovico Dolce. L’uno intorno al Decamerone del Boccaccio, L’altro all’Osservationi della lingua volgare, Et il terzo alla tradottione dell’Ovidio. Con Privilegio. In Venetia, per Plinio Pietrasanta, 1553, p. 261).
18 Interessante anche la similitudine usata nella Dedicatoria per giustificare l’ordine in cui sono presentati i due testi oraziani: «Quanto all’ordine, sono stato alquanto dubbioso, se io doveva anteporre i Sermoni alle Epistole, havendo veduto alcuni esemplari, che hanno le Epistole avanti. Finalmente, oltre alla ragione, che pare, che ricerchi, che riprendendo questo Poeta ne’ Sermoni i vitij de gli huomini, e nelle Epistole insegnando la virtù, habbia voluto seguir l’esempio del buono Agricoltore: il quale prima leva de’ campi l’herbe nocive, e poi vi semina il grano» (Al Magnifico e Valorosissimo Signore, il Signor Bernardino Ferrario, nobile pavese, in I dilettevoli Sermoni, cit., p. 5).
19 Gaetano Curcio, Quinto Orazio Flacco studiato in Italia dal secolo XIII al secolo XVIII, Catania, F. Battiato, 1913, pp. 165-166: «il Dolce è il primo che determina la differenza, e il perché, tra il verso delle satire di Orazio e quelle di Giovenale, ciò che gli umanisti del ’400 non intesero, e ridussero ad inferiorità dell’uno in rapporto all’altro».
20 Discorso del medesimo sopra le Satire, in I dilettevoli Sermoni, cit., p. 315.
21 Discorso sopra le Epistole, ivi, p. 316.
22 I dilettevoli Sermoni, cit., p. 239.
23 Ivi, p. 191.
24 Ivi, p. 49.
25 Ivi, pp. 62-63.
26 Ivi, p. 20.
27 Ivi, p. 41.
28 Ivi, p. 25.
29 Ivi, p. 54.
30 Ivi, p. 44.
31 Ivi, p. 235.
32 Ivi, p. 67.
33 Ivi, p. 87.
34 Ivi, p. 51.
35 Ivi, p. 46.
36 Ivi, p. 103.
37 Ivi, p. 223.
38 Le citazioni sono tratte dall’edizione Holder del 1894: Pomponi Porfyrionis commentum in Horatium Flaccum, recensuit Alfred Holder, ad Aeni Pontem, Sumptibus et typis Wagneri, MDCCCLXXXXIIII.
39 Q. Horatii Flacci Odarum libri quatuor: Epodi. Carmen saeculare Porphyrio: Anto. Man. Ascensio interpretibus. Eiusdem Ars poetica. Sermonum libri duo. Epistolarum totidem Ioanne Britan. Brixi. interprete. Accedit ad novum interpretem index Copiosissimus dictionum fabularum & historiarum omnium quae hisce Commentariis insunt. Impressum summa diligentia Venetiis per Alexandrum Paganinum Anno domini Millesimo quingentesimo sexto decimo Kalendis maiis. Per le citazioni mi sono servito dell’edizione successiva del 1520: Q. Horatii Flacci Odarum libri quatuor: Epodi Carmen saeculare Porphyrio Anto. Manci. Ascensio interpretibus. Eiusdem Ars poetica. Sermonum libri duo. Epistolarum totidem. Ioanne Britan. Brixi. interprete. Accedit ad nouum interpretem index copiosissimus dictionum fabularum & historiarum omnium, Venetiis: per Gulielmum de Fontaneto de Monteferrato, MDXX. Die. yii. Aprilis.
40 Pomponi Porfyrionis commentum, cit., p. 251 e Q. Horatii Flacci Odarum libri quatuor, cit., p. 151.
41 Orazio, Sat. I 4, 28: «stupet Albius aere».
42 I dilettevoli Sermoni, cit., p. 42.
43 Pomponi Porfyrionis commentum, cit., p. 250.
44 Q. Horatii Flacci Odarum libri quatuor, cit., p. 150.
45 I dilettevoli Sermoni, cit., pp. 36-37.
46 Ivi, p. 46.
47 Pomponi Porfyrionis commentum, cit., p. 253.
48 Ivi, p. 259.
49 I dilettevoli Sermoni, cit., p. 55.
50 Q. Horatii Flacci Odarum libri quatuor, cit., p. 154.
51 I dilettevoli Sermoni, cit., pp. 232-233.
52 Q. Horatii Flacci Odarum libri quatuor, cit., p. 218.
53 Pomponi Porfyrionis commentum, cit., p. 310.
54 Q. Horatii Flacci Odarum libri quatuor, cit., p. 182.
55 I dilettevoli Sermoni, cit., p. 127.
56 Ivi, p. 77 (il corsivo è mio).
57 Pomponi Porfyrionis commentum, cit., p. 279.
58 Q. Horatii Flacci Odarum libri quatuor, cit., p. 162 (il corsivo è mio).
59 Osserva Amedeo Quondam come la stessa produzione libraria subisca una rapida trasformazione nel senso di uno spazio sempre maggiore riservato ai testi religiosi. Nella stamperia dei Giolito questo «mutamento di linea editoriale» avviene proprio in concomitanza con la chiusura del Concilio tridentino, ma le prime avvisaglie si manifestano già a partire dal 1555: «tra il 1545 e il 1565 l’attenzione maggiore è per i libri di argomento letterario e di trattatistica: dopo questa data (ma la curva è in rapida crescita già dal 1555) la produzione giolitina è dominata da testi di argomento religioso» (A. Quondam, “Mercanzia d’onore”/“Mercanzia d’utile”. Produzione libraria e lavoro intellettuale a Venezia nel Cinquecento, in Libri, editori e pubblico nell’Europa moderna. Guida storica e critica, a cura di A. Petrucci, Bari, Laterza, 1989 [1977], p. 91).
60 «[…] Credat Iudaeus Apella, / non ego; namque deos didici securum agere aevom / nec, siquid miri faciat natura, deos id / tristis ex alto caeli demittere tecto», Orazio, Sat. I 5, 100-103.
61 I dilettevoli Sermoni, cit., p. 56.
62 «“Certe nescio quid secreto velle loqui te / aiebas mecum”. “Memini bene, sed meliore / tempore dicam; hodie tricensima, sabbata; vin tu / curtis Iudaeis oppedere?” “Nulla mihi” inquam / “religio est”. “At mi; sum paulo infirmior, unus / multorum; Ignosces, alias loquar”. […]», Orazio, Sat. I 9, 67-72.
63 I dilettevoli Sermoni, cit., p. 77.
64 Orazio, Sat. I 2, 44 e 133.
65 I dilettevoli Sermoni, cit., pp. 24 e 30.
66 Cicerone, Libellus de optimo genere oratorum, 23.
67 Il primo libro dell’Enea di M. Lodovico Dolce. Tratto dall’Eneida di Virgilio. All’illustrissimo S. Don Vincenzo Gonzaga. Prior di Barletta. In Venetia presso Giorgio de’ Cavalli, 1566, c. 2r.
68 I dilettevoli Sermoni, cit., p. 315.
69 L’Enea di M. Lodovico Dolce tratto dall’Eneida di Virgilio, all’Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Don Francesco De Medici Principe di Fiorenza & di Siena. Con Privilegio. In Venetia, per Giovanni Varisco & compagni, MDLXVIII e L’Achille et l’Enea di Messer Lodovico Dolce. Dove egli tessendo l’historia della Iliade d’Homero a quella dell’Eneide di Vergilio, ambedue l’ha divinamente ridotte in ottava rima. Con argomenti, et allegorie per ogni canto: Et due Tavole: l’una delle Sentenze; l’altra de i Nomi, & delle cose più notabili. Al Potentissimo et Invittissimo Filippo d’Austria Re Catholico. Con privilegii. In Vinegia appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1570.
70 L. Borsetto, Tradurre Orazio, cit. pp. 30-31.
71 Ivi, pp. 231-232.
72 Satira prima d’Horatio, in La poetica d’Horatio tradotta, cit., n.n.
73 I dilettevoli Sermoni, cit., p. 13.
74 Satira prima d’Horatio, in La poetica d’Horatio tradotta, cit., n.n.
75 I dilettevoli Sermoni, cit., p. 16.