Ricezione dei classici
OJ-italique-941
« Il poema è di chi traduce, non di chi compone » : l’estensione del dominio della traduzione
Nel titolo del presente contributo, tra caporali, rovescio, invertendone provocatoriamente i termini, una scontatissima riflessione del pedantesco Girolamo Ruscelli che, nei suoi Tre discorsi a M. Lodovico Dolce (Venezia, Plinio Pietrasanta, 1553), da una prospettiva traduttoria rigorosamente e ottusamente tradizionalista, sottolineava come «finalmente il poema è di chi compone, non di chi traduce» (p. 261), criticando il lavoro di riappropriazione e riconfigurazione delle Metamorphoses ovidiane compiuto da Lodovico Dolce nelle sue, peraltro fortunatissime, Trasformationi (Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1553).
Il rovesciamento mi pare del tutto indispensabile per comprendere le peculiarità del recupero dell’antico, compiuto con le traduzioni a partire dagli anni Trenta e Quaranta del XVI secolo, specialmente se esercitate su organismi poematici complessi, per i quali esistevano sì dei modelli classici perfetti e tecnicamente irrecuperabili (Omero e Virgilio), ma anche dei conclamati classici moderni (Ariosto), di cui non si poteva non tenere conto.1
Se, nel contesto di una cultura egemonicamente classicistica come quella dell’Umanesimo e del primo Rinascimento, a orientare le varie pratiche traduttorie era stata l’imitatio (quantunque, magari, agonistica), con l’affermazione della Stimmung manierista il testo originale cominciò a non essere più riverito con scrupolo filologico e replicato nella traduzione, bensì riscritto, espanso, rifratto, in un’ottica di gareggiamento virtuosistico, di aemulatio attualizzante, che contemplava, in alcuni casi,addirittura la liquidazione del rapporto di rispecchiamento che dovrebbe inerire naturalmente alla relazione tra ipertesto e ipotesto,2 con l’originale disinvoltamente sfigurato nella restituzione in volgare al punto da essere messo in discussione nella sua capitale funzione di modello cogente. Gli stessi autori materiali delle opere originali vennero pressoché sistematicamente messi in ombra rispetto al traduttore che sentiva il «bisogno di esibirsi quale unico responsabile nelle scelte formali operate, di dichiararsi autore di un atto di comunicazione letteraria sostanzialmente elaborato in proprio»,3 esautorando i legittimi responsabili dell’inventio testuale su cui si esercitava il suo personale lavoro.
Esaurita la fase dei volgarizzamenti medievali e umanistici (che pure continuarono ad essere riproposti nei primi decenni del secolo)4 e sottratti i classici greci e latini alla funzione di modelli intangibili di perfezione, la messe di traduzioni vide uno spettacolare incremento quantitativo, specie per effetto dell’esplosione dell’industria tipografica e della crescita contestuale del numero dei consumatori culturali.5
Ed è quasi un lieu commun il fatto che il cospicuo aumento del numero dei prodotti ipertestuali non sia stato accompagnato da un autentico sforzo di chiarificazione teorica dei limiti della questione, con una Übersetzungswissenschaft che, de facto e perlomeno in Italia, si risolse integralmente in sparuti e discontinui pronunciamenti teorici paratestuali, limitandosi spesso a riarticolare la vieta dialettica, ben presto scaduta ad anodino cliché, tra traduzione ut interpres e traduzione ut orator.6
A parte che qualche tentativo teorico, e non dei meno significativi, fu compiuto anche nelle prefazioni o nelle dedicatorie che accompagnavano le traduzioni,7 occorrerebbe chiedersi perché i letterati e i traduttori del medio Cinquecento non sentissero troppo il bisogno di costruire impalcature teoriche ed epistemologiche che orientassero e sostenessero le pratiche di restituzione moderna dei testi antichi: la scarsa riflessione teorica e l’esuberante produzione testuale confermerebbero proprio l’affacciarsi di una necessità storica e culturale che non si poteva mancare di cogliere, in una fase di transizione culturale, sociale ed economica come quella dell’epoca, differendo ad un tempo successivo l’elaborazione degli strumenti teorici necessari a supportare quei lavori. Il presente, dominato dal lavoro delle tipografie, imponeva ai traduttori pratiche di restituzione totalmente nuove, autorizzandoli, pur di venire incontro alle esigenze del pubblico dei nuovi lettori, a valorizzare meno il testo originale che il contesto di ricezione, in modo da saturare l’orizzonte d’attesa del pubblico, compiendo manipolazioni testuali, espansioni, forzature, azioni, più o meno macroscopiche e intenzionali, di misreading degli originali.8
Se non si tiene conto di ciò, diventa problematico, e forse infruttuoso, accostarsi alle traduzioni del Cinquecento, che si configurarono, specie a partire dall’affermazione del Manierismo, non tanto come operazioni interlinguistiche (come avrebbero voluto i puristi che si affannavano a conservare l’originale verbatim, producendo orrori assolutamente illeggibili), quanto come processi di ricodificazione transtestuale in cui occorreva realizzare traduzioni «prossimizzanti»,9 capaci di intercettare i gusti del pubblico, senza troppo curarsi del testo di partenza (che, d’altra parte, era pur sempre disponibile in lingua originale per il pubblico colto o coltissimo che sentisse il bisogno di un accessus diretto). Quali che fossero le motivazioni del lavoro di restituzione in volgare e le modalità della sua esecuzione, in una scala che va dal mero rispecchiamento letterale alla radicale reinvenzione, è indispensabile che ogni ipertesto, per funzionare in quanto tale, lasciasse filtrare e facesse intravedere, sovrapponendovisi, la filigrana dei contenuti, dei nuclei tematici e dei significati dell’ipotesto, pena la compromissione della funzione e delle intenzioni stesse del processo di traduzione e della relazione transtestuale che, quantunque talvolta a maglie larghe o larghissime, doveva per forza essere riconoscibile per poter far funzionare, anche commercialmente, il testo tradotto.
Proprio questa precisa dinamica di ricodificazione attualizzante spiega, a mio parere, la fisionomia del tutto caratteristica della traduzione cinquecentesca, specialmente per ciò che concerne alcuni generi letterari particolarmente popolari. E a questo punto, l’allusione all’«estensione del dominio della traduzione» (ripresa fin troppo sfacciata del titolo di un noto romanzo di Michel Houellebecq)10 diventa trasparente, essendo riferita al mutamento di limiti, prerogative e modalità di ciò che si era definito traduzione nel Quattrocento umanistico e che noi, sostanzialmente, concepiamo come tale, oggi: ha poco senso cercare microtestuali infrazioni di fidelité da parte dei traduttori del medio Cinquecento, giacché essi non erano più (o non ancora) traduttori nel senso epistemologicamente forte che noi attribuiamo oggi a questa funzione, quanto piuttosto ricodificatori e riscrittori.
Ma, e questo è il punto, andranno considerati a pieno titolo traduttori, quantunque, forse, traduttori deboli, nel contesto di un campo culturale in cui il perimetro di ciò che veniva definito traduzione si era allargato enormemente.
Indagare le premesse teoriche delle traduzioni è un’operazione di utilità relativa: tutti i testi tradotti rispondevano a precise esigenze del mercato editoriale e venivano dotati dello stesso statuto di prodotti ipertestuali, più e meno forti, che si dovevano confrontare, per funzionare, con esso, mettendo perlopiù tra parentesi il ruolo degli auctores reali delle opere che venivano tradotte e pubblicate, perché di fatto accessorio e perfino fuorviante.
Aggiungo ancora che, nel mercato tipografico del tempo, le traduzioni non venivano soppiantate da successive versioni, per il fatto che queste ultime fossero migliori, ma, spesso, per altre ragioni, che non avevano alcuna relazione specifica con la qualità letteraria del lavoro eseguito e che riflettevano, semmai, le dinamiche della concorrenza editoriale, la diversa qualità del confezionamento del manufatto libro, l’aggiunta, nel tempo, di paratesti di commento e supporti di lettura (allegorie, tavole, indici…), che permettevano di chiarire i significati del testo, rendendo più comoda ed efficace la sua fruizione.
La traduzione, insomma, estese nel Cinquecento il proprio dominio molto al di là del perimetro che le assegniamo oggi: qualunque adattamento o riconfigurazione o travestimento rispondeva alle sollecitazioni culturali e agli orizzonti d’attesa del nuovo pubblico e l’esito andrà pertanto valutato come un autonomo prodotto testuale di quel tempo e di quel contesto, appartenente ad un nuovo, specifico settore del campo letterario, che era quello della riscrittura, in tutte le sue declinazioni.11 E il pubblico che sollecitava lo sviluppo del mercato editoriale delle traduzioni aveva come precipuo obiettivo dell’esperienza di lettura quello di divertirsi, di provare un «meraviglioso diletto»,12 scoprendo o riscoprendo le imprese e i tradimenti degli eroi o le metamorfosi degli dèi del mito raccontate nei poemi degli antichi.13
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Lodovico Dolce (1508-1568), tra i più prolifici, versatili e multiformi operatori culturali del medio Cinquecento, lavorò per tutta la vita presso varie officine tipografiche veneziane, in qualità di traduttore, revisore ed editore, storico (perlopiù au second degré), autore di dialoghi e di trattati su disparati argomenti, allestitore di antologie liriche ed epistolari, ma anche, in proprio, come lirico amoroso e poeta sacro, d’occasione, burlesco, come drammaturgo comico e tragico, poeta epico e cavalleresco.14
La sua fu dunque un’attività, è stato già detto, colossale e ipertrofica, gravata certo dalle tare del condizionamento commerciale e dalla corrività, ma anche – secondo me, più di quanto sia stato sottolineato in passato – in linea con alcuni significativi aggiornamenti della cultura letteraria dell’epoca, secondo una direzione che rende molte delle sue opere sussumibili, per strategie compositive, forme e strutture, scelte stilistiche e retoriche, sotto la categoria di Manierismo.15
Beninteso, onde evitare equivoci, di un Manierismo che, nel caso del Dolce, non andrà interpretato come stravaganza, eccesso, sperimentalismo, ma semmai, iuxta la sua naturale propensione per la medietas e il suo penchant per quella che è stata felicemente definita «invenzione del rifacimento»,16 come una personale maniera, iperclassicistica più che anticlassicistica, contraddistinta, da un lato, dalla scelta di modelli (Ovidio e Seneca su tutti) che, mettendo in discussione la funzione detenuta dalle più consolidate auctoritates del classicismo rinascimentale (Virgilio, Orazio, Cicerone), contestualmente ne promuoveva la destituzione dal campo letterario del tempo, secondo dinamiche di aggiornamento riconducibili ad una declinazione capricciosa, inquieta, disarmonica del Rinascimento medesimo; e caratterizzata, dall’altro lato, da una postura che prevedeva l’impiego massivo di pratiche ipertestuali di riuso, secondo i meccanismi di una letteratura costruita strutturalmente con materiale di riporto, pertanto sostanzialmente artificiale, al quadrato, iperletteraria e metaletteraria.
In riferimento alle varie pratiche che ho sopra rubricato nella macrocategoria di traduzione, Dolce si espose specialmente in alcune lettere dedicatorie. In quella, celebre, indirizzata a Giacomo Barbo, premessa alla sua seconda tragedia Thyeste,17 tratta da Seneca, scriveva:
[…] Non è adunque di sì poca importanza, come alcuni istimano, l’officio di tradurre un libro d’una lingua in un’altra, in modo che si possa comportevolmente leggere. Percioché, oltre che ogni lingua ha certe particolarità che recata in un’altra in gran parte le perde, aviene anchora che molte cose ci si vengono dette altrimenti di quello, peraventura, che furono intese dal loro autore. Onde, fa di bisogno, che l’interprete sia non pure intendentissimo et accompagnato da un buono e perfetto giudicio, ma ornato et eloquente nel dire. Le quai cose, trovandosi insieme aggiunte, non è dubbio che a nostri dì non si potesse nella nostra lingua volgare rappresentar la candidezza e bellezza delle prose di Cicerone, et la maestà et eleganza contenute nei versi di Virgilio. Percioché, i soggetti, o bene o male che si trasportino, pure in gran parte sono compresi, ma i colori et le figure del dire et le grandezze et purità de gli stili del tutto si perdono, se da maestro et giudicioso ingegno non vengono conosciuti et distesi.18
Qui «l’officio di tradurre un libro d’una lingua in un’altra» era reputato più complesso dell’inventio originale, esigendo importanti competenze linguistiche, retoriche e stilistiche e «molto più è da credere, che difficile cosa sia lo esprimere o con parole, o con inchiostri i concetti altrui; di maniera, che non si offenda né l’intelletto di chi legge, né le orecchie di chi gli ascolta: perciò che fa di mestiero, che noi quasi un’altra lingua et quasi (se far si può) un’altra natura prendiamo», dal momento che ogni lingua e ogni testo dispongono di tratti pertinenti e di peculiari caratteristiche di genere, tali che spesso accade che «molte cose ci si vengono dette altrimenti di quello peraventura, che furono intese dal loro autore». E anche qualora «l’interprete sia non pure intendentissimo et accompagnato da un buono e perfetto giudicio» ed «ornato et eloquente nel dire», non riuscirà mai a riprodurre «la candidezza e bellezza delle prose di Cicerone, et la maestà et eleganza contenute nei versi di Virgilio»: il contenuto concettuale, i soggetti, sono dunque, per Dolce, conservabili e trasmissibili nel passaggio da un originale a una versione in volgare, ma «i colori et le figure del dire; et le grandezze et purità de gli stili del tutto si perdono, se da maestro et giudicioso ingegno non vengono conosciuti et distesi».
Qualche anno dopo, nella dedicatoria a Giovanni Lippomano, che precedeva il Dialogo dell’Oratore di Cicerone (1547),19 una delle opere capitali della riflessione estetica e poetica cinquecentesca, prima del grande rilancio di Aristotele, Dolce ribadiva:
Havendo io nella maggior parte della mia traduttione atteso a rappresentar più il senso, che le parole, temeva d’essere in ciò ripreso da molti; i quali quanto meno sono capaci a penetrar nelle midolle d’alcuno autore, tanto più accusano di temerità coloro, che in questa parte seguitando il consiglio di Cicerone, s’affaticano di fare a chi legge comprender la mente et l’animo di colui, che interpretar vogliono, il che non si può far gentilmente, se l’interprete non ha risguardo alle proprietà, a i termini, et alle figure della lingua, nella quale procaccia di ridurlo. Dall’altra parte considerando l’utile, che dalla lettione di questo libro può venire a infiniti huomini, a i quali per qualsivoglia difetto è tolto di poter sentir ragionare Cicerone nella sua lingua […] non ho voluto tenerlo più ascoso: dandomi a credere, che se la traduttione non sarà di quella perfettione, che si converrebbe a sì degna opera, almeno si debbano trovare in lei due parti necessarie: le quali sono (se io non m’inganno) chiarezza ne i sensi, et facilità nello stile. […] A quegli veramente, che, come io odo, prendono disdegno, che sì fruttuose vigilie del Principe de gli Oratori Latini siano fatte communi a tutta Italia, […] rispondo, che serbandosi nelle traduttioni i medesimi concetti, ragionevolmente ne segue, che ’l medesimo profitto se ne possa trarre in tutte le lingue: et tanto più nella regolata Thoscana.
Vi si vedono qui confermati alcuni tratti tipici della grammatica della traduzione cinquecentesca: 1) il privilegio accordato a una strategia di restituzione ad sensum e non ad verbum; 2) la necessità di concepire il processo di mediazione testuale come orientato nella direzione del pubblico contemporaneo, ridimensionando lo scrupolo filologico che la cultura umanistica aveva manifestato nei confronti dei modelli antichi; 3) la necessità di essere molto preparati, sul piano retorico e stilistico, nella lingua d’arrivo (per cui si dovrà avere «risguardo alle proprietà, a i termini, et alle figure della lingua, nella quale procaccia di ridurlo»), più che in quella del testo che viene tradotto.
E ancora, nella dedicatoria a Bernardino Ferrario, nobile pavese, premessa a I dilettevoli sermoni, altrimenti Satire, e le morali epistole di Horatio (1559), Dolce ribadiva, citandosi quasi alla lettera, di aver compiuto la traduzione cercando «di rappresentar più i sensi, che le parole, per render quegli, che sono a molti oscuri, chiari, quanto più si potesse a ciascuno, usando in ciò i versi sciolti».20
L’intero lavoro di traduzione, più o meno ipertestuale, a seconda dei casi, compiuto negli anni da Dolce, confermò le premesse teoriche esibite nei paratesti qui allegati, evidenziando la costante applicazione di strategie orientate a conseguire sempre la perspicuitas comunicativa, con lo scopo precipuo di ridurre al minimo l’impatto dell’oscurità degli originali, anche se ciò implicava, coerentemente con i codici traduttorî che si erano imposti nel medio Cinquecento, massicci interventi di manipolazione degli stessi.
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Ciò che emerge in maniera plateale, quando ci si confronta con le traduzioni epiche del Dolce è la scelta, consapevole e precisa da parte sua, di inserire i poemi antichi di Omero, Virgilio e Ovidio nella recente, autorevole tradizione del poema cavalleresco in ottave: gli originali venivano fusi in un nuovo stampo che esibiva, ed era una delle cause del loro successo editoriale, un legame potente (ideologico, strutturale, architettonico, metrico, ritmico, lessicale, stilistico, retorico) con il nuovo classico par excellence, il Furioso ariostesco (la cui fortuna era dipesa anche dall’intensa azione promozionale del Dolce e del suo editore Giolito de’ Ferrari).21
Odýsseia, Aeneis e Metamorphoses venivano recepite da un nuovo pubblico di consumatori culturali, conservando evidentemente lo statuto di modelli di perfezione classica nel momento stesso in cui erano tradotte, ma subivano un lavoro di transcodificazione e «transmetrizzazione»22 che le inseriva, de facto, in un altro genere letterario, quello del poema cavalleresco rinascimentale, molto più moderno e più adeguato ai gusti del pubblico.
La questione richiederebbe, va da sé, approfondimenti che non sono possibili nel breve perimetro di questo contributo, ma ciò che mi pare interessante nelle traduzioni del medio Cinquecento, e specialmente nei lavori del Dolce, è proprio questo nucleo irriducibile di problematicità che inerisce all’attribuzione dello statuto di classico, non revocabile evidentemente in dubbio, che quei modelli capitali della letteratura antica detenevano, d’altro canto smentito, o parzialmente ridimensionato, nel momento stesso in cui la loro riproposizione veniva filtrata attraverso una risillabazione testuale che ne attualizzava le forme, le strutture, la lingua, mediante il massiccio uso di quelle reperibili nella recente tradizione in volgare, la qual cosa permetteva al pubblico dei nuovi lettori di provare l’esperienza, suggestiva e un po’ straniante, delle «agnizioni di lettura».23 Già la scelta di usare l’ottava per raccontare le vicende narrate da Omero, Virgilio e Ovidio attivava una relazione complessa con dei classici destituiti, diminuiti, ma ritestualizzati in volgare ricorrendo a un vasto materiale di riporto, dotato però, a metà Cinquecento, di un valore modellizzante paragonabile a quello detenuto dagli originali latini e per ciò adibito a deposito di riuso e di prelievo massivo.
Date queste premesse, mi riprometto di dare qui alcune indicazioni sui metodi e sulle pratiche adottati da Dolce nei suoi lavori di traduzione dell’epica latina, concentrandomi, per mera comodità, sulla sua celebre versione del poema mitologico ovidiano, Le Trasformationi (Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1553), e sulla sua prima traduzione dell’Aeneis virgiliana, che diventò L’Enea, tratto dall’Eneida di Virgilio (Venezia, Giovanni Varisco, 1568).24
Vari studiosi hanno scritto contributi decisivi sulla funzione delle Metamorphoses ovidiane e delle Trasformationi del Dolce nel contesto della cultura cinquecentesca: ciò mi esime dal dover ripetere ciò che si trova nei loro scritti, cui rinvio senz’altro per approfondimenti.25 Come quasi sempre nel campo delle traduzioni cinquecentesche, ritengo opportuno tener conto non tanto dell’originale latino adibito a ipotesto, quanto delle sue ricodificazioni in volgare, giacché con quelle, Dolce (e i traduttori come lui), si confrontavano. Credo cioè che sia opportuno ragionare più sulle relazioni orizzontali tra vari ipertesti (T2 < > T3 < > T4…), che su quelle verticali tra ipotesto e ipertesto (T1 > T2, T3, T4…) e reputo poco proficuo, quantunque non insignificante, certo, indagare sulle edizioni originali su cui i lavori di traduzione vennero materialmente realizzati.26
Questi letterati non cercavano più il plauso di un seletto cenacolo di umanisti, ma perseguivano il successo commerciale: intendevano far prevalere le ragioni del delectare su quelle dello iuvare, consapevoli che in un contesto bulimico, quale certamente era quello dell’industria tipografica, occorreva occupare (e mantenere) sempre nuovi spazi di mercato, sottraendo quote di consumatori culturali alle imprese rivali.
Le Trasformationi del Dolce furono un esemplare tentativo di battere sul tempo uno stampatore concorrente dei Giolito, Giovanni Griffio, che aveva annunciato di voler sottoporre le Metamorphoses ovidiane a una completa riscrittura in ottave, e che aveva affidato l’incarico al letterato laziale Giovanni Andrea dell’Anguillara.27
Il lavoro, pubblicizzato a partire dal 1552, fu parzialmente realizzato nel 1553 (il solo primo libro), integrato nel 1554 (i primi tre libri), per essere portato a compimento solo nel 1561, anno di stampa.28
La necessità di fare in fretta per sbaragliare la concorrenza impose certo a Lodovico Dolce ritmi di lavoro notevoli, che permisero a Gabriele Giolito de’ Ferrari di stampare nel 1553 ben 1.800 copie della sua versione in ottave, conferendo all’impresa il sigillo di una prestigiosa e «fastosa ufficialità».29 E il successo dell’opera sarebbe stato invero notevole negli anni seguenti: «sei edizioni apparvero vivente l’autore nel giro di otto anni, cui ne seguirono altre due postume»,30 nonostante la concorrenza della versione dell’Anguillara.31
Tentando qualche affondo di lettura che dovrà essere, di necessità, close, per andare al di là dei vulgati e noiosi stereotipi sull’insipienza del Dolce, mi pare vadano evidenziate alcune peculiarità delle sue tecniche di traduzione.
Nelle ottave dedicate al topos della aurea Aetas, mito di cui Ovidio fu uno dei diffusori più convincenti nel Rinascimento, Dolce lavorò con una certa sicurezza, conseguendo risultati di pregio indiscutibile:
Era per tutto eterna Primavera: E Zefiro spirando in ogni prato Nudria diversi fior, ch’a schiera a schiera Ciascun crescea senz’alcun seme nato. Quinci stillava d’Elce ombrosa e nera Il mele, del ciel dono almo e beato; E i chiari fiumi, e le fontane intatte Pieni correan di nettare e di latte. (I, 34) | Ver erat aeternum, placidique tepentibus auris Mulcebant Zephyri natos sine semine flores. Mox etiam fruges tellus inarata ferebat, Nec renouatus ager grauidis canebat aristis, Flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant Flauaque de uiridi stillabant ilice mella. (Ovidio, Me32t., I, vv. 107-112) |
La fonte principale adibita a modello fu certamente la versione mista, in prosa e in ottave, di Niccolò degli Agostini, Di Ovidio le Metamorphosi (segnatamente dal capitolo Della prima Età dell’Oro), che fu un piccolo best-seller dell’editoria veneziana del Cinquecento:33
& sempre era primavera, & zephiro produceva & trahevasi temperato, il quale creava i fiori senza alcuna semenza, & i campi senza esser lavorati da loro istessi producevano le biade & le ariste bianche, & i fiumi correano di latte & di dolcezza, & lo bianco mele si distillava dal verde ilice.
Sempre presente in Dolce l’amatissimo Ariosto,34 anche usato rifunzionalizzando locuzioni avverbiali deboli (cfr. «Non molto dopo, instrutto a schiera a schiera» in Orlando furioso, XXXVIII, 77, v. 1); fanno capolino qui però soprattutto altri autori del canone del classicismo volgare, sia mediante il recupero di precisi lessemi, sia attraverso l’adozione di clausole isometriche o isoritmiche:
Zefiro il prato di rugiada bagna (A. Poliziano, Stanze per la giostra, I, 77, v. 3)
sparsi sotto quel’elce antiqua et negra. (F. Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, 192, v. 10)
E le fontane intatte
Corran di puro latte. (I. Sannazaro, Arcadia, III, ecloga Sovra una verde riva, vv. 38-39)
I chiari fiumi e le fontane pure
Non correan più lucenti e be’ cristalli,
Né le quercie qual pria, nodose e dure,
Sudavan mel ne le profonde valli (B. Tasso, Rime, III, 67, 6, vv. 1-4)
Le soluzioni intertestuali adottate (prelevate tutte, ça va sans dire, da opere di cui Dolce aveva curato varie edizioni presso Giolito) sono indizi di un modus operandi che forse in passato è stato troppo spesso liquidato come automatico e meccanico e che invece mi pare non essere sempre così inerziale: il sonetto Rvf 192, da cui Dolce preleva, riformulandola, la iunctura «elce antiqua e negra»,35 che non è a testo nella corrispondente stringa delle Metamorphoses, è già costruito, in origine, dal Petrarca, partendo da materiale tratto da vari luoghi ovidiani: il v. 9 «L’erbetta verde e i fior di color mille» rinvia certo al secondo emistichio di Met., X, v. 261 («et flores mille colorum»); la stessa elce del v. 10 rimonterà più precisamente a Met., IX, v. 665 («nigraque sub ilice manat»); l’intera terzina finale mi pare essere una sorta di parafrasi di Met., I, vv. 498-499.
Insomma, Dolce nel tradurre Ovidio impiegava Petrarca utilizzatore di lessemi e iuncturae di Ovidio, quasi che il prelievo intertestuale, da lui praticato a livelli virtuosistici, avesse anche una funzione di rinvio contestuale e tematico. Non si può pensare alla casualità di una selezione così precisa e così scopertamente allusiva, a ulteriore conferma del fatto che, come ha lucidamente sostenuto Paolo Trovato,36 solo le «analisi puntuali» permettono di comprendere davvero i meccanismi di funzionamento delle traduzioni del Cinquecento.
Se alcune idiosincrasie e molti dei limiti del lavoro del Dolce possono essere spiegati impiegando stereotipi derivativi, aggiungo anche subito che occorre compiere analisi microtestuali per apprezzare davvero alcune dinamiche del suo lavoro e conferirgli il giusto rilievo (beninteso, senza nessuna pretesa di trasformare un operosissimo letterato in un raffinato artista).
Ma se allego l’analogo passo delle celebrate Metamorfosi d’Ovidio procurate dall’Anguillara, non mi pare né che la sua versione sia migliore di quella di Dolce, né che sia più rispettosa del T1 ovidiano (e quindi preferibile sul piano dell’ossequio filologico del classico):
Febo sempre più lieto il suo viaggio
Facea, girando la superna sfera,
E con fecondo, e temperato raggio
Recava al mondo eterna primavera.
Zefiro i fior d’Aprile, e i fior di Maggio
Nutria con aura tepida, e leggiera.
Stillava il mel da gli Elci, e da gli Olivi.
Correan nettare, e latte i fiumi, e i rivi.
(I, 23)37
Procedendo sempre per campionature, allego un’ottava invero piuttosto eccezionale per alcune clausole versali in cui Dolce, nel contesto della restituzione del patetico episodio di Ceìce e Alcione (Met., XI, vv. 410 sgg.), recuperava alcuni celeberrimi luoghi danteschi (segnatamente, Inferno, I, v. 15: «che m’avea di paura il cor compunto» e Inferno, V, v. 142: «E caddi come corpo morto cade»), producendo inevitabilmente nel pubblico precise «agnizioni di lettura», accompagnate da una sensazione di spaesante Unheimliche, in cui la vicenda raccontata da Ovidio poteva dialogare perfettamente con la notissima e altrettanto tragica storia d’amore tra Paolo e Francesca:38
Ma come vide esser guernita, e quale A Re si convenia, la nave in punto Alhor, come presaga del suo male, Le fu da estrema doglia il cor compunto: E poté a pena dir, – Ceìce vale, Da ch’esser dei da me così disgiunto… –; Né seguir poté a queste altre parole, E cadde, come corpo morto suole. (XXII, 71) | Protinus eductam naualibus, aequore tingi Aptarique suis pinum iubet armamentis. Qua rursus uisa ueluti praesaga futuri Horruit Halcyone, lachrymasque amisit obortas, Amplexusque dedit, tristisque miserrima tandem. Ore uale, dixit, collapsaque corpore toto est. (Ovidio, Met., XI, vv. 455-460) |
Nel complesso, è già stato ampiamente notato, la funzione di modello di mediazione detenuta dal Furioso, che è architettonicamente indiscutibile, è meno esibita di quanto si potrebbe pensare sul piano squisitamente testuale: l’unica sequenza in cui l’ipotesto ovidiano viene deliberatamente riconfigurato da Dolce con un mosaico di tessere ariostesche è quella dedicata a Perseo e Andromeda (Trasformationi, X, 18-42 = Met., IV, vv. 663-764), che aveva costituito, per molti particolari, la sinopia su cui già Ariosto aveva modellato sia la scena di liberazione di Angelica da parte di Ruggiero (Orlando furioso, X, 102-104), sia la sua variazione nel canto successivo con la coppia Olimpia-Orlando (Orlando furioso, XI, 28-69).
Come già accaduto con il primo libro delle Trasformationi, pubblicato in endecasillabi sciolti nel 1539 e poi totalmente ripensato, Lodovico Dolce e i suoi editori, che usavano sondare gli umori del pubblico, stamparono un saggio di versione che, nel caso dell’Enea, fu rappresentato dal Primo libro dell’Enea di M. Lodovico Dolce. Tratto dall’Eneida di Virgilio (Venezia, Giorgio de’ Cavalli, 1566). L’edizione definitiva uscì due anni dopo a Venezia, in dodici libri di ottave (in sostanziale simmetria con la distribuzione del materiale del modello).39
La fortuna del poema epico di Virgilio nel Cinquecento fu assolutamente notevole e non serve qui ripercorrerne gli sviluppi.40
L’ottava iniziale della versione del Dolce mostrava all’opera alcune delle strategie già individuate nelle Trasformationi:
L’arme, gli errori e le fatiche io canto D’un Cavallier d’eterna gloria degno: Ch’ardendo Troia, e i bei campi di Xanto, Venne d’Italia al fortunato Regno. Dirò, quanto sostenne in terra, e quanto Ne l’ampio mar per un celeste sdegno, Pria che facesse la città; che piacque Cotanto al ciel, che la gran Roma nacque. (I, 1) | Arma, uirumque cano, Troiae qui primus ab oris Italiam, Fato profugus, Lauinia uenit Littora, multum ille et terris iactatus, et alto Vi superum, saeuae memorem Iunonis ob iram. Multa quoque et bello passus, dum conderet urbem, Inferretque deos Latio, genus unde Latinum, Albanique patres, atque altae moenia Romae.41 (Virgilio, Aeneis, I, vv. 1-7) |
Liquidati vari elementi del T1 virgiliano, evidentemente reputati perlomeno superflui, il letterato vi introduceva alcune pennellate tipiche del romanzo cavalleresco, per cui Enea diventava un Cavallier.
Ma da rilevare mi pare soprattutto il prezioso intarsio tra elementi petrarcheschi ricontestualizzati e vari prelievi ariosteschi (tra cui la rima canto-Xanto con deliberata aequivocatio):
Questo cantò gli errori e le fatiche
del figliuol di Laerte, e d’una diva,
primo pintor delle memorie antiche. (F. Petrarca, Triumphus Fame, III, vv. 13-15)
Torniamo a quel di eterna gloria degno (Orlando furioso, 10, 57, v. 1)
[dove Ariosto si riferiva a Ruggiero]
Fra l’Adice e la Brenta a piè de’ colli
ch’al troiano Antenòr piacqueno tanto,
con le sulfuree vene e rivi molli,
con lieti solchi e prati ameni a canto,
che con l’alta Ida volentier mutolli,
col sospirato Ascanio e caro Xanto (Orlando furioso, 41, 63, vv. 1-6)
Dolce stratificava il suo testo, screziandolo di riferimenti intertestuali riconoscibili per il lettore, di cui cercava la complicità e la cooperazione interpretativa.42
Le ottave iniziali del quarto libro, celeberrimo e destinato ad una fortuna autonoma e del tutto peculiare nel corso del Cinquecento, evidenziano ancora strategie traduttorie basate sul recupero allusivo intertestuale:
Ma la Regina, a cui scherzando havea
Cupido acceso, et impiagato il core,
Ne le vene nudria la piaga rea,
E strugger si sentia dal cieco ardore.
Seco ne la sua mente rivolgea
Del Cavallier la nobiltà, e ’l valore,
Gli accenti, il volto, e le maniere liete
Le stan nel cor; ne pò trovar quiete.
Già spiegava la notte ambedue l’ale
Via dipartendo, e l’alma Aurora bella
Sgombrava l’ombra, e si mostrava, quale
Suole al partir de la Ciprigna stella:
Alhor, ch’inferma d’amoroso male
Così disse Didone a la sorella:
– Oimè, qual novità mi s’appresenta
Cara sorella in sonno, e mi spaventa?
(L’Enea, IV, 1-2)
Anche in questo caso, Dolce spruzzava la restituzione di sobri sintagmi ariosteschi specialmente in punta di verso: piaga rea (IV, 1, v. 3) rimonta a Orlando furioso, XIX, 22, v. 5 («che stagna il sangue, e de la piaga rea»); aurora bella (IV, 2, v. 2) deriva da Orlando furioso, XLII, 70, v. 6; Ciprigna stella (IV, 2, v. 4) rinvia a Orlando furioso, XLII, 93, v. 8 («che sia tra l’altre la ciprigna stella», in rima con bella, proprio come in Dolce).
Procedo per campionature. La terza ottava del libro quinto descrive una topica scena di tempesta: Enea ha appena lasciato Cartagine, provocando de facto il suicidio di Didone:
Poscia, che le Galee ne l’alto furo,
E più non apparea terra, né sponde,
In pioggia si risolse il nembo oscuro,
E cieca notte in ogni parte infonde.
Di qua di là43 con grave impeto e duro
Diventan gonfie e formidabil l’onde:
E tanto a molti più turbano il core,
Quanto il buio de l’aria era maggiore.
(L’Enea, V, 3)
Anche in questo caso, Dolce realizzò un montaggio di varie sequenze ariostesche, tra recupero intertestuale preciso e allusività interdiscorsiva:44
spesso offuscati son da un nembo oscuro! (Orlando furioso, X, 15, v. 2)
Come d’oscura valle umida ascende
nube di pioggia e di tempesta pregna,
che più che cieca notte si distende
per tutto ’l mondo, e par che ’l giorno spegna (Orlando furioso, XI, 35, vv. 1-4)
Stendon le nubi un tenebroso velo
che né sole apparir lascia né stella.
Di sotto il mar, di sopra mugge il cielo,
il vento d’ogn’intorno, e la procella
che di pioggia oscurissima e di gelo
i naviganti miseri flagella:
e la notte più sempre si diffonde
sopra l’irate e formidabil onde. (Orlando furioso, XVIII, 142)
Come si vede in un momento oscura
nube salir d’umida valle al cielo,
che la faccia che prima era sì pura
cuopre del sol con tenebroso velo. (Orlando furioso, XXXII, 100, vv. 1-4)
Ed ecco la bella apertura del sesto libro:
Così dice piangendo il Duca saggio, E più veloce il mar solcando giva. Spira il vento secondo al suo viaggio, Splendendo in ciel la taciturna Diva. Ne lo spuntar del matutino raggio, A Cuma al fin la bella Armata arriva. Tosto a prender il porto i Legni vanno; E fondo a le tenaci Ancore danno. Del disio di toccar il lito ardenti Lieti i giovani saltan nel terreno; E tutti stanno a varie cose intenti, Né a quel, ch’a lui conviene, alcun vien meno. Altri non sono a trar il foco lenti, C’han la pietra, e ’l focil riposti in seno: Altri corron volando ne le Selve, Alberghi e nidi d’animali e belve. (VI, 1-2) | Sic fatur lachrymans, classique immittit habenas Et tandem Euboicis Cumarum allabitur oris. Obuertunt pelago proras, tum dente tenaci Anchora fundabat naueis, et littora curuae Praetexunt puppes, iuuenum manus emicat ardens Littus in Hesperium: quaerit pars semina flammae Abstrusa in uenis silicis: pars densa ferarum Tecta rapit syluas, inuentaque flumina monstrat. (Virgilio, Aeneis, VI, vv. 1-8) |
Rilevate le cospicue azioni di misreading compiute dal Dolce sui versi virgiliani, occorre anche subito aggiungere che la sua versione risulta assai meno impacciata di altre restituzioni che, sebbene più filologiche, forse, mi paiono invero del tutto dimenticabili.45
Ancora macroscopicamente visibile è la robusta stratificazione di fonti attinte e variamente manipolate, perlopiù prelevate dalla recente tradizione del poema cavalleresco:
Piangendo sempre il duca amaramente (M. M. Boiardo, Inamoramento de Orlando, II, 2, 32, v. 2)
spinti o da remi o da secondo vento (T. Tasso, Rinaldo, VI, 46, v. 4)
Con fresco vento ch’in favor veniva
sciolser la fune al declinar del giorno,
mostrando lor la taciturna diva
la dritta via col luminoso corno (Orlando furioso, XLIII, 166, vv. 1-4)
ch’avea offuscato il matutino raggio (Orlando furioso, XX, 118, v. 6)
appresso al qual la bella armata fassi (Orlando furioso, IX, 11, v. 6)
Quasi radendo l’aurea Chersonesso,
la bella armata il gran pelago frange (Orlando furioso, XV, 17, vv. 1-2)
Per l’acqua il legno va con quella fretta
che va per l’aria irondine che varca (Orlando furioso, XXX, 11, vv. 5-6)
T’era et esca e focil, l’alto tuo impero (B. Tasso, Rime, V, 145, v. 6)
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve (Orlando furioso, XXXIV, 72, vv. 7-8)
Sottolineo, per concludere, che la bellissima iunctura «taciturna Diva» (VI, 1, v. 4) si trova in un altro luogo virgiliano in Aeneis, II, v. 255: «tacitae per amica silentia lunae».
*
Le versioni delle Metamorphoses e dell’Aeneis realizzate da Dolce vanno sicuramente rubricate sotto la macrocategoria di traduzione, così come questa pratica di riscrittura veniva ridefinendosi, estendendo assai il suo perimetro, nel medio e tardo Cinquecento, alla luce delle nuove, energiche spinte innovative prodotte dall’affermazione del Manierismo. Anche questi grandi modelli latini non potevano sfuggire alle logiche commerciali che ne ispiravano spesso il recupero e la ripresa, finendo per essere inseriti, nelle loro versioni in volgare, in uno specifico segmento del campo culturale del tempo che fu letteralmente generato dal clamoroso successo del Furioso, cioè quello della poesia in ottave di argomento cavalleresco. La centralità della cosiddetta ‘funzione Ariosto’ per gli sviluppi delle forme e strutture degli organismi poematici lunghi composti nel corso del secolo non è evidentemente revocabile in dubbio, e pertanto le stesse traduzioni dei poemi classici andranno studiate anche come un particolare capitolo della storia della fortuna del Furioso e della sua influenza.
Ciò detto, va subito precisato che la funzione detenuta, in questo settore, da Lodovico Dolce non può essere condizionata da pregiudizi estetici e da stereotipi sulla sua corrività: la sua fu certo una attività enorme, ma nel campo delle traduzioni cinquecentesche seppe ottenere risultati di assoluto rilievo, realizzando lavori caratterizzati da un alto grado di allusività, in cui la nuova funzione esercitata dai classici in volgare, i cui materiali furono da lui impiegati costantemente in modo da innescare una complicità tra il traduttore e il suo pubblico,46 non era una parte secondaria dell’attività di traduzione, ma ne costituiva invece il vero e proprio perno, la strategia indispensabile per riattribuire a Omero, Virgilio, Ovidio lo statuto di classici perennemente attuali, contemporanei e sempre riproponibili, nel momento stesso in cui se ne evidenziava l’irrecuperabilità in sé e per sé.
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1 Sul valore di nuovo classico assunto dal Furioso, cfr. Daniel Javitch, Ariosto classico. La canonizzazione dell’Orlando furioso, Milano, Bruno Mondadori, 1999.
2 Sempre nel senso in cui la categoria viene usata da Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997, pp. 7-8: «Designo con questo termine [ipertestualità] ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, naturalmente, ipotesto), sul quale esso si innesta in una maniera che non è quella del commento». Su questa definizione genettiana, modella la sua interpretazione della traduzione ipertestuale Antoine Berman ne La traduzione e la lettera o l’albergo della lontananza, Macerata, Quodlibet, 2003.
3 Cfr. Luciana Borsetto, L’«Eneida» tradotta. Riscritture poetiche del testo di Virgilio nel XVI secolo, Milano, Unicopli, 1989, pp. 76-77.
4 Si pensi, per fare un esempio, all’Ovidio Metamorphoseos di Giovanni Bonsignori che era addirittura un volgarizzamento trecentesco. Oggi è disponibile l’edizione critica: Giovanni Bonsignori, Ovidio Metamorphoseos vulgare, a cura di Erminia Ardissino, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 2001.
5 Sull’industria tipografica del medio Cinquecento, rinvio a Amedeo Quondam, «Mercanzia d’onore» «Mercanzia d’utile». Produzione libraria e lavoro intellettuale a Venezia nel Cinquecento, in Libri, editori e pubblico nell’Europa moderna. Guida storica e critica, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 51-104 e Id., La letteratura in tipografia, in Letteratura Italiana, 2. Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 555-686; Claudia Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988; Paolo Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna, Il Mulino, 1991.
6 Opposizione che rimontava, nientemeno, al primo documento latino di riflessione sui fondamenti della pratica traduttoria, il celebre De optimo genere oratorum di Cicerone, breve scritto introduttivo premesso ad un suo esercizio di traduzione latina, perduto, di due orazioni greche di Demostene ed Eschine, in cui Cicerone scriveva testualmente (cfr. Marco Tullio Cicerone, De optimo genere oratorum, in Id., L’orateur, a cura di Albert Yon, Paris, Les Belles Lettres, 1964, p. 114): «Nec conuerti ut interpres, sed ut orator, sententiis iisdem et earum formis tamquam figuris, uerbis ad nostram consuetudinem aptis. In quibus non uerbum pro uerbo necesse habui reddere, sed genus omne uerborum uimque seruaui. Non enim ea me annumerare lectori putaui oportere, sed tamquam appendere». Sulla carenza oggettiva di testi teorici, mi pare che abbia detto parole decisive Werther Romani, La traduzione letteraria nel Cinquecento: note introduttive, in Giuseppe Petronio (a cura di), La traduzione. Saggi e studi, Trieste, Lint Edizioni, 1973, p. 389: «Ho avuto occasione di occuparmi del problema del tradurre qualche anno fa, a proposito di un letterato del Cinquecento [Castelvetro]: da allora mi sono andato sempre più persuadendo che, mentre le questioni teoriche, eternamente dibattute, sono riducibili ad alcune, poche, fondamentali aporie, molto più interessante (almeno per chi si occupa di critica e di storia letteraria e non di linguistica generale) potrebbe essere lo studio dell’argomento da un punto di vista, che partendo dall’ipotesi della traduzione come genere letterario, ne tentasse una rilevazione diacronica e sincronica, attenta anche alle implicazioni metodologiche via via emergenti». Non vi sono, se escludiamo il Dialogo del modo de lo tradurre d’una in altra lingua segondo le regole mostrate da Cicerone (Venezia, Grazioso Percacino, 1556) di Sebastiano Fausto da Longiano, organici tentativi di codificare o descrivere il quadro delle traduzioni e delle pratiche di riscrittura nel Cinquecento italiano, ma questo è, a mio avviso, un segnale straordinariamente importante del fatto che non vi era alcuna necessità di un impianto teorico che giustificasse o guidasse il lavoro dei traduttori. Le traduzioni si facevano sempre più numerose, senza che fosse avvertito il bisogno di un inquadramento teorico, e chiaramente rientravano in quel campo anche prodotti testuali che oggi, mutate le condizioni culturali, faremmo fatica a definire propriamente tali. Ma ciò non cambia i termini del problema: nel medio Cinquecento, la traduzione è un insieme di pratiche di recupero e riscrittura di vastissima ampiezza, eseguite su corpora testuali di cui il mercato editoriale richiede una versione moderna, senza troppi scrupoli filologici. Per il testo del Dialogo e per alcune importanti riflessioni sul suo valore storico e culturale, cfr. Bodo Guthmüller, Fausto da Longiano e il problema del tradurre, «Quaderni Veneti», 12, 1990, pp. 9-56. Sulla traduzione, specie cinquecentesca (e su varie questioni inerenti ai volgarizzamenti), rinvio a Carlo Dionisotti, Tradizione classica e volgarizzamenti, in Id. Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1963, pp. 125-178, Frederick M. Rener, Interpretatio: Language and Translation from Cicero to Tytler, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1989, Bodo Guthmüller, Letteratura nazionale e traduzione dei classici nel Cinquecento, «Lettere Italiane», XLV, 4, 1993, pp. 501-518, Mauri Furlan, La Retórica de la Traducción en el Renacimiento. Elementos para la constitución de una teoría de la traducción renacentista, Barcelona, 2002, http://diposit.ub.edu/dspace/handle/2445/41647 (data ultima consultazione 2 novembre 2022). Sulle varie questioni teoriche inerenti alla traduzione, la bibliografia è infinita. Mi limito a rinviare a Roman Jakobson, Essais de Linguistique Génerale, Paris, Editions de Minuit, 1963; Georges Mounin, Traductions et traducteurs, Paris, Gallimard, 1964; John C. Catford, A Linguistic Theory of Translation, Oxford, Oxford University Press, 1965; Henri Meschonnic, Pour la poétique II. Épistémologie de l’écriture, Poétique de la traduction, Paris, Gallimard, 1973 e Id., Poétique du Traduire, Lagrasse, Verdier, 1999; George Steiner, After Babel. Aspects of Language and Translation, London-New York-Toronto, Oxford University Press, 1975; Jean-René Ladmiral, Traduire: théorèmes pour la traduction, Paris, Payot, 1979; Valentín García Yebra, Teoría y práctica de la traducción, Madrid, Biblioteca Romanica Hispanica, Gredos, 1982; Emilio Mattioli, Studi di poetica e retorica, Modena, Mucchi Editore, 1983; Antoine Berman, L’Épreuve de l’étranger, Paris, Gallimard, 1984; Harald Kittel e Armin Paul Frank (a cura di), Die literarische Übersetzung: Stand und Perspektiven ihrer Erforschung, Berlin, Erich Schmidt, 1988; Peter Newmark, La traduzione: problemi e metodi, Milano, Garzanti, 1988; Giovanni Lombardo, Estetica della traduzione. Studi e prove, Roma, Herder, 1989; Michel Ballard, De Cicéron a Benjamin. Traducteurs, traductions, réflexions, Lille, Presses Universitaires de Lille, 1992; Rainer Schulte e John Biguenet (a cura di), Theories of Translation. An Anthology of Essays from Dryden to Derrida, Chicago, University of Chicago Press, 1992; Siri Nergaard (a cura di), La teoria della traduzione nella storia, Milano, Bompiani, 1993 e Id. (a cura di), Teorie contemporanee della traduzione, Milano, Bompiani, 1995; Susan Bassnett McGuire, La traduzione. Teorie e pratica, Milano, Bompiani, 1993 e Ead., Reflexions on Translation, Bristol (UK), Multilingual Matters, 2011 2011; Friedmar Apel, Il manuale del traduttore letterario, Milano, Guerini e Associati, 1993 e Id., Il movimento del linguaggio. La poesia della traduzione, Milano, Marcos y Marcos, 1997; André Lefevere, Traduzione e riscrittura, Torino, UTET, 1998; Lawrence Venuti, L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, Roma, Armando, 1999, Id., Contra Instrumentalism. 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7 Elenco, rapidamente, la formidabile Lettera del traslatare (1543) di Lodovico Castelvetro (che non circolò, perché fu stampata solo nel 1747), la premessa A i lettori di Bernardino Daniello alla seconda edizione della sua traduzione delle Georgiche virgiliane nel 1549, la prefazione-avvertenza A chi legge collocata da Vincenzo Cartari nel vestibolo del suo Flavio intorno ai Fasti volgari (1553), il Discorso del tradurre (1575) di Orazio Toscanella.
8 Per la categoria di misreading cfr. Harold Bloom, Una mappa della dislettura, Milano, Spirali, 1988. Sulla libertà come dato costitutivo dell’epistemologia della traduzione nel medio Cinquecento, ha scritto parole perfette Lodovico Dolce nella dedicatoria al marchese Giovan Battista Castaldo, premessa alle sue Vite di tutti gl’Imperadori da Giulio Cesare insino a Massimiliano (Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1558), traduzione in volgare dall’originale spagnolo di Pedro Mexía: «per molte altre sue parti giudicandolo degno di esser letto in tutte le lingue: hollo tradotto nella nostra, aggiungendovi alcune poche cose, se non necessarie, almeno dilettevoli et utili, come io stimo, a quelli, che leggeranno, non curando di obligarmi per tutto alle leggi del tradurre, ma allargandomi, ove stimai che lo ricercasse il corso e la proprietà della nostra pura e dolce favella» (corsivo mio). D’altra parte, cfr. B. Guthmüller, Letteratura nazionale, cit., pp. 517-518: «La convinzione della bellezza e della perfezione della nuova lingua scritta, che riscontra sempre più successo anche oltre i confini d’Italia, il recente orgoglio per la grandezza della tradizione letteraria nazionale italiana, l’orientamento al gusto di un nuovo pubblico, che già da tempo non è più l’ignorante pubblico dei cantastorie, ma un pubblico cosciente e colto che ha affinato il suo gusto sui nuovi modelli della letteratura in volgare, portano alla nascita di una nuova forma di traduzione che tende all’imitatio e all’aemulatio. Se maggiore diventa la stima per la propria lingua e poesia, minore è il rispetto per gli originali. I traduttori non vogliono più arricchire la lingua madre e creare una nuova letteratura con l’aiuto di antichi modelli, ma al contrario, cercano di adattare i testi classici ai modelli della letteratura nazionale, di abbellirli con i mezzi della propria lingua e della propria poesia».
9 G. Genette, Palinsesti, cit., p. 364.
10 Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, Milano, Bompiani, 2000.
11 Per cui rinvio almeno al recente Andrea Torre, Scritture ferite. Innesti, doppiaggi e correzioni nella letteratura rinascimentale, Venezia, Marsilio, 2019. Inoltre, cfr. Carlo Mazzacurati e Michel Plaisance (a cura di), Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1987; Paolo Cherchi, Polimatia di riuso. Mezzo secolo di plagio (1539-1589), Roma, Bulzoni, 1998 e Id. (a cura di), Sondaggi sulla riscrittura del Cinquecento, Ravenna, Angelo Longo, 1998, Roberto Gigliucci (a cura di), Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, Roma, Bulzoni, 1998.
12 Per riprendere il titolo dell’importante libro di Gabriele Bucchi, «Meraviglioso diletto». La traduzione poetica del Cinquecento e le Metamorfosi d’Ovidio di Giovanni Andrea dell’Anguillara, Pisa, ETS, 2011.
13 Lodovico Dolce mostrava di conoscere alla perfezione questi meccanismi dell’industria culturale cinquecentesca nella prefazione all’Amadigi di Bernardo Tasso (di cui curò la princeps veneziana presso Giolito nel 1560): dopo la dedica a Filippo II d’Asburgo-Spagna, il letterato si rivolgeva ai «giudiciosi e benigni lettori», sentendo il bisogno di compiere una riflessione teorica sullo statuto del poema eroico, giacché vi erano «alcuni, dati del tutto allo studio delle Greche, e delle Latine lettere, [che] non pur non comendano, ma riprendono questa nuova, vaghissima, et dilettevolissima maniera di Poesia; et ogn’altra, che non sia disposta secondo l’arte d’Aristotele, et ad imitatione di Virgilio, e d’Homero». La risposta era esemplarmente articolata, secondo le logiche del mercato editoriale presente: «se coloro, che tengono sempre in mano le bilancie d’Aristotele, et hanno tutto dì in bocca gli essempi di Virgilio e di Homero, considerassero la qualità de’ tempi presenti, e la diversità delle lingue, e vedessero ch’a la prudenza del Poeta si conviene l’accomodarsi alla dilettatione, et all’uso del secolo nel quale egli scrive; non sarebbono d’openione, che si dovesse scriver sempre ad un modo». Chi non si adeguava a questo rinnovato sistema culturale «si può dire, che scriva a morti» e non ai vivi del suo tempo. Bernardo Tasso, procedeva Dolce, aveva seguito, all’inizio del suo lavoro, i precetti di Aristotele, ma aveva presto capito che – come già Luigi Alamanni nel Giron cortese – il suo poema non dilettava come invece aveva saputo fare Ariosto, che da Aristotele si era decisamente «dilungato»: allora, aveva mutato proposito e conferito una nuova struttura al suo disegno poematico, dal momento che l’«intento principalissimo del Poeta» è il «dilettare» e che «I Poeti non si leggono, se non principalmente per cagione del diletto». E la stessa celebrazione della funzione di nuovo classico detenuta dall’Ariosto, che era nel Dolce convintissima, passava comunque per il giudicio dei nuovi consumatori culturali: «Già l’Ariosto è stato accettato comunemente per Poeta non pur raro, ma divino. Et è da riportarsi al giudicio comune: il qual solo è quello, che toglie e dà la riputatione, e la immortalità a qualunque Poema». Ecco quindi che si precisa anche il senso nuovo che le traduzioni, come ogni altro genere del campo letterario dell’epoca, dovevano possedere per imporsi: dovevano dilettare.
14 Su Lodovico Dolce, mi limito a indicare i testi essenziali per conoscere la sua vicenda biografica e la sua fisionomia intellettuale: cfr. il prezioso Emmanuele Antonio Cicogna, Memoria intorno la vita e gli scritti di Messer Lodovico Dolce, letterato veneziano del secolo XVI, «Memorie dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti», XI, 1862, pp. 93-200; Carlo Dionisotti, Dolce, Lodovico, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970, pp. 534-35; Giovanna Romei, Dolce, Lodovico, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1991, pp. 399-405; Ronnie H. Terpening, Lodovico Dolce. Renaissance Man of Letters, Toronto, University of Toronto Press, 1997; Stefano Giazzon, Venezia in coturno. Lodovico Dolce tragediografo (1543-1557), Roma, Aracne, 2011; Paolo Marini e Paolo Procaccioli (a cura di), Per Lodovico Dolce. Miscellanea di studi. I. Passioni e competenze del letterato, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2016. Sul profilo di traduttore del Dolce rinvio agli studi, peraltro non specificamente dedicati, ma assai utili, di L. Borsetto, L’«Eneida» tradotta. Riscritture poetiche del testo di Virgilio nel XVI secolo, cit.; Ead., Il furto di Prometeo. Imitazione, scrittura, riscrittura nel Rinascimento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1990; Ead., Riscrivere gli Antichi, riscrivere i Moderni e altri studi di letteratura italiana e comparata tra Quattro e Ottocento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002. Inoltre, cfr. Paolo Trovato, Storia della lingua italiana. Il primo Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 352-357; G. Bucchi, «Meraviglioso diletto». La traduzione poetica del Cinquecento, cit., pp. 23-123; Giuseppe Zarra, Osservazioni linguistiche su Ludovico Dolce traduttore di Giovenale, «Studi linguistici italiani», XL, 3, 2014, pp. 199-227. Per le dinamiche del lavoro in tipografia (con molte pagine dedicate al Dolce), rinvio ai già citati Amedeo Quondam, Claudia Di Filippo Bareggi, Paolo Trovato. Indispensabili sono poi gli studi di Salvatore Bongi, Annali di Gabriele Giolito de’ Ferrari da Trino di Monferrato, stampatore in Venezia, descritti ed illustrati, Roma, Presso i Principali Librai, 1890-1895 e Angela Nuovo e Christian Coppens, I Giolito e la stampa nell’Italia del XVI secolo, Genève, Droz, 2005.
15 Non condivido le eccessive cautele avanzate da Giancarlo Alfano, Claudio Gigante, Emilio Russo, Il Rinascimento, Roma, Salerno, 2016, specie alle pp. 288-290, sull’estensione di questa categoria al campo della letteratura. Se tra i tratti pertinenti del codice del Manierismo figurativo vi era «la sua compiaciuta dimensione di arte nata dall’arte, metalinguaggio ipernutrito di cultura, ambiguamente oscillante tra invenzione e citazione, sperimentalismo e routine, arcaismo e avanguardia» (cfr. Antonio Pinelli, La maniera: definizione di campo e modelli di lettura, in Storia dell’Arte Italiana, 6. Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 1981, p. 122), non vedo perché queste caratteristiche non possano essere persuasivamente riferite a una cospicua porzione della produzione letteraria del medio Cinquecento, a partire dagli anni Trenta e fino almeno a Torquato Tasso e Battista Guarini (tacendo di esperienze europee coeve quali quelle di Cervantes, Montaigne, Shakespeare). Sul Manierismo, figurativo e letterario, mi limito ad indicare alcuni classici: Arnold Hauser, Il Manierismo. La crisi del Rinascimento e l’origine dell’arte moderna, Torino, Einaudi, 1965; Giuliano Briganti, La maniera italiana, Roma, Editori Riuniti, 1965; Gustav René Hocke, Il Manierismo nella letteratura. Alchimia verbale e arte combinatoria esoterica, Milano, Il Saggiatore, 1965 e Id., Il mondo come labirinto. Maniera e mania nell’arte europea dal 1520 al 1650 e nel mondo di oggi, Roma, Theoria, 1989; Tibor Klaniczay, La crisi del Rinascimento e il Manierismo, Roma, Bulzoni, 1973; Edoardo Taddeo, Il Manierismo letterario e i lirici veneziani del tardo Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1974; Amedeo Quondam (a cura di), Problemi del Manierismo, Napoli, Guida, 1975; Georg Weise, Il Manierismo. Bilancio critico del problema stilistico e culturale, Firenze, Olschki, 1971 e Id., Manierismo e letteratura, Firenze, Olschki, 1976; Achille Bonito Oliva, L’ideologia del traditore. Arte, maniera, manierismo, Milano, Feltrinelli, 1976; A. Pinelli, La maniera, cit., pp. 87-181 e Id., La bella Maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Torino, Einaudi, 2003; Francesco Guardiani, Anatomia di un gap: fra tramonto del Rinascimento e alba della modernità, «Studi rinascimentali», II, 2004, 2, pp. 115-120, 2004; Renato Barilli, Maniera moderna e Manierismo, Milano, Feltrinelli, 2004. Sul Manierismo in Dolce mi permetto di rinviare a Stefano Giazzon, Il Manierismo a teatro: l’Ifigenia di Lodovico Dolce, «Forum Italicum», 2012, 1, pp. 53-81, Id., La maschera dell’ambiguità. Sull’Ifigenia di Lodovico Dolce, «Per Leggere», XXVI, 1, 2014, pp. 63-90, Id., Il Sacripante di Lodovico Dolce: un poema manierista, «Esperienze Letterarie», XL, 2015, 4, pp. 29-61.
16 Cfr. Paolo Procaccioli e Angelo Romano (a cura di), Cinquecento capriccioso e irregolare. Eresie letterarie nell’Ita-lia del Classicismo, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 1999, p. 23.
17 Lodovico Dolce, Thyeste. Tragedia di M. Lodovico Dolce, tratta da Seneca, Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1543. La tragedia si legge oggi nella edizione: Ludovico Dolce, Tieste, a cura di Stefano Giazzon, 2010. La lettera a Giacomo Barbo si trova alle pp. 87-88.
18 Ho qui mantenuto la lettera originale, regolarizzando solo l’interpunzione per esigenze di chiarezza.
19 Lodovico Dolce, Il dialogo dell’Oratore di Cicerone, tradotto per M. Lodovico Dolce, Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1547.
20 Lodovico Dolce, I dilettevoli sermoni, altrimenti Satire, e le morali epistole di Horatio, Illustre Poeta Lirico, insieme con la Poetica. Ridotte dal Poema Latino in versi Sciolti Volgari. Con la vita di Horatio. Origine della Satira. Discorso sopra le Satire. Discorso sopra le Epistole. Discorso sopra la Poetica, Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1559, pp. 4-5.
21 Dolce fu rapidissimo editore dell’Orlando furioso (presso Francesco Bindoni e Maffeo Pasini, 1535), e fu poi un vivace sostenitore e promotore del lavoro di Ariosto. A fare epoca saranno le sue edizioni giolitine del Furioso e, in particolare, quella memorabile del 1542: Orlando furioso di m. Ludovico Ariosto, novissimamente alla sua integrità ridotto et ornato di varie figure. Con alcune stanze del s. Aluigi Gonzaga in lode del medesmo. Aggiuntovi per ciascun canto alcune allegorie et nel fine una breve espositione et tavola di tutto quello, che nell’opera si contiene (Venezia, Giolito, 1542). Ricordo, en passant, che a Venezia vennero stampate non meno di centodieci edizioni del Furioso fra il 1540 e il 1580, testimonianza di un successo assolutamente eccezionale. Di particolare importanza furono anche la Apologia contra ai detrattori dell’Ariosto (1535) e i più tardi Modi affigurati e voci scelte et eleganti della volgar lingua, con un discorso sopra a mutamenti e diversi ornamenti dell’Ariosto (Venezia, Giovan Battista e Melchiorre Sessa, 1554), che mostrano quanto, nel tempo, il Dolce abbia continuato ad essere un difensore militante della poesia ariostesca. Sulla questione, cfr. Francesco Sberlati, Grammatica e filologia intorno al «Furioso»: Lodovico Dolce, in Id., Il genere e la disputa. La poetica tra Ariosto e Tasso, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 31-53.
22 G. Genette, Palinsesti, cit., p. 254.
23 Giovanni Nencioni, Agnizioni di lettura, «Strumenti critici», I, 1967, 2, pp. 191-197.
24 Dolce realizzò anche una curiosa versione in ottave in cui fuse Iliade e Aeneis (L’Achille e l’Enea, Venezia, Giolito, 1570) e una traduzione dell’Odissea (L’Ulisse, Venezia, Giolito, 1573): entrambe furono stampate postume.
25 Cfr. Pierpaolo Fornaro, Metamorfosi con Ovidio. Il classico da riscrivere sempre, Firenze, Olschki, 1994, Bodo Guthmüller, Mito, poesia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1997 e Id., Ovidio Metamorphoseos vulgare: forme e funzioni della trasposizione in volgare della poesia classica nel Rinascimento, Fiesole, Cadmo, 2008; G. Bucchi, «Meraviglioso diletto», cit., pp. 57-123; Andrea Torre, Scritture ferite, cit., pp. 61-97; Chiara Trebaiocchi, «Il letterato buono a tutto». Lodovico Dolce traduttore delle Metamorfosi, in P. Marini e P. Procaccioli (a cura di), Per Lodovico Dolce, cit., pp. 271-316. Per il testo integrale, in ristampa anastatica, della prima edizione delle Trasformationi (da cui ho scelto di citare sempre), cfr. Giuseppe Capriotti, Le Trasformationi di Lodovico Dolce. Il Rinascimento ovidiano di Giovanni Antonio Rusconi, Ancona, Affinità Elettive, 2013.
26 Gabriele Bucchi ha avanzato l’ipotesi (cfr. G. Bucchi, «Meraviglioso diletto», cit., p. 21) che l’ipotesto latino di riferimento per le imprese traduttorie di Dolce e Anguillara sia l’edizione delle Metamorfosi col commento di Raffaele Regio (ed altri) e pubblicata a Venezia dalla stamperia di Pietro Ravani e soci nel 1549.
27 Su cui informa dettagliatamente G. Bucchi, «Meraviglioso diletto», cit.
28 Cfr. Giovanni Andrea dell’Anguillara, Le Metamorfosi d’Ovidio. Al Christianissimo Re di Francia Henrico Secondo, Venezia, Giovanni Griffio, 1561.
29 Giuseppe Capriotti, Le Trasformationi di Lodovico Dolce, cit., p. 27. L’opera ottenne privilegi di stampa da Carlo V d’Asburgo, da Enrico II di Valois, da Papa Giulio III, dal duca di Firenze Cosimo I de’ Medici, dai duchi di Ferrara e Mantova e ovviamente dalla Repubblica di Venezia.
30 G. Bucchi, «Meraviglioso diletto», cit., p. 109.
31 Occorrerebbe sempre chiedersi, di fronte alle traduzioni del tempo, se i giudizi di valore che usiamo siano autenticamente storici e non, essenzialmente, delle nostre proiezioni prospettiche. Ho, per esempio, il sospetto, che è anche una provocazione, che a decretare l’incontrastato successo della versione dell’Anguillara, e la contestuale espulsione di quella del Dolce dal mercato editoriale, non sia stata tanto la sua superiore qualità, su cui mi permetto di avanzare qualche riserva, quanto il fatto di essere accompagnata, a partire dall’edizione del 1563, dalle puntuali Annotationi di Giuseppe Orologi che costituirono un significativo salto di qualità nella tradizione dei paratesti di commento al poema ovidiano. Sulla questione cfr. G. Bucchi, «Meraviglioso diletto», cit., pp. 295-309.
32 Seguendo, ma solo in parte, le indicazioni di Gabriele Bucchi, cito sempre dall’edizione Metamorphoseon Pub. Ovidii Nasonis libri XV, commentata da Raffaele Regio e stampata nel 1545 a Venezia da Girolamo Scotto. Per la numerazione dei versi ho consultato invece Ovidio, Le Metamorfosi, a cura di Guido Paduano e Alessandro Perutelli, Milano, Mondadori, 2007.
33
Cito da Niccolò degli Agostini, Di Ovidio le Metamorphosi, cioè Trasmutationi, tradotte dal latino diligentemente in volgar verso, con le sue Allegorie, significationi, & dichiarationi delle Favole in prosa. Aggiontovi novamente la sua tavola, dove più facilmente si potrà trovare tutti i capitoli, con le sue figure appropriate, a suoi luoghi con ordine poste. Et di nuovo corretto, Venezia, Federico Torresano, 1547. Come noto, la princeps di questa significativa impresa traduttoria fu stampata con il titolo di Tutti gli libri de Ovidio Metamorphoseos tradutti dal litteral in verso vulgar con le sue Allegorie in prosa, Venezia, Niccolò Zoppino, 1522. La versione dell’Agostini fu ristampata da vari editori nel 1533, 1537, 1538, 1547, 1548 (cfr. C. Trebaiocchi, «Il letterato buono a tutto», cit., p. 292, n. 47). La presenza della versione dell’Agostini nel lavoro di traduzione del Dolce è ancora più significativa nel suo primo saggio in endecasillabi sciolti tentato sul corpo delle Metamorphoses ovidiane (cfr. Il primo libro delle Trasformationi d’Ovidio da M. Lodovico Dolce in volgare tradotto, Venezia, Francesco Bindoni e Maffeo Pasini, 1539):
Era per tutto Primavera eterna.
Et con piacevoli aure per li prati
Dolce spirando Zephiro soave
Nudriva i fiori senza seme nati.
In cotal modo anchor la madre terrra
Senza che fosse arata producea
Quasi ad un tempo i ben nudriti parti.
E i campi senza rinovarsi l’anno
Per l’altrui mani, le canute chiome
Spiegar solean pur da se stessi, lieti
Di ben gravide sempre et bianche spiche.
Correan di latte et di nettare i fiumi,
Et da le querce distillava il melle.
(vv. 194-206)
34 Già ampiamente studiata dagli interpreti più attenti (Borsetto, Bucchi, Capriotti, Trebaiocchi, Torre) l’adozione strutturale da parte del Dolce di sequenze narrative di riposo della voce narrante o di rinvio del racconto al canto successivo nei congedi dei canti delle Trasformationi, senza alcun addentellato possibile con la lettera del poema ovidiano, e segnale preciso di una sua dipendenza dal modello del Furioso. Allego qui una minima campionatura rappresentativa: «Ma come trovò ’l Sole; e di lui quanto / Seguì, verrete a udir ne l’altro canto» (II, 140, vv. 7-8), «Ma già mi par d’esser trascorso tanto, / C’honesto fia, ch’io mi riposi alquanto» (III, 67, vv. 7-8), «Ma già son giunto a quella parte, ov’io / Di riposar, vostra mercé, disio» (IV, 95, vv. 7-8), «Mentre serba la via, ch’al Fonte viene, / Ne l’altro Canto ad ascoltar v’aspetto; / Nel quale io vi verrò forse contando / Prove, che tal mai non ne fece Orlando» (V, 84, vv. 5-8). Quest’ultima citazione è eccezionale per la plateale ferita inferta all’ipotesto, introducendovi nientemeno che il paladino Orlando. Anche per la ritestualizzazione in volgare di Ovidio, la ‘funzione Ariosto’ era in grado di sovrastare qualunque deferenza traduttoria nei confronti dell’originale, essendo consentanea alle coordinate di fondo dello Zeitgeschmack del pubblico.
35 Cfr. Gian Biagio Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Palermo, Sellerio, 2012, p. 31, nota 15: «Meglio parlare di situazione poetica che non di versi singoli: basta molte volte una sola parola a condensare un’intera situazione poetica e ad evocarne la Stimmung […], o viceversa sarà un’amplificazione parafrastica a dischiudere tutto quello che sta solo in un cenno suggestivo, che però si vuole non vada perduto».
36 Cfr. P. Trovato, Storia della lingua italiana. Il primo Cinquecento, cit., p. 151: «È vivamente auspicabile che l’attuale risveglio d’interesse per la traduzione, almeno in parte indotto dalla fortuna straniera dei cosiddetti Translation Studies […], possa dare luogo a numerose analisi puntuali. Volgarizzamenti e traduzioni d’arte del Cinquecento cooperarono infatti alla diffusione a largo raggio, in tutti gli strati sociali, del gusto classico».
37 Cito naturalmente da Giovanni Andrea dell’Anguillara, Le Metamorfosi d’Ovidio. Al Christianissimo Re di Francia Henrico Secondo, Venezia, Giovanni Griffio, 1561.
38 Ma naturalmente anche con la più recente vicenda di Olimpia e Bireno sviluppata nel Furioso, X, 20-24 (per cui rinvio ad A. Torre, Scritture ferite, cit., pp. 83-84).
39 L. Dolce, L’Enea di M. Lodovico Dolce tratto dall’Eneida di Virgilio, Venezia, Giovanni Varisco, 1568.
40 D’altra parte già ampiamente indagati nel tempo. Rinvio, per un quadro generale, a Vladimiro Zabughin, Vergilio nel Rinascimento italiano, da Dante a Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli, 1921-1923. Aggiungo poi i vari indispensabili contributi di Luciana Borsetto, citati più volte nel presente saggio. Inoltre, cfr. Moreno Savoretti, L’Eneide di Virgilio nelle traduzioni cinquecentesche in ottava rima di Aldobrando Cerretani, Lodovico Dolce e Ercole Udine, «Critica letteraria», III, 2001, pp. 435-457. Anche in questo caso, come per il poema ovidiano, vi furono molte edizioni nel corso del secolo, a partire dall’edizione di Manuzio del 1501. Difficile dire quale testo Dolce scelse come riferimento per la sua versione in ottave.
41 Cito sempre il testo virgiliano dall’edizione rivista e curata da Alessandro Vellutello e stampata a Venezia presso Pietro Nicolini da Sabbio nel 1534: Publii Vergilii Maronis Bucolica Georgica Aeneis cum Seruii Probique commentariis ac omnibus lectionum variationibus in antiquis codicibus repertis (Venetiis, per Alexandrum Vellutellum accuratissime reuisi, et emendati: et propriis expensis in aedibus Petri de Nicolinis de Sabbio impressi, 1534 mense Septembri). Per la numerazione dei versi ho tenuto presente Virgilio, Eneide, a cura di Luca Canali e Ettore Paratore, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 1978-1983.
42 Gian Biagio Conte, Memoria dei poeti, cit., pp. 178-179: «Diciamo anzi che il testo postula la cooperazione del destinatario come propria condizione di attualizzazione; generare un testo vuol dire attuare una strategia tesa anche a prevedere gli atteggiamenti altrui. Credo di aver mostrato […] che il testo presuppone la ‘competenza’ del proprio lettore. […] il testo istituisce la ‘competenza’ del proprio Lettore-Modello, cioè costruisce il suo destinatario, un fantasma predisposto e montato dalla forma del discorso. La cooperazione testuale è una strategia promossa dal testo, un’attività regolata dal testo stesso».
43 Formula talmente diffusa in Ariosto da ispirare il titolo di un recente libro di Massimo Donà, Di qua, di là. Ariosto e la filosofia dell’Orlando furioso, Milano, La Nave di Teseo, 2020.
44 Sulle differenze tra intertestualità e interdiscorsività cfr. Cesare Segre, Intertestuale / Interdiscorsivo, in Costanzo Di Girolamo – Ivano Paccagnella (a cura di), La parola ritrovata, Palermo, Sellerio, 1982, pp. 15-28.
45
Si legga, per esempio, la versione di Aldobrando Cerretani, che realizzò la prima traduzione integrale in ottava rima del poema virgiliano nel Cinquecento (cfr. Aldobrando Cerretani, L’Eneida in toscano del generoso et illustre giovine il Signor Cavalier Cerretani, Firenze, Lorenzo Torrentino, 1560):
Così piange, e si duole, e a legni intanto
Lascion le briglie a por l’armata intenti
De l’Euboica Cuma a lidi a canto
Volgon le prore, e con tenaci denti
Ferman l’ancore i legni, e in nessun canto
Temon omai le curve poppe i venti,
Sovra l’Esperio lido, i giovin indi
Saltar lieti vedeansi, e quinci, e quindi.
Scorrendo ardenti cercan parte il seme
Del fuoco intanto ascoso entro le vene
De le pietre, a rapir ad altri preme
Le selve di ferigni alberghi piene
Altri palese fan gioiosi insieme
Se fonti o fiumi vicin luogo tiene. […]
(L’Eneida in toscano, VI, 1-2)
46 Cfr. G. B. Conte, Memoria dei poeti, cit., pp. 30-31: «Perché entri in funzione il meccanismo attivo dell’arte allusiva, il poeta deve chiedere ed ottenere la collaborazione del lettore. L’allusione si realizzerà così come voluto e preciso, imprescindibile riferimento ad una “memoria dotta” presupposta nel lettore o nell’ascoltatore: si configurerà come desiderio di risvegliare una vibrazione all’unisono tra la memoria del poeta e quella del suo lettore in rapporto ad una situazione poetica cara ad entrambi».