Ricezione dei classici
OJ-italique-941
La traduzione di Ludovico Dolce dell’Epitalamio di Peleo e Tetide di Catullo
Nel vasto repertorio di traduzioni dei classici greci e latini stampate nel corso del Cinquecento, Catullo occupa una posizione di secondo piano, in particolare rispetto a Virgilio e Ovidio, tanto che solo il carme 64 del liber sembra essere oggetto di volgarizzamenti sistematici. Il primo è di Luigi Alamanni e risale ai primi anni ’20,1 il secondo di Ludovico Dolce è del 15382 e sul finire del secolo esce quello di Giulio Cesare Bagnoli.3 Le altre traduzioni reperibili riguardano il carme 86 (Quintia formosa est multis. Mihi candida, longa), ma sono elaborate per essere inserite in più ampi discorsi sulle idee di bellezza e grazia, dunque non con lo scopo principale di fornire una versione in italiano di Catullo.4 Una di esse si legge nel Commento sopra una canzone d’amore di Girolamo Benivieni di Giovanni Pico della Mirandola, ma omette gli ultimi due versi del testo latino, mentre la seconda, di Benedetto Varchi, si trova prima nel manoscritto II.VIII.146 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze ed è citata anche nel Libro della Beltà e Grazia (1543).5 Varchi riprende e commenta la traduzione di Pico offrendone una propria.
Difficile stabilire con assoluta certezza le ragioni di una simile marginalità in ambito traduttivo di un autore ben noto e apprezzato specialmente dagli umanisti quattrocenteschi, ma largamente imitato anche nella poesia neolatina del Cinquecento.6 In ambito volgare, Catullo è sicuramente meno presente perché la lirica di quel periodo preferisce altri modelli, Petrarca su tutti, e spesso si concentra su tematiche a lui estranee. Altre ragioni di questa assenza potrebbero essere la difficoltà e la ricercatezza della sua lingua poetica, lo stato ancora problematico di molti versi, oggetto di congetture non sempre felici da parte degli umanisti, la scabrosità di alcuni dei carmi e l’oscurità dei molti riferimenti all’epoca cesariana.7 Probabilmente l’epitalamio di Peleo e Tetide si prestava a una traduzione appunto perché incentrato su un mito ben noto – e non su circostanze contingenti della vita personale del poeta –, in grado di suscitare un maggior interesse presso lettori che potevano riconoscere e apprezzare la vicenda di Arianna intarsiata sulla coperta del talamo. Inoltre, essa poteva fungere da esempio per le produzioni occasionali di omaggi nuziali, frequenti in quel periodo.
L’epitalamio del Dolce Là dove Phasi con lucid’acque tradotto dal carme 64 di Catullo8 fa parte di un trittico dell’autore che comprende la parafrasi della sesta Satira di Giovenale e un dialogo sulle qualità che devono avere le mogli; il volgarizzamento catulliano è stato trascritto per intero in due articoli di Alessia Caporale, che ne modernizza la grafia e aggiunge alcune note linguistiche;9 Paolo Trovato ne cita i vv. 598-636 come esempio della pratica traduttiva dei classici latini nel Rinascimento, proponendo alcune osservazioni fonetiche e morfologiche.10 Quanto allo studio di Olga Casale e Laura Facecchia, esso è fondamentale per le riflessioni sulla dedica a Tiziano che apre il trittico di scritti, oltre che per i commenti puntuali sulle modalità di ampliamento e chiosa del testo latino nella sezione della descrizione di Arianna.11 Infine, i lavori di Alina Laura De Luca sono importanti per la contestualizzazione dell’epitalamio tra le altre due traduzioni di Alamanni e Bagnoli.12 Per quel che mi riguarda, tenterò qui di affrontare altri aspetti: prima di tutto, esaminerò nel dettaglio i versi dell’ἔκφρασις dedicati al monologo di Arianna abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso, per mostrare come Dolce evochi altri autori antichi e moderni a fianco dell’ipotesto principale. In secondo luogo, si osserverà come vengono risolti alcuni dei problemi testuali presenti nel testo di Catullo, verificando se ci sia un riscontro con una delle edizioni aldine (1502 e 1515) del testo classico ed eventualmente con altre congetture proposte da alcuni umanisti.13 Infine, cercherò le tracce di un’eventuale conoscenza da parte del Dolce della precedente traduzione di Alamanni, a noi giunta in un unico manoscritto, per concludere con alcune considerazioni sul paratesto del componimento, in particolare sulla correlazione con la Paraphrasi nella Sesta Satira di Giuvenale e con il Dialogo del modo di tor moglie contenuti nella medesima edizione.
Già a una prima lettura della traduzione dolciana dell’epitalamio è possibile rendersi conto del notevole ampliamento del testo, perché ai 408 esametri latini corrispondono ben 906 endecasillabi italiani. Tale estensione del volgarizzamento è ottenuta soprattutto tramite l’inserzione di informazioni supplementari, assenti nel testo d’origine, «in maniera da venire incontro all’orizzonte di attesa del pubblico, la cui padronanza in materia deve essere alquanto precaria»;14 molto spesso inoltre Dolce inserisce aggettivi non presenti nel carme latino e utilizza delle dittologie in cui un latinismo è spiegato e chiarito da un sinonimo italiano.15 Infine, vi sono vere e proprie riformulazioni dell’originale, di cui viene mantenuto il significato generale ma in una traduzione molto libera, svolta, in alcuni casi, tramite l’imitazione di alcune sezioni di opere in volgare. In questo modo Dolce non rende solamente fruibile il classico a un vasto pubblico, ma lo attualizza: la sua è una “traduzione acculturante”, che già appare molto differente rispetto a quella dell’Alamanni, risalente a quasi vent’anni prima e più letterale e aderente all’ipotesto.16 Inoltre, già dalla fine degli anni trenta, cioè il periodo cui risale la sua traduzione catulliana, Dolce mostra una chiara consapevolezza del proprio metodo e dell’obiettivo di queste edizioni; oltre all’allargamento del bacino di lettori dei classici, Dolce mira alla rivitalizzazione di questi ultimi grazie al ricorso al lessico corrente e a richiami di opere moderne.17 Pochi anni dopo l’uscita dell’epitalamio catulliano, egli stesso affermerà, nella dedicatoria alla libera riduzione in volgare del Thyeste senecano,18 che:
Non è dunque di sì poca importanza, come alcuni istimano, l’officio di tradurre un libro d’una lingua in un’altra in modo, che si possa comportevolmente legger.19
Ci troviamo al confine temporale tra i cosiddetti “volgarizzamenti” e gli esordi delle vere proprie “traduzioni”, secondo la distinzione proposta da Dionisotti, efficace pur nella sua rigidità.20 La traduzione di Catullo si situa dunque in una primissima fase della lunga carriera di traduttore dei classici del Dolce, eppure possiamo già notare alcune delle caratteristiche espressive adottate anche in seguito per trasferire in volgare gli esametri latini, in particolar modo nell’ὀμφαλός dell’epitalamio, ovvero il lamento di Arianna abbandonata.21
Il lamento di Arianna
Il monologo di Arianna occupa 194 endecasillabi (vv. 304-497) corrispondenti a Catullo 64, 132-201, ovvero una sezione che viene sostanzialmente triplicata nella traduzione, a dimostrazione dell’assoluto rilievo della scena in seno al componimento.22 Il numero degli endecasillabi impiegati da Dolce per rendere gli esametri latini è in media raddoppiato, perciò al lamento viene concesso, in proporzione, uno spazio maggiore rispetto all’originale.
In molti casi Dolce sfrutta le possibilità incompiute del monologo, spiegando al lettore i versi latini e completando al contempo ciò che in Catullo era solo implicito:
Ah, perfido Theseo, ti sei scordato | |
dei giuramenti tuoi, de le promesse | |
tante e sì larghe, ohimé, nel danno mio? | 310 |
Così in non cale hai seppellito e posto | |
d’i santi dèi il venerabil culto, | |
ma mentre parti, e mi ti togli e furi, | |
tale è la bella e gloriosa spoglia | |
che te ne porti al tuo natio terreno | 315 |
d’haver, lassa, ingannata una fanciulla?23 |
In nove versi il Veneziano traduce tre esametri, Catullo 64, 133-135 (perfide, deserto liquisti in litore, Theseu? / Sicine discedens neglecto numine divum, / immemor a! devota domum periuria portas?),24 mantenendo gli elementi essenziali del lamento di Arianna riguardanti la perfidia e la smemoratezza di Teseo. Si noti come il participio discedens venga triplicato da Dolce in “mentre parti, e mi ti togli e furi”, secondo una tipica procedura di ampliamento. Ciò che più emerge più chiaramente è, però, l’esplicitazione del catulliano devota periuria: evidentemente si riteneva necessaria una spiegazione del sintagma, che conduce all’allontanamento dal significato letterale del passo latino per aumentare il pathos del monologo. Nella traduzione, gli spergiuri che Teseo portava con sé in patria si trasformano addirittura in un trofeo («spoglia»), ovvero l’abbandono di Arianna, con un’evidente intensificazione della carica emotiva dei versi («ingannata una fanciulla»). Dopo un esempio che illustra le caratteristiche tipiche della traduzione del Dolce, raddoppiamenti e chiose – simili a quanto notato da altri studiosi sui suoi lavori successivi – esaminiamo ora una sezione che amplifica un dettaglio appena accennato in Catullo e presente, invece, in un altro noto monologo di Arianna, quello di Ovidio, Heroides X.
Crudel come tradivi una innocente, | |
che non commise mai maggior peccato | |
fuori, ch’in troppo amar chi non devea? | 325 |
Tu se’ ladro, Theseo, tu mi rubasti | |
di frodi armato e mille e mille inganni | |
dal mio tranquillo e riposato nido. | |
È questo il fin che con sì dolci accenti, | |
con sì fallaci e losinghevol voci | 330 |
mi promettesti già? quando dicevi - | |
e ’l rimembrar m’occide- “amica e cara | |
donna di questo cuore, io giuro il chiaro | |
maggior lume del ciel, ch’apporta il giorno | |
e ’l gran rettor, che con l’horribil destra | 335 |
vibra gli ardenti folgori, che mai | |
altra fiamma d’amor, altra facella | |
non accendrà foco entro il mio petto, | |
che quella cara, che da gli occhi tuoi | |
ha mosso Amor, ond’egli avampa et arde, | 340 |
fin che lo spirto mio regga quest’ossa. | |
Tu col nodo sarai meco legata | |
che scioglier non si può, se non per morte”. |
L’intera sezione è aggiunta all’epitalamio a partire da soli tre versi che non vengono tradotti letteralmente, ma reinventati e utilizzati per esplicitare una suggestione inesplorata del testo catulliano: vv. 139-141 At non haec quondam blanda promissa dedisti / voce mihi, non haec miserae sperare iubebas, / sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos.25Dolce espone al lettore le «fallaci e losinghevol voci» di Teseo, sottaciute in Catullo (blanda promissa, non si dice quali), prendendo spunto non solo dal suo testo di riferimento, ma dalla lettera di Ovidio, Heroides X, ai vv. 73-74, dove Arianna ricorda le false parole di colui che ora l’ha abbandonata sull’isola: cum mihi dicebas: “Per ego ipsa pericula iuro, / te fore, dum nostrum vivet uterque, meam”.26 Come in Ovidio, Arianna riporta in un discorso diretto le parole di Teseo, ancora una volta amplificate e qui ingigantite dalla gravità dello spergiuro.
Un altro ben noto passo con la medesima protagonista viene dunque sfruttato in una traduzione, dove non ci attenderemmo una contaminazione di diversi ‘modelli’ ma una fedeltà tematica, se non letterale, al testo di partenza. Accanto agli esametri catulliani, che rimangono ovviamente il riferimento principale, altre fonti, come ora Ovidio, completano la narrazione aggiungendo particolari assenti o motivi di sviluppo differenti. Nei versi che Dolce aggiunge per chiosare o arricchire il dettato di Catullo, egli si sente libero di alludere ad altri autori, specialmente quando si tratta della medesima vicenda, ma non solo. Per mostrare un esempio di intertestualità proveniente da un diverso contesto, i vv. 342-343 («Tu col nodo sarai meco legata / che scioglier non si può, se non per morte») sembrano riecheggiare una terzina di un sonetto di Bembo, il XLVI, 9-11: «Cosa non vada più, come solea, / poi che quel nodo è sciolto, ond’io fui preso, / ch’altro che morte scioglier non devea».27
Ancora più interessante è la continuazione del monologo di Arianna, che dopo aver ricordato le infide promesse di Teseo si lancia in un’esortazione a tutte le donne, affinché non credano a ciò che gli uomini dicono in preda al desiderio. Questa sezione, che in Catullo occupa i vv. 143-148, viene tradotta con le stesse parole che il narratore Ariosto usa in avvio del decimo canto del Furioso, parole che precedono l’episodio di Olimpia abbandonata da Bireno su un’isola deserta.28 Il riscontro testuale è talmente preciso da meritare un triplice confronto tra Catullo, Dolce e Ariosto:
Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,
nulla viri speret sermones esse fideles;
quis dum aliquid cupiens animus praegestit apisci,
nil metuunt iurare, nihil promittere parcunt:
sed simul ac cupidae mentis satiata libido est,
dicta nihil metuere, nihil periuria curant
(Catull. LXIV, 143-148)
Hor non sia donna homai che presti fede a promesse d’amanti, a giuramenti: non sia donna qua giù che speri mai di poter ritrovar huomo fedele. L’amante per haver ciò ch’ei desia non guarda a giuramenti, e le promesse ad ogni tempo ha in bocca a mille a mille; ma non sì tosto de l’accesa mente rende satio il desio, che se ne parte e di quelli e di queste la memoria: né tema punto, né pensier l’ingombra d’offender quel, che su dal cielo i torti de gli mortali con dritt’occhio mira, e con giusta bilancia appende e libra. (Dolce, Epithalamio, 346-359) | […] donne, alcuna di voi mai più non sia, ch’a parole d’amante abbia a dar fede. L’amante, per aver quel che desia, senza guardar che Dio tutto ode e vede, aviluppa promesse e giuramenti, che tutti spargon poi per l’aria i venti. I giuramenti e le promesse vanno dai venti in aria disipate e sparse, tosto che tratta questi amanti s’hanno l’avida sete che gli accese et arse. Siate a’ prieghi et a’ pianti che vi fanno, per questo esempio, a credere più scarse. (O. F., X, 5, 3 – 6, 6) |
La traduzione prende la forma di una “imitazione di imitazione”, perché sebbene Dolce renda il latino in modo piuttosto letterale, egli usa le medesime parole di Ariosto, il quale aveva a sua volta imitato Catullo nell’episodio di Olimpia abbandonata nel Furioso del ’32.29 Non vi è dunque un’amplificazione né un sensibile distanziamento rispetto al testo latino, se non nei versi finali, dove Dolce chiarisce al suo lettore il termine periuria, un giuramento non mantenuto che offende gli dèi, o meglio Dio nell’ottica cinquecentesca («quel, che su dal cielo i torti de gli mortali con dritt’occhio mira / e con giusta bilancia appende e libra» non ha riscontro nel testo latino). Dolce è dunque fedele a Catullo, un Catullo a lui noto anche attraverso l’imitazione di Ariosto del canto X. Lo mostrano le somiglianze tra la traduzione di Dolce e queste ottave, talmente profonde da non poter essere casuali (Ariosto: «L’amante, per aver quel che desia, […] aviluppa promesse e giuramenti»; Dolce: «L’amante per haver ciò ch’ei desia / non guarda a giuramenti, e le promesse […]»). Infine, è opportuno ribadire che il contesto di provenienza dei versi ariosteschi si presta al riutilizzo in una traduzione del lamento, perché con essi si apre il canto X, che contiene parte della vicenda di Olimpia, personaggio appunto rimodellato su Arianna, principalmente l’Arianna di Ovidio, a sua volta debitrice di quella catulliana.30 Si traccia dunque un percorso intertestuale da Dolce a Catullo e Ovidio, con il filtro fondamentale di Ariosto. L’estrema somiglianza verbale con i versi ariosteschi impedisce di pensare a una memoria inconsapevole da parte del Dolce, che era certamente conscio della dipendenza dell’episodio del Furioso dai due modelli classici, tanto più che si occuperà, pochi anni più tardi, delle annotazioni del Furioso nelle giolitine, offrendo un saggio sull’imitazione degli antichi da parte di Ariosto in uno dei commenti più ristampati del secolo.31 A proposito del canto X, Dolce annoterà nella Breve dimostratione di molte comparazioni et sentenze in diversi Auttori imitate, che:
questa finzione d’Olympia lasciata dall’ingrato Bireno sola nell’isola è la medesima d’Arianna abbandonata da Theseo: perciò chi desidera vedere, come bene e felicemente l’Ariosto ha saputo imitare et servirsi delle cose altrui, legga tutta la epistola di Ovidio, la quale Arianna scrive a Theseo.32
In questo caso, Catullo non è nominato, pur essendo citato nel commento ad altri passi del poema, e l’unico modello dell’episodio di Olimpia sembra essere la lettera ovidiana.33 Più tardi, nella revisione della medesima Dimostratione, Dolce annota al canto X, 28-29:
leggasi ancora il lamento, che fa lamedesima Arianna presso Catullo nell’Argonautica;34 a’ versi del quale molti di questi dell’Ariosto son simili.35
Nonostante questi commenti siano successivi alla traduzione di Catullo in oggetto, è certo che Dolce avesse già nel 1538 la consapevolezza della trama di richiami e allusioni, date le somiglianze inequivocabili tra Catullo, la sua traduzione dell’epitalamio e il canto X del Furioso. La traduzione diventa così non un fedele volgarizzamento del testo classico, ma un complesso sistema di memorie letterarie antiche e moderne, che entrano in contatto e coesistono nell’ampliamento dei versi di Catullo. Si noti inoltre che gli ammiccamenti al lettore del Furioso non terminano qui, ma figurano anche nei versi successivi, in cui Arianna rinfaccia a Teseo di averla indotta ad abbandonare il padre e a collaborare all’uccisione del Minotauro, suo fratello, per proteggerlo:
Per lo cui merto queste membra mie | |
– ecco bel guiderdon, che tu mi dai – | |
saranno cibo e nudrimento et esca | 370 |
de l’affamate fere, e de gli augelli. |
Il verso 369 è quasi identico a quello dell’Olimpia ariostesca, impegnata anch’ella a rimproverare Bireno per la sua ingratitudine:
Quel c’ho fatto per te, non ti vorrei,
ingrato, improverar, né disciplina
dartene; che non men di me lo sai:
or ecco il guiderdon che me ne dai.
(O. F., X, 32, 5-8)
Una ripresa testuale così precisa non poteva sfuggire ai lettori della traduzione del carme 64, perché con essa Dolce indica la genealogia letteraria del mito che sta rievocando. Anche in questo caso, si tratta di un ampliamento del testo catulliano, in cui è presente la prospettiva di diventar cibo per le bestie (vv. 152-153 pro quo dilaceranda feris dabor alitibusque / praeda), ma non si insiste molto sulla colpa di Teseo.
Più oltre si nota come Dolce risolva uno dei passi che ancora oggi suscitano dibattito nella critica catulliana, ovvero il verso 159 saeva quod horrebas prisci praecepta parentis. Ci troviamo ancora nel monologo di Arianna, che sta disperatamente cercando plausibili spiegazioni all’inaspettato abbandono da parte di Teseo, giungendo a ipotizzare un’ostilità da parte del suocero Egeo (prisci parentis). Non tutti i commentatori e traduttori di Catullo sono certi che si stia qui parlando di Egeo e alcuni propongono l’identificazione del parens con Minosse, il padre di Arianna; il commento di Palladio del 1495 e un’annotazione di Sabellico, stampata nel 1497, avanzano l’idea che si tratti di Cecrope, mitico re di Atene che aveva introdotto l’istituto del matrimonio. Il primo commento al testo di Catullo di Partenio, uscito nel 1485 e poi più volte ristampato, afferma invece che il prisci parentis altri non sia che il veteris Aegei.36 Ludovico Dolce non sembra avere simili dubbi, e la sua traduzione indica senza possibili fraintendimenti che Arianna sta immaginando l’avversione di Egeo:
Deh se non t’era a cuor le nozze mie, | |
– per le quali oltraggiar forse temevi | |
l’antico padre, ch’al partir da lui | 385 |
cotal da pria t’havesse imposta legge – |
I praecepta dell’antico padre alludono dunque a una preventiva raccomandazione, di cui il mito a noi noto non parla, riguardo a un possibile matrimonio con Arianna. Egeo, nell’immaginazione della fanciulla disperata – alla ricerca di una possibile motivazione, anche esterna, per la perfidia di Teseo –, avrebbe addirittura imposto al figlio una qualche «legge» prima che questi partisse per Creta.37
Nei versi che seguono, Dolce amplia nuovamente il monologo aggiungendo alcuni dettagli estranei al modello catulliano, allo scopo di aggiungere ulteriore pathos alla figura di Arianna, pronta a servire Teseo e disposta persino a prendersi cura del letto di una nuova sposa:
Io volentieri con le proprie mani | 395 |
t’harei purgato i pie’ d’ogni bruttezza, | |
harei di giorno in giorno adorno e bello | |
hora versando gigli, hor rose, hor fiori | |
reso con sofferenza il ricco letto | |
de la futura tua sposa novella, | 400 |
a cui giunga di me più lieta sorte. |
L’Arianna di Dolce, in preda alla disperazione, si umilia ancor più di quanto facesse l’Arianna catulliana,38 la quale immaginava di sfiorare le piante dei piedi dell’amato con gli unguenti (v. 162 candida permulcens liquidis vestigia lymphis), ma il cui gesto sembrava più da innamorata che da schiava. Nella traduzione, invece, come una vera e propria serva ella purga «i pie’ d’ogni bruttezza». Appare inoltre ampliato, rispetto a Catullo, il cenno alla presenza di una nuova sposa di Teseo: al v. 163 tuum cubile indica il letto nuziale, che l’Arianna del Veronese immagina di ricoprire con una veste purpurea, ma è del tutto assente il riferimento alla «futura tua sposa novella», che emerge con forza in Dolce. Se si allarga la visuale all’opera in cui è inserita la traduzione, ossia un trittico incentrato su matrimonio e tradimento, l’aggiunta al testo d’origine permette di comprendere meglio il progetto letterario complessivo.
Si vedano infine i versi che seguono il monologo di Arianna, in cui viene descritto l’altro lato della coperta nuziale di Peleo e Tetide, in cui figura la scena dell’amore del dio Bacco per Arianna e il salvataggio di quest’ultima dall’isola deserta.
Da l’altra parte del ricco lavoro | |
si vedea Bacco coronato e cinto | |
d’uve e di fiori i biondi suoi capelli. | 600 |
Seguia su l’Asinello infiato e tumido | |
Silen di vino, e lo cingea d’intorno | |
folto choro di Satyri e Silvani, | |
i quai tutti dan laude al modo loro | |
faceano i vari gesti, a guisa d’ebbri | 605 |
e pieni di furor con lieta voce | |
chiamando Bacco, e girando la testa. |
Questi endecasillabi del Dolce sono i più citati dalla critica poiché contengono il riferimento al Bacco e Arianna di Tiziano, oggi alla National Gallery di Londra, che sarebbe una fonte iconografica dei versi tradotti, i cui dettagli non sono riscontrati nell’originale catulliano. Il primo a rilevare questa probabile fonte è Ginzburg, che a proposito dei vv. 598-636 afferma: «basterebbe l’accenno all’“enfiato e tumido” Sileno, non menzionato da Catullo (ma presente nel corteo di Bacco descritto da Ovidio, Ars amandi, I, 541 sgg.39) per capire che il Dolce più che tradurre cercava di dare un equivalente letterario del quadro di Tiziano».40 Essi spiegherebbero così la dedica a Tiziano che precede la Paraphrasi della sesta satira di Giovenale aprendo il trittico comprendente la traduzione dell’epitalamio. Dolce si inserirebbe dunque nel dibattito cinquecentesco sulla capacità “rappresentativa” della scrittura e tradurrebbe il carme 64 proprio perché esso si presta, grazie all’ἔκφρασις della coperta nuziale, all’esposizione della teoria sull’uguale autorevolezza ed efficacia di descrizione pittorica e letteraria, accennata appunto nella dedica:41
Da questo havendo io raccolto et tessuto un essempio tale, quale ho saputo et potuto, hora lo mando a voi affine che, non potendo intendere il proprio, veggiate nel mio se i buoni scrittori sanno così bene ritrar con la penna i segreti de l’animo, come i buoni dipintori col pennello quel che si dimostra all’occhio: o pure, se essi insieme con voi, che sete il più degno, rimangono superati di gran lunga.42
Tuttavia, pur senza togliere validità a quanto detto sulla presupposta descrizione in versi del quadro di Tiziano, Dolce sembra sfruttare anche modelli poetici oltre al precedente figurativo. Il primo di essi si trova in un passo delle Stanze di Poliziano, che citano e rimodellano a loro volta Ovidio, come già rimarcato da Paolo Trovato:43
Sovra l’asin Silen, di ber sempre avido,
con vene grosse nere e di mosto umide,
marcido sembra, sonnacchioso e gravido,
le luci ha di vin rosse, infiate e fumide;
l’ardite ninfe l’asinel suo pavido
pungon col tirso, e lui con le man tumide
a’ crin s’appiglia; e mentre sì l’aizono,
casca nel collo, e’ satiri lo rizono.
(Stanze, I, 112)
Aggiungerei inoltre un ulteriore modello, presumibilmente influenzato dallo stesso Poliziano: una strofa della Canzona di Bacco e Arianna di Lorenzo de’ Medici, che menziona nuovamente Sileno sopra l’asino:
Questa soma, che vien drieto
sopra l’asino, è Sileno:
così vecchio è ebbro e lieto,
già di carne e d’anni pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.44
Uno dei modelli di Dolce per l’inserimento nella traduzione di quell’asinello assente nel testo di Catullo potrebbe dunque essere il quadro Bacco e Arianna, il che permetterebbe di leggere questi versi alla luce della dedica a Tiziano incentrata sul principio dell’ut pictura poesis; eppure, a fianco dell’esempio figurativo coesistono sicuramente un modello latino, l’ars di Ovidio, e due volgari, Poliziano e Lorenzo il Magnifico, che rappresentano entrambi Sileno ubriaco sull’asino.45 Inoltre, è possibile che la notorietà e la diffusione del motivo iconografico di Bacco con il suo corteo consentissero a Dolce di alludere a una scena topica, presente non solo nel quadro di Tiziano ma in molte altre raffigurazioni pittoriche o scultoree. Concludendo, il Bacco e Arianna è, sì, identificabile come modello, ma non pare opportuno stabilire una dipendenza univoca del Dolce da esso.
L’opera di traduttore di Dolce è frutto dunque di un complesso procedimento mirato non solo a volgere il testo classico in volgare, per renderlo accessibile a una più vasta cerchia di lettori, ma anche a chiosarlo e arricchirlo grazie all’intertestualità con autori classici e moderni. Egli sfrutta la genealogia d’imitazioni e di allusioni all’episodio dell’abbandono di Arianna per tradurre liberamente, specialmente nel monologo centrale del carme catulliano. Per meglio comprendere la funzione di un simile lavoro, dobbiamo riflettere sui suoi destinatari. In primo luogo, Tiziano, il dedicatario, doveva evidentemente riconoscere l’interconnessione dei modelli all’interno della traduzione, sia che le fonti del suo quadro fossero direttamente latine, come ipotizzano alcuni studi moderni, sia che fossero volgari.46 Allo stesso modo, il lettore avrebbe potuto riconoscere riferimenti a un best-seller dell’epoca come il Furioso, e in generale ritrovarsi coinvolto nella ricostruzione dell’episodio di Arianna attraverso molteplici fonti. Grazie alle sezioni aggiunte da Dolce e agli ampliamenti del testo catulliano, esso sarebbe divenuto più chiaro anche a coloro che non avevano familiarità con il latino del carme 64, ovvero la maggior parte del pubblico dell’edizione.47
Infine, ricontestualizzare la traduzione del carme 64 all’interno del trittico consente di interpretarlo come l’episodio conclusivo di una parabola che va dall’estrema misoginia della satira di Giovenale, al dialogo sulle qualità della moglie ideale, per concludersi con l’Epithalamio di Peleo e Teti, in cui il racconto delle liete nozze è interrotto dalla straziante vicenda di Arianna al centro del carme. L’insegnamento morale convogliato attraverso l’intero trittico sembra dunque informare il lettore sulla malizia di alcune donne, per poi illuminarlo sulle doti delle buone mogli, e infine renderlo consapevole del fatto che se alcune di esse, come Arianna (e Olimpia), possono subire un tradimento, sussistono tuttavia dei matrimoni perfetti come quello tra Peleo e Tetide.
In conclusione devo constatare il risultato infruttuoso di due degli obiettivi che mi ero prefisso all’inizio della mia ricerca: non mi è parso di rilevare, infatti, somiglianze significative con la traduzione di Alamanni di quasi vent’anni precedente. Essa è ben più letterale rispetto alla dolciana e non aggiunge ampie sezioni assenti nel testo latino. Inoltre, essa ci è pervenuta solamente in un unico manoscritto ed è stata sicuramente composta prima dell’esilio di Luigi dall’Italia, dunque in una fase giovanile della sua carriera di poeta; essa potrebbe pertanto essere sfuggita anche a un letterato pur colto e interessato come Dolce.
Infine, è stato impossibile identificare una dipendenza diretta della traduzione da un’edizione coeva di Catullo:48 dall’esame di alcuni passaggi problematici del carme 64, come i vv. 287-288, che presentano ancora oscillazioni e incertezze al tempo di Dolce, si sarebbe dovuto comprendere quale delle differenti edizioni il poeta avesse adottato.
Tuttavia, l’analisi dei vv. 669-670, corrispondenti a Catullo 287-288, chiarirà la difficoltà di questa ricerca:
Peneo dopo costor sen venne anch’egli | |
lasciando a parte la sua bella Tempe, | |
Tempe, di cui né più fiorita selva, | |
né più vaga habitò Nimpha o Silvano. | 670 |
Questo portò da le radici loro | |
alti faggi […] |
traduce Catullo
Confestim Penios adit, viridantia Tempe, | |
Tempe, quae silvae cingunt super impendentes, | |
Nereidum linquens claris celebranda choreis, | 287 |
Nonacrias, atque ille tulit radicitus altas | |
fagos […]49 |
I versi latini hanno impegnato gli esegeti di Catullo per i due incipit del verso 287 e del verso 288, corrotti nella tradizione manoscritta e non ancora fissati nelle stampe (Nereidum e Nonacrias nelle aldine; Nonacriis in Partenio e Palladio, ma si veda la nota 49). In ogni caso, la traduzione di Dolce non riproduce letteralmente né l’aldina del 1515 né una delle altre edizioni a stampa che potevano essere disponibili. Per esempio, il Nereidum del v. 287, che indica una tipologia specifica di ninfe, le Nereidi, è presente nelle aldine; l’edizione di Alessandro Guarino del 1521, stampata sulla scorta delle correzioni del padre Battista, ha Nessonidum, che designerebbe le ninfe del lago Nessonio, vicino a Tempe.50 Purtroppo Dolce non mostra indizi sulla sua edizione di riferimento, traducendo in maniera generica «Nimpha» e aggiungendo «o Silvano», assente in qualsiasi versione del testo catulliano.51 Allo stesso modo, l’incipit non vacuus al v. 288, accettato da quasi tutti i moderni in luogo della corrotta versione dei codici, si trova già nell’edizione del 1521 di Guarino, al posto del Nonacrias delle aldine. Eppure, Dolce non traduce né Nonacrias né non vacuus, passando direttamente alle parole che seguono: «né più vaga abito Nimpha o Silvano / questo portò da le radici loro / alti faggi» – ille tulit radicitus altas / fagos.
In questo come in altri casi, i problemi testuali vengono sostanzialmente aggirati dal Dolce, che non adotta una traduzione fedele e sembra seguire il testo dopo la crux; altrove egli rende il latino in modo generico, non permettendo di dedurre con certezza dalla traduzione su quale edizione catulliana egli lavorasse. D’altronde, l’esame dei punti problematici sembra l’unico modo possibile per riconoscere quale dei vari testi disponibili, commentati o meno, il Dolce avesse tradotto. Oltre alle edizioni a stampa, tra cui le due aldine furono certamente le più diffuse, egli potrebbe però aver letto anche un testo manoscritto, magari annotato; allo stato attuale è impossibile formulare ipotesi che non siano completamente speculative, vista la vastità della tradizione del testo catulliano e le inevitabili perdite di alcuni esemplari manoscritti.
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1 L’attribuzione all’Alamanni della traduzione dell’Epitalamio figurante nel manoscritto non autografo SC-Ms 162 della Biblioteca Gambalunga di Rimini è ormai accettata dalla critica, sebbene l’unica indicazione che rinvii al nome del poeta si trovi solo sulla costola del manoscritto e in una grafia più recente. Sappiamo infatti da Claudio Tolomei che Alamanni tradusse il c. 64 di Catullo: Claudio Tolomei, De le Lettere di M. Claudio Tolomei lib. sette, appresso G. Giolito de Ferrari, in Vinegia, 1547, p. 8a: «[…] io non so quanto mi piaccia la forma di questi versi sciolti li quali da molti s’usano per rappresentarsi il verso heroico Greco e Latino, così come furono usati già da M. Luigi Alamanni nel trasferir l’epitalamio di Peleo e di Tetide che fece Catullo». Discuto in maggior dettaglio questa traduzione, giuntaci lacunosa, nella mia tesi di dottorato.
2 Ludovico Dolce, Paraphrasi nella sesta satira di Giuuenale: nella quale si ragiona delle miserie de gli huomini maritati. Dialogo in cui si parla di che qualità si dee tor moglie, et del modo, che vi si ha a tenere. Lo Epithalamio di Catullo nelle nozze di Peleo et di Theti, in Vinegia, per Curtio Navò e fratelli, 1538. Nella dedica a Federico Badoer che precede il Dialogo è apposta la data del primo febbraio 1539; secondo Olga Casale, Laura Facecchia, la data del 1539 «fa ipotizzare che il Dolce non abbia inteso adeguarsi al calendario veneto, cui sembra invece riferirsi il frontespizio» (La coperta nuziale di Peleo e Teti nell’Epitalamio di Catullo, tradotto da L. Dolce, in Il castello, il convento, il palazzo e altri scenari dell’ambientazione letteraria. Atti del Convegno di studi, Lecce-Gallipoli 21-24 ott. 1998, Firenze, Olschki, 2000, pp. 243-264: nota 21, p. 248).
3 Giulio Cesare Bagnoli, ‘L’Argonautica di Catullo tradotta in ottava rima da Giulio Cesare Bagnoli. Dedicata all’Ill.ma et Ecc.ma Sig.ra, la Sig.ra Orsina Colonna Peretti Principessa di Paliano’, Parma, Biblioteca Palatina, Pal. 720. Cfr. Alina Laura De Luca, L’Argonautica di Catullo tradotta da Giulio Cesare Bagnoli, in Italo Pantani e Emilio Russo (eds.), Recuperi testuali tra Quattro e Cinquecento, Roma, Bulzoni, 2012, pp. 165-222 e Ead., ‘L’Argonautica di Catullo: la traduzione del carme 64 nel Cinquecento’, in Maria Accame Lanzillotta (ed.), Volgarizzare e tradurre: dall’Umanesimo all’età moderna. Atti della Giornata di Studi, 7 dicembre 2011, Università di Roma “Sapienza”, Tivoli, Edizioni Tored, 2012, pp. 63-85, che offre informazioni preliminari anche sulle due precedenti traduzioni.
4 In altra sede mi occuperò di queste due traduzioni del carme 86, che sono interessanti per la storia del testo catulliano ma assolutamente episodiche e non rientrano tra le attività di programmatica traduzione dei classici che fiorirono nei decenni centrali del Cinquecento. Si tratta infatti di traduzioni inserite come esempi in discorsi teorici che non riguardano Catullo.
5 Il Libro si trova nel Cod. misc. Magl. XL, 40, 8 (BNCF) 1543.
6 Sulla penuria di traduzioni di Catullo, si veda Julia Haig Gaisser, Catalogus translationum et commentariorum: Mediaeval and Renaissance Latin translations and commentaries: annotated lists and guides. Vol. XI, Toronto, Pontifical Institute of Medieval Studies, 2016, pp. 197-292. In queste pagine peraltro non si trovano i riferimenti alle due traduzioni del carme 86 rispettivamente di Pico e di Varchi, e quelle del carme 64 vengono solamente menzionate a p. 213. Si veda inoltre il ricchissimo lavoro sul ritrovamento, l’interpretazione e l’imitazione di Catullo, principalmente nel XV secolo, di J. H. Gaisser, Catullus and his Renaissance Readers, Oxford, Clarendon, 1993.
7 Sulla carenza di traduzioni da Catullo e dagli elegiaci latini così si esprime Carlo Dionisotti, Tradizione classica e volgarizzamenti, in Id. Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 174-175: «la disposizione ad allargare ed arricchire la nuova poesia aveva un suo limite insuperabile nella preoccupazione di mantenere intatta la base linguistica e stilistica petrarchesca. Ammissibile era il tentativo di comporre anche elegie, epigrammi, odi italiane, ma senza che perciò il carattere petrarchesco della lirica italiana risultasse alterato. Alla responsabilità di una traduzione poetica di Catullo, Tibullo, Properzio, o delle Odi di Orazio, nessuno voleva né poteva sobbarcarsi».
8 Contenuto in Ludovico Dolce, Paraphrasi nella sesta satira… cit.
9 Alessia Caporale, Ludovico Dolce: l’Epithalamio di Catullo nelle nozze di Peleo e Teti, in «Filologia Antica e Moderna», XV, 29, 2005, pp. 79-112; Ead., Ludovico Dolce: l’Epithalamio di Catullo nelle nozze di Peleo e Teti, in «Filologia Antica e Moderna», XVI, 30-31, 2006, pp. 143-171. Gli articoli non offrono un vero e proprio commento, solo annotazioni sulla morfologia di alcune parole e parallelismi con passi di autori precedenti, spesso tratti da contesti totalmente estranei alla vicenda di Arianna e non stringenti dal punto di vista intertestuale.
10 Paolo Trovato, La lingua dei volgarizzamenti e delle traduzioni dal latino, in Storia della lingua italiana, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 149-160, con una antologia di testi a pp. 352-357, tra i questi i vv. 598-636 del volgarizzamento del carme 64 di Dolce.
11 O. Casale, L. Facecchia, La coperta nuziale… cit. L’articolo trascura, per ragioni di spazio, il monologo di Arianna, ma fornisce annotazioni molto interessanti sulla sezione precedente, ovvero la descrizione della fanciulla disperata sul litorale, e su quella seguente, riguardante la morte di Egeo, padre di Teseo.
12 Vedi nota 3; inoltre Alina Laura De Luca, «Catullum Numquam Antea Lectum […] Lego»: a Short Analysis of Catullus’ Fortune in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, in International Exchange in the Early Modern Book World, Matthew McLean, Sara Barker (eds.), Brill, Leiden, 2016, pp. 329-342.
13 Per fare ciò, terrò in considerazione gli studi sulla fortuna umanistica di Catullo e sulla ricostruzione del suo testo, ovviamente concentrandomi esclusivamente sul carme 64 in questa occasione. Si vedano la raccolta di Daniel Kiss, What Catullus wrote: problems in textual criticism, editing and the manuscript tradition, Swansea, The Classical Press of Wales, 2015; l’elenco di edizioni e commenti predisposto da J. H. Gaisser, Catalogus translationum et commentariorum… cit.; Susanna Bertone, Dispositio carminum Catulli: i carmi di Catullo nella tradizione manoscritta e a stampa dal tardo Trecento al 1535, Berlino-Boston, De Gruyter, 2021, con bibliografia aggiornata; altresì importanti lo studio di Giovanni Parenti, La tradizione catulliana nella poesia del Cinquecento, in Roberto Cardini e Donatella Coppini (a cura di), in Il rinnovamento umanistico della poesia. L’epigramma e l’elegia, Firenze, Polistampa, pp. 63-100; sul corso su Catullo tenuto da Valeriano a Roma si veda il cappello introduttivo di Giovanni Parenti, Poeti latini del Cinquecento, voll. 1 e 2, introduzione ed edizione a cura di Massimo Danzi, Pisa, Edizioni della Normale, 2020.
14 Cito dall’analisi di Giuseppe Zarra riguardante la parafrasi della sesta satira di Giovenale, edita con la traduzione di Catullo: le sue osservazioni riguardanti le modalità d’ampliamento del testo latino valgono spesso anche per l’Epitalamio, a dimostrazione del fatto che la pratica traduttoria di Dolce appaia simile in testi di genere ben diverso, almeno in questa fase della sua attività, ma anche oltre, negli anni cinquanta e sessanta del secolo. Cfr. Giuseppe Zarra, Osservazioni linguistiche su Ludovico Dolce traduttore di Giovenale, in «Studi Linguistici Italiani», XL (III s., XIX, fasc. II), 2014, pp. 199-227: p. 207. L’estensione del testo di origine tramite chiose, spiegazioni o aggiunte è d’altra parte ben frequente anche in opere dei decenni successivi su molti altri autori latini. Per quanto riguarda simili procedimenti nelle traduzioni di Virgilio, che Dolce realizzò molti anni più tardi, si veda Luciana Borsetto, Riscrivere l’“historia”, riscrivere lo stile: il poema di Virgilio nelle “riduzioni” cinquecentesche di Lodovico Dolce, in Ead., Il furto di Prometeo. Imitazione scrittura riscrittura nel Rinascimento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1990, pp. 223-255. Le traduzioni “amplificate” garantivano al lettore un supporto analogo alle chiose al testo catulliano presenti in alcune edizioni latine coeve.
15 Si ricordi il commento di P. Trovato, La lingua dei volgarizzamenti… cit., p. 353: «Rientra infatti, fin dalle origini, nelle caratteristiche del genere la tendenza all’amplificazione, avvertibile soprattutto nel ricorso a glosse e ad altri dispositivi chiarificatori, a perifrasi […], a dittologie sinonimiche e non».
16 La traduzione dell’Alamanni ci è giunta con una lacuna corrispondente a 103 esametri latini, nel cuore dell’Epitalamio e fino all’inizio del monologo di Arianna. I 305 versi latini rimanenti sono resi in 432 endecasillabi: si può notare dai meri numeri che non viene attuata la medesima amplificazione del Dolce, che raddoppia il numero di versi e addirittura lo triplica nel monologo di Arianna.
17 L’edizione del trittico in cui è contenuta la traduzione del carme 64 ebbe uno scarso successo editoriale: cfr. O. Casale-L. Facecchia, La coperta nuziale… cit., p. 247. In seguito, con l’avvicinarsi della metà del secolo, Dolce e molti altri autori fecero precedere le loro opere da prese di posizione sulla pratica della traduzione.
18 Su Ludovico tragediografo e traduttore di tragedie si vedano i lavori di Stefano Giazzon, e in particolar modo Stefano Giazzon, Venezia in coturno. Lodovico Dolce tragediografo, Roma, Aracne, 2011.
19 Ludovico Dolce, Thyeste tragedia di M. Ludovico Dolce tratta da Seneca, in Venetia, appresso Gabriel Giolito di Ferrara, 1543. Questa e altre riflessioni programmatiche sulla traduzione sono citate in molti degli studi già menzionati; in particolare, appare di grande interesse anche la premessa alla traduzione dall’Eneide del 1566, pur distante quasi trent’anni dal lavoro ora in esame, in cui Dolce afferma «in tutta la mia traduttione ho tenuto un certo temperamento di non mi obbligare ad ogni particolare di così gran Poeta, né di scostarmene molto: se non in quanto ho giudicato che la volgar lingua, e il costume di oggidì non lo comporti, rifiutando l’ufficio di semplice traduttore».
20 Si veda C. Dionisotti, Tradizione classica… cit., pp. 125-178.
21 Dal 1537 al 1562 Dolce aveva lavorato ad almeno 65 opere, di cui 23 figurano come volgarizzamenti. Per un elenco completo dei titoli tradotti da Dolce e altre informazioni sulla sua collaborazione con gli editori dell’epoca, si veda L. Borsetto, L’“officio di tradurre”: Lodovico Dolce dentro e fuori la stamperia giolitina, in Culture et professions en Italie (fin XVe-début XVIe siècles), éd. par Adélin C. Fiorato, Paris, Publications de la Sorbonne, 1989, pp. 99-115.
22 Anche in Catullo il lamento di Arianna è l’omphalos del carme, il suo punto focale: sulla struttura concentrica del carme e la disposizione delle scene in Catullo, si vedano il commento ad loc. di Fo in Gaio Valerio Catullo, Le poesie, a cura di Alessandro Fo, Torino, Einaudi, 2018 e Marco Fernandelli, Catullo e la rinascita dell’epos. Dal carme 64 all’Eneide, Hildesheim, Zurich, New York, Olms, 2012.
23 Il testo di Dolce è tratto dai due articoli della Caporale citati, confrontati con l’edizione originale del 1538, oggi digitalizzata dalla Biblioteca nazionale centrale di Roma e fruibile in linea.
24 «Ecco così, andando via, sprezzato il nume divino, ah! tu, non memore, a casa i tuoi infausti spergiuri ti porti?». La traduzione moderna di Catullo è tratta dall’ed. curata da A. Fo: Gaio Valerio Catullo, Le poesie… cit.
25 «Ma non queste promesse mi offristi un tempo con voce tenera; non questo me infelice spingevi a sperare, ma le liete nozze, ma gli agognati imenèi» (trad. Fo).
26 Si cita il testo ovidiano da Chiara Battistella, P. Ovidii Nasonis Heroidum Epistula 10 Ariadne Theseo: Introduzione, testo e commento, Goettingen, De Gruyter, 2010. Il commento ad loc. è alle pp. 74-75: «Arianna ‘riproduce’ qui la vox di Teseo: cfr. Cat. 64. 139-140 at non haec quondam blanda promissa dedisti / voce mihi. I giuramenti del Teseo catulliano (64.140: conubia laeta, optatos hymenaeos) in Her. 10 ‘si specializzano’ elegiacamente: Teseo parla infatti, anzi giura (cf. ovviamente già Cat. 64.143 nunc iam nulla viro iuranti femina credat) come un amante elegiaco». Per i rapporti tra l’Arianna ovidiana e quella catulliana si veda ibid., pp. 2-7 e 13-17.
27 Il Dolce fu in contatto con Bembo e gli rese omaggio in molte delle opere. Il testo delle rime è tratto da Pietro Bembo, Prose e Rime, a cura di Carlo Dionisotti, Torino, UTET, 1966.
28 Per un commento e una collocazione del canto nella struttura del poema di Ariosto si veda Simone Albonico, Lettura del canto X dell’«Orlando furioso», «Giornale storico della letteratura italiana», CLXXXIX, 2012, pp. 1-22; sul monologo di Olimpia si veda Marzia Minutelli, Il lamento dell’eroina abbandonata nell’«Orlando Furioso» (X, XX – XXXIV), «Rivista di letteratura italiana», IX, 1991, pp. 401-464.
29 Puntuali i riferimenti ai versi catulliani in Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, a cura di Emilio Bigi e Cristina Zampese, Milano, BUR, 2012, pp. 327 sgg. Si noti che Ariosto, a differenza di Dolce, utilizza un’ulteriore allusione a Catullo 30, 10, ventos irrita ferre ac nebulas aereas sinis («che tutti spargon poi per l’aria i venti»), contaminando due differenti carmi. Per la nozione di “imitazione di imitazioni” si veda Daniel Javitch, The Imitation of Imitations in «Orlando Furioso», «Renaissance Quarterly», 38, 1985, pp. 215-239; per l’episodio di Olimpia pp. 222-225.
30 Ariosto nel canto X imita per lo più la decima delle Epistulae Heroidum, tuttavia, tanto Ariosto quanto Dolce potrebbero essere consapevoli delle molteplici e diverse ‘Arianne’ illustrate da Ovidio, e in particolare il riferimento al verso di Fasti, III, 475: “nulla viro” clamabo “femina credat”, con il quale l’Arianna ovidiana cita l’Arianna catulliana (per confronti sulle figure di Arianna in Ovidio si veda Luciano Landolfi, Le molte Arianne di Ovidio. Intertestualità e intratestualità in “Her.” 10; “Ars” 1, 525-564; “Met.” 8, 172-182; “Fast.” 3, 459-516, in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», 57, 1997, pp. 139-172).
31 Diversamente dal precedente commento al Furioso di Fausto da Longiano, la Dimostratione di Dolce era uno scritto separato dal corpo del poema e interamente dedicato appunto ai prestiti dai classici. Sulla vicenda dei commenti si veda Daniel Javitch, Proclaiming a Classic. The Canonization of Orlando Furioso, Princeton, Princeton University Press, 1991, pp. 48-70. Nello stesso studio si trovano osservazioni su come la lingua di Ariosto abbia influito su quella dei volgarizzamenti delle Metamorfosi di Ovidio, tra cui le Trasformationi di Dolce uscite nel 1553, cfr. ibid., pp. 71-85. Come si è visto, già quindici anni prima la lingua del poema ariostesco aveva influito sulla traduzione dell’Epitalamio di Catullo.
32 Ludovico Ariosto, Orlando furioso di m. Ludouico Ariosto nouissimamente alla sua integrità ridotto et ornato di varie figure. Con alcune stanze del s. Aluigi Gonzaga in lode del medesimo. Aggiuntoui per ciascun canto alcune allegorie et nel fine vna breue espositione et tauola di tutto quello, che nell’opera si contiene, in Venetia: appresso Gabriel Giolito di Ferrarii, 1542.
33 Per esempio, viene ricordato Catullo per la similitudine tra vergine e rosa del canto I, 42-43 e per le «furtive opre / de gli amatori» del canto XIV, 99.
34 Dolce nel 1566 chiama Argonautica il carme 64 del Veronese tradotto, nel 1538, come Epithalamio di Catullo nelle nozze di Peleo et di Theti. Nelle edizioni da Catullo disponibili all’epoca, quali l’aldina del 1515, si trova il titolo Argonautica, talvolta chiosato a mano con il sottotitolo Epithalamium Pelei et Thetidis; in altre, come quella commentata da Alessandro Guarino del 1521 si trova Epithalamium Pelei et Thetidos, mentre nella Trincavelliana del 1535 si legge Epithalamium Pelei et Thetidis.
35 Ludovico Dolce, Orlando Furioso di M. Lodovico Ariosto, con cinque nuovi canti del medesimo. Ornato di figure. Con queste aggiunzioni. Vita dell’autore scritta per M. Simon Fórnari. Allegorie in ciascun Canto, di M. Clemente Valvassori Giurecons. Argomenti ad ogni Canto, di M. Gio. Maria Verdezzotti. Annotazioni, Imitazioni & Avertimenti sopra i luoghi difficili di M. Lodovico Dolce, & d’altri. Pareri in duello d’incerto Auttore. Dichiaratione d’Historie & di Favole di M. Thomaso Porcacchi. Ricolta di tutte le comparationi usate dall’Auttore. Vocabolario di parole oscure con l’espositione. Rimario con tutte le Cadentie usate dall’Ariosto, di M. Gio. Giacomo Paruta, Valvassori, Venezia 1566, p. 101. Cfr. D. Javitch, The canonization… cit., p. 176, nota 11: «There is one significant exception to Dolce’s usual assumption that Ariosto imitates one and only one model: the observation he adds to his original note on the episode of Olimpia abandoned by Bireno in canto 10. Originally he had claimed that Ariosto’s account was modeled solely on Ovid’s Heroides 10, Ariadne’s lament after being abandoned by Theseus. In the revised commentary, he notes at 10.28-29 that Catullus 64 should also be consulted as a model». In un commento più tardo (1584) Lavezuola esplicitò che l’episodio descritto nel canto X fosse «Tratto da Ovidio nella sua Arianna fatta da lui parimente di quella di Catullo».
36 Cfr. J. H. Gaisser, Catullus and his Renaissance Readers… cit., pp. 48-53 e 408; Douglas Ferguson Scott Thomson, Catullus, Toronto, Toronto University Press, 1997, pp. 413-414. Sembrerebbe confermare l’identificazione del priscus parens con Egeo anche la traduzione precedente dell’Alamanni, seppur più problematica e aperta a interpretazione: «s’esser per marital giogo congiunto / meco temesti, ritenendo a mente / del vechio padre anchor l’empii ricordi». Per informazioni sulle edizioni dei commenti umanistici al testo di Catullo, che ho potuto consultare personalmente per verificare in che modo ciascuno identificasse il prisci parentis, si veda J. H. Gaisser, Catalogus translationum et commentariorum…cit., pp. 223-259.
37 In Catullo, i mandata di Egeo (v. 214 e v. 238) si riferivano alla vela bianca da innalzare sulla nave in caso di successo dell’impresa, non a eventuali divieti coniugali.
38 Catull. 64, 158-163: Si tibi non cordi fuerant conubia nostra, / saeva quod horrebas prisci praecepta parentis, / attamen in vestras potuisti ducere sedes, / quae tibi iucundo famularer serva labore, / candida permulcens liquidis vestigia lymphis, / purpureave tuum consternens veste cubile («Se non hai mai avuto a cuore le nozze con me, paventando / ciò che i precetti spietati del vecchio padre ingiungevano, / tu almeno avresti potuto condurmi alle vostre dimore, / e schiava ti avrei servito in fatiche piene di gioia / limpide linfe versando in carezze alle candide piante, / o distendendo sul tuo giaciglio una coltre purpurea», trad. Fo). L’Arianna di Ovidio invece aborre persino l’idea di servitù, cfr. Heroides X, 89-90, su cui si veda il commento di C. Battistella, P. Ovidii Nasonis Heroidum Epistula… cit., pp. 83-84.
39 Ovidio, ars 1, 543-544 ebrius, ecce, senex pando Silenus asello / vix sedet, et pressas continet ante iubas. / Dum sequitur Bacchas […].
40 Carlo Ginzburg, Tiziano, Ovidio e i codici della figurazione erotica nel Cinquecento, in Id., Miti emblemi e spie, Einaudi, Torino 1986, pp. 132-157. Allo stesso modo S. Giazzon, Venezia in coturno… cit., nota 8, p. 4: «Qualcosa di simile Dolce compirà ne Lo epithalamio di Catullo nelle nozze di Peleo et di Theti (Venezia, Navò, 1538), dove l’autore fornirà non già una filologica traduzione del celeberrimo epillio catulliano, bensì una descrizione del dipinto intitolato Bacco e Arianna realizzato dall’amico Tiziano nei primi anni Venti del secolo».
41 Così anche O. Casale-L. Facecchia, La coperta nuziale… cit., p. 250, secondo cui «non è neppure un caso che il Dolce prelevi da Catullo proprio il LXIV epillio, perché» gli permette di «confrontarsi col maestro dell’ekphrasis descrittiva ed espressionistica e di competere, in qualche modo, col pittore, che, guarda caso, nel 1523 aveva dipinto per Alfonso d’Este Bacco e Arianna, forse anche ispirandosi a Catullo».
42 Ludovico Dolce, Paraphrasi… cit., p. 2.
43 P. Trovato, La lingua dei volgarizzamenti… cit., p. 355, nota 2: «il materiale verbale (l’asinello, da un asellus ovidiano, e gli aggettivi infiato e soprattutto tumido, in rima sdrucciola) presuppone tuttavia [ovvero, oltre al quadro di Tiziano come affermato da Ginzburg] il Bacco di Poliziano, Stanze I, 112».
44 Prendo il testo da Lorenzo de’ Medici, Tutte le opere, a cura di Paolo Orvieto, Roma, Salerno Editrice, 1992.
45 A margine, si noti come sia Poliziano sia Lorenzo trasferiscono dettagli dell’ipotesto ovidiano nei loro versi. Nelle Stanze Sileno si aggrappa alla criniera dell’asino («lui con le man tumide / a’ crin s’appiglia»), come in Ovidio (pressas continet ante iubas, cfr. nota 29), mentre il Magnifico si sofferma maggiormente sulla vecchiaia del personaggio, in modo da contrapporla alla giovinezza del suo ritornello («vecchio […] d’anni pieno», cfr. Ov. senex Silenus).
46 Per le fonti del Bacco e Arianna di Tiziano si veda anche Erwin Panofsky, Problems in Titian, mostly iconographic, London, Phaidon Press, 1969, pp. 141-143, oltre a C. Ginzburg, Tiziano, Ovidio… cit.; inoltre, si veda anche John Shearman, Arte e spettatore nel Rinascimento italiano, Milano, Jaca book, 1995, pp. 254-256.
47 Così anche A. L. De Luca, «Catullum Numquam Antea… cit., p. 334: «the collection was explicitly designed for illiterate men and women. This would explain the didactic intent of the translation, packed with periphrases to explain particular Latin terms or to clarify a mythological reference».
48 Così O. Casale-L. Facecchia, La coperta nuziale… cit., p. 253 nota 33: «Il Dolce ha effettuato la traduzione avendo sott’occhio quasi sicuramente una delle edizioni aldine, circolanti all’epoca negli ambienti letterari veneziani e contenente, a mio parere, un testo grosso modo vicino a quello vulgato che ancora oggi si legge».
49 Prendo il testo non dall’ed. di Fo cit., ma dall’Aldina del 1515, uno dei testi che potevano essere consultati da Dolce. L’ed. di Fo lascia le cruces all’inizio del v. 287; D. F. S. Thomson, Catullus… cit., p. 160 ha Tempe, quae silvae cingunt super impendentes / Haemonisin linquens claris celebranda choreis / non vacuus; 287 minosim OGR Nereidum Ald. 1502 Mnision damn. A. Guarinus 1521 in comm; 288 non accuos O: non acuos GR: al’ nonacrios R2m1: al’ nonacrias G2: Nonacriis damn. A. Guarinus 1521.
50 In Caium Valerium Catullum Veronensem per Baptistam patrem emendatum expositiones cum indice, Venezia, G. Rusconi, 1521. Questo passo del carme 64 è commentato alle pp. LXXVI-LXXVII: choreis Nessonidum, nympharum Nessonii lacus prope Tempe ut libro nono Strabo meminit.
51 Riportiamo anche la traduzione di questo passaggio di Alamanni, che aggira anch’essa il dilemma traducendo genericamente “ninfe” e tralasciando l’incipit problematico del verso 288: «Venne Peneo lasciando il dolce Tempe, / Tempe cui selve cingon d’ogni intorno / che a cori e delle Nymphe almo ricetto / indi portò dalle radici svelti / sylvestri faggi».