Ricezione dei classici
OJ-italique-941
L’endecasillabo sciolto come metro traduttivo del corpus Theocriteum nel Cinquecento
Nella lunga evoluzione metrica che contraddistingue la tradizione bucolica in volgare – caratterizzata, in momenti diversi, da una ricca polimetria e tendenze frottolate o da una predominanza della terza rima e un ampio ricorso allo sdrucciolo – una circostanza determinante è rappresentata senz’altro dal passaggio all’endecasillabo sciolto, il cui impiego, se pure non esclusivo, finirà per diventare di gran lunga prevalente.1 L’innovazione metrica, sorta in seno alla produzione drammaturgica (e in particolare tragica) e destinata ad affermarsi in maniera preponderante, nei secoli a venire, soprattutto in quest’àmbito, attecchisce però molto presto anche nel genere bucolico, dove trova fin da subito un terreno ideale per il proprio sviluppo.2 Dopo alcuni episodi molto isolati e per lo più ininfluenti ai fini della fortuna del metro,3 le prime vere prove in sciolti sono quelle tragiche della Sophonisba trissiniana (a stampa per la prima volta nel 1524, ma alla cui stesura il vicentino attendeva fin dal 1515 – se non già dal soggiorno fiorentino del 1513 – e che doveva apparire in una forma vicina a quella della princeps intorno alla fine degli anni Dieci del Cinquecento, in coincidenza con la sua presentazione a Leone X)4 e della Rosmunda di Giovanni Rucellai (pressoché contemporanea quanto alla data di composizione), e non molto tempo dopo quelle eglogistiche di Alamanni e ancora dello stesso Trissino.5 Questi ultimi sono non solo tra i fondatori (nonché sistematici utilizzatori) del nuovo metro, ma anche i primi suoi consapevoli teorici: la prassi compositiva e la ricerca di nuove soluzioni formali, insomma, non sono in nessuno dei due autori slegate da un’attenta riflessione elaborata a priori, che poggia in parte su solide basi classicistiche – il recupero di nuovi modelli, greci e non più soltanto latini, per il teatro e per l’egloga; e, più in particolare, la necessità di individuare una forma di verso che potesse coincidere, per dignità e funzione, con quella classica dell’esametro – e in parte sulla volontà di conseguire un più alto livello di mimesis in contesti dialogici come quelli appunto del teatro e dell’egloga.6 Vale la pena di riportare i brani, benché noti, in cui i due rendono conto dell’abbandono delle rime, fornendone in modo lucido le ragioni. Così Trissino, nella dedica della Sophonisba a Leone X:
Quanto pωi al non havere per tutto accordate le rime, non dirὼ altra ragione, perciὼ ch’io mi persuado, che se a Vωstra Beatitudine non spiacerà di volere alquanto le orecchie a tal numero accomodare, che lo troverà, ε migliore, ε piu nωbile, ε fωrse men facile ad asseguire, di quello, che per aventura ὲ reputato, Ɛ lo vederà non solamente ne le narrationi, εt orationi utilissimo, ma nel muovere compassione necessario; Per ciὼ che quel sermone, il quale suol muovere questa, nasce dal dolore, εt il dolore manda fuori non pensate parωle, onde la rima, che pensamento dimostra, ὲ veramente ala compassione contraria (cc. a3r-v).7
E così si sarebbe espresso, in relazione proprio al genere bucolico, qualche anno più tardi,8 nella sesta divisione della Poetica:
Né anco il Sannazaro la [grazia di Teocrito] ha in questa nostra lingua asseguita […]. Ma io penso che ciò sia per essere in rima, perciò che la rima è figura che ha molto del vago e che pensamento dimostra, onde al parlare rustico e pastorale non ben si conviene. […] Laonde a me più piacerebbe che tali egloghe fossero non solamente senza quei sdruccioli ma ancora senza rime, della qual cosa io già ne feci la pruova e mi riuscirono assai bene.9
Come è evidente, il presupposto sulla base del quale si sconsiglia il ricorso alla rima è il medesimo (il fatto, cioè, che la rima «pensamento dimostra»), ma differenti sono le motivazioni per i due generi: per riprodurre le «non pensate parωle» generate dal «dolore» nel primo caso; per conseguire un linguaggio «rustico» nell’altro. Ecco invece la dichiarazione programmatica espressa da Alamanni in apertura delle sue Opere toscane:
Saran forse di quegli che anchor mi accuseran, dicendo che da me sien messi in uso i versi senza le rime, non usati anchor mai da’ nostri migliori; a questi si potrebbe dar per risposta, che ne’ suggetti che portono interlocutori (sì come aviene nelle egloghe) è molto fuor del convenevole il rimare, perciò che oltra che il sentir persone domandarsi e rispondersi in rima mostra fuori certa affettation non degna d’un buon poeta, conviene anchora (per servar l’ordine) che ciascun de’ ragionatori parli sempre tanti versi quanti il compagno, onde il più delle volte nasce, che l’un per necessità parla più di quel che vorrebbe, et l’altro meno.10
Anche per Alamanni, insomma, sono il principio di convenientia e la ricerca di una mimesis delle forme dialogiche a orientare verso la maggiore libertà metrica. Né sarà un caso che le prime prove di componimenti bucolici in sciolti siano non egloghe di libera invenzione ma traduzioni (più o meno libere) che attingono a un modello classico (e che risalgono per di più, con un intento “aristocratico”, a una fonte greca anziché latina, e anzi al fondatore stesso del genere bucolico);11 che, cioè, l’innovazione metrica in direzione sperimentalistica sia saldamente legata – con un’apparente contraddizione in termini – a una forte istanza classicistica di recupero dell’antico.12
Alla luce di tali presupposti teorici, nel presente saggio si valuterà il funzionamento dell’endecasillabo sciolto come metro traduttivo (e dunque il rapporto con l’esametro, a maggior ragione in presenza dei meno stringenti vincoli traduttivi che garantisce il mancato ricorso alla rima) a partire proprio dalle sue prime attestazioni bucoliche; al contempo, si verificherà la presenza (o l’assenza) di elementi strutturanti di carattere retorico o fonico (assonanze, consonanze, omeoteleuti, ecc.), che possano avere in qualche modo sopperito all’abbandono della rima e garantito al testo un’organizzazione interna altrettanto ordinata, e si tenterà di stabilire se tali caratteristiche siano peculiari di singoli autori o se costituiscano un sistema condiviso, proprio della produzione in sciolti e più in particolare del genere bucolico.13 A tale scopo, la scelta di un corpus di testi che in misura maggiore o minore costituiscono delle traduzioni ha il vantaggio di offrire un sistema di riferimento piuttosto compatto e tematicamente coeso, e di conseguenza dei dati meglio confrontabili, tanto più quando i componimenti si rifacciano a un medesimo ipotesto.14 I testi oggetto dell’analisi sono i seguenti (per i tre bucolici greci si adottano da qui in avanti le sigle “T”, “M” e “B”, seguite dai numeri arabi dei rispettivi componimenti; per Virgilio la sigla “V”, accompagnata egualmente dal numero arabo dell’egloga):15 le due egloghe che chiudono le Rime (1529) di Trissino, vale a dire i componimenti LXXVIII e LXXIX, che traducono rispettivamente T1 e T3;16 otto delle quattordici Egloghe di Alamanni (1, 2, 5, 6, 7, 8, 9 e 10, da qui in avanti indicate con la sigla “Al” seguita dal numero arabo dell’egloga), nell’omonima sezione delle Opere toscane (1532), che traducono nell’ordine T1, M3, T5, T11, T2, T8, T3 e B1;17 l’egloga che si trova nelle Rime toscane (1538) di Amomo, che traduce B1;18 l’Europa di Muzio, contenuta nelle sue Rime (1551),19 che traduce piuttosto liberamente M2; la seconda delle tre egloghe poste in coda ai Sonetti di Varchi (1555), che traduce T3;20 l’egloga presente nelle Rime postume di Caro (1569),21 che traduce T1. Fra queste, dunque, si rifanno a T1 la prima egloga di Trissino, la prima di Alamanni e quella di Caro; traducono invece T3 Trissino nella sua seconda egloga, Al9 e Varchi; riprendono infine B1 sia Al10 che Amomo; tutti gli altri testi del corpus teocriteo tradotti si trovano invece in attestazione unica.
1. Si prendano anzitutto in considerazione le dimensioni complessive dei testi, così da avere un iniziale colpo d’occhio sul ‘peso specifico’ dell’endecasillabo in rapporto a quello dell’esametro. Il prospetto che si ricava da un confronto fra la misura degli idilli teocritei e quella delle traduzioni è il seguente:
T1 | T2 | T3 | T5 | T8 | T11 | M2 | M3 | B1 | |
Testo greco | 152 | 166 | 54 | 128 | 93 | 81 | 166 | 126 | 98 |
Trissino | 171 | - | 80 | - | - | - | - | - | - |
Alamanni | [= Al1]155 | [= Al7]215 | [= Al9]97 | [= Al5]135 | [= Al8]101 | [= Al6]102 | - | [= Al2]155 | [= Al10]141 |
Amomo | - | - | - | - | - | - | - | - | 194 |
Muzio | - | - | - | - | - | - | 296 | - | - |
Varchi | - | - | 193 | - | - | - | - | - | - |
Caro | 232/24722 | - | - | - | - | - | - | - | - |
Si tenga conto, preliminarmente, che le egloghe del corpus di riferimento non sono traduzioni ad verbum, ma si discostano talvolta in misura anche rilevante dall’ipotesto greco. Le divergenze si registrano quasi sempre sul piano dell’elocutio, in qualche caso su quello dell’inventio e quasi mai su quello della dispositio: le versioni si preoccupano di seguire il testo greco almeno nel suo svolgimento essenziale, ma talvolta se ne distaccano per mezzo di digressioni innovative (o riscritture, nel caso di nuove ekphraseis che sostituiscono quelle originarie)23 oppure tramite una contaminatio del modello con porzioni desunte da altri testi bucolici, oltre che con la costante aggiunta (o parziale modifica) di minime tessere lessicali, di solito in direzione di un recupero della tradizione lirica volgare.24 Per tali ragioni, un numero di versi molto simile tra testo di partenza e testo di arrivo non è automaticamente garanzia di un’estrema fedeltà al modello. Così Al1, Al5 e Al8, nei quali pure si ha uno scarto minimo nelle dimensioni tra ipotesto e traduzione, presentano in realtà al loro interno sottrazioni di ingenti porzioni di testo, e il computo finale dei versi finisce per essere vicino a quello del componimento di partenza solo in ragione di una calibrata aggiunta di nuovi elementi (di invenzione o di derivazione virgiliana)25 che hanno l’effetto di bilanciarne il peso complessivo.26 All’opposto, non è sempre scontato che a un’ingente differenza nel numero di versi corrisponda un’estrema libertà traduttiva: se, infatti, ciò è vero per l’Europa di Muzio, non vale invece per Caro, la cui traduzione di T1 è assai più rispettosa del testo greco di quelle di Trissino e Alamanni (con l’eccezione solo della libera resa dell’ekphrasis del vaso), pur indulgendo molto alle amplificationes.
I tagli, in Alamanni soprattutto, riguardano spesso alcuni passaggi avvertiti come troppo prosaici o eccessivamente rusticali, in contrasto con una visione della bucolica che sembra procedere invece in direzione di un livello mediano e quasi elegiaco, verso linguaggio e immagini propri della lirica. In Al1, ad esempio, vengono meno l’elenco dei premi che occupa le due lasse iniziali (T1 4-6 e 9-11),27 il lungo intervento di Priapo (T1 81-94) e l’apostrofe finale alle capre (T1 151-152), che decade del resto anche in Al5 (T5 141-150)28 – ma si veda anche, sul piano della lexis, la sostituzione di un’immagine quale «λευκοτέρα πακτᾶϛ» (T11 20) con la meno connotata (benché egualmente appropriata al canto di Polifemo) «Candida sei più ch’al gelato verno / L’Etna, e ’l Pacchin» (Al6 29-30), o la troppo cruda «ἀντὶ γυναικόϛ ἔθηκε κακάν καὶ ἀπάρθενον ἦμεν» (T2 36) con una più petrarchesca «che già di Donna / M’ha fatta (lassa) una notturna fera» (AI7 54-55). Talvolta sono smussati i caratteri troppo spiccatamente grecizzanti: in Al7 scompaiono i riferimenti al possibile nuovo amore omoerotico del giovane (T2 44 «εἴτε γυνὰ τήνῳ παρακέκλιται εἴτε καὶ άνήρ» diventa al v. 59 «Qualunque Donna del mio ben mi spoglia», e similmente T2 150 «κεἴτε νιν αὖτε γυναικὸϛ ἔχει πόθοϛ εἴτε καὶ ἀνδρόϛ» è reso ai vv. 194-195 con «[amor] per novella Donna, / Né sapea ben per chi»), e l’intera porzione dedicata al racconto dell’incontro tra Flora e Daphni (ovvero Simeta e Delfi) vede mutare del tutto l’ambientazione da un contesto urbano greco (con la centralità del gymnasion) a uno bucolico toscano trasfigurato per mezzo del velame letterario (con il ginnasta che diventa qui cacciatore). Non mancano, infine, casi in cui i tagli abbiano una semplice funzione di complessiva riorganizzazione strutturale: così, Al2, in cui è pianta la morte di Cosimo Rucellai, è ovviamente privato dei rimandi al sospetto di avvelenamento che conteneva invece M3 (vv. 109-112), mentre Al9 si conclude senza il canto finale di carattere mitologico (T3 40-51), sostituito da un lungo confronto che l’io opera tra sé e il proprio rivale in amore;29 nell’Europa di Muzio, a fronte di una generale tendenza all’ipertrofia, sono eliminate l’intera scena del sogno iniziale e la lunga ekphrasis mitologica della cesta aurea (M2 1-27 e 37-62); in Varchi, infine, nel canto finale del capraio manca l’episodio mitologico di Iasione, poco noto rispetto agli altri.
Le aggiunte, oltre a essere legate a brevi sfoggi di bravura, possono consistere in vere e proprie modifiche strutturali. In Al10 ad accrescere il numero di versi della traduzione è soprattutto l’aggiunta di una cornice pastorale (desunta peraltro da una contaminatio con l’avvio di T6), per cui la voce che recita l’epitaffio di Adone non è quella del poeta, ma quella di due pastori che si alternano nel canto. In Muzio oltre sessanta versi (dal 30 al 94) sono occupati da una digressione su un banchetto divino, durante il quale le Parche profetizzano a Giove il suo prossimo innamoramento per Europa, mentre più avanti (vv. 213-224), nel corteggio che accompagna il transito marino del toro, è introdotta la figura di Venere, che nel finale prenderà la parola per rassicurare Europa e preannunciarle gli eventi dell’immediato futuro (laddove, in Mosco, questa funzione è assolta da Giove stesso). Non di rado, poi, le digressioni ospitano brani dalla scoperta funzione elogiativa: così ad esempio nel passaggio in cui è celebrato il musico Aiolle, toscano attivo alla corte francese, in Al1 24-28;30 in quello in cui è lo stesso Francesco I a essere lodato, in Al5 114-121; o, ancora, in quello che accosta insieme, per eccellenza, Bernardo Tasso, il Bronzino e Pietro Vettori, in Varchi 30-40.
Procedendo a un confronto più serrato, si può osservare che, al netto di amplificationes o tagli di vario genere, la misura di un singolo endecasillabo è talvolta in grado di condensare il contenuto di un intero esametro. La spia di una tale tendenza è costituita dalle porzioni amebee, che generalmente riproducono anche in traduzione le dimensioni di partenza. Se ne riportano di seguito due esempi da Al5 e 8:
(Κομ) | Αἶγες ἐμαί, τῆνον τὸν ποιμένα τόν Σιβαρίταν | Bat. | Fuggi o mio gregge il Tosco Coridone |
φεύγετε τὸν Λάκωνα· τό μευ νάκος ἐχθὲς ἔκλεψεν. | Che pur la tasca mi furò l’altr’hieri. | ||
(Λάκ) | οὐκ ἀπὸ τᾶς κράνας; σίττ᾽ ἀμνίδες, οὐκ ἐσορῆτε | Cor. | Fuggite o pecorelle un veggio appresso |
τόν μευ τὰν σύριγγα πρόαν κλέψαντα Κομάταν; | Ch’hoggi furommi la zampogna al bosco. | ||
(Κομ) | τὰν ποίαν σύριγγα; τὺ γάρ ποκα, δῶλε Σιβύρτα, | Bat. | Et qual zampogna? Che pur certo il sai |
ἐκτάσω σύριγγα; τί δ᾽ οὐκέτι σὺν Κορύδωνι | Come non tu né ’l tuo Menalca insieme | ||
ἀρκεῖ τοι καλάμας αὐλὸν ποππύσδεν ἔχοντι; | Sapreste dritta in man tenerla a pena. | ||
(Λάκ) | τάν μοι ἔδωκε Λύκων, ὠλεύθερε. τὶν δὲ τὸ ποῖον | Cor. | Quella che Mosso mio mi diede in dono, |
Λάκων ἀγκλέψας πόκ᾽ ἔβα νάκος; εἰπὲ Κομάτα. | Ma tu qual tasca? Che Dameta anchora | ||
οὐδὲ γὰρ Εὐμάρᾳ τῷ δεσπότᾳ ἦς τι ἐνεύδειν. | Né tu vedeste mai sì fatto arnese. | ||
(Κομ) | τὸ Κροκύλος μοι ἔδωκε, τὸ ποικίλον, ἁνίκ᾽ ἔθυσε | Bat. | Quella che Daphni mi donò quel giorno |
ταῖς Νύμφαις τὰν αἶγα: τὺ δ᾽ ὦ κακὲ καὶ τόκ᾽ ἐτάκευ | Che ’l sacrificio alle sue Nymphe porse, | ||
βασκαίνων, καὶ νῦν με τὰ λοίσθια γυμνὸν ἔθηκας. | Tu ’l sai ben che d’invidia ardesti allhora. | ||
(T5 1-13) | (Al5 1-13) |
(Μεν.) | χρῄσδεις ὦν ἐσιδεῖν; χρῄσδεις καταθεῖναι ἄεθλον; | Men. | Vuoi far la pruova, et che si metta un pregio? |
(Δάφ.) | χρῄσδω τοῦτ᾽ ἐσιδεῖν, χρῄσδω καταθεῖναι ἄεθλον. | Daph. | Io vo’ la pruova far, mettasi un pregio. |
(Μεν.) | καὶ τίνα θησεύμεσθ᾽, ὅτις κέ μοι ἄρκιος εἴη; | Men. | Che prender si potrà bastante a noi? |
(Δάφ.) | μόσχον ἐγὼ θησῶ, τὺ δὲ θὲς ἰσομάτορα ἀμνόν. | Daph. | Io quel bianco vitello, et tu ’l montone. |
(Μεν.) | οὐ θησῶ ποκα ἀμνόν, ἐπεὶ χαλεπὸς ὁ πατήρ μευ | Men. | Non farò già perch’ho matrigna et padre |
χἁ μάτηρ, τὰ δὲ μᾶλα ποθέσπερα πάντ᾽ ἀριθμεῦντι. | Ch’ogni sera al tornar contan le gregge. | ||
(Δάφ.) | ἀλλὰ τί μὰν θησεῖς; τί δὲ τὸ πλέον ἑξεῖ ὁ νικῶν; | Daph. | Che dunque al vincitor per premio havremo? |
(T8 11-17) | (Al8 22-28) |
Al di là di piccoli aggiustamenti, il testo è sostanzialmente rispettato31 e, soprattutto, non è intaccata la misura delle singole parti, che seguono la medesima distribuzione dei materiali del testo greco. Non è escluso che la volontà di seguire da vicino l’ipotesto possa anche condurre a un numero di versi difforme, tale per cui due esametri siano resi con tre endecasillabi o addirittura un esametro con due endecasillabi (e non di rado, in quest’ultimo caso, la bipartizione spezza in due l’esametro in coincidenza di un’originaria cesura). Si prendano come esemplificativi di queste tendenze due brani della porzione iniziale della seconda egloga di Trissino (che in generale è piuttosto fedele al testo greco):
Κωμάσδω ποτὶ τὰν ᾿Αμαρυλλίδα, ταὶ δέ μοι αἶγες | Iω vadω per cantare ad Amarille; |
βόσκονται κατ᾽ ὄρος, καὶ ὁ Τίτυρος αὐτὰς ἐλαύνει. | Chè le mie capre sωpra il mωnte sωnω, |
(T3 1-2) | E Titirω le paʃce ε le gωvεrna. |
(Trissino 2 1-2) | |
ἠνίδε τοι δέκα μᾶλα φέρω· τηνῶθε καθεῖλον, | Eccω iω ti portω diεce bεlle pωma, |
ὧ μ᾽ ἐκέλευ καθελεῖν τύ· καὶ αὔριον ἄλλα τοι οἰσῶ. | Le quali ho tolte giù da quella pianta, |
(T3 10-11) | Che tu mi cωmandasti; ε poi dimane |
Iω te ne recherò de l’altre anchωra. | |
(Trissino 2 14-17) |
Di frequente, tuttavia, l’amplificazione dell’esametro originario in più endecasillabi procede non in nome di una maggiore fedeltà al testo greco ma al fine di aggiungere materiale d’invenzione. Capita allora spesso che si accompagni un sostantivo con uno o più aggettivi non presenti nel testo greco, o che un singolo aggettivo (o verbo) venga sdoppiato in una dittologia sinonimica. In questi casi si rivela determinante l’influsso della tradizione lirica e in particolare l’apporto del repertorio petrarchesco o dantesco,32 che talvolta finisce per influenzare a ritroso anche altre tessere lessicali del testo circostante. Si riporta di seguito qualche esempio tra i più significativi (corsivo mio):33
ἅδιον, ὦ ποιμήν, τὸ τεὸν μέλος ἢ τὸ καταχὲς / τῆν᾽ ἀπὸ τᾶς πέτρας καταλείβεται ὑψόθεν ὕδωρ. (T1 7-8) | Pastωr, più dωlce ὲ ’l tuω cantar sωave, / Chε ’l mωrmωrìω, che fan di piεtra in piεtra / L’acque, che ʃcεndωn da i sassωʃi colli (Trissino 1 6-8) | udir mi parve un mormorar di fiume / che scende chiaro giù di pietra in pietra (Par. XX 19-20) |
[…] οἵ δ’ ὑπ’ ἔρωτοϛ / δηθὰ κυλοιδιόωντεϛ ἐτώσια μοχθίζοντι (T1 37-38) | ωnde ciascun d’ardεnte amωre acceʃω / Si strugge dentrω, ε si cωnsuma indarnω (Trissino 1 40-41) | […] ove ’l piacer s’accende / che dolcemente mi consuma et strugge (Rvf 72 38-39) |
ὅϛ με κατασμύχων καὶ ἐϛ ὀστίον ἄχριϛ ἰάπτει (T3 17) | Ah che ’l m’infiamma le midωlle ε lj’ossi! (Trissino 2 26) | e ricercarmi le medolle e gli ossi (Rvf 155 8) |
[…] ἁπαλωτέρα ἀρνόϛ (T11 20) | Vie più che ’l nuovo agnel soave et piana (Al6 32) | e cominciommi a dir soave e piana (Inf. II 56) |
ἄγκεα καὶ ποταμοί […] (T8 33) | Ombrose valli, et voi chiare onde, et fresche (Al8 46)34 | Chiare, fresche e dolci acque (Rvf 126 1) |
νῦν ἔγνων τὸν Ἔρωτα· βαρὺϛ θεόϛ. ἦ ῥα λεαίναϛ / μαζὸν ἐθήλαζε, δρυμῷ τέ νιν ἔτραφε μάτηρ (T3 15-16) | Hor conosco io ch’Amor di tigre et d’orsa / Già bevve il latte nelle selve Hyrcane (Al9 37-38) | Questa umil fera, un cor di tigre o d’orsa (Rvf 152 1)35 |
μεῖζον δ’ ἁ Κυθέρεια φέρει ποτικάρδιον ἕλκοϛ (B1 17) | Ma quanto è più crudel l’aspra ferita / Ch’a Venere ha passato il petto e ’l fianco (Amomo 31-32) | son per me acerbi e velenosi stecchi, / ch’io provo per lo petto e per li fianchi. (Rvf 46 3-4) |
In definitiva, il numero di endecasillabi con cui è tradotto un esametro (o un emistichio) è estremamente variabile, dipendendo sia, più in generale, dal gradiente di “poeticità” intrinseco alla traduzione stessa (e quindi dal maggiore o minor grado di libertà che l’autore desidera di volta in volta ritagliarsi rispetto all’ipotesto) sia dalle scelte lessicali che portano talvolta ad ampliare (o più raramente a condensare) gli elementi costitutivi del testo di partenza. L’assenza di un’intelaiatura metricosintattica a maglie strette, inoltre, fa sì che la ripartizione dei materiali fra i vari versi sia meno scontata e automatica di quella che si registra invece, in genere, per le traduzioni in terza rima, in cui il rapporto fra esametro ed endecasillabo sembra essere riducibile a quello di 1 : 1,5 (ovvero, tenendo conto non degli endecasillabi ma delle singole strofe quali unità minime, di 2 : 3, con un’intera terzina che riproduce due esametri suddividendoli simmetricamente secondo uno schema interno di tipo 1½ + ½1), quando non addirittura di 1 : 3 in presenza di abbondanti amplificationes.36
2. Assieme alle porzioni di canto amebeo, un indice del grado di vicinanza al modello è rappresentato dai versi di refrain, da valutare sia in generale, in relazione alla distribuzione interna alle varie egloghe (che può ricalcare alla perfezione quella del testo greco o distaccarsene in uno o più punti), sia più nello specifico, quanto alla resa testuale, che può mostrarsi sempre fedele al modello (mantenendosi fissa per tutto il corso del componimento o variando, in modo da assecondare l’andamento del testo greco) oppure distaccarsene secondo forme autonome. Si passeranno quindi in rassegna le varie tipologie, nella convinzione che ritornelli di questo genere, pur essendo un naturale portato dei versi intercalari già contenuti nel testo di partenza, finiscano anche per assolvere a una più specifica funzione strutturante che in assenza della rima consenta di organizzare il testo in lasse coese e dall’estensione non indefinita.37
Anzitutto, si tenga conto del fatto che, fra i testi oggetto di traduzione, contengono dei versi intercalari T1, T2, M3 e B1; e, fra i volgarizzamenti del corpus, soltanto quelli che si rifanno a questi componimenti presentano dei versi di refrain, segno che la pur ampia libertà traduttiva non è mai sufficiente perché si introducano degli elementi così peregrini rispetto al modello (per quanto non estranei al codice bucolico). Si riproduce di seguito, in forma sinottica, il comportamento di tali versi nei testi greci e nelle rispettive traduzioni (in corsivo i casi di vicinanza testuale al modello):
T1 | Trissino 1 | Al1 | Caro (O1) | Caro (O2) |
Ἄρχετε βουκολικᾶς | Date principiω, | Date principio Muse | Deh, venitene Muse | Deh porgetemi voi, |
Μοῖσαι φίλαι ἄρχετ’ | Muʃe, al mεstω | al tristo canto (x9: | a pianger meco | voi, Muse, il canto |
ἀοιδᾶς (x7: vv. 64, 70, | cantω (x3: vv. 63, | vv. 63, 72, 77, 84, | (x13: vv. 96, 105, | (x1: v. 105) |
73, 76, 79, 84, 89) | 67, 77) | 96, 102, 109, 113, | 108, 113, 117, 127, | |
125) | 136, 144, 150, 160, | Muse, datemi voi, | ||
ἄρχετε βουκολικᾶς | Reggete, Muʃe, | 167, 170, 181) | voi, Muse, il canto | |
Μοῖσαι πάλιν ἄρχετ’ | questω amarω | (x6: vv. 115, 123, | ||
ἀοιδᾶς (x8: vv. 94, 99, | cantω (x12: | Muse, datemi voi, | 137, 154, 170, 186) | |
104, 108, 111, 114, | vv. 81, 85, 89, | datemi ’l canto (x1: | ||
119, 122) | 94, 102, 108, 112, | 177) | Datemi, Muse, voi, | |
(tot.: x15) | 121, 125, 132, | (tot.: x14) | datemi il canto (x5: | |
139, 144) | vv. 118, 127, 146, | |||
(tot.: x15) | 180, 197) | |||
Muse, datemi voi, | ||||
datemi [i]l canto (x3: | ||||
vv. 160, 177, 193) | ||||
(tot.: x15) | ||||
λήγετε βουκολικᾶς | Pωnete fine, o | Date homai fine o | Restate Muse omai | Muse, fermate ormai, |
Μοῖσαι ἴτε λήγετ’ | Muʃe, al mεstω | Muse al tristo canto | di pianger meco | fermate il canto (x1: |
ἀοιδᾶς (x4: vv. 127, | cantω (x2: vv. 150, | (x3: vv. 130, 134, | (x4: vv. 188, 193, | v. 204) |
131, 137, 142) | 153) | 144) | 202, 214) | |
Fermate, Muse, omai, | ||||
Kiudete, Muʃe, | fermate il canto (x1: | |||
questω amarω | v. 209) | |||
cantω (x1: v. 158) | ||||
(tot.: x3) | Muse, fermate voi, | |||
fermate il canto (x1: | ||||
v. 218) | ||||
Fermate, Muse mie, | ||||
fermate il canto (x1: | ||||
v. 230) | ||||
(tot.: x4) |
T2 | Al7 |
ἶυγξ ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα (x10: vv. 17, 22, 27, 32, 37, 42, 47, 52, 57, 63) | Torni all’albergo mio, torni il mio Daphni (x12: vv. 21, 25, 29, 34, 39, 44, 51, 56, 63, 70, 77, 85) |
φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα (x12:vv. 69, 75, 81, 87, 93, 99, 105, 111, 117, 123, 129, 135) | Ascolta i miei sospir pietosa Luna (x13: vv. 96, 106, 112, 117, 130, 136, 141, 147, 156, 164, 170,176, 182) |
M3 | Al2 |
ἄρχετε Σικελικαὶ τῶ πένθεος ἄρχετε Μοῖσαι (x14: vv. 8, 13, 19, 25, 36, 45, 50, 57, 64, 69, 85, 98, 108, 113) | Piangete sempre homai sorelle Tosche (x12: vv. 13, 21, 28, 35, 52, 62, 72, 82, 94, 122, 136, 155) |
B1 | Al10 | Amomo |
Αἴαζ’ ὦ τὸν Ἄδωνιν· ἀπώλετο καλὸς Ἄδωνις / ὤλετο καλὸς Ἄδωνις· ἐπαιάζουσιν Ἔρωτες(x1: vv. 1-2) | Piangiamo Adon, che ’l bello Adon è morto / È morto il bello Adon, che piange Amore (x1: vv. 9-10) | - |
ἀπώλετο καλὸς Ἄδωνις / αἴαζ’ ὦ | il bell’Adon è morto / Piangiamo il bello Adon che piange Amore (x1: vv. 14-15)Piangiamo il bello Adon che piange Amore (x1: v. 28)(tot: x2) | Ch’Adone è morto […] / I pargoletti Amor pianghino in schiera (x1: vv. 10-11)Piangono in schiera gl’acidaliiAmori (x1: v. 29)(tot.: x2) |
τὸν Ἄδωνιν· ἐπαιάζουσιν Ἔρωτεϛ | ||
(x1: vv. 5-6) | ||
αἴαζ’ ὦ τὸν Ἄδωνιν· ἐπαιάζουσιν Ἔρωτεϛ (x1: v. 15)(tot: x2) | ||
αἰαῖ τὰν Κυθέρειαν, ἐπαιάζουσινἜρωτεϛ (x1: v. 28) | - | Piangan Venere (ahimè) gl’usatiAmori (x1: v. 67) |
ἐπαιάζουσιν Ἔρωτεϛ / αἰαῖ τὰν Κυθέρειαν, ἀπώλετο καλὸς Ἄδωνις (x1: vv. 62-63) | Piangiam tutti ad ognihor che piange Amore / O Santa Madre il bello Adone è morto (x1: vv. 76-77) | Così piangeva la infelice Dea / Accompagnata da gli mesti Amori. / Infelice Cyprigna, Adoneè morto (x1: vv. 133-135) |
αἴαζ’ ὦ τὸν Ἄδωνιν· ἀπώλετοκαλὸς Ἄδωνις (x1: v. 67) | Piangiamo Adon che ’l bello Adoneè morto (x1: v. 82) | Piangiamo homai, morto è è il leggiadro Adone (x1: v. 143) |
αἰαῖ τὰν Κυθέρειαν, ἐπαιάζουσινἜρωτεϛ (x1: v. 86) | Piangendo il bello Adonch’Adone è morto (x1: v. 113) | - |
- | […] il bello Adone è morto (x1: v. 117) | - |
ὤλετο καλὸς Ἄδωνις […] (x1: v. 92) | […]il bello Adone è morto (x1: v. 120) | |
- | Piangiamo il bello Adon chepiange amore (x1: v. 124) |
Un’osservazione preliminare, valevole per tutti i casi elencati, riguarda l’estensione dei versi intercalari, che si limitano sempre a un singolo endecasillabo, estendendosi a due solo quando si abbia una coppia di esametri nel modello greco (come per B1 1-2).38 Ne consegue che, essendo l’endecasillabo più breve dell’esametro, una parte del contenuto originario finisce necessariamente per perdersi: nonostante ciò, le traduzioni si tengono quasi sempre assai vicine al testo di partenza – con alcune eccezioni, sulle quali si tornerà.
T1 presenta un refrain triforme, anche se piuttosto compatto. Comune a tutte le occorrenze è il sintagma «βουκολικᾶς Μοῖσαι», che torna in identica posizione all’interno del verso in tutte e tre le varianti. La prima e la seconda forma, inoltre, condividono anche il medesimo incipit ed explicit, differendo quindi soltanto per un bisillabo centrale, che nel primo caso è l’aggettivo «φίλαι» e nel secondo l’avverbio «πάλιν»; nella terza forma, infine, si trova lo stesso sostantivo in punta di verso («ἀοιδᾶς»), ma muta il verbo in epanalessi, in accordo con l’idea della chiusura del canto. Una tale situazione è variamente interpretata dai tre che offrono una traduzione del testo. Trissino riproduce la ripartizione fra le prime due forme, ma ne accentua le differenze, modificando completamente il verbo e introducendo un diverso aggettivo che accompagna l’identico sostantivo a fine verso («cantω», come nel modello);39 la terza forma è invece sdoppiata in due nuove varianti che presentano secondo una disposizione simmetrica gli stessi explicit della coppia precedente («mεstω cantω» e «questω amarω cantω»). Originale, poi, è la ripartizione dei versi all’interno del testo: pur contando un numero di occorrenze simile a quello del modello greco, essi non si dispongono infatti seguendo sempre l’andamento dell’ipotesto, ma sono sfruttati in maniera più libera in corrispondenza di specifici punti di articolazione del discorso.40 Un’analoga libertà nella disposizione contraddistingue la traduzione di Alamanni, che peraltro non recepisce la distinzione fra le prime due forme ma si attesta su un ritornello monocorde, privo di variazioni di sorta salvo che nelle occorrenze finali, in cui è recuperata la variante dal valore conclusivo. In Caro si registra un comportamento antitetico fra le due redazioni.41 In O1, vicina per tipologia alla traduzione alamanniana, non vi sono infatti differenze nella resa di quelle che nell’ipotesto sono la prima e la seconda forma di refrain, salvo per la variazione rilevante che compare in attestazione isolata al v. 177; si ha invece un regolare mutamento in coincidenza con la forma finale del verso. O2, al contrario, si caratterizza per un’applicazione estensiva del principio di variatio: le prime due forme teocritee diventano qui quattro, intrecciate tra di loro senza un apparente ordine;42 e quattro sono anche le forme con cui è reso il refrain conclusivo, tutte in attestazione unica. Contraddistingue O2 anche la maggiore vicinanza al refrain del testo greco, sia nelle scelte lessicali («pianger meco» di O1 diventa qui «il canto») che nella riproduzione dell’epanalessi, resa di volta in volta con una geminatio del pronome («voi, voi»), del vocativo («Muse … Muse») o del predicato stesso («Datemi … datemi» e «Fermate … fermate»). Nell’una e nell’altra stesura, poi, al di là della semplice uguaglianza quantitativa nel numero di versi intercalari fra il modello e la traduzione,43 è rilevante il fatto che Caro collochi i refrain negli stessi punti in cui essi si trovano nel testo greco, mostrandosi quindi estremamente fedele all’ipotesto anche quanto alla struttura complessiva.
Conserva una funzione strutturante, per quanto ben lontana dall’organizzazione interna del modello greco, la coppia di refrain che ricorre in Al7. Se, infatti, la resa dell’intera seconda metà dell’idillio – quella del racconto alla Luna – più che una libera traduzione è una riscrittura sulla base del canovaccio greco, e di conseguenza presenta una disposizione autonoma e originale dei versi intercalari, quella della prima porzione contamina ampiamente il testo teocriteo con quello virgiliano omologo (V8 64-109), tanto che è da quest’ultimo che desume il verso di refrain («Ducite ab urbe domum, mea carmina, ducite Daphnim»), come denuncia tra l’altro l’analoga geminatio del predicato e l’impiego dell’identico nome in punta di verso. Più fedele al testo greco è invece la resa del verso intercalare in Al2, dove l’espressione fraseologica «ἄρχετε … τῶ πένθεος» è ridotta al semplice «Piangete», mentre la trasformazione di «Σικελικαί … Μοῖσαι» in «sorelle Tosche» è una delle frequenti rifunzionalizzazioni per mezzo delle quali Alamanni avvicina al contesto contemporaneo (e in particolare fiorentino) elementi antichi o di collocazione geografica peregrina.44 Anche nella distribuzione del verso Alamanni segue da vicino il testo di Mosco, pur arrivando a un numero minore di occorrenze in ragione del fatto che alcuni brani originari sono tagliati (e si tenga conto del fatto che il ritornello che compare alla fine del componimento è innovazione alamanniana rispetto all’ipotesto, dove questo verso è assente).
Il comportamento delle traduzioni di B1, infine, rappresenta senz’altro il caso più complesso, dal momento che intricata è la situazione nello stesso modello greco: non solo, infatti, il refrain muta qui di continuo, ma all’interno del testo ricorrono diversi sintagmi che a loro volta riprendono porzioni dei versi intercalari, generando una sorta di eco continua che rende difficile stabilire in maniera netta quali versi costituiscano un vero e proprio ritornello (seppure in forte variatio) e quali invece una semplice ripetizione accessoria.45 In Bione sono quattro i principali emistichi che si rincorrono nel corso del testo combinandosi in forme di volta in volta differenti: «αἴαζ’ ὦ τὸν Ἄδωνιν», «ἀπώλετο καλὸς Ἄδωνις», «ἐπαιάζουσιν Ἔρωτες» e «αἰαῖ τὰν Κυθέρειαν».46 Di questi, il primo e l’ultimo compaiono sempre in posizione iniziale, mentre il secondo e il terzo sempre in quella finale, per cui anche le possibili combinazioni totali sono quattro, tutte sfruttate; tre su quattro, inoltre, contano una duplice occorrenza. Alamanni, che non impiega la quarta variante di emistichio47 e che conosce di conseguenza soltanto due combinazioni possibili, riproduce una tale alternanza soltanto per le prime tre occorrenze del refrain, mentre più avanti si limita a modificare con minime variazioni i versi intercalari già sperimentati (introduce «Piangiam tutti ad ognihor» e trasforma «Piangiamo» dell’esortazione diretta in «Piangendo» del discorso indiretto); rispetto al testo greco, inoltre, colloca due versi intercalari quasi alla conclusione del canto. In Amomo, al contrario, il primo verso intercalare che si incontra dopo quelli incipitari è ridotto in entrambe le sue attestazioni a una traduzione del solo emistichio finale, ampliato in modo da occupare un intero endecasillabo (con variazione aggettivale e inversione chiastica tra la prima e la seconda occorrenza); i tre successivi sono invece riprodotti in maniera piuttosto fedele, mentre l’ultimo è assente (così come assente è il refrain a conclusione del componimento quale si trova in Alamanni). In sintesi, allora, mentre il refrain in Alamanni si mantiene vicino al testo greco solo nella porzione iniziale, per poi rivestire una semplice funzione strutturante attraverso cui ripartire lasse di una certa estensione, in Amomo è invece proprio dai versi intercalari che passa l’ancoramento al modello (mentre per il resto la traduzione si distacca da una resa ad versum sia per l’inserzione di tessere lessicali petrarchesche che per l’aggiunta di estese amplificationes).
3. Per l’ultimo aspetto da esaminare, vale a dire la presenza di elementi di richiamo fonico in punta di verso che suppliscano all’assenza della rima, i testi del corpus sono stati passati in rassegna nella loro interezza e confrontati con campioni di altre opere in endecasillabi sciolti dei medesimi autori. Una ricerca fonica consapevole è individuabile già nei due esperimenti eglogistici trissiniani. Nel primo testo, su 171 endecasillabi, sono 18 – senza tenere conto dei versi di refrain – le parole in punta di verso a comparire più di una volta;48 ma espedienti di ripetizione ricorrono poi in svariate clausole: si vedano a solo titolo esemplificativo, tra i più evidenti, le assonanze fra «giωrnω» (v. 2) e «secωndω» (v. 5), fra «naʃω» (v. 17) e «fatω» (v. 18), fra «Arnω» (v. 26) e «partω» (v. 28), fra «tωrnω» (v. 32) e «orω» (v. 34), fra «altrω» (v. 39) e «indarnω» (v. 41); la rima perfetta fra «giωrnω» (v. 29) e «tωrnω» (v. 32) o fra «cantω» (v. 94) e «alquantω» (v. 96; e poi di nuovo ai vv. 132 e 134); la consonanza fra «amante» (v. 36), «cωntεnde» (v. 37) e «ridεnte» (v. 38) o fra «advεrsa» (v. 103) e «torse» (v. 104); l’allitterazione fra «vεckiω» (v. 45), «vene» (v. 46) e «vigna» (v. 48); la paronomasia fra «pane» (v. 51) e «piante» (v. 54) o fra «se insala» (v. 73) e «se inalza» (v. 74); la figura etimologica fra «capra» (v. 58) e «caprettω» (v. 59) e il poliptoto fra «cantω» (v. 162) e «canti» (v. 165). Né mancano scoperti giochi fonici interni al verso, come ad esempio l’insistita allitterazione della fricativa sorda (accompagnata da una reiterazione di nasali e dentali) ai vv. 126-127 «fωnti […] fiumi […] fωndete […] ωnde», volta evidentemente a rappresentare lo scroscio delle acque; o come il forte gioco etimologico, accentuato dalla presenza della preposizione «di», al v. 131 «diparte di partenza». Nella seconda egloga sono assai meno le parole in punta di verso che si ripetono (appena 4, sugli 80 versi complessivi),49 ma frequenti sono le figure di richiamo fonico: si considerino almeno le assonanze fra «gωvεrna» (v. 3) e «ωffεnda» (v. 6) e fra «Adωne» (v. 69) e «amωre» (v. 70); le allitterazioni fra «pωma» (v. 14) e «pianta» (v. 15) e fra gli opposti «bianca (v. 49) e «bruna» (v. 51); l’omeoteleuto fra «grave» (v. 23) e «selve» (v. 24); la consonanza fra «ossi» (v. 26) e «sassω» (v. 27), riecheggiata in parte da «baʃciω» (v. 30), e fra «postω» (v. 35) e «vεsta» (v. 37); la paronomasia fra «donna» (v. 67) e «Adωne» (v. 69) e la rima perfetta fra quest’ultimo e «Εndimiωne» (v. 73; a sua volta con ripresa imperfetta sia nell’«abbandωna» di v. 72 che nel «sonnω» di v. 74). Che non si tratti, nel complesso, di semplici coincidenze è confermato, oltre che dall’alta percentuale di occorrenze, anche dalla vicinanza tra i versi in cui tali fenomeni si registrano. Vale la pena, a questo punto, di confrontare i dati in questione con quelli rilevabili negli altri contesti trissiniani non rimati di natura diversa da quella bucolica. Si prenda in considerazione, anzitutto, un altro componimento lirico in sciolti, la canzone al cardinale Ridolfi, che nelle Rime precede immediatamente le due egloghe: le parole che contano più di un’occorrenza sono qui soltanto 3 su 80 versi, e anche le altre figure di suono compaiono con minore frequenza. Sembra che, in questo caso, a garantire la tenuta complessiva sia sufficiente l’ordinata alternanza tra endecasillabi e settenari secondo uno schema fisso (tale per cui, pur in mancanza di rime, è possibile riconoscervi una chiara divisione in strofi pindariche di varia misura) e che qualsiasi ulteriore elemento con funzione strutturante non sia che accessorio. Esiti simili si ritrovano nella Sophonisba: nella parte iniziale del prologo della tragedia (vv. 1-117),50 ad esempio, si può notare come a un discreto numero di parole che si ripetono (10 in totale) non corrisponda un’analoga attenzione nei confronti di figure di suono che leghino fra loro le clausole dei singoli versi, in accordo con la dichiarazione programmatica espressa nella dedicatoria sul rifiuto delle «pensate parωle». Assai più frequenti sono invece le ripetizioni di parole in punta di verso nel corso dell’Italia liberata, in ragione non solo del suo carattere maggiormente narrativo, quanto soprattutto delle sue tendenze formulari di stampo omerico: su un campione costituito dai 133 versi con cui il poema si apre, sono ben 18 le clausole in duplice attestazione,51 mentre in numero poco rilevante sono le figure di suono tra clausole vicine. Analogo è il trattamento delle chiuse di verso nei Simillimi, commedia composta sul canovaccio dei Menaechmi plautini e ultimo testo a essere pubblicato da Trissino, in cui la fitta presenza di parole che si ripetono – in un campione costituito dai primi 148 versi si contano addirittura 66 ripetizioni complessive – sembra da imputarsi al carattere prosastico del dettato (che dato il contesto comico è vicino a un parlato di stile dimesso) più che a ricercati e simmetrici giochi di richiami,52 come confermato tra l’altro dalla quasi totale assenza di figure quali assonanze o consonanze fra parole-rima vicine.
Di Alamanni, non potendosi prendere in esame le Egloghe nella loro interezza, si passeranno in rassegna quelle che si rifanno ai testi teocritei tradotti anche da altri autori, vale a dire Al1, Al9 e Al10. Tutte e tre presentano le medesime caratteristiche già osservate per le due egloghe trissiniane:53 le parole che si ripetono sono rispettivamente 13 su 155 versi,54 7 su 97 versi55 e 14 su 141 versi.56 Ciò che risalta sono però, ancora una volta, gli stretti legami fonici tra parole-rima vicine: nella prima egloga si segnalano, fra le altre cose, la rima perfetta «intorno» (v. 14) : «giorno» (v. 16) e quelle imperfette «acqueti» (v. 23) : «liete» (v. 25), «intento» (v. 45) : «tinto» (v. 48, riecheggiato a poca distanza dalla consonanza con «venti», al v. 50), «ancide» (v. 61) : «mercede» (v. 62) e «Cosmo» (v. 88) : «Tosco» (v. 90), nonché la consonanza fra «onde» e «scende» (vv. 6-7) o fra «aperto» e «torte» (vv. 119-120) e assonanze come quelle fra «nome» e «Tosche» (vv. 9-10), fra «piaghe» e «pace» (vv. 128-129, accentuata dall’allitterazione), fra «canto» e «vaso» (vv. 144-145) o fra «canto» e «chiaro» (vv. 150-151); nella seconda, almeno la rima perfetta «monte» (v. 3) : «fonte» (v. 5, riverberata dall’assonanza con «suole» del v. 6), le imperfette «tanto» (v. 17) : «altrettante» (v. 18) e «cielo» (v. 20) : «lacerto» (v. 22) e le insistite allitterazioni tra «fame» (v. 26) e «fanno» (v. 28) e a brevissima distanza tra «forma», «fiore» e «fronte» (vv. 30-32); nell’ultima, infine, le rime perfette «ama» (v. 24) : richiama» (v. 27), «Amore» (v. 28) : «core» (v. 30) e «mai» (v. 135) : «homai» (v. 141), l’imperfetta «homai» (v. 83) : «mani» (v. 85), le assonanze tra «volto» (v. 3), «giorno» (v. 6) e «morto», fra «amaro» e «almeno» (vv. 45-46) e quella ripetuta tra «Amore» e «Adone» (vv. 15-16 e 28-29), nonché le figure etimologiche tra «pianga» (v. 59) e «pianto» (v. 62) e tra «amori» (v. 73) e «Amore (v. 76) e la consonanza fra «spirti» (v. 112) e «morto» (v. 113). Da un confronto di questi dati con quelli relativi ad alcuni fra i numerosi altri testi alamanniani in sciolti, si ricava che il trattamento del verso non rimato è, nel complesso, più ricercato nell’esule fiorentino di quanto non lo sia in Trissino. Non solo nel contesto bucolico, infatti, ma anche, ad esempio, in quelli didascalici del Diluvio romano e della Coltivazione o in quello più eterogeneo delle Selve si registrano le medesime caratteristiche: alto numero di parole in punta di verso che si ripetono, spesso anche più di due volte, e densità di consonanze, assonanze e altre figure di suono (quando non vere e proprie rime) tra clausole vicine.57 Diverso invece il caso dell’Antigone, in cui la tendenza sembra più vicina a quella della Sophonisba, con i cori che assolvono appieno a una funzione più propriamente lirica e le parti dialogiche in cui rimane invece poco spazio per le figure di suono.58
Per l’egloga di Amomo il solo possibile termine di paragone è rappresentato dalla Selva a Francesco I contenuta nella stampa alle cc. G6v-H2r. L’epitaffio di Adone, che condivide 28 parole-rima con Al10 (di cui ben 24 in forma identica) e che presenta in totale 20 clausole che si ripetono su 194 versi,59 non si contraddistingue – come invece la traduzione alamanniana – per un’alta percentuale di figure di suono che leghino i versi tra loro: le poche assonanze o consonanze che attraversano il testo sono infatti non così stringenti, e nella maggior parte delle circostanze paiono dovute più al caso che non a scelte consapevoli. Al contrario, proprio la Selva dimostra una maggiore ricercatezza nella combinazione reciproca dei versi, che si legano più di frequente fra loro per mezzo di rime imperfette e richiami fonici di altro genere e vedono tra l’altro una presenza piuttosto notevole di parole-rima ripetute (26, su 200 versi totali, compaiono in duplice occorrenza, due in triplice e una per quattro volte). La bassa densità di collegamenti di questo tipo nell’egloga si potrà allora forse spiegare con il fatto che a garantire una certa compattezza interna contribuisce in parte già l’alta frequenza di versi di refrain e di figure di geminatio, per cui la presenza di ripetizioni foniche potrà essere stata avvertita come superflua.
Particolare è il caso della traduzione muziana dell’Europa: sui 296 versi di cui consta, sono appena 19 le parole che contano più di un’occorrenza;60 anche i richiami fonici tra parole in punta di verso, per quanto spesso molto forti,61 sono tanto diluiti nel testo da risultare nel complesso di scarsa rilevanza. Dati simili stupiscono quando si tenga conto che la produzione bucolica muziana è invece contraddistinta proprio da un altissimo tasso di riprese foniche e retoriche che interessano porzioni di versi spesso molto ampie.62 La presenza apparentemente scarsa di figure di questo tipo nell’Europa viene in realtà ridimensionata nel momento in cui si ampli l’analisi dei richiami dalle sole clausole ai versi nella loro interezza e si recuperino così diversi casi di geminatio, giochi fonici o simmetrie retoriche evidenti. Si offre di seguito uno specimen di quelle più rilevanti: «sparse et arse» (v. 51), «Lor soffocando sotto gli alti monti, / Che co i monti volean salir al cielo» (vv. 54-55), «i volti havendo volti» (vv. 59), «pelosa pelle» (v. 68), «Ad un sol cenno suo volve et governa, / Ad un sol cenno al tuo voler soggiace» (vv. 94-95), «a l’onde corse / […] / Ond’era ’l mar fuggito; et hor fuggendo» (vv. 105-107), «Voltò a la terra il pallidetto volto» (v. 168), «Et placidissime aure / Spargea per l’aere il dilettoso amante / De l’aurea Clori» (vv. 192-194), «Il dolce patrio nido, e ’l padre antico» (v. 247), «Che con subita morte, hor ch’io son giunta / Tra le braccia di morte» (vv. 252-253). In maniera in parte diversa da quanto avviene nelle Egloghe, Muzio provvede insomma nell’Europa a diminuire il peso rivestito dalle singole parole-rima, disseminando invece le figure fonico-retoriche all’interno dei versi.
La traduzione varchiana di T3 è, fra i testi passati in esame, quello che si dimostra meno attento a far sì che un qualche tipo di collegamento fonico fra clausole sopperisca all’assenza della rima: su 193 versi sono appena due le parole ripetute nel corso del componimento («Amarilli», ai vv. 1 e 151, e «acque», ai vv. 103 e 165),63 mentre quasi inesistenti sono assonanze o consonanze fra clausole contigue. La negligenza rimica che contraddistingue l’egloga quasi nella sua interezza – e che probabilmente è, almeno in parte, ricercata, al fine di conseguire uno stile quanto più possibile rustico e dimesso – è però riabilitata dall’innovazione (rispetto a Trissino 2 e Al9) introdotta da Varchi al termine del testo, in coincidenza con il vero e proprio canto del capraio (vv. 175-187), che segue la struttura metrica di uno gliommero (endecasillabi con rimalmezzo). Del resto, le altre due egloghe varchiane che compaiono nei Sonetti si mostrano in linea con le percentuali medie degli altri autori quanto a parole in punta di verso ripetute (30% circa sul totale dei versi), e anche le figure di suono sembrano nel complesso più frequenti; né s i può addurre, per giustificare una tale divergenza, il fatto che la seconda egloga è una traduzione – per quanto molto libera – da Teocrito, mentre gli altri testi sono di invenzione, dal momento che, ad esempio, anche la traduzione dell’episodio di Eurialo e Niso dal IX libro dell’Eneide,64 pur tenendosi vicina al testo latino di partenza, presenta un alto tasso di ripetizione di parole-rima (circa il 37% sui 416 versi totali) e in generale una maggiore attenzione ai legami fonici tra le clausole.65
L’ultimo testo, la traduzione di Caro, presenta caratteristiche non dissimili dalle egloghe di Trissino e Alamanni che si rifanno ugualmente a T1:66 nella redazione definitiva, le parole che si ripetono sono 21 su 247 versi,67 ma a spiccare è anche in questo caso la ricercata combinazione fonica tra parole in punta di verso vicine tra loro, tra le quali si segnalano almeno la ripetizione a breve distanza degli identici «gregge» (vv. 142 e 145) e «gioia» (vv. 148 e 150), la rima «onore» (v. 237) : «more» (v. 239), le consonanze tra «fresca» (v. 3) e «fischia» (v. 5), tra «Apollo» e «pelle» (vv. 20-21), tra «intento» e «aventa» (vv. 80-81), tra «mira» (v. 89) e «mare» (v. 91), tra «armento» (v. 122) e «monte» (v. 124) e tra «sempre» e «impero» (vv. 168-169), la paronomasia fra «involto» (v. 95) e «volta» (v. 97), l’omeoarco tra «tori» e «torma» (vv. 119-120) e la figura etimologica fra «vinci» e «vincesti» (vv. 181-182). Una tale tendenza non pare invece altrettanto determinante nel contesto epico della traduzione dell’Eneide, almeno nel brano che si è preso in considerazione per l’analisi – il medesimo passo del IX libro relativo a Eurialo e Niso già tradotto da Varchi –: a dispetto di una percentuale piuttosto alta di ripetizioni (il 37% su 385 versi, paragonabile a quella varchiana), Caro non sembra servirsi in maniera estensiva di legami tra le clausole, limitando evidenti consonanze o altre figure di suono soltanto a pochi luoghi isolati;68 l’attenzione all’aspetto fonico è dunque senz’altro presente, ma costituisce un elemento secondario e ha un valore nettamente meno strutturante di quello rivestito dalle stesse figure in àmbito bucolico.
In sintesi, dall’analisi dei dati non sembra emergere un profilo unitario dell’endecasillabo sciolto come metro per la traduzione della poesia bucolica, essendo il trattamento del verso di volta in volta influenzato dall’approccio più o meno libero all’ipotesto e di conseguenza dalla presenza di aggiunte (o, al contrario, da tagli), dall’inserzione di tessere liriche o pertinenti alla tradizione bucolica volgare, da ricontestualizzazioni e da altri elementi che finiscono per accorciare o allungare la misura del testo di partenza a seconda delle esigenze. È dato però di individuare degli orientamenti comuni fra uno o più autori (oppure fra uno o più singoli testi), tenendo conto peraltro del fatto che chi si accinge a produrre un volgarizzamento ha spesso avuto modo di leggere le traduzioni già composte prima di lui e, di conseguenza, che è da immaginare – e in qualche caso è addirittura possibile riconoscere – una diretta influenza tra l’uno e l’altro componimento,69 a livello non solo di semplici richiami lessicali ma anche più latamente strutturale.
Fra tutti, si discostano in misura minore dal modello greco Trissino, che nella prima egloga indulge maggiormente ai tagli laddove nella seconda riproduce molto da vicino il testo di partenza, e Caro, che, pur procedendo per amplificationes e modificando in maniera sostanziale l’ekphrasis del vaso, segue l’intero svolgimento dell’egloga teocritea restituendone ogni porzione. Si mostrano al contrario assai liberi Muzio, che ricalca la sola struttura portante del testo di Mosco contaminandola con altre fonti e con libere espansioni, e Varchi, che sull’ossatura dell’egloga teocritea innesta di continuo elementi innovativi per quanto conformi agli spunti bucolici originari. A metà tra le due tendenze si collocano infine Alamanni, più vicino al modello in alcuni casi e più libero in altri (sebbene quasi sempre attento non soltanto a riprodurre l’intelaiatura di fondo delle egloghe ma anche a rendere conto nella traduzione di aspetti più puntuali), e Amomo, che, per quanto si preoccupi delle res più che dei verba (ricorrendo piuttosto, per questi ultimi, a un lessico petrarcheggiante), ripercorre puntualmente il canovaccio del testo di Bione.
Quanto alle tendenze strutturanti garantite dalle figure di collegamento fonico tra clausole di verso, dai componimenti presi in esame si ricava che esse non solo sono frequenti nelle egloghe in sciolti – e ciò sarà vero tanto più per i componimenti di libera invenzione, se lo è già in maniera rilevante per dei testi che traducono più o meno fedelmente un preciso modello – ma possono addirittura riconoscersi come una delle prerogative del genere bucolico in questo metro:70 a riprova di una tale specificità, pare invece che l’eventuale adozione di una simile pratica in altri generi nell’àmbito della produzione in sciolti non sia altrettanto vincolante (e in certi casi, come nel teatro, la tendenza è generalmente addirittura opposta),71 ma sia legata piuttosto al gusto e alle esigenze dei singoli autori.
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1 L’episodio che costituisce una sintesi della produzione eglogistica quattro-centesca in volgare, proponendo un canone ormai maturo di quella produzione, e che insieme determina la fortuna del genere per gli ulteriori sviluppi sannazariani e poi cinquecenteschi è rappresentato, come noto, dalla stampa delle Bucoliche elegantissime (Firenze, Miscomini, 1482), per la quale si rimanda a Emilio Giorgi, Le più antiche bucoliche volgari, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», lxi, 1915, pp. 140-152; Francesca Battera, L’edizione Miscomini (1482) delle Bucoliche elegantissimamente composte, «Studi e problemi di critica testuale», xl, 1990, pp. 149-185; Ilaria Merlini, La ri-nascita bucolica, in Bucoliche elegantissime: ristampa anastatica (Bernardo Pulci, Francesco de Arsochi, Hyeronymo Benivieni, Jacopo Fiorino de Boninsegni), Roma, Vecchiarelli, 2009, pp. 7-38. Per una storia dell’egloga in volgare si vedano almeno Enrico Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi, s.d.; Marzia Pieri, La pastorale, in Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo (a cura di), Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, vol. ii: Dal Cinquecento alla metà del Settecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 271-292; Stefano Carrai, I precetti di Parnaso. Metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Roma, Bulzoni, 1999; Giovanni Ferroni, «Dulces lusus». Lirica pastorale e libri di poesia nel Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012; Antonia Tissoni Benvenuti, Genere bucolico poesia pastorale. Le metamorfosi dell’egloga nel Quattrocento, «Italique», xx, 2017, pp. 13-31; Massimo Danzi, Tra Virgilio e Petrarca: primi elementi per una ‘grammatica’ dell’egloga volgare, in Maiko Favaro e Bernhard Huss (a cura di), Interdisciplinarità del petrarchismo. Prospettive di ricerca fra Italia e Germania, Atti del Convegno internazionale (Berlino, Freie Universität, 27-28 ottobre 2016), Leo S. Olschki, 2018, pp. 199-219. Una maggiore attenzione al dato metrico in relazione alla bucolica è invece in Hayward Keniston, Verse Forms of the Italian Eclogue, «The Romantic Review», xi, 1920, pp. 170-186 e in Domenico De Robertis, L’ecloga volgare come segno di contraddizione, «Metrica», ii, 1981, 61-80, che accordano ampio spazio soprattutto alla sperimentazione metrica quattrocentesca; si concentra maggiormente sullo sciolto Luciana Borsetto, Rade suonan le canne. L’egloga in sciolti nel primo Cinquecento e il liber di Girolamo Muzio (1550), in Ead., Andar per l’aria. Temi, miti, generi nel Rinascimento e oltre, Ravenna, Longo 2009, pp. 183-208.
2 Al contrario, si rivelerà fallimentare il tentativo trissiniano di portare fino in fondo l’imitazione omerica e piegare lo sciolto anche alla materia epica. La mancata fortuna di una tale soluzione è però forse da correlare alle deficienze poetiche proprie dell’Italia liberata (vd. a riguardo Federico Di Santo, La ragion d’essere della rima fra retorica e figuralità, «Enthymema», xvii, 2017, pp. 133-164, e Id., Il poema epico rinascimentale e l’Iliade: da Trissino a Tasso, Firenze, Società editrice fiorentina, 2018, in particolare alle pp. 269-290) più che a un’intrinseca insufficienza del metro stesso: tanto che, ad esempio, non molti anni più tardi il Caro avrebbe potuto giovarsi con successo di quello stesso metro per la propria traduzione dell’Eneide. E si veda la riflessione teorica cinquecentesca sulla liceità o meno dell’uso dello sciolto in relazione al genere epico, per cui si rimanda a Ralph C. Williams, Metrical Form of the Epic, as Discussed by Sixteenth-Century Critics, «Modern Language Notes», xxxvi, 1921, pp. 449-457; John M. Steadman, Verse without Rime: Sixteenth-Century Italian Defences of Versi Sciolti, «Italica», xli, 1964, pp. 384-402; L. Borsetto, Tra normalizzazione e sperimentazione: appunti sulla questione del verso, in Guido Baldassarri (a cura di), Quasi un picciolo mondo. Tentativi di codificazione del genere epico nel Cinquecento, Padova, Edizioni Unicopli, 1982, pp. 91-127; per una storia del verso libero più in generale si veda invece Mario Martelli, Le forme poetiche italiane dal Cinquecento ai nostri giorni, in Letteratura italiana, vol. iii.1: Le forme del testo. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 519-620.
3 Si fa riferimento a due commedie di Jacopo Nardi (l’Amicizia e i Due felici rivali) e alla Sofonisba di Galeotto del Carretto, tutte e tre degli inizi del Cinquecento, in cui però gli endecasillabi sono relegati rispettivamente ai soli prologhi e a porzioni di testo assai limitate, senza che se ne faccia un uso estensivo come avviene invece a partire dal decennio successivo: si rimanda a proposito a Renzo Cremante, Sofonisbe e Susanne: ragioni metriche nella genesi della tragedia rinascimentale, «Italique», xviii, 2015, pp. 63-88, ma si veda più in generale anche Giuseppe Edoardo Sansone, Per la storia dell’endecasillabo sciolto, «Convivium», vi, 1948, pp. 895-901.
4 Per la data del 1515 si veda la lettera dei primi di novembre in cui Giovanni Rucellai comunica a Trissino una possibile messa in scena ormai prossima della sua Rosmunda («forse Phalisco [scil. uno dei personaggi della tragedia] farà l’acto suo in questa venuta del Papa a Firenze») e gli raccomanda di concentrarsi a sua volta sulla sua tragedia, menzionando il nome della protagonista come fosse qualcuno con cui Trissino aveva da tempo acquisito una certa dimestichezza («habbiate a mente Sophonisba vostra»: l’epistola è riprodotta in William Roscoe, Vita e pontificato di Leone X, vol. x, Milano, Tip. Sonzogno e comp., 1817, pp. 176-179, dove però il mese è erroneamente indicato come dicembre). Per la presentazione della tragedia al pontefice si veda invece la lettera dell’8 agosto 1519 di Giovanni Salviati (il testo completo si legge in Tutte le opere di Giovan Giorgio Trissino, gentiluomo vicentino, non più raccolte, a cura di Scipione Maffei, 2 tomi, Verona, presso Jacopo Vallarsi, 1729, t. i, pp. xvi-xvii). Testimone di rilievo di questa forma semi-definitiva è il ms. Add. 26873 della British Library di Londra, copiato da Ludovico degli Arrighi intorno al 1520, su cui sia permesso il rimando a Francesco Davoli, «Reviʃta con diligεntia, ε corrεtta». Prassi correttoria e normalizzazione ortografica fra la prima e la seconda stampa della Canzone e della Sophonisba di Trissino, «Prassi Ecdotiche della Modernità Letteraria», v, 2020, pp. 5-20, in particolare alle pp. 8-10.
5 La produzione alamanniana approderà ai torchi soltanto nel 1532, con qualche anno di ritardo rispetto alla princeps delle Rime di Trissino, del 1529. Tuttavia, le prime tre egloghe di Alamanni, in cui è pianta la morte di Cosimo Rucellai, dovrebbero essere state composte a ridosso di quell’evento luttuoso (1519), laddove almeno la prima delle due che chiudono il canzoniere trissiniano è senz’altro posteriore alla morte di Cesare Trivulzio (1527). La primazia per l’impiego del metro è stata, come noto, fin da subito contesa fra i due, tanto che lo stesso Varchi non sapeva risolversi con certezza, pur riconoscendo che Trissino fosse «alquanto più antico […] e prima fiorito dell’Alamanni» e nelle riunioni fiorentine degli Orti Oricellari «osservato più tosto come maestro o superiore, che come compagno o eguale» (Benedetto Varchi, Lezione terza. Del verso eroico toscano, in Id., Opere, 2 voll., Trieste, Lloyd austriaco, 1858-1859, vol. ii, pp. 709-720, a p. 718).
6 Non dovrà sorprendere che i presupposti teorici da cui muovono i due autori siano tra loro assai simili, a ulteriore conferma di come alla base vi sia un comune orizzonte culturale, impregnato di cultura classica (e greca in particolare) e incentrato su un recupero ricercato dei modelli. In quest’ottica, un ruolo determinante doveva essere stato svolto senz’altro dagli Orti Oricellari e dalla comune riflessione elaborata nel suo seno, come dimostra il fatto che i principali promotori del nuovo metro erano tutti attivi partecipanti di quelle riunioni. Sull’argomento, e in particolare sull’ambiente oricellare come centro propulsore per la definizione di un nuovo canone tragico, si rimanda almeno a Gianandrea Piccioli, Gli Orti Oricellari e le istituzioni drammaturgiche fiorentine, in Contributi dell’Istituto di Filologia Moderna. Serie Storia del Teatro, vol. i, Milano, Vita e Pensiero, 1968, pp. 59-93 e a Paola Cosentino, Il verso sciolto e la rinascita tragica fiorentina, in Ead., Oltre le mura di Firenze. Percorsi lirici e tragici del Classicismo rinascimentale, Roma, Vecchiarelli, 2008, pp. 213-237.
7 Si cita dalla princeps (Giovan Giorgio Trissino, Sophonisba, Roma, Lodovico degli Arrighi, 1524 [luglio]), intervenendo solo per ammodernare l’uso oscillante della sibilante, che a quest’altezza non ha ancora valore distintivo nel sistema ortografico trissiniano. Si noti la premura con cui Trissino è attento a sottolineare che l’eliminazione della rima non riduce necessariamente la “difficoltà”, ribadendo implicitamente che la scelta è stata dettata non dalla volontà di rimuovere o scansare delle asperità compositive, ma solo dal principio di convenientia. Qualche decennio più tardi, in maniera non dissimile, anche Varchi sarebbe intervenuto in favore dell’endecasillabo sciolto riconoscendone la complessità: «questo verso, forse più grave, ma certo più agevole se bene assai difficile, e non men dolce di tutti gli altri […], nel quale giudichiamo che a volere a quella perfezione condurlo, della quale lo crediamo capevole, faccia mestieri di maggior fatica e diligenza, che molti per avventura o non hanno fatto, o non pensano che fare si debba» (B. Varchi, Lezione terza. Del verso eroico toscano, cit., a p. 719). Sul rapporto tra l’assenza della rima e la più libera espressione del pensiero che ne deriverebbe per il poeta – e, viceversa, sulla rima come stimolo per l’inventio – si vedano Ernesto Giacomo Parodi, La rima e i vocaboli in rima nella Divina Commedia, «Bullettino della Società Dantesca italiana», iii, 1896, pp. 81-156, e più in particolare F. Di Santo, La ragion d’essere della rima fra retorica e figuralità, cit., che si diffonde sul caso trissiniano. Proprio Di Santo, commentando il passo della dedica trissiniana, osserva che «in realtà non è tanto la spontaneità nell’espressione del dolore a risultare ostacolata dalla rima, quanto piuttosto la sua espressione scenica, ossia il suo essere parte di una rappresentazione drammatica attualizzata sotto gli occhi dello spettatore […]: la rima pertiene al livello della dizione e non a quello della rappresentazione» (ivi, pp. 140-141, n. 14). Ragioni del tutto diverse sono invece quelle che spingono Trissino a ricorrere allo sciolto nell’Italia liberata (cfr. ivi, p. 139).
8 La quinta e la sesta divisione della Poetica sono pubblicate soltanto nel 1562, a dodici anni dalla morte di Trissino. Stando a quanto afferma egli stesso, tuttavia, all’altezza della pubblicazione delle prime quattro divisioni (1529) non mancava alle ultime due che l’«estrema mano» (così nella dedica ad Antoine Perrenot de Granvelle, in G. G. Trissino, La quinta e la sesta divisione della Poetica, Venezia, Arrivabene, 1562, c. A2v).
9 Si cita da G. G. Trissino, La quinta e la sesta divisione della Poetica [ca. 1549], in Bernard Weinberg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, vol. ii, Bari, Laterza, 1970, pp. 5-90: alle pp. 87-88. Un rifiuto della rima per la materia bucolica è espresso anche in avvio delle Api di Rucellai (Giovanni Rucellai, Le Api, s.l., s.e. [ma Firenze, Giunta], 1539, da cui si cita), ai vv. 11-19 «Fuggi le rime, e ’l rimbombar sonoro. / Tu sai pur, che l’imagin de la voce, / Che risponde da i sassi, ov’Echo alberga, / Sempre nimica fu del nostro regno; / […] / E dei saper, ch’ove habita costei, / Null’Ape habitar può, per l’importuno, / Et imperfetto suo parlar loquace».
10 Si cita da Luigi Alamanni, Opere toscane, vol. i, Lione, Grifio, 1532, c. *2v-3r, con minimi ammodernamenti di grafia e punteggiatura.
11 Sulla diffusione e la fortuna di Teocrito a partire dalla fine del Quattrocento, vd. Claudia Corfiati, Il fantasma di Teocrito. Osservazioni sulla ricezione della bucolica greca nel Quattrocento, «Cahiers de recherches médiévales et humanistes», xxv, 2013, pp. 295-326 e Andrea Comboni, Sulla fortuna di Teocrito nella letteratura italiana del Rinascimento: primi appunti, in Alessandra Di Ricco e Claudio Giunta (a cura di), Dispacci da un altro mondo. Il genere dell’idillio dall’età classica all’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2021, pp. 67-91.
12 Si veda in proposito il parere di Varchi sull’uso dello sciolto per la materia bucolica, che, seppure non sorretto da puntelli teorici altrettanto programmatici, mostra incidentalmente la medesima relazione esistente fra l’abbandono della rima e l’esercizio traduttivo: «come non loderei chi lasciasse le rime per iscrivere in versi sciolti, così non biasimerei chi, dopo l’essersi nelle rime esercitato, componesse da sé, o traducesse da altri in questa maniera di versi alcuna opera eroica, o materia pastorale, come fece già giudiziosamente M. Annibale Caro, e leggiadramente nella traduzione della prime Egloga di Teocrito» (B. Varchi, Lezione terza. Del verso eroico toscano, cit., a p. 719).
13 Oggetto dell’analisi saranno soprattutto fenomeni in punta di verso, vale a dire in quella medesima posizione lasciata scoperta dal venir meno della rima, nella consapevolezza che, più in generale, le figure di ripetizione sono incoraggiate nel contesto bucolico (e soprattutto all’interno del discorso diretto) per conseguire «una sorta di apparente trascuratezza, adatta al “parlar rustico e pastorale”» (Francesco Bausi, Un’egloga inedita (e sconosciuta) di Girolamo Muzio, «Studi di filologia italiana», xlvii, 1989, pp. 211-254, a p. 238).
14 Si segnala fin d’ora che, per quasi tutto il Cinquecento, sono generalmente attribuiti a Teocrito (talvolta ex silentio e talvolta per mezzo di esplicite rubriche) anche molti degli idilli che le edizioni moderne assegnano invece ai due principali epigoni, Mosco e Bione: in particolare, le prime tre edizioni greche al di là della princeps (un incunabolo del 1480 circa che trasmette i soli idilli 1-18 di Teocrito), vale a dire quella veneziana di Manuzio (1496), quella fiorentina dei Giunta (1516) e quella romana di Calliergi (1516), assegnano esplicitamente a Mosco soltanto il suo primo idillio (in tutte e tre le stampe «ΜΟΣΧΟΥ ΕΡΩΣ ΔΡΑΠΕΤΗΣ»: e così, ad esempio, ancora nell’edizione veneziana di B. Zanetti del 1539 o nella giuntina del 1540). Per tali ragioni, ai fini della selezione del corpus si sono tenute in considerazione anche traduzioni da testi odiernamente non attribuiti a Teocrito ma a lui assegnati in passato; si sono invece escluse le versioni dell’idillio di Mosco (su cui vd. James Hutton, The First Idyl of Moschus in Imitations to the Year 1800, «The American Journal of Philology», xlix, 1928, pp. 105-136; Joseph G. Fucilla, Additions to “The First Idyl of Moschus in Imitations to the Year 1800”, «The American Journal of Philology», l, 1929, pp. 190-193; Concettina A. V. Scopelliti, La fortuna umanistica del primo epillio di Mosco: tra funzione pedagogica e diletto letterario, consultabile al link https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/i-cantieri-dellitalianistica-ricerca-didattica-e-organizzazione-agli-inizi-del-xxi-secolo-2016/Scopelliti.pdf (data ultima consultazione 2 novembre 2022).
15 Le edizioni di riferimento sono rispettivamente Theocritus, quique feruntur Bucolici graeci, Carolus Gallavotti recensuit, Romae, Typis Officinae Polygraphicae, 1946 e Publio Virgilio Marone, Le Bucoliche, introduzione e commento di Andrea Cucchiarelli, traduzione di Alfonso Traina, Roma, Carocci, 2017.
16 A segnalare per primo la derivazione delle egloghe trissiniane è Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino. Monografia d’un gentiluomo letterato nel secolo XVI, 2a ed., Firenze, Le Monnier., p. 135, che rinvia però soltanto genericamente a Teocrito; più circostanziati i rimandi di Carla Mazzoleni, L’ultimo manoscritto delle «Rime» di Giovan Giorgio Trissino, in Simone Albonico, Andrea Comboni, Giorgio Panizza e Claudio Vela (a cura di), Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pp. 309-344, a p. 311 n. 6, e di Massimo Danzi nella sezione dedicata a Trissino in Poeti del Cinquecento, vol. i: Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di Guglielmo Gorni, Massimo Danzi e Silvia Longhi, Milano-Napoli, R. Ricciardi, pp. 269-288, a p. 273. L’edizione di riferimento dei testi è quella curata da chi scrive: F. Davoli, Le Rime (1529) di G. G. Trissino: testo critico e commento, tesi di dottorato, Università Ca’ Foscari Venezia, a. a. 2021-2022.
17 L’indicazione degli ipotesti alla base delle traduzioni alamanniane era già in Henri Hauvette, Un exilé florentin à la cour de France au XVIe siècle. Luigi Alamanni (1495-1556). Sa vie et son œuvre, Paris, Hachette, 1903, p. 218 n. 1. Si rimanda inoltre, per studi specifici sulle Egloghe, a Paola Cosentino, Una «zampogna tosca» alla corte di Francia: le egloghe in versi sciolti di Luigi Alamanni, «Filologia e critica», 2003, pp. 70-95 (quindi, in forma ampliata, Le Opere Toscane: le egloghe in versi sciolti, in Ead., Oltre le mura di Firenze, cit., pp. 40-70) e a Nicoletta Marcelli, Le Egloghe di Luigi Alamanni: appunti di filologia e critica letteraria per una nuova edizione, in Uberto Motta e Giacomo Vagni (a cura di), Lirica in Italia 1494-1530. Esperienze ecdotiche e profili storiografici, Atti del Convegno (Friburgo, 8-9 giugno 2016), Bologna, I libri di Emil, 2017, pp. 249-273.
18 L’edizione di riferimento è quella italiana che segue di pochi anni la princeps parigina del 1535 (Rime toscane d’Amomo per madama Charlotta d’Hisca, Venezia, s.e., 1538). Sull’autore e sulla raccolta si veda Nicole Bingen, Amomo (1535): Jean de Maumont? Ou Antonio Caracciolo…, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», lxii, 2000, pp. 521-559 e relativa bibliografia.
19 Ci si serve, in assenza di un’edizione moderna, della princeps. Si noti come la sola ripresa esplicita e corposa – ossia non limitata a singole tessere – dal corpus teocriteo sia ospitata nel canzoniere, e non in uno dei cinque libri (per un totale di trentacinque componimenti) di cui constano le Egloghe, a stampa nel 1550.
20 Si cita da B. Varchi, I Sonetti, Venezia, Pietrasanta, 1555: dello stesso anno è anche un’altra edizione (Firenze, Torrentino), che si differenzia tra l’altro per l’assenza delle tre egloghe; un’ulteriore edizione contenente la seconda e la terza egloga (ma non la prima) è stampata invece postuma (Id., Componimenti pastorali, Bologna, Salvietti, 1576), con varianti testuali minime e per lo più di carattere grafico. La data di composizione dell’egloga è in ogni caso da fissare al 1539: cfr. Giovanni Ferroni, Una lettera di Benedetto Varchi nel ms. Laur. Ashb. 1039, in Salvatore Lo Re e Franco Tomasi (a cura di), Varchi e altro Rinascimento: studi offerti a Vanni Bramanti, Manziana, Vecchiarelli, 2013, pp. 47-60, a p. 49. Sulla raccolta nel suo complesso si rimanda a Id., «Si ricerca ancora dottrina non picciola». Varchi, la poesia pastorale e i Sonetti del 1555, «Italique», xx, 2017, pp. 211-259. Importanti spunti sulla produzione eglogistica varchiana sono poi in Dario Brancato, «Una egloga con verso sciolto, secondo il costume moderno». Il Dafni di Varchi e l’Alcon di Castiglione, «LaRivista», v, 2017, pp. 23-57; sul Varchi traduttore si rimanda infine almeno a Franco Tomasi, «Mie rime nuove non viste ancor già mai ne’ toschi lidi». Odi ed elegie volgari di Benedetto Varchi, in S. Lo Re e F. Tomasi (a cura di), Varchi e altro Rinascimento, cit., pp. 173-214 e alla raccolta di saggi contenuti in Ester Pietrobon e Franco Tomasi (a cura di), Benedetto Varchi traduttore, «L’Ellisse», xiii, 2018, tra i quali si veda in particolare D. Brancato, Per una tipologia delle traduzioni di Benedetto Varchi, alle pp. 11-28.
21 Una moderna edizione del testo, nelle sue due redazioni (del 1533-1534 e del 1562-1565, che si indicheranno d’ora in avanti rispettivamente come O1 e O2), è in Enrico Garavelli, Il i Idillio di Teocrito tradotto da Annibal Caro, «Aevum», lxix, 1995, pp. 555-591, da cui si cita.
22 Il numero dei versi si riferisce rispettivamente a O1 e O2. Quest’ultima redazione differisce sensibilmente dall’altra solo nella porzione iniziale: a partire dal canto di Tirsi il testo muta quasi soltanto per l’aggiunta di minime integrazioni rispetto al testo greco, oltre che per il differente refrain.
23 È quanto avviene per la nota ekphrasis del vaso che occupa la porzione iniziale di T1: Trissino riproduce le immagini teocritee, laddove sia Alamanni che Caro se ne distaccano completamente nelle loro traduzioni. Ma è il caso anche dell’ekphrasis di invenzione introdotta da Varchi all’inizio della sua traduzione.
24 La libertà traduttiva si riflette anche sulla coscienza che gli autori hanno di aver dato vita a un componimento originale, per quanto desunto da un chiaro modello. Nelle varie stampe, infatti, la dipendenza da Teocrito è denunciata esplicitamente soltanto nei casi di Amomo («Epitaphio di Adone di Theocrito») e Caro («egloga | Ad imitatione del Dafne di Theocrito»). Si veda, del resto, quanto Varchi affermava nella lettera di accompagnamento della propria egloga: «io non haueua a’ pena letto la uostra | lettera, quando io mi posi a’ tradurre dal || Capraro di Teocrito l’Egloga, che io ui man|do con questa, intitolata Amarilli, nella | quale io mi sono ingegnato di non lasciare | niuno, o’ pochissimi de’ sentimenti di Teocrito, | ma ue n’ho bene aggiunti molti de’ miei, di | maniera, che ella si può chiamare piutosto ca|uata, o’ immitata, che tradotta» (G. Ferroni, Una lettera di Benedetto Varchi, cit., p. 48).
25 In Al5 è evidente, per lunghe porzioni del canto dei pastori, la dipendenza da V3, che finisce per far aggio anche sul piano argomentativo, dal momento che la gara si conclude qui in pareggio (come in Virgilio) e non con la vittoria di uno dei due pastori; ma si tengano presenti anche Al7, che si serve di V8, e Al9, che ricorre invece a V2. Si veda in proposito N. Marcelli, Le Egloghe di Luigi Alamanni, cit., pp. 262 e 268.
26 Non è forse un caso che Al1 e Al2, entrambi incentrati sulla morte di Cosimo Rucellai, presentino lo stesso numero di versi. Simili strategie strutturali, del resto, erano state messe in atto da Virgilio e, in àmbito volgare, soprattutto da Boiardo: sulla questione si rimanda a Maria Finazzi, Riprese strutturali della bucolica classica nel Quattrocento, «Italique», xx, 2017, pp. 47-72.
27 Gli stessi versi sono assenti anche nella traduzione di Trissino, che probabilmente aveva avuto modo di leggere il testo alamanniano prima della sua stampa; sono invece riprodotti nell’egloga di Caro, in una forma che soprattutto in O1 è piuttosto fedele al testo greco.
28 Qui la conclusione è affidata direttamente al giudice della gara e si riduce a una quanto mai sintetica e canonica indicazione temporale (v. 135 «Poi prendiamo il cammin che ’l dì s’inchina»): vd. a proposito M. Danzi, Tra Virgilio e Petrarca, cit., pp. 212-213.
29 Non sarà allora forse un caso che, a differenza di Trissino e Varchi, che traducono il «Κωμάσδω» incipitario rispettivamente con «vadω per cantare» e «vo cantando a trovare», Alamanni lo renda invece con un assai più generico «vo ratto a trovar».
30 Per E. Garavelli, Il i Idillio di Teocrito tradotto da Annibal Caro, cit., p. 577, questi versi sono «indubbiamente un’interpolazione d’autore più tarda, databile al biennio 1530-32».
31 Nel primo caso si segnala, fra le altre cose, l’impiego del medesimo verbo in poliptoto («furò»/«furommi») per rendere “κλέπτω” – mentre è innovativa rispetto al testo greco la ripetizione anaforica del verbo “fuggire” – e la riproposizione del sintagma costituito da aggettivo geografico + nome proprio («τόν Σιβαρίταν […] τὸν Λάκωνα», che in volgare diventa «il Tosco Coridone»). Nel secondo esempio, invece, si noti l’attenzione posta a far sì che la quasi perfetta identità dei primi due versi del testo in greco sia riprodotta anche in volgare.
32 Accanto ai Fragmenta e alla Commedia, è per lo più l’Arcadia sannazariana a essere sfruttata come serbatoio di immagini e soprattutto di lessico. Solo per limitarsi alle riprese trissiniane, che sono le più evidenti e numerose, si vedano almeno Arcadia VIII 51 «O lupi, o orsi, e qualunque animali per le orrende spelunche vi nascondete, rimanetevi; addio!», di cui Trissino (1 122-123 «O ωrsi, o lupi, o fiεre aspre ε selvagge, / State cωn diω») si serve per rendere il teocriteo «ὦ λύκοι, ὦ θῶες, ὦ ἀν᾽ ὤρεα φωλάδες ἄρκτοι, / χαίρεθ᾽» (T1 115-116); X 51 «un seggio pastorale», che Trissino (1 23 «Quel sεggiω pastωrale») sfrutta per tradurre «ὁ θῶκοϛ / τῆνοϛ ὁ ποιμενικὸϛ» (T1 22-23); XIIe 47 «quella sampogna sua dolce et amabile», con cui è trasposto il «σύριγγα καλάν» di T1 129 (in Trissino 1 136-137 «la sampogna / Dωlce»).
33 Per le riprese nella traduzione del Caro si rimanda alle ricche note di commento in E. Garavelli, Il i Idillio di Teocrito tradotto da Annibal Caro, cit.
34 Si tenga presente che anche «Ombrose valli» è sintagma petrarchesco, desunto da Rvf 66 26 e assai ricorrente nello stesso Alamanni.
35 Una clausola quasi identica è anche in Rvf 283 14 «un cor di tigre o d’orso».
36 Sul rapporto tra esametro e terza rima nel contesto bucolico ci si permette di rimandare a F. Davoli, «Di latini versi in vulgari traducere». La terza rima come metro traduttivo delle Bucoliche di Virgilio a fine Quattrocento, in Laura Facini, Jacopo Galavotti, Arnaldo Soldani e Giovanna Zoccarato (a cura di), Nuove prospettive sulla terza rima, Padova, libreriauniversitaria.it, 2020, pp. 117-134.
37 Si veda del resto M. Danzi, Tra Virgilio e Petrarca, cit., pp. 214-215: «struttura il testo anche la presenza del verso intercalare, che compare spesso in contesti funebri o di magia […] e negli epitaffi […]. Nel seguito, tuttavia, il suo impiego pare più libero e, se pur sempre su un binario elegiaco, si afferma dunque anche in testi amorosi».
38 Su possibili rese dei versi di refrain in terza rima si veda invece F. Davoli, «Di latini versi in vulgari traducere», cit., pp. 118-121.
39 Si noti che la prima forma è pressoché identica a quella di Al1, con la sola eccezione dell’aggettivo in explicit. Ipotizzando che Trissino abbia conosciuto il testo di Alamanni ben prima della sua pubblicazione e, soprattutto, prima della stampa delle proprie Rime, si può immaginare che la scelta di ripetere soltanto per tre volte questa prima variante del refrain (anziché per sette come nel testo greco) derivi dalla volontà di attenuare in parte la vicinanza al testo dell’esule fiorentino.
40 Alle prime due occorrenze del testo greco, ad esempio, ne corrispondono tre in quello trissiniano, che aggiunge autonomamente un verso intercalare dopo T1 65.
41 Si veda a proposito anche E. Garavelli, Il i Idillio di Teocrito tradotto da Annibal Caro, cit., pp. 564-565.
42 Si noti però che, tendenzialmente, vi è un’alternanza tra i versi che iniziano con l’imperativo («Deh, porgetemi», «Datemi» e «Fermate») e quelli che presentano un vocativo incipitario (in tutti i casi «Muse»).
43 L’assenza di un verso intercalare della prima forma in O1 si spiega con il fatto che in quella redazione Caro non aveva tradotto un brano (T1 112-113) e aveva di conseguenza ridotto i due refrain che lo incorniciano a uno soltanto.
44 Ricontestualizzazioni di questo tipo abbondano quanto più la materia trattata è intessuta di cenni autobiografici, e sono dunque frequenti nelle egloghe iniziali, in cui è pianta la morte dell’amico Cosimo Rucellai; ma non sono esclusive di Alamanni, incontrandosi, generalmente, ogniqualvolta nel testo greco siano presenti riferimenti a monti, fiumi, e così via. Si veda, ad esempio, la traduzione di T1 66-69 («πῆ ποκ᾽ ἄρ᾽ ἦσθ᾽, ὅκα Δάφνις ἐτάκετο, πῆ ποκα Νύμφαι; / ἦ κατὰ Πηνειῶ καλὰ τέμπεα, ἦ κατὰ Πίνδω; / οὐ γὰρ δὴ ποταμοῖο μέγαν ῥόον εἴχετ᾽ Ἀνάπω, / οὐδ᾽ Αἴτνας σκοπιάν, οὐδ᾽ Ἄκιδος ἱερὸν ὕδωρ») in Trissino 1 68-75 «ωve εravate alhωr, leggiadre Nymphe, / Sωpra il Parnaʃω, o su l’amatω Pindω, / Quandω Daphne prωvò l’ultima sera? / Cεrtω nωn εravate in quel terrenω, / ωve la Brεnta ε ’l Bacchiljωn se insala, / Nε dωve Vεnda ε Ruvωlὼn se inalza, / Nε là dωve Benacω al mar s’aggualja; / O prεssω al Tebrω, o ne la riva d’Arnω», in Al1 64-69 «Ove eran tutte allhor gratie et virtudi? / Ove voi Muse allhor che la chiara alma / Del divin Cosmo al sommo ciel salìo? / Non già, non già lungo le fresche rive / Del suo chiaro Arno, non fra i verdi colli / Del suo fiorito nido […]» e in Caro O2 108-114 «Dov’eravate voi, Ninfe pietose, / dov’eravate voi, quando il buon Dafne / sosteneva d’Amor sì crudo scempio? / Per Pindo o per l’apriche piagge d’Emo? / Che per Fiesole allora e per Morello, / e per Arno e per Arbia e per Ombrone / tanto ne foste in van chiamate e cerche» (O1 legge invece, nei versi finali, «Che per Fiesole allor, né pe’l Morello, / né per l’Arno eri voi, né pe’l Mugnone»).
45 Per tali ragioni, nel prospetto, tanto per il testo greco quanto per le traduzioni, si sono riportate solo le ripetizioni che constassero di almeno un verso e, soprattutto, che delimitassero la fine di brani dotati di una certa estensione e autonomia.
46 Diventano cinque se si considera anche il primo emistichio del v. 2 (la variante «ὤλετο καλὸς Ἄδωνις»), che però ricompare solo all’inizio di un verso il cui secondo emistichio non ha funzione di ritornello (v. 92).
47 La si potrebbe riconoscere, a dire il vero, nella formula «O Santa Madre», che è però sfruttata solo al v. 77.
48 Qui e in tutti i casi successivi si considerano, per comodità, le sole parole che si ripetono identiche, senza tenere quindi conto dei poliptoti. Si offre di seguito un elenco esaustivo in ordine di comparsa: «giωrnω» (vv. 2, 13 e 29), «sωave» (vv. 6 e 168), «colli» (vv. 8 e 80), «Muʃe» (vv. 9, 20 e 161), «morte» (vv. 19 e 149), «amante» (vv. 25 e 36), «Arnω» (vv. 26 e 70), «taza» (vv. 30 e 159), «Nymphe» (vv. 68 e 156), «lupi» (vv. 78 e 142), «armenti» (vv. 92, 124 e 129), «affanni» (vv. 93 e 120), «alquantω» (vv. 96 e 134), «vita» (vv. 97 e 110), «mandre» (vv. 100 e 143), «tεrra» (vv. 140 e 157), «Daphne» (vv. 146 e 155), «cantω» (v. 162, a chiusura della lunga serie dei 18 versi di refrain).
49 «Amarille» (vv. 1 e 8), «amωre» (vv. 64 e 70), «cuore» (vv. 47 e 59) e «dilεttω» (vv. 31 e 40). La ragione sarà da ricercare sia nel numero relativamente alto di nomi propri in clausola (sette, compreso «Amarille») sia nel fatto che questa traduzione, tenendosi molto più vicina al testo originale, si concede di conseguenza meno margini di libertà anche nelle scelte lessicali.
50 Sul modello del teatro tragico greco, agli sciolti che caratterizzano la maggior parte dei dialoghi la Sophonisba alterna metri lirici vari (stanze di canzone, ballate, madrigali, ecc.) che contraddistinguono le parti corali e che in qualche circostanza sono estesi anche ad alcuni interventi dei personaggi principali.
51 Si tenga presente, in particolare, la serie «giuntω», «libertade», «Spagna», «ciεlω», «tyranni», «acquistω» e «sεde», che compare una prima volta ai vv. 54-55, 57 e 62-65, e quindi ai vv. 82-83, 86 e 88-91, in un contesto in cui Dio affida un messaggio all’angelo Onerio e questi lo riporta in maniera fedele all’imperatore Giustiniano. Sul linguaggio formulare dell’Italia liberata si rimanda a Maurizio Vitale, L’omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua dell’«Italia liberata da’ Gotthi», Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2010, in particolare alle pp. 19-44, e a F. Di Santo, Il poema epico rinascimentale e l’Iliade, cit., alle pp. 291-308.
52 Si veda ad esempio la reiterazione leggermente variata della coppia «trωvatω» e «mortω» (vv. 107-108) in «trωvare» e «mortω» (vv. 111-112) o di «dirlω» (v. 125) in «dica» (v. 126).
53 Al1 e Trissino 1 condividono peraltro ben 24 parole-rima, di cui 16 di forma identica (e, fra tutte, si segnala «pini», che in entrambi i testi chiude il verso iniziale); Al3 e Trissino 2 ne hanno invece in comune 13, di cui 7 identiche per forma.
54 Nell’ordine: «pregio» (vv. 4 e 114), «voci» (vv. 8 e 105), «intorno» (vv. 14 e 51), «giorno» (vv. 16 e 35), «piange» (vv. 32 e 154), «figli» (vv. 34 e 95), «doni» (vv. 49 e 155), «salìo» (vv. 66 e 142), «armenti» (vv. 73 e 92), «Cosmo» (vv. 79 e 88), «cui» (vv. 118 e 127), «pace» (vv. 129 e 133). L’ultima, «canto» (v. 150), riprende la parola che chiude i versi di refrain, esattamente come in Trissino.
55 «Phylli» (vv. 1 e 97, ad apertura e chiusura di componimento), «ombra» (vv. 23 e 95), «Symeta» (vv. 25 e 81), «posso» (vv. 27 e 94), «core» (vv. 39 e 57), «Lupo» (vv. 53 e 65) e «Flora» (vv. 69 e 80).
56 «Daphni» (vv. 1 e 140, vale a dire nel primo e nel penultimo verso, ancora una volta con una chiara funzione strutturante), «volto» (vv. 3 e 36), «Adone» (vv. 16, 26, 29, 67, 108), «homei» (vv. 19 e 116), «sangue» (vv. 20 e 79), «rose» (vv. 22 e 81), «core» (vv. 30 e 49), «anchora» (vv. 40 e 88), «pianto» (vv. 62, 78 e 98), «aprile» (vv. 70 e 97), «pastore» (vv. 71 e 132), «homai» (vv. 83 e 141), «intorno» (vv. 92, 105 e 139) e «chiome» (vv. 104 e 126).
57 Già Bausi notava a proposito del Diluvio romano come Alamanni intendesse «compensare, sul piano dell’eleganza stilistica, tutto quanto – per ciò che concerne sia la leggiadria, sia la valenza strutturante – viene a mancare con la soppressione della rima» e segnalava in particolare «le rime (anche al mezzo), le assonanze e le consonanze con cui vengono collegati versi consecutivi o poco distanti», calcolando che «soltanto 306 parole in fine di verso risultano irrelate, mentre ben 427 (pari a oltre il 58%) sono collegate tra loro» (Francesco Bausi, La nobilitazione di un genere popolaresco: il Diluvio Romano di Luigi Alamanni, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», liv, 1992, pp. 23-42, alle pp. 40-42). Percentuali piuttosto alte, sebbene non del tutto paragonabili, si ritrovano anche nelle Selve – nel secondo libro delle quali (che si è scelto come campione in ragione della sua maggiore compattezza tematica, essendo interamente dedicato al compianto per la morte di Zanobi Buondelmonti) sono irrelate in totale 631 parole in fine verso, contro 250 in attestazione molteplice (il 28%) – e nella Coltivazione – in cui, su un campione dei primi 166 versi del primo libro, si contano 43 parole collegate fra loro (quasi il 26%) –; paiono invece meno frequenti rispetto alle egloghe, benché altrettanto incisive, le figure di suono nell’una e nell’altra opera.
58 Su un campione di 148 versi – il dialogo iniziale fra Antigone e Ismene, subito prima dell’apparizione del Coro – sono appena 12 le parole in duplice (in un caso quadruplice) occorrenza, e in generale sono più rare anche figure come assonanze o consonanze.
59 Nell’ordine, «pianto» (vv. 6, 139, 169 e 194), «vesta» (vv. 7 e 43), «Amori» (vv. 9, 120 e 165, senza contare tre versi di refrain), «vana» (vv. 14 e 114), «Sole» (vv. 25, 44, 147 e 185), «Adone» (vv. 26, 27, 60, 71, 75, 83, 86, 92, 108, 145, 184 e 188; e si tenga presente che, di queste occorrenze, nessuna appartiene a un verso di refrain, come invece quella che si trova al v. 143), «fianco» (vv. 32 e 137), «selve» (vv. 36 e 74), «Natura» (vv. 40 e 64), «sangue» (vv. 47, 66 e 164), «inferno» (vv. 51 e 107), «spirti» (vv. 52 e 175), «audace» (vv. 57 e 123), «cielo» (vv. 58 e 70), «Amore» (vv. 63 e 153), «fiori» (vv. 90, 138 e 155), «mano» (vv. 91 e 122), «occhi» (vv. 106 e 136), «petto» (vv. 113 e 163) e «dolente» (vv. 118 e 141).
60 Nell’ordine, «piano» (vv. 6, 49 e 182), «suolo» (vv. 13 e 149), «chiome» (vv. 18 e 206), «orgoglio» (vv. 50 e 124), «cielo» (vv. 55 e 191), «canto» (vv. 60 e 72), «corona» (vv. 65 e 120), «corna» (vv. 66 e 133), «spalle» (vv. 70, 11 e 177), «viso» (vv. 80 e 226), «una» (vv. 82-83), «giri» (vv. 92 e 208), «piante» (vv. 98 e 221), «toro» (vv. 115 e 260), «odore» (vv. 126 e 274), «elemento» (vv. 163 e 270), «lumi» (vv. 172 e 233), «colli» (vv. 228-229), «forma» (vv. 291-292). Le ripetizioni, nel complesso, interessano dunque meno del 15% del testo.
61 Si vedano ad esempio, oltre alla ripetizione in versi contigui di alcune delle parole identiche già segnalate alla nota precedente («una», «colli» e «forma»), almeno «corona» e «corna» (vv. 65-66), «favella», «pelle» e «spalle» (vv. 67, 68 e 70), «mostro» e «mostri» (vv. 242-243), «odore» e «coro» (vv. 274-275), «legnaggio» e «seggio» (vv. 282-283).
62 Si rimanda in proposito a Paola Laurella, Le ‘Egloghe’ di Girolamo Muzio. Saggio di un commento, tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, a.a. 1985-1986 e a F. Bausi, Un’egloga inedita (e sconosciuta) di Girolamo Muzio, cit., pp. 237-239.
63 Con la seconda egloga di Trissino sono condivise 15 parole in punta di verso, delle quali 11 di forma identica; con Al9 le parole in comune sono invece 23 in totale, di cui 16 identiche.
64 Il testo si legge in Opuscoli inediti di celebri autori toscani l’opere dei quali sono citate dal Vocabolario della Crusca, II, Firenze, nella Stamperia di Borgo Ognissanti, 1809, pp. 12-28.
65 Una percentuale ancora più alta (49%, con 309 ripetizioni su 626 versi) si ritrova in un altro volgarizzamento varchiano che si tiene assai vicino all’ipotesto, quello del brano delle Metamorfosi di Ovidio (vv. 1-392) in cui Aiace e Ulisse si contendono le armi di Achille (lo si legge in Opuscoli inediti di celebri autori toscani, cit., pp. 167-189; si veda inoltre la lettera del maggio 1538 che accompagnava la traduzione e in particolare il brano in cui Varchi sottolinea la stretta aderenza al testo di partenza, riprodotto in D. Brancato, «Una egloga con verso sciolto, secondo il costume moderno», cit., p. 32). Si tenga conto, in ogni caso, che una percentuale così alta su un gran numero di versi non è naturalmente comparabile con una percentuale identica che si riscontrasse rispetto a un numero assai più basso di versi, dal momento che in quest’ultimo caso le parole-rima verrebbero a trovarsi a una distanza molto più ravvicinata e avrebbero di conseguenza un impatto nettamente maggiore sulla “memoria” rimica del lettore e sul suo orizzonte di attesa (sull’argomento si rimanda, più in generale, a Rodolfo Zucco, Dispensa sull’ordine delle rime nel sonetto italiano, Pasian di Prato, Campanotto, 2020).
66 A testimoniare la vicinanza fra questi testi contribuisce il fatto che, in O2, le parole in punta di verso comuni all’egloga trissiniana sono addirittura 33, 25 delle quali di forma identica; quelle condivise con Alamanni sono invece 24, di cui 18 identiche.
67 Nell’ordine, «pino» (vv. 4 e 42), «suono» (vv. 7 e 161), «Muse» (vv. 19 e 233), «merto» (vv. 22 e 99), «io» (vv. 28 e 244), «gregge» (vv. 29, 142 e 145), «oda» (vv. 30, 102 e 213), «colmo» (vv. 35 e 232), «bosco» (vv. 43 e 75), «vaso» (vv. 50 e 231), «acque» (vv. 79 e 195), «bocca» (vv. 98 e 238), «Tirsi» (vv. 106 e 245), «armento» (vv. 122 e 196), «monte» (vv. 124 e 247), «boschi» (vv. 136 e 172), «meno» (vv. 144 e 149), «gioia» (vv. 148 e 150), «impero» (vv. 158 e 169), «morte» (vv. 166, 208 e 226) e «intorno» (vv. 176, 187 e 219). Rispetto a O1 si contano cinque nuove ripetizioni, dovute all’aggiunta di «pino» (v. 42), «Muse» (v. 19), «io» (v. 28), «bosco» (v. 43) e «impero» (v. 158); vengono meno, invece, le ripetizioni di «Ninfe» e «intaglio», che in O2 sono in singola occorrenza laddove in O1 comparivano due volte, e di «sampogna», che in O1 ricorreva addirittura quattro volte; sono invece ridotte da tre a due attestazioni «suono» e «acque».
68 Si vedano, ad esempio, nel giro di pochissimi versi, la consonanza tra «valletto» e «cavalli» (vv. 512-513), la paronomasia tra «colpo» e «collo» (vv. 514-515) e la rima perfetta (anche se desinenziale) tra «ricise» e «intrise» (vv. 516 e 518).
69 Come accennato nel corso del saggio, sembra che Trissino tenga presente Alamanni almeno nella prima delle sue due egloghe, composta prima della princeps lionese del fiorentino ma quando doveva esistere già da anni una circolazione manoscritta di quei testi. A sua volta, Caro mostra di conoscere la traduzione trissiniana (se non anche quella alamanniana), e non è difficile immaginare che Varchi avesse avuto accesso alla traduzione di T3 dei due frequentatori degli Orti Oricellari. Infine, una conoscenza diretta da parte di Amomo del volgarizzamento alamanniano di B1 è ipotizzabile per ragioni biografiche oltre che letterarie.
70 Casi in cui tali tendenze non siano rispettate, come nell’egloga di Varchi, andranno trattati come deroghe alla norma: del resto, si è già osservato come in quella circostanza gli effetti normalmente associati ai richiami fonici tra clausole siano demandati al sistema di rimalmezzo che regola la parte finale del componimento. Al contempo, vi sono autori – come Alamanni e soprattutto il Muzio delle Egloghe – che portano all’esasperazione l’uso delle figure di ripetizione, sia fonica che retorica.
71 Non mancano, anche in questo caso, delle eccezioni. Diversamente che nella Sophonisba e nell’Antigone, nella Rosmunda di Rucellai – dove pure le parole-rima ripetute sono in numero irrilevante (meno del 17%, su un campione costituito dai 115 versi iniziali che precedono il primo intervento del Coro) – la volontà di introdurre nel testo una qualche regolarità pur in assenza di uno schema rimico preciso è evidente: si segnalano soprattutto le numerose rime, «privarti» (v. 26) : «menarti» (v. 27), «danno» (v. 61) : «anno» (v. 62), «sperse» (v. 75) : «aperse» (v. 76), «parole» (v. 93) : «sole» (v. 94), «ombra» (v. 103) : «ingombra» (v. 104), «scorta» (v. 106) : «porta» (v. 108), «fonte» (v. 114) e «monte» (v. 115); ma si vedano anche consonanze come «admonirti» e «parti» (vv. 99-100) o «sogno» e «tegno» (vv. 112-113), assonanze come «soccorso» e «disconforto» (vv. 109 e 111) o la contrapposizione a brevissima distanza tra le clausole «vita» e «morte» (vv. 51-52, e poi di nuovo ai vv. 56-57, in entrambi i casi in contesti di sticomitia).