Revue Italique

Ricezione dei classici

OJ-italique-941

Ritmo giambico e ritmo trocaico nella poetica (e nelle Rime) di Giovan Giorgio Trissino

Nicolò Magnani

Esiste, nella produzione scritta di Giovan Giorgio Trissino, una rete graficamente riproducibile che collega tutte le opere dell’autore, su due livelli di dominio: teorico e pratico. Il primo livello è di supporto e giustificazione al secondo, e quest’ultimo a sua volta fornisce dimostrazione ed esemplificazione al primo, in un gioco di reciproche dipendenze che si risolve nell’impossibilità di sottrarre – o aggiungere a quelli già esistenti – uno dei tasselli, pena il collasso e l’inintelligibilità dell’intero sistema. Si può dire che l’opera, nel caso del corpus trissiniano, sia rappresentata dal corpus stesso: un disegno organico e unitario, in cui l’autore riversa con evidente compiacimento la propria ambizione parenetica nel campo del fare poesia, al cospetto dell’intera comunità letteraria italo-romanza. Il motivo dominante di questo sistema autoriale, la sua ragion d’essere insomma va rintracciata nel progetto di Trissino di rifondare la letteratura italiana su basi classiche, ovvero con il supporto metodologico delle autorità greco-latine sul versante creativo (la poesia) e normativo (la poetica). Questo non significa legittimare una regressione a un sistema formale oggettivamente incompatibile con le istituzioni della poesia volgare, ma piuttosto recuperare una sensibilità estetica assimilabile a quella che ha consentito la composizione delle grandi opere immortali dell’antichità, capaci di attraversare i millenni mantenendo intatto il proprio statuto di classici. È proprio da tale presupposto che Trissino prende le mosse per riflettere sui segreti dell’arte poetica che consentano a chi la coltivi di acquisire fama imperitura: in altre parole, per diventare esso stesso un classico.

È dunque necessario ridimensionare il giudizio che vede in Trissino un pedante – e fallimentare – imitatore degli antichi, e risalire alle ragioni profonde del suo programma. Il vicentino non guarda a Omero, ai drammatici e ai lirici greci come ai capisaldi dell’arte in versi da imitare pedissequamente, ma come ai maggiori fenomeni di successo letterario di sempre, da cui è necessario prendere esempio per produrre qualcosa di altrettanto importante con gli strumenti tecnici messi a disposizione dal volgare. Analogamente, di Aristotele decide di assimilare non tanto i singoli dettami, quanto la struttura argomentativa dell’arte poetica, con la quale scandisce il piano delle sei divisioni del suo trattato.1 All’interno di questa impalcatura, egli opportunamente innesta quanto ritiene più utile a migliorare le strutture formali della poesia volgare italo-romanza. Non è un caso che, nella sua silloge di Rime,2 gli unici veri e propri volgarizzamenti siano le due egloghe finali tirate da Teocrito:3 nonostante la letteratura volgare, per ammissione stessa di Trissino, avesse avuto nel Sannazaro un eccellente esecutore, il «supremo autore»4 del genere bucolico rimane comunque il poeta greco. La ragione va ricercata in una tematica che sta molto a cuore al letterato vicentino, tanto da costituire uno dei motivi per i quali egli viene ricordato contestualmente alle discussioni letterarie del Cinquecento: la questione della rima. Nella sesta divisione della Poetica, così si esprime a proposito del Sannazaro:

Né anco il Sannazaro la [scil. la grazia] ha in questa nostra lingua asseguita, quantunque abbia bello et alto stile. Ma io penso che ciò sia per essere in rima, perciò che la rima è figura che ha molto del vago e che pensamento dimostra, onde al parlare rustico e pastorale non ben si conviene. Et ancora quelli suoi versi, che alcuni dicono sdruccioli, li quali esso frequentissimamente usa, non sono dai scrupolosi di questa nostra età molto laudati per non essersi né da Petrarca né da Dante molto usati. Laonde a me più piacerebbe che tali egloghe fossero non solamente senza quei sdruccioli ma ancora senza rime, della qual cosa io già ne feci la pruova e mi riuscirono assai bene.
(Poetica 1562, c. 45v)

La difesa del verso sciolto in due generi – l’epica e la tragedia – che ne traggono giovamento per motivi evidentemente opposti (rispettivamente, la tutela della continuità propria della materia del “poema ciclico”5 e il conferimento di un tono naturale e colloquiale al genere dialogico per eccellenza)6 portava dunque Trissino a disapprovare la soluzione formale del Sannazaro in un genere che condivide con la tragedia l’impianto drammatico, preferendo naturalmente il primo grande rappresentante della poesia bucolica antica, presso cui la rima non era neppure conosciuta. Per il resto, Trissino pensa in termini di poesia volgare, almeno per quanto riguarda gli aspetti più tecnici del fare poesia, primo fra tutti la questione del metro da adottare in ciascun genere letterario in versi. Come noto, un famigerato luogo della Poetica di Aristotele, controverso a livello tanto filologico quanto esegetico,7 ha avviato nel corso del Cinquecento un acceso dibattito sulla liceità di comporre poesia epica in prosa. Questa occasione ha contribuito a dare la stura alla nota querelle sulla forma metrica che più si addicesse all’epopea, che ha visto contrapporsi i partigiani dell’ottava, della terzina e del verso sciolto continuo,8 oltre a discussioni metriche di varia entità che giustificano in parte la grande proliferazione, lungo tutto l’arco del secolo, di trattati e operette di poetica di impianto prevalentemente tecnico.9 Il recupero del De vulgari eloquentia e l’ininterrotta fortuna della Summa di Antonio da Tempo, che non a caso rappresentano le due fonti principali delle divisioni I, III e IV della Poetica di Trissino,10 hanno senz’altro favorito l’applicazione del dibattito alla poesia lirica, e questo nonostante il momento storico pendesse verso una definitiva fissazione delle forme metriche e linguistico-stilistiche su basi petrarchesche.

La seconda divisione della Poetica contiene un’insidia non da poco. A una prima lettura, pare di ravvisarvi un’operetta di qualche grammatico greco o latino volgarizzata e innestata alla meglio nel tessuto del trattato. La proliferazione della terminologia tecnica propria della metrica classica sembra far pensare a un caso di abuso silente di una fonte antica sulla struttura dei metri giambici e trocaici. In realtà Trissino chiarisce sin dall’inizio quale sia il suo intento, e cioè fornire una casistica completa delle possibili giaciture toniche dell’endecasillabo (e, meno esaurientemente, degli altri versi volgari). Il contorto procedimento analitico messo in piedi da Trissino si rivela in sostanza un modo particolarmente originale – per non dire eccentrico – di enunciare la regola fondamentale dell’endecasillabo prototipico: accento obbligatorio su decima sillaba e almeno uno fra quarta e sesta. Questa teoria assimila, dal punto di vista prosodico, i versi canonici della poesia volgare ai metri binari classici e alle loro varianti catalettiche, e si regge interamente sulla nozione di tono, che coincide in sostanza con l’accento di parola.11 In particolare, i versi volgari imparisillabi (endecasillabo e settenario su tutti) sono descritti come metri giambici, mentre quelli parisillabi (l’ottonario) sono definiti metri trocaici. Apparentemente, l’elaborazione di tale dispositivo aritmetico di computo binario non fornisce alcun dato significativo sulla struttura ritmica del verso (peraltro, la mera distinzione di sillabe grammaticalmente toniche e atone esclude di fatto il concetto di ictus secondario) e sembra unicamente finalizzato al libero sfogo delle pulsioni antichiste del suo autore, che si diverte a passare in rassegna tutta la nomenclatura delle combinazioni dipodiche quantitative fra coriambi, epitriti e proceleusmatici. Tuttavia, vale forse la pena riflettere sull’associazione fra metro giambico e verso imparisillabo e fra metro trocaico e verso parisillabo, e chiedersi se tale sovrapposizione rappresenti unicamente una soluzione di comodo per analizzare la composizione interna del verso volgare giustificata dal sillabismo e dalle sedi toniche obbligatorie, oppure se Trissino rilevi di fatto la presenza dominante di un pattern ritmico binario ascendente nell’endecasillabo (e nei versi più brevi che da esso derivano) e viceversa di uno binario discendente nell’ottonario. Quest’ultima ipotesi avrebbe senz’altro delle implicazioni molto interessanti, dal momento che collocherebbe Trissino all’interno di quella tradizione teorica che ha ancora oggi i suoi sostenitori e che ravviserebbe nell’endecasillabo un modello ritmico di natura tendenzialmente giambica, vale a dire caratterizzato dalla presenza di un ictus più o meno forte in ogni sede pari. Secondo Aldo Menichetti, nell’endecasillabo

è ragionevole supporre l’esistenza latente di moduli-guida elementari, costituiti dalla ripetizione regolare di nuclei sillabico-ritmici molto semplici. Questi nuclei […] sono i piedi; così possiamo continuare a chiamarli, come nella metrica greco-latina […], tenendo però presente che essi hanno ora natura sillabico-accentuativa, non più quantitativa […]. I piedi possono ancora render servizio nell’analisi dei versi […] e moltissimi sono infatti i metricologi antichi e moderni che li hanno utilizzati a questo fine, dal Trissino al Minturno, dal Murari al Sesini. Risalendo dunque alle realizzazioni e ai modelli dei versi tradizionali italiani […] constatiamo che quasi tutti questi modelli o sono essi stessi costituiti da successioni iterative di giambi o di trochei, oppure lasciano intravedere alle loro spalle quello che potremmo chiamare un “arcimodello” latente dello stesso tipo […]. Così, al di là del modello ritmico provvisoriamente ricavato dai due primi endecasillabi dell’Inferno (2° 6° 10° e 4° 8° 10°) si lascia già ipotizzare per semplice combinazione un arcimodello giambico, cioè con accenti forti sulle sedi pari.12

Naturalmente questo supposto “arcimodello” andrà inteso come tendenza statistica e non come norma inderogabile (fra gli endecasillabi ritenuti canonici o almeno legittimi sono compresi, è appena il caso di dirlo, anche versi con una o più sedi toniche dispari), ma si può convenire sul fatto che in genere un endecasillabo interamente “giambico” sia più immediatamente riconoscibile come tale, che trovi in una progressione ascendente di due in due sillabe il proprio ritmo d’elezione, il modulo più confacente a riempire la propria misura sillabica.

Analogamente dicasi dell’ottonario che, in quanto verso parisillabo, avrà una natura tendenzialmente trocaica, vale a dire binaria discendente.13 Nel caso dell’endecasillabo, la coincidenza con il trimetro giambico andrà intesa ovviamente nella versione catalettica di quest’ultimo, vale a dire priva dell’ultimo tempo: trimetro giambico pieno è, per Trissino, l’endecasillabo sdrucciolo. Della marcata prossimità dell’endecasillabo sdrucciolo al trimetro giambico si accorse anche l’Ariosto, che compose le sue ultime commedie proprio in endecasillabi sdruccioli sciolti. Questa soluzione fu apprezzata da Girolamo Muzio, il quale nell’Arte poetica elogia «lo stil del Ferrarese / In ch’egli scrisse l’ultime commedie» (317 sg.),14 dopo aver criticato aspramente la scuola barbara del Tolomei.15 Muzio, seguace di Trissino nella disputa sulla lingua, ne condivideva dunque anche l’elezione dello sciolto a verso nobile per eccellenza16 e, implicitamente, la sovrapposizione del trimetro giambico all’endecasillabo, salvo preferire la soluzione dello sdrucciolo, più vicino al trimetro canonico della commedia classica.

La questione ha, a ben vedere, implicazioni non solo teoriche ma anche pratiche: si tratta non tanto di decidere se Trissino vedesse nell’endecasillabo un verso solitamente caratterizzato da un ritmo giambico, ma se egli ritenesse che questo tipo di endecasillabo fosse da preferire agli altri, e se l’abbia utilizzato con più frequenza nel corpus delle sue opere in versi. La silloge delle Rime potrebbe offrire in questo senso elementi interessanti, specie se raffrontati al modello per eccellenza di canzoniere volgare d’autore, quello di Petrarca, il quale, nonostante l’intento di Trissino di ampliare il canone bembiano degli autori esemplari estendendolo ai maggiori esponenti della poesia italiana dal Duecento in avanti, rimane per il letterato vicentino la massima autorità ed eccellenza nel campo della lirica volgare per linguaggio, immagini, figure retoriche e forme della versificazione, come dimostra la decisa predominanza dei Rerum vulgarium fragmenta fra le citazioni esemplificative contenute nella Poetica.

Per quanto riguarda la frequentazione dei generi lirici nelle Rime, si può dire che essa rispecchi in pieno quanto si legge nella terza e nella quarta divisione della Poetica: tutti i cinque generi individuati come canonici presso i buoni autori (sonetto, canzone, ballata, madrigale e serventese) sono rappresentati nella raccolta, con l’aggiunta dell’egloga che sarà comunque introdotta nella sesta divisione e rientra, come si è visto, all’interno degli esperimenti di matrice più marcatamente classica. Si tratta di un primo elemento che consente di tracciare un collegamento diretto fra enunciazione teorica e realizzazione pratica, un indizio dell’esistenza di un piano predeterminato nell’opera omnia trissiniana in cui a ogni prescrizione corrisponde infallibilmente un’illustrazione, quasi l’autore fornisse exempla ficta integrali alle proprie teorie, i quali assumono solo successivamente una propria autonomia artistica.

Si torni alla seconda divisione. Prima di entrare nel merito delle possibili combinazioni toniche del trimetro giambico catalettico (l’endecasillabo), Trissino afferma che, nonostante il modello ideale di detto metro sia un verso di soli giambi, è opportuno introdurvi uno o due spondei per rendere il verso più armonico. Dal momento che il sistema teorico messo in piedi dal letterato vicentino prevede che per sede lunga si intenda una sillaba grammaticalmente tonica, e che a ogni parola, compresi i monosillabi, corrisponda uno e un solo accento, in un verso come il petrarchesco «Chiunque alberga tra Garonna e ’l monte» (Rvf XXVIII 31), preso a esempio da Trissino (Poetica 1529, c. XVv), il penultimo piede (e ’l mon-) è spondeo, in virtù della presenza del monosillabo, che pure a livello esecutivo risulta prosodicamente ininfluente, assorbito dalla sinalefe con la precedente sillaba atona. Per Trissino, dunque, se il verso fosse stato «Chiunque alberga tra Garonna monte» sarebbe stato meno elegante in quanto ologiambico, laddove a livello prosodico non c’è in realtà alcuna differenza. Ad ogni modo, date queste premesse Trissino esprime la propria preferenza nella conformazione del verso: «piljeremω per la più bεlla struttura il dijambω cωn lω εpitritω primω o tεrzω, o cω ʼl dispωndεω». In sostanza, si raccomanda di evitare la monotonia cagionata dalla rigida osservanza dell’equazione “sillaba dispari = atona” e “sillaba pari = tonica”, e introdurre monosillabi in sedi dispari per evitare tale inconveniente.

Un’ulteriore informazione sulle preferenze ritmiche di Trissino è desumibile dal capitolo conclusivo della seconda divisione, quello sulla cesura. Secondo il vicentino, la cesura in nona sede è

di mωlta vagheza quandω rispωnde a la quinta ceʃura cωmpiuta, che tεrmini ne la quarta syllaba acuta; il che si può vedere in un vεrsω che nωn l’habbia, cωme ὲ: «Iω mi vivea di mia sorte cωntεntω», ne ʼl qual vεrsω te, syllaba secωnda di sorte εt ωttava de ʼl vεrsω, ὲ grave; però pωnεndω, in luogω di sorte, virtù, che ha la secωnda syllaba acuta, ε dicεndω: «Iω mi vivea di mia virtù cωntεntω» verrà il vεrsω ad havere la nona ceʃura, ε sεnza dubbiω sarà più sωnorω.
(Poetica 1529, c. XXr-v)

Ovvero: l’endecasillabo a maiore è preferibile a quello a minore, che almeno dovrebbe avere un accento in ottava sede, presumibilmente per mantenere sensibile il ritmo giambico in tutti e tre i metra del verso. In definitiva, per Trissino l’endecasillabo può essere descritto come un trimetro giambico, dunque con un ritmo tendenzialmente binario e ascendente, con accento obbligatoriamente sulla quarta e/o sulla sesta sillaba, e preferibilmente su quest’ultima.

Si passi ora alle Rime. Gli endecasillabi totali della raccolta sono 1882. Di essi, ben 1300 hanno entrambi gli accenti di quarta e sesta. Fra i restanti, sono 364 quelli con la sola sesta tonica e 218 quelli di quarta: si conferma dunque la preferenza per moduli marcatamente “giambici” e per la variante a maiore.17

In generale, si può dire che i versi per i quali è lecito parlare di ritmo binario ascendente siano la netta maggioranza, e che dunque la presenza di monosillabi marcatamente atoni in sede pari sia di fatto irrilevante: se si escludono casi sporadici, in cui la quarta sede occupata da monosillabo, eventualmente in sinalefe, è fortemente indebolita dall’ictus in terza sede (cfr. IV 5 «hannω sì le mie volje a sε ristrette»; XI 2 «bεn pωtete il miω corpω ritardare»; XXXI 39 «che ’l splendωr del maritω al mωndω inteʃω»; XXXIX 1 «Quantω più mi distrugge il miω pensiεrω»; LI 8 «ε più durω a lω sprωn sεmpre divεgnω»; 13 «ε mωstrommi il camin da gir più forte»; LIX 27 «nε cωn arte ad alcun si può mωstrare»), o casi limite, pressoché inesistenti, in cui la medesima situazione è accompagnata dall’assenza di ictus in sesta sede (cfr. LXIV 8: «spesse fiate al miω amωrωʃω statω»), la disposizione degli elementi verbali è tale per cui si può parlare dell’esistenza di un ritmo prototipico, inconfondibilmente giambico, nella lirica trissiniana. L’uso frequente di monosillabi semanticamente pieni, specie frutto di troncamento, è funzionale al mantenimento di questa cadenza prosodica, in quanto consente al maggior numero possibile di sillabe pari di portare l’accento (si pensi a versi come LXIV 4: «hor sωn in lωr, più che mai fωsse, involtω»).

Coerentemente con quanto espresso nella Poetica, Trissino evita perlopiù endecasillabi ologiambici (un caso pressoché isolato è LXIV 38: «prudεnte, largω, facile ε giωcωndω»), o quando il ritmo è di fatto totalmente giambico inserisce monosillabi in sedi dispari come nel caso sopra citato di Rvf XXVIII 31 (cfr. XXIX 5: «Crudεl Amωr, crudεl, che sωttω l’ωmbra»).

In generale, sono pochi i versi con attacco marcatamente antigiambico (seconda e quarta sede atone), che pure sono ammessi nella Poetica, ovviamente a patto di avere accento di sesta. Fra le tre possibili soluzioni, ovvero ditrocheo (— ), peone primo (— ∪ ∪ ∪) e peone terzo (∪ ∪), si registra una netta preferenza per il ditrocheo, con ben 130 casi,18 seguito, a distanza, dal peone terzo con 12 occorrenze19 e dal peone primo con 7 occorrenze.20 In Petrarca si registrano 1145 endecasillabi di questo tipo su 7023, pari al 16,3%.21 I 149 versi di Trissino arrivano appena al 7,9% sul totale, confermando una preferenza per ritmi immediatamente riconoscibili come giambici.22

Alcuni componimenti sembrano caratterizzati da precisi schemi prosodici (sempre nel rispetto della teoria generale). Nel sonetto IX, ben quattro versi delle quartine sono endecasillabi a minore il cui secondo emistichio inizia con parola quadrisillaba piana, risultando così privi di accento di sesta (v. 1 «La bεlla frωnte cωlωrita ε bianca»; 4-5 «cωme a chi coʃa dilettevωl manca // dapoi cωn vωce pargωletta ε stanca»; 7 «che sωlω in quelle ripensandω ωbliω». Sostanzialmente analogo dal punto di vista ritmico anche il v. 2: «de la mia donna impallidir vidd’iω»). In tutti questi casi, la cesura a minore con accento di quarta è accompagnata da cesura nona con accento di ottava, come si raccomanda nella Poetica per rendere il verso “più sonoro”. Ancora, nessuno dei primi sette versi del sonetto XXII ha entrambi gli accenti di quarta e sesta (così come nove versi su tredici del XXV e otto del XLIII), tanto che non è difficile avvertire un sensibile scarto dalla specificità ritmica tipica del corpus lirico trissiniano nel suo complesso. Il sonetto successivo è invece caratterizzato da una insolita concentrazione di versi ad attacco ditrocaico (ben sei), come del resto la canzone LV, che presenta diversi endecasillabi non “canonici”. Il sonetto LVI ha cinque versi a prima “misura” ditrocaica e, eccezionalmente, tutti i versi accentati sulla prima sillaba (per sei dei quali si può parlare di vero e proprio ictus, in quanto inizianti per parola piena). Anche il serventese LIII non può essere definito prototipico dal punto di vista ritmico (otto endecasillabi su dodici infrangono del tutto o in parte il cursus ascendente), e in questo caso si può facilmente addurre a giustificazione la sua natura di volgarizzamento libero (da Hor. Carm. III 9), per cui la necessità di mantenere un certo grado di aderenza verbale al modello impone inevitabilmente maggiori restrizioni sul versante ritmico. Analogo discorso può essere fatto per le canzoni LXXVI e LXXVII a papa Clemente VII e al cardinal Ridolfi che, essendo ascrivibili a generi d’occasione – rispettivamente poesia parenetica e encomiastica –, sono composte con una particolare attenzione al contenuto piuttosto che alla forma. Per inciso, nella prima canzone il sintagma «man de’ cani» in clausola al v. 78 è preso in prestito da Petrarca (Triumphus Fame II 144), e si tratta senza dubbio di operazione cosciente e deliberata da parte di Trissino, che nella prima divisione della Poetica aveva citato il sintagma – insieme al relativo passo petrarchesco – come esempio di metafora forte, nel contesto della sua traduzione riadattata di Ermogene:

Fannω anchωra veneraziωne le traspωrtaziωni, cωm’ὲ «Cintω di raggi», «Si cωrcò pur dianzi». Ma in queste ὲ gran pericωlω, percioché, se la transpωrtaziωne ὲ grande, fa l’aspreza, cωm’ὲ «In man de’ cani», «Spωljarvi lω scoljω» […]. La vehemεnzia vuole bεne anchωr essa sentεnzie cωn riprensiωne, ma da persωna minωre, cωm’ὲ: «Ite supεrbi, ε miʃeri Christiani / Cωnsumandω l’un l’altrω, ε nωn vi calja / Che ’l sepulchrω di Christω ὲ in man de’ cani».
(Poetica 1529, cc. VIv sg.)

Nella Poetica, Trissino non distingue la struttura degli endecasillabi da quella dei settenari, limitandosi a fornire indicazioni nella struttura delle tre “misure”, ovvero i metri giambici formati da quattro sillabe: se per l’endecasillabo vanno prese in considerazione tutte e tre, è implicito che un settenario risulti dall’unione di due misure su tre. Di fatto, secondo la sensibilità rinascimentale il settenario andrebbe considerato un verso “rotto” a partire dall’endecasillabo,23 dunque risulterebbe dall’unione di due misure contigue del verso-matrice. Tuttavia, Trissino non si serve mai di questa definizione, e a ragion veduta: il suo sistema tassonomico, pur con le forzature che comporta, consente di superare il concetto di disintegrazione di un’unità metrica assoluta e cardinale in quanto impostasi come canonica lungo l’arco della tradizione lirica italiana: la combinazione fra unità metrica (monometro, dimetro, trimetro) e lunghezza della stessa (ammezzato, scemo, pieno, sovrabbondante) produce una scala graduata senza soluzione di continuità lungo la quale si collocano, a distanze equivalenti, tutte le possibilità del sillabismo. Trissino agisce di fatto su una base astratta, su una casistica avulsa da considerazioni realistiche, salvo poi mettere in rilievo la frequenza nettamente superiore di endecasillabo e settenario; tuttavia è proprio a partire da questi presupposti che viene legittimato lo sdoganamento, almeno in via teorica, delle forme metriche non tradizionali. Ed è lo stesso Trissino a inaugurare in qualche modo l’uso del segmento di endecasillabo per se subsistens, come è definito da Dante nel De vulgari eloquentia:24 quel trisillabo che, nel trattato dantesco, era ammesso solo come parte di endecasillabo in rima interna,25 con Trissino si affranca definitivamente dalla matrice e campeggia isolato in bella mostra nella Sophonisba a ricalcare l’interiezione trenodica tipica dei finali delle tragedie greche,26 e la portata sperimentale dell’innovazione è di fatto ammessa dall’autore nella Poetica, dove viene rimarcata l’istanza classicista che sta alla base di questo tipo di scelta.27

Ad ogni modo, è verosimile che per Trissino il settenario dovesse avere, per le prime quattro sedi, le stesse caratteristiche della prima misura dell’endecasillabo, mentre per le ultime tre esso è naturalmente obbligato a ricalcare i moduli di clausola dell’ultimo metro, dell’endecasillabo come di tutti i versi volgari (nella forma piana, penultima tonica e ultima atona). In effetti, dei 241 settenari presenti nelle Rime (distribuiti fra canzoni, ballate e madrigali) sono solo 10 quelli con la prima misura antigiambica, poco più del 4%,28 confermando la preferenza per questo modulo di apertura espressa nella Poetica.29

Di versi trocaici (parisillabi) non c’è traccia nelle Rime. Anche nella Poetica, a essi è dedicato uno spazio piuttosto esiguo se si paragona alla lunga digressione sui versi giambici, sia perché si tratta di metri di gran lunga secondari rispetto a questi ultimi, sia perché i principi combinatori fra i piedi sono già stati esposti con sufficiente dettaglio a proposito dell’endecasillabo.30 Pure, un’ulteriore motivazione può essere addotta per questo squilibrio, forse più significativa. Nonostante la coincidenza instaurata fra metro trocaico e verso parisillabo, in realtà, ad eccezione dell’ottonario, di natura tendenzialmente binaria discendente, Trissino non è in grado di fornire uno schema preciso, coerente con la propria griglia teorica, per altre misure come il dodecasillabo e il senario; gli stessi versi portati ad esempio per queste ultime tipologie hanno ben poco di trocaico: nel senario «Amore mi tiene», definito “dimetro trocaico ammezzato”, secondo i criteri analitici trissiniani l’unico metron integro, il primo, sarebbe addirittura un digiambo (ămō|rĕ mī).

La cosa più interessante qui è che Trissino rappresenta l’unico testimone di versi altrimenti ignoti, come il dodecasillabo – attribuito a Guittone – «A tutte stagion, che m’avembra le membra»,31 e il già citato senario «Amore mi tiene», che Weinberg riconduce a un normale endecasillabo tratto da una ballata di Cino da Pistoia («Amor mi tiene in tanta sicuranza»). L’ipotesi non sarà del tutto da scartare, se Trissino fa immediatamente dopo riferimento a dei senari presenti in una ballata non meglio specificata di Guittone: come in altri luoghi della Poetica, egli vede con singolare facilità il “verso dentro il verso”, e qui può aver estrapolato il segmento del verso guittoniano accresciuto di una sillaba mediante il ripristino della vocale apocopata di “amore”.32 Questa grande libertà creativa va attribuita all’ansia di esaurire, tramite esempi concreti, tutte le possibilità del sillabismo: il caso limite è l’invenzione ad hoc di versi come i due ottonari presentati come esempi di variante tronca e sdrucciola: «Si farà quel che si può» e «Il dolor non sarà stabile».33

Anche a fronte di questa parziale ricognizione incrociata fra Poetica e Rime, è legittimo ravvisare un notevole scrupolo da parte di Trissino nel far collimare i precetti impartiti sulla composizione dei versi volgari con le proprie sperimentazioni pratiche, che si confermano dunque riflesso e dimostrazione di un’idea di poesia fondata sulla versificazione dei boni auctores del passato e su canoni estetici ben delineati e sistematici, al limite della riproducibilità in copia-carbone. Ciò che vale la pena ribadire è l’assoluta aderenza a una tradizione che, seppur apparentemente distorta dalla lente dell’illustrazione analogica mediante il ricorso dei piedi classici, resta senza dubbio genuinamente volgare. Trissino non è interessato a riprodurre i metri classici semplicemente perché non lo ritiene possibile, così come non pensa di certo all’endecasillabo italiano come a un verso derivato dal trimetro giambico catalettico.34 Lo dimostra il fatto che la disposizione precisa dei tempi nel trimetro giambico classico in realtà non coincide con quella dell’endecasillabo, e questo difficilmente sarebbe sfuggito a un grecista come Trissino, che ravvisava fra i due metri niente più che un’analogia nel ritmo complessivo e nel computo sillabico. Perdono dunque pertinenza le seguenti osservazioni di Iacopo Mazzoni, che legge evidentemente la teoria trissiniana sotto la lente della ratio barbara:

Hora, stimò il Trissino che il verso sdrucciolo della lingua nostra rappresentasse il Trimetro Greco e Latino, poiché ha sei piedi di due sillabe, come anchora ha il Trimetro. E però era solito di scandere il sudetto verso di Dante così: Tra l’i — — sola ∪ ∪ di Ci — — pri, e di — Maio — lica ∪ ∪, il quale non è, secondo l’uso antico d’Archiloco, Iambico, poiché non ha il piè Iambo nell’ultimo luogo, né meno è Scazonte secondo l’uso d’Hipponatte, non havendo il piè Spondeo nella fine. Né si può anche nomare Iambico conforme all’uso d’Hipponatte, non havendo il secondo piè Iambo. Bene è vero ch’egli si può nomare Iambico Asclepiadeo, havendo dato luogo al piè Iambo nella quarta sede. Ma questo non è avvenuto per necessità di regola del verso della lingua Toscana, non essendo necessario che li versi della nostra lingua habbiano l’accento nella ottava, ma sì bene o nella quarta o nella sesta. Concludo adunque che il Trissino non ha saputo ritrovare la vera et adeguata similitudine de’ versi sdruccioli della nostra lingua co’ versi Iambici della lingua Latina e della Greca, se bene vi s’accostò molto.35

Se inoltre Trissino avesse inteso praticare i generi poetici con lo stesso metro dei modelli classici, avrebbe verosimilmente utilizzato endecasillabi sdruccioli per i dialoghi dei drammi (come l’ultimo Ariosto comico) e un altro tipo di verso, più aderente all’esametro, per l’epica. Invece, anche una volta scoperta l’affinità dell’endecasillabo al trimetro giambico, ha continuato a considerare l’endecasillabo piano il verso migliore per tutti i generi poetici maggiori, e in particolare per l’epica. Francesco Patrizi, individuando la stessa analogia, ne desumeva la sostanziale inadeguatezza dell’endecasillabo come verso “alto”,36 e alla stessa conclusione perveniva Bernardino Baldi, attraverso una constatazione di non sovrapponibilità fra endecasillabo e esametro relativamente al computo dei tempi lunghi.37 Per Trissino, il peso della tradizione lirica italiana si impone perentoriamente su qualsiasi considerazione tecnica: per il volgare, il verso migliore è indubbiamente l’endecasillabo.38 Ci si può al più interrogare, come si è qui cercato di fare, se egli abbia deliberatamente impresso al suo endecasillabo una cadenza più frequentemente e marcatamente giambica rispetto a quanto non abbiano fatto gli illustri rappresentanti del suo personale canone di autori desumibile dalle pagine del trattato, e i rilievi sembrano in effetti confermare tale supposizione. Tuttavia, lo sforzo di presentarsi alla comunità letteraria come punto di riferimento teorico e pratico nel campo della nuova poesia volgare non ha certamente sortito la fortuna sperata per il letterato vicentino, che ha avuto senz’altro miglior riscontro con la sua Poetica piuttosto che con i suoi spesso maldestri componimenti in versi (si pensi all’Italia liberata). D’altra parte, se al Giovanni Pascoli commentatore della Commedia sarà velatamente (e legittimamente) consigliato di limitarsi a fare il poeta lasciando la critica letteraria agli addetti del mestiere,39 è verosimile che a Trissino si muovesse viceversa l’ammonizione di limitarsi alla teoria lasciando la pratica a chi la sapesse ben coltivare. Ma egli era spinto dal desiderio di illustrare la via ai poeti del suo tempo non meno che di additarla, un doppio poderoso sforzo vanificato dalla ben più poderosa autorità che andavano assumendo in quegli anni gli orientamenti estetici espressi dalle Prose della volgar lingua.

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1 La Pωεtica di M. Giωvan Giorgiω Trissinω, Vicenza, Gianicolo, 1529 (d’ora in poi Poetica 1529) e La quinta e la sesta divisione della Poetica del Trissino, Venezia, Arrivabene, 1562 (d’ora in poi Poetica 1562). Per la riflessione teorica trissiniana in ambito linguistico-letterario cfr. Marvin T. Herrick, Trissino’s Art of Poetry, in Richard Hosley (a cura di), Essays on Shakespeare and Elizabethan Drama in honour of Hardin Craig, Londra, Routledge & Kegan Paul, 1963, pp. 15-22; Piero Floriani, Grammatici e teorici della letteratura volgare, in Storia della cultura veneta, vol. III.2, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 139-81; Id., I gentiluomini letterati. Il dialogo culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori, 1981; Maria José Vega, La poética hermogénica renacentista: Giovan Giorgio Trissino, in «Castilla», 16 (1991), pp. 169-88; Hermann Grosser, La sottigliezza del disputare. Teorie degli stili e teorie dei generi in età rinascimentale e nel Tasso, Firenze, La Nuova Italia, 1992; Antonio Daniele, Sulla Poetica di Giovan Giorgio Trissino, in Id., Linguaggi e metri del Cinquecento, Rovito (CS), Marra, 1994, pp. 111-41; Enrico Musacchio, Il poema epico ad una svolta: Trissino tra modello omerico e modello virgiliano, «Italica», 80, 3 (2003), pp. 334-52.

2 Rime del Trissino, Vicenza, Gianicolo, 1529 (d’ora in poi Rime). Il canzoniere gode di un’edizione curata da Amedeo Quondam (Giovan Giorgio Trissino, Rime 1529, a cura di Amedeo Quondam, Vicenza, Neri Pozza, 1981); una nuova edizione critica e commentata ha costituito il lavoro dottorale di Francesco Davoli (Università Ca’ Foscari, Venezia), recentemente discusso e di prossima auspicabile pubblicazione.

3 Cfr. Rime LXXVIII e LXXIX. Cfr. Gabriella Milan in G. G. Trissino, Rime 1529, cit., pp. 55-57; Johannes Bartuschat, Fra Petrarca e gli antichi: le Rime e la Poetica di Gian Giorgio Trissino, in Vittorio Caratozzolo e Georges Güntert (a cura di), Petrarca e i suoi lettori, Ravenna, Longo, 2000, pp. 179-200, in particolare pp. 198-99: «Trissino […] chiude il suo canzoniere con […] la riscrittura di due egloghe di Teocrito. La loro collocazione in conclusione della raccolta conferma il peso determinante di modelli antichi nelle Rime. Il culto di Teocrito, come quello di Pindaro, è una conquista umanistica […]. Nella letteratura della fine del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento l’autore è ben presente: influssi di Teocrito si trovano nella poesia bucolica latina e in quella volgare […]. Ma a nostra conoscenza Trissino è il primo autore volgare ad imitare le sue poesie in modo così fedele. In tal modo, Trissino scarta la tradizione volgare della poesia bucolica, rappresentata da Alberti, Boiardo e Lorenzo, ma anche il grande modello contemporaneo, l’Arcadia di Sannazaro».

4 Poetica 1562, c. 45r.

5 Cfr. Poetica 1562, c. 25v: «Io poscia, volendo scrivere in questa lingua la nostra Italia liberata da’ Gotti, la quale è materia d’arme, ho voluto lasciare le terze rime che trovò Dante e parimente le ottave trovate dal Boccaccio. Perciò che non mi pareno atte a materia continuata, sì per lo accordare spesso le desinenzie dalle quali nasce una certa uniformità di figure, sì eziandio perché in esse si convien sempre avere relazione da dui versi a dui versi, o ver da tre a tre, o da quattro a quattro, o da otto a otto, e simili; la qual cosa è totalmente contraria alla continuazione della materia e concatenazione dei sensi e delle construzioni».

6 Cfr. la dedica a papa Leone X premessa alla Sophonisba: «Quantω […] a ’l nωn haver per tuttω accωrdate le rime […], iω mi persuadω che, se a Vostra Beatitudine nωn spiacerà di vωler alquantω le ωreckie a tal numerω accωmmωdare, che lω trωverà ε miljωre ε più nobile ε forse men facile ad asseguire di quellω che per aventura ὲ reputatω. Ε lω vederà nωn sωlamente ne le narraziωni εt ωraziωni utilissimω, ma ne ’l muover cωmpassiωne necessariω; percioché quel sermωne il quale suol muover questa, naʃce da ’l dωlωre, εt il dωlωre manda fuori nωn pensate parole, ωnde la rima, che pensamentω dimωstra, ὲ veramente a la cωmpassiωne cωntraria».

7 Arist. Poet. 1447a 29-1447b 2. Si tratta del passo in cui compare il problematico sintagma «τοῖς λόγοις ψιλοῖς» (letteralmente “parole nude”, dunque sprovviste di ritmo e armonia) associato, nei codici, a «ἡ δὲ ἐποποιία» (la poesia epica).

8 Il netto successo registrato dalla prima soluzione, avallata dall’autorità dell’Ariosto e, successivamente, del Tasso, può essere paragonato a quanto Bembo conseguì in ambito lirico. Fra i partigiani della terzina va annoverato, fra gli altri, Bernardino Daniello, mentre alla causa del verso sciolto hanno portato il proprio contributo, oltre al Trissino dell’Italia liberata, Luigi Alamanni e Girolamo Muzio, ma mostrano un certo apprezzamento per questa causa anche Carlo Lenzoni, Girolamo Ruscelli e lo stesso Tasso padre, il quale si rammarica apertamente, in una lettera a Luigi D’Avila, di non aver composto l’Amadigi in sciolti (cfr. Li due libri delle lettere di M. Bernardo Tasso, intitolati a Monsig. D’Aras, Venezia, Valgrisi, 1557, cc. 196-97).

9 La maggior parte di questi trattati prendono le mosse proprio dalla Poetica di Trissino: si pensi agli scritti di Giovan Battista Giraldi Cinzio, all’Arte poetica di Antonio Minturno, alla Difesa della Comedia di Dante di Iacopo Mazzoni o al dialogo Il Tasso di Bernardino Baldi.

10 La diffusione del trattato dantesco e l’affermazione definitiva della sua paternità sono dovute, come noto, allo stesso Trissino. Egli era venuto in possesso di un manoscritto contenente il De vulgari, l’attuale Trivulziano 1088, risalente alla fine del XIV secolo. Non ci è dato conoscere i dettagli dell’acquisizione: sappiamo che essa risale ai primi anni del pontificato di Leone X (1513-14) e che Trissino divulgò in forma orale il contenuto del codice a Roma, a partire dal suo soggiorno presso la corte di Clemente VII nel 1524 (non già dieci anni prima, come supponeva Pio Rajna). Cfr. Carlo Dionisotti, Machiavellerie, Torino, Einaudi, 1980, pp. 288-303; Claudio Marazzini, Le teorie, in Luca Serianni e Pietro Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana, vol. I, Torino, Einaudi, 1993, pp. 231-329, in particolare p. 252; Stefano Gensini, Dante, Trissino e l’identità della lingua, in «Studi filosofici», 27 (2004), pp. 69-99, in particolare p. 78; Francesco Montuori in Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di Enrico Fenzi, Roma, Salerno, 2012, pp. 445-46. Per le fonti della prima divisione, oltre a Dante, va menzionato Ermogene, la cui opera sugli stili (De ideis) è di fatto compendiata, volgarizzata e inglobata nel discorso sulle forme di dire.

11 Sul complesso sistema trissiniano di analisi della struttura metrica del verso volgare si veda Nicolò Magnani, La teoria della composizione del verso nella Poetica di Giangiorgio Trissino, in Martina Dal Cengio e Nicolò Magnani (a cura di), I versi e le regole. Esperienze metriche nel Rinascimento italiano, Ravenna, Longo, 2020, pp. 179-91.

12 Aldo Menichetti, Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore, 1993, p. 53. Cfr. anche Ermanno Ciampolini, La prima tragedia regolare della letteratura italiana, Firenze, Sansoni, 1896, p. 8; Michel Burger, Recherches sur la structure et l’origine des vers romans, Ginevra-Parigi, Droz-Minard, 1957, pp. 17-19; Marina Nespor, Irene Vogel, Prosodic Phonology, Dordrecht-Riverton, Foris, 1986, pp. 275-277; Marco Praloran, Arnaldo Soldani, Teoria e modelli di scansione, in Marco Praloran (a cura di), La metrica dei Fragmenta, Roma-Padova, Antenore, 2003, pp. 3-123, in particolare pp. 7-12; Giovanni Orlandi, La metrica barbara nel ’500 e il tentativo di Bernardino Baldi, in Elio Nenci (a cura di), Bernardino Baldi (1553-1617) studioso rinascimentale: poesia, storia, linguistica, meccanica, architettura, Atti del Convegno di studi di Milano (19-21 novembre 2003), Milano, FrancoAngeli, 2005, pp. 95-113, in particolare pp. 95-96; Pietro G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 20115, p. 30. Sui limiti dell’applicazione delle categorie ritmiche classiche alla poesia italiana cfr. Mario Pazzaglia, Manuale di metrica italiana, Firenze, Sansoni, 1990, pp. 38-39.

13 Per la poesia francese vale ovviamente l’opposto, data la natura ossitona della lingua. Cfr. M. Burger, Recherches cit., p. 17: «Ainsi, de même que nous parlerons du rythme ascendant du vers iambique, nous parlerons du rythme ascendant des verses de nombre pair; de même que nous parlerons du rythme descendant du vers trochaïque et de l’hexamètre, nous parlerons du rythme descendant des vers de nombre impair».

14 Lo stesso farà Iacopo Mazzoni nella sua Difesa della Comedia di Dante: «[…] è homai tempo di sciegliere quel verso che noi crediamo esser proprio della Comedia. Et in questo diciamo arditamente che non è verso che più le convenga dello sdrucciolo, in che è questa lingua obligata molto all’Ariosto, che fu il primo che usò questa specie di verso nelle Comedie. Percioché fra tutti è egli similissimo al verso Iambico Latino, poiché l’uno e l’altro contiene dodici sillabe e l’uno e l’altro può havere per regola la quarta sillaba lunga» (Iacopo Mazzoni, Della difesa della Comedia di Dante. Libro secondo, a cura di Sara Petri e Claudio Moreschini, Cesena, Società di Studi Romagnoli, 2018, p. 289).

15 «Ecco apparir chi vuole in lingua tosca / Far risonare e dattili e spondei – / E dattili non forma né spondei. / Che quai leggi son queste? e quai misure / Son queste da servar? se senza legge, / senza misura corron vostri piedi […]. / Non puote orecchia aver giudicio saldo / Di quantità e di tempo, ove la lingua / De l’accento conviene esser seguace. / E pur senza ’l mio dir vi de’ esser noto / Che ne’ versi de’ tempi al tempo dee / Ceder l’accento, e voi presso agli accenti / Vi mettete ad andar con passi torti» (vv. 245-50; 261-67).

16 «E per dir de le rime senza rima, / Vo’ che sappi, lettor, che d’altro verso / Forma alcuna non ha donde ’l tuo stilo / Meglio si possa fare alto e soave» (vv. 1089-92). Per l’influenza esercitata dalle tesi trissiniane sul pensiero di Muzio cfr. Luciana Borsetto, Tra normalizzazione e sperimentazione: appunti sulla questione del verso, in Guido Baldassarri (a cura di), Quasi un picciol mondo. Tentativi di codificazione del genere epico nel Cinquecento, Milano, Unicopli, 1982, pp. 91-127, in particolare p. 100.

17 Le statistiche riportate di seguito sono elaborate sulla base della consuetudine trissiniana, qui sopra illustrata, di considerare sillabe toniche anche i monosillabi atoni, ivi compresi quelli proclitici, di fatto privi di peso sillabico, onde verificare con la maggiore affidabilità possibile la sovrapposizione fra teoria e pratica. Tale scelta non si risolverà necessariamente in una distorsione nel computo delle tipologie ritmiche dell’endecasillabo, in quanto è presumibile che secondo la sensibilità di Trissino tali monosillabi andassero effettivamente pronunciati con un’enfasi paragonabile a quella delle sedi legittimamente forti, alla maniera dell’esecuzione della poesia classica che ammetteva soluzioni spesso apparentemente disagevoli nella successione dei tempi sillabici. L’inconveniente maggiore nell’adozione di questo criterio andrà visto piuttosto nella difficoltà di paragonare adeguatamente tale ricognizione statistica con quelle operate su altri canzonieri secondo il sistema degli ictus, prima fra tutte quella condotta su Petrarca da Marco Praloran (Marco Praloran, Figure ritmiche nell’endecasillabo, in La metrica dei Fragmenta cit., pp. 125-189).

18 Rime III 1, 7, 11; IV 4; V, 3; VIII 4, 12; X 4, 14; XI 1, 4, 5, 12, 14; XII 12; XIII 11, 13, 29; XIV 3; XVII 13; XVIII 12, 13; XX 6; XXIII 1, 7, 9, 12, 13; XXIV 7; XXV 8, 14; XXVI 13; XXVII 2; XXVIII 1, XXX 2, 12; XXXI 3, 7, 19, 48; XXXIII 25, 39; XXXIV 14; XXXV 5, 10; XXXVI 4; XXXVII 8; XXXVIII 5; XL 4; XLI 3; XLII 6, 11; XLIII 7, 13; XLIV 7, 10; XLV 14, 52, 74, 86; XLVI 2; XLVIII 2; LII 11; LIII 8, 18; LV 8, 32, 35, 41, 43, 49, 62, 86; LVI 1, 2, 9, 10, 14; LVII 11; LIX 2, 9, 14, 17, 50, 54, 57, 101; LXI 4; LXIII 3, 5; LXIV 3, 10, 40, 49; LXV 8, 11, 15, 22, 37, 73; LXVIII 2; LXX 2, 6, 8; LXXI 9; LXXII 22, 26; LXXVI 2, 22, 33, 36, 41, 66; LXXVII 14, 31, 48; LXXVIII 60, 61, 71, 72, 76, 88, 127, 166, 168, 171; LXXIX 4, 30, 43, 55.

19 Rime II 4; VI 2; XXI 6; XXV 9; LV 17; LVII 3; LIX 51; LXV 46; LXVIII 11; LXIX 32; LXXVIII 163; LXXIX 47.

20 Rime X 12; XXVIII 12; XXXVII 4; XLV 79; LXIV 37; LXXII 4; LXXIII 10.

21 Cfr. M. Praloran, Figure ritmiche dell’endecasillabo cit., p. 88. Si tenga però presente che alcuni di questi versi andrebbero computati al modo trissiniano fra quelli con almeno una sillaba tonica in seconda o quarta sede, per via dei monosillabi ininfluenti.

22 Valga qui il discorso inverso alla nota precedente: volendo annettere al computo di questi versi gli endecasillabi che, pur avendo un monosillabo ininfluente in sede pari, presentano di fatto un attacco antigiambico, il numero salirebbe a 273, ovvero il 14,5% del totale, una percentuale assai vicina a quella registrata in Petrarca.

23 Esso è così definito, ad esempio, da Bembo (cfr. Trattatisti del Cinquecento, a cura di Mario Pozzi, vol. I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1978, p. 78 e passim), da Dolce (Lodovico Dolce, I quattro libri delle Osservationi, a cura di Paola Guidotti, Pescara, Libreria dell’Università, 2004, p. 474), da Minturno (cfr. Antonio Minturno, Arte poetica, Venezia, Valvassori, 1563, p. 68), da Giraldi Cinzio (cfr. Giovan Battista Giraldi Cinthio, Discorsi intorno al comporre, a cura di Susanna Villari, Messina, Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, 2002, p. 253) e da Varchi (cfr. Lezzioni di M. Benedetto Varchi Accademico Fiorentino, Firenze, Giunti, 1590, p. 638). Iacopo Mazzoni parla di «versi mozzi» (I. Mazzoni, Della difesa cit., p. 233).

24 Cfr. DVE II xii 8: «Minime autem trisillabum in tragico videtur esse sumendum per se subsistens: et dico “per se subsistens” quia per quandam rithimorum repercussionem frequenter videtur assumptum».

25 Dante cita come esempi i casi di Donna me prega e Poscia ch’amor del tutto m’ha lasciato. I trattati di poetica rinascimentali prediligono, a illustrazione del fenomeno, la canzone petrarchesca Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi (RVF XXIX), il cui quarto verso di ogni strofa presenta una rimalmezzo in terza sede; non fa eccezione Trissino, che tuttavia si sofferma sulla rimalmezzo in quinta sede del sesto verso di ogni strofa (cfr. Poetica 1529, c. XVIIr).

26 Cfr. Sophonisba, vv. 1927, 1930-31, 1935-37: «Ohimεi!».

27 Cfr. Poetica 1529, c. XVIIv: «Ma nωi, restringεndω questa rεgωla, dicemω che ’l dimetrω ε trimetrω ʃcemi sωnω in frequentissimω uʃω, i piεni εt ameçati εt il monometrω sωprabωndante in rarissimω, bεnché iω ho uʃatω il monometrω ʃcemω ne la tragεdia, ωve si piange, ad imitaziωne de i Grεci».

28 Rime V 10, 12; VII 9; XIII 35; XIX 2, 7; XXXI 59; LXIV 28; LXXIV 5; LXXVI 37.

29 Cfr. Poetica 1529, c. XVv. Anche in questo caso può essere opportuno affiancare il dato con un quadro più realistico, ignorando i monosillabi atoni, per cui il computo salirebbe a 30 (comprendendo i seguenti versi: V 5, 6; XIII 33, 38, 43, 59; XXXI 28, 66; LII 5; LIX 34, 64, 88, 94 2; LXXII 25; LXXIV 1, 3; LXXVI 63, 76; LXXVII 51), pari al 12,4%.

30 «Ogniuna de le sωpradette sedeci miʃure overω piεdi quadrisyllabi ὲ ne i nostri vεrsi utile alcuna volta. Ma per cωnωʃcere mεljω questω che si ὲ dettω, lω cωnsidereremω ne ʼl trimetrω jambicω, il quale notω che sia, farà che lji altri sarannω di facilissima cωgniziωne» (Poetica 1529, c. XVv).

31 Cfr. Silvia Finazzi, Una testimonianza della fortuna di Guittone nel Trecento: il caso di Gregorio d’Arezzo, in «L’Ellisse», 4 (2009), pp. 47-63, in particolare p. 59.

32 Stesso discorso per il quadrisillabo/monometro trocaico «E l’amanza», citato poco sopra, che è in realtà il primo emistichio di un ottonario tratto dal discordo di Bonagiunta Quando veggio la rivera, il cui primo verso è presentato normalmente, nello stesso contesto, come dimetro trocaico.

33 Cfr. Poetica 1529, c. XVIIv.

34 Come si vorrebbe in Enrico Proto, recensione a Ermanno Ciampolini, La prima tragedia regolare della letteratura italiana, Firenze, Sansoni, 1896, in «Rassegna critica della letteratura italiana», 2 (1897), pp. 66-71, in particolare p. 67. Cfr. anche E. Ciampolini, La prima tragedia regolare cit., p. 9.

35 I. Mazzoni, Della difesa cit., pp. 230-31.

36 Cfr. La poesia barbara nei secoli XV e XVI, a cura di Giosuè Carducci, Bologna, Zanichelli, 1881, p. 443: «Nella lingua italiana non ha dubbio veruno che il luogo del giambo greco prese l’endecasillabo, che si usa, così corre egli in su la lingua altrui, senza essere sentito. Ma nel luogo dell’eroico, non è ancora venuto in questa lingua verso alcuno che sia creduto meritamente occupar quel luogo». Cfr. L. Borsetto, Tra normalizzazione e sperimentazione cit., p. 105.

37 Cfr. G. Orlandi, La metrica barbara nel ’500 cit., p. 110; Guido Arbizzoni, Sperimentalismo poetico di Bernardino Baldi, in Giacomo Cerboni Baiardi (a cura di), Seminario di studi su Bernardino Baldi urbinate (1553-1617), Urbino, Accademia Raffaello, 2006, pp. 19-40, in particolare pp. 22-23.

38 Cfr. Alberto Castelvecchi in Giovan Giorgio Trissino, Scritti linguistici, a cura di Alberto Castelvecchi, Roma, Salerno, 1986, p. XVI: «Il traguardo culturale […] era quello di una nuova Ellade: era però un’Ellade da realizzarsi in forme italiane, e con cui si dava un rapporto non puramente ripetitivo di forme e concetti, ma analogico».

39 L’appunto polemico gli venne, non a caso, da uno dei maggiori specialisti danteschi della scuola filologica fiorentina, Ernesto Giacomo Parodi: «Io, che ho la più grande stima dell’ingegno (e dell’animo) del Pascoli, e da essa ho tratto il coraggio di parlargli, come si conviene, con libera franchezza, e che ammiro sopratutto il Pascoli poeta […], desidero e spero di poter presto ammirare schiettamente e lodare anche il Pascoli critico. Ma in questo volume, nel quale son pur molte cose o buone o suggestive, quella men felice inclinazione del suo ingegno, tenuta di solito a freno nella poesia, s’è vendicata di lui prendendogli la mano, e s’è sbizzarrita liberamente» (Ernesto Giacomo Parodi, recensione a Minerva Oscura, in «Rassegna bibliografica della letteratura italiana», 8 (1900), pp. 23-32, in particolare p. 32.