Revue Italique

Ricezione dei classici

OJ-italique-941

Ricezione dei classici. Introduzione

Silvia D’Amico

A me pare che anche negli altri paesi europei chiunque non può sollevarsi alla lettura d’Omero originale, debba nella traduzione italiana prenderne il meglio possibile di conoscenza e di piacere.1

Questo autorevole e noto giudizio di Madame De Staël sull’Iliade di Vincenzo Monti, contiene due spunti di riflessione che possono rivelarsi suggestivi per introdurre il tema delle traduzioni dei classici nel Cinquecento cui è dedicata la sezione tematica di questo numero di Italique.

Innanzitutto, dando per scontato che le traduzioni all’inizio dell’Ottocento avevano una circolazione europea e che chiunque poteva godere, per esempio, della lettura dell’Iliade e dell’Eneide nelle traduzioni italiane del Monti e del Caro, quale che fosse la sua lingua madre, Madame de Staël aiuta a mettere a fuoco uno scenario più vasto: i classici tradotti, che trovavano accogliente collocazione nelle biblioteche straniere senza limiti di frontiere linguistiche, hanno costituito di fatto per secoli l’architrave di un patrimonio letterario europeo condiviso, contribuendo a creare un laboratorio plurilingue permanente accessibile a tutte le persone di cultura.

Madame de Staël parla anche di «conoscenza» e «piacere»: le traduzioni costituivano senza dubbio una fonte di apprendimento dei contenuti trasmessi dall’autore classico, per «sollevarsi alla lettura» del quale il lettore europeo poteva non avere le cognizioni linguistiche sufficienti, ma erano anche – e dovevano forse essere soprattutto – una fonte di piacere, conferma dell’importanza imprescindibile di quel «maraviglioso diletto» evocato da Gabriele Bucchi nel titolo del suo libro di riferimento sulle traduzioni di Ovidio nel Cinquecento.

Tra queste due istanze, rendere accessibili i classici e proporre un’opera destinata ad allargare la «conoscenza» e a suscitare «piacere», si muovono tutti i traduttori cinquecenteschi esaminati nei nove saggi di questa raccolta dedicata al tema delle traduzioni dei classici nell’Italia del Rinascimento.

Il numero si apre con un saggio di Jean Balsamo che, in appendice, riporta l’inedita lista dei volgarizzamenti presenti nelle collezioni di Albert-François Floncel (1697-1773) e di Maffeo Pinelli (1736-1786). Questo elenco prezioso permette di constatare l’importanza accordata alle traduzioni dei classici sia in Italia che in Francia e l’opportunità di studiare la presenza di questi testi nelle collezioni dell’Ancien Régime al fine di individuare un vero e proprio canone, letterario e bibliofilico, di queste traduzioni, di cui sarà d’ora in poi interessante tenere conto per integrare e, forse, riconsiderare alcuni aspetti del canone degli autori in lingua volgare che tanto ha attirato l’attenzione della critica negli ultimi decenni.

Segue la presentazione di alcuni esempi di traduzioni di umanisti del secolo quindicesimo, la cui ambizione era dialogare «alla pari» con gli antichi (Rolet, Nassichuck), per arrivare ai poligrafi della seconda metà del Cinquecento, che affrontavano l’impegno della traduzione-riscrittura con lo sguardo rivolto al pubblico del mercato editoriale e con una libertà verso il testo antico che arriva talvolta fino all’ignoranza della lingua di partenza (soprattutto del greco, ça va sans dire). Lodovico Dolce, com’è lecito aspettarsi, occupa uno spazio centrale (Balsamo, Bovi, Giazzon, Savoretti), mentre completano il quadro alcuni affondi su altri due personaggi di primissimo piano per il tema della ricezione dei classici nel Rinascimento italiano, Giovan Giorgio Trissino, in prima linea per lo zelo profuso nell’articolazione congiunta di teoria e prassi poetica e traduttiva (Davoli, Magnani) e il Caro che, traducendo l’Eneide «per ischerzo», realizza, quasi suo malgrado, il sogno di un’intera generazione di scrivere un’epopea in italiano emozionante e trascinante al pari di quelle antiche (Cosentino). L’insieme di questi contributi mostra come attorno alle idee e alle formule fondatrici della nostra cultura, ogni traduttore si sia posizionato facendo appello a talenti, competenze e metodi diversi. Nello stesso tempo, però, proprio l’eterogeneità dei contesti e degli scopi che ha implicato, va da sé, il ricorso ad approcci critici vari, consente di identificare con maggiore efficacia punti di contatto significativi e talora inaspettati tra le varie traduzioni e di valutare appieno l’importanza di alcuni fenomeni ricorrenti che si rischierebbe di trascurare o comunque di non apprezzare pienamente restando nel perimetro di ogni caso isolato.

Si chiarisce così la preminenza di alcune linee di forza comuni che trascendono la pratica meramente traduttiva, per sconfinare, da un lato, nel campo della scrittura fondata sul processo imitativo del rifacimento, e dall’altro in quello della riflessione teorica, in particolare a proposito delle scelte metriche, cui dedicano ampie e approfondite analisi tutti gli autori e in particolare Francesco Davoli e Nicolò Magnani.

Intertestualità circolare

Il fatto che la traduzione dei classici nel Cinquecento non sia una scrittura statica sembra generalmente acquisito. Che si tratti di Catullo (Bovi), di Orazio (Savoretti), di Ovidio (Giazzon) o di Virgilio (Cosentino, Giazzon) il processo traduttivo innesca un circuito intertestuale complesso e vivo, a più dimensioni, dove viene mobilitata una massa di memorie poetiche diverse. La traduzione offre pertanto un osservatorio privilegiato per studiare l’atto imitativo tout court, il modo in cui si inventa il rifacimento del testo classico. La traduzione rende infatti trasparente il funzionamento dell’allusione come riuso, che spesso non avviene all’interno di un sistema biunivoco, monodirezionale, non si esaurisce – e in fondo, proprio non si gioca – solo tra testo antico e traduttore, ma all’interno di una costellazione di testi, nell’orbita di una sorta di campo quantico di informazioni, dove ogni elemento è connesso con tutti gli altri e dove passato, presente e futuro sono in continua reciproca oscillazione e interdipendenza.

Il carattere «non inerziale» del processo imitativo, approfondito anche nei risvolti critico-teorici da Stefano Giazzon, trova esempi concreti in tutti gli studi della presente raccolta. Giandamiano Bovi offre un campione probante del fenomeno di questa particolare forma di intertestualità pluridimensionale studiando la traduzione di Lodovico Dolce di un testo fortunato come il Carme 64 di Catullo. Nel momento in cui traduce l’episodio archetipicamente fondante di Arianna abbandonata, Dolce non può non integrare nella trama allusiva anche l’interpretazione ovidiana contenuta nella decima epistola delle Heroides. Ma se il rapporto verticale con il testo di partenza è inevitabilmente stratificato laddove esistono più fonti (come avviene per tutte le riscritture rinascimentali degli episodi mitici più noti di cui esistono molteplici versioni antiche), parimenti, il traduttore non può ignorare le riscritture più famose dei suoi contemporanei che a quelle stesse fonti si sono ispirati fondendo a loro volta i vari modelli nelle loro interpretazioni. Nel caso di Arianna abbandonata, per continuare con questo esempio, il modello cinquecentesco è l’Olimpia ariostesca (OF X 10-34) che interagisce con i testi classici nel campo di informazione del traduttore. Ariosto aveva costruito la sua trama allusiva sovrapponendo tessere testuali catulliane e ovidiane e quindi le due fonti riappaiono insieme nel filtro delle rielaborazioni cinquecentesche influenzate dal suo poema. L’episodio di Arianna evoca anche un intertesto pittorico, che aggiunge un’ulteriore informazione: attraverso le descrizioni e i commenti dei dipinti, le interpretazioni dei pittori, così vistosamente presenti nell’immaginario, entrano anch’esse a far parte del circuito intertestuale delle traduzioni (Bovi). È questo un aspetto che potrà essere approfondito e ampliato ad altri autori negli studi a venire, a cominciare, per esempio, dal rapporto tra le traduzioni di Omero e le interpretazioni pittoriche.

Il mosaico intertestuale si infittisce anche studiando l’Eneide del Caro. Paola Cosentino, attraverso l’analisi di questa traduzione, mette a fuoco una forma di imitatio molto particolare: il capolavoro del Caro è il risultato di un esercizio di riscrittura dove si avverte l’eco degli altri traduttori di Virgilio e soprattutto degli autori della tradizione italiana, Ariosto in primis. L’esempio dell’episodio di Eurialo e Niso, nel quale si legge in filigrana quello di Cloridano e Medoro, analizzato nel dettaglio del complesso procedimento allusivo, è ripreso e riprecisato con metodo diverso anche da Francesco Davoli, che, come Paola Cosentino, non tralascia di evocare la traduzione del Varchi di questi versi, attirando l’attenzione su un episodio finora poco studiato, ma in realtà molto istruttivo per capire meglio questi esercizi di traduzione.

A proposito della traduzione delle Satire, Moreno Savoretti ritrova lo stesso sistema allusivo tra Orazio e Ariosto e precisa come, essendo il frutto di questo processo imitativo particolare, la traduzione diventi uno specchio eloquente del modo di leggere Orazio del pubblico dei contemporanei del Dolce, finendo per essere anche una sorta di perenne commento, che segnala al pubblico quali prestiti fossero stati fatti dai poeti attraverso i secoli, secondo il procedimento abituale dei commentatori cinquecenteschi in calce alle edizioni dei testi classici. I traduttori svolgono la stessa funzione di segnalazione e spiegazione delle fonti e delle riprese dei commentatori, ma all’interno stesso della pratica della scrittura. Moreno Savoretti fa notare del resto che Dolce conosceva sicuramente anche i commenti a Orazio, di cui indica le tracce rilevabili nella traduzione. Facendo un passo indietro nel tempo, anche la traduzione manoscritta in latino dei canti I e VII dell’Iliade dell’umanista veronese Virgilio Zavarise nella seconda metà del XV secolo mostra la volontà del traduttore di nutrire il suo esercizio di fonti latine ricche e diverse, per non limitarsi all’unico modello dell’esametro virgiliano (Nassichuck).

Possiamo quindi osservare che la traduzione rinascimentale è innanzitutto, fin dalle prime prove degli umanisti, l’espressione di un dialogo, di una forma dialettica specifica che si esprime attraverso il tessuto poetico. Questa valenza dialogica andrà indagata ulteriormente in studi futuri, identificando le relazioni delle fonti classiche tra loro e i fili che intrecciano nella trama testuale le fonti cinquecentesche, le riscritture, le ekphraseis e i commenti in modo più o meno originale, ma comunque mai scontato.

Metrica

Le scelte metriche sono cruciali per l’orientamento del tono, la scelta del genere, il posizionamento rispetto alla tradizione dell’opera che il traduttore presenta al suo pubblico. Molti approfondimenti sono ancora possibili e senz’altro necessari anche in questa direzione. Dagli studi sul Dolce che esita tra ottava ed endecasillabo sciolto nella traduzione delle Satire (Savoretti) e si esprime attraverso l’ottava nella riscrittura epica (Giazzon), al Caro che offre l’esempio più compiuto del secolo di endecasillabo sciolto, cui arriva non senza esitazioni (Cosentino), emergono in questa raccolta osservazioni e spunti che costituiscono un sicuro passo avanti metodologico su questo aspetto.

Nicolò Magnani e Francesco Davoli si addentrano con perizia e precisione magistrali nei raffinati meandri del laboratorio metrico trissiniano, dove allo studio tecnico, teorico e pratico, dei versi degli antichi corrisponde una volontà di trasposizione in volgare dei ritmi classici, che induce alla considerazione che anche per la metrica – coerentemente con quanto studiato negli altri saggi a proposito del circuito della memoria poetica dove, come negli esempi del Dolce o del Caro, la tradizione italiana lascia segni vistosi –, «il peso della tradizione lirica italiana si impone perentoriamente su qualsiasi considerazione tecnica» (Magnani), facendo riconoscere la superiorità dell’endecasillabo su tutti gli altri versi.

Oltre allo studio del Trissino, Francesco Davoli offre un’analisi esemplare dello sperimentalismo metrico di altri autori, segnatamente Alamanni, Amomo, Muzio, Varchi e Caro, che si sono confrontati con il corpus theocriteum, fornendo un esempio di utilizzazione di strumenti critici innovativi che tengono conto anche degli altri elementi strutturanti del verso, di carattere retorico o fonico. La coerenza di un insieme così coeso di testi di partenza, il corpus theocriteum, rende possibile e produttivo il confronto tra autori diversi e il saggio si può considerare come un esempio di metodo per studi ulteriori.

La stessa serietà ed eleganza di analisi si ritrova nello studio del passaggio dalla metrica greca a quella latina: Anne Rolet, nell’analisi esaustiva dell’inedita traduzione di 14 epigrammi dell’Antologia Planudea offerta dal bolognese Giovanni Battista Pio a Leone X a completamento dell’edizione del De reditu suo di Rutilius Namatianus (1520), osserva, attraverso la lente di ingrandimento della versificazione, i metodi traduttivi di un umanista di rilievo al lavoro per allestire il proprio omaggio cortigiano al più illustre dei destinatari.

La studiosa ricostruisce la trasposizione in latino dei versi greci sillaba per sillaba e mostra come gli umanisti ponevano dei problemi di traduzione molto sofisticati, cercando con esigenza soluzioni adeguate. Si era così aperto, fin dall’inizio del Quattrocento, un campo di ricerca che non è affatto chiuso nel momento in cui gli esametri, latini e greci, cominciano a essere tradotti in volgare, basti pensare ai successivi esperimenti metrici evocati segnatamente a proposito del Trissino e dell’Alamanni (Davoli, Magnani).

Anche nelle prime traduzioni di Omero in latino, come dimostra John Nassichuck, si constata che l’analisi della metrica, e più precisamente lo studio della posizione di ogni singola parola tradotta all’interno dell’esametro latino, è un indicatore importante per capire le scelte del traduttore e si rivela uno strumento pertinente per confrontare le prime traduzioni latine di Omero tra loro.

Dediche

Perchè, si chiede Stefano Giazzon, per forme di scritture così elaborate non c’è stata nel Cinquecento un’adeguata struttura teorica che accompagnasse con una consapevolezza esplicita la pratica della traduzione come riscrittura? In effetti, a parte qualche eccezione citata nel suo saggio, la sede di riflessione sulla traduzione sono rari paratesti, e segnatamente le dediche, dove i traduttori si esprimono sul proprio lavoro e definiscono la postura del lettore al cui giudizio sottopongono esplicitamente il risultato delle loro fatiche.

Anne Rolet analizza la dedica a Paolo III, dove Giovanni Battista Pio riflette sull’attitudine del lettore, che è invitato a giudicare il testo, comparando il greco e il latino. La traduzione, quindi, esige che il lettore prenda parte attiva nell’esercizio di «imitazione», compiendo anche una sorta di allenamento morale alla virtù, sempre necessaria per esprimere un giudizio.

Anche Dolce esplicita per le Satire uno scopo di formazione morale del lettore. I contesti sono diversissimi, ma può essere interessante notare che l’attitudine «impegnata» richiesta al lettore è paragonabile anche a un secolo di distanza.

Il tema dell’effetto della stampa sulle traduzioni, che non può evidentemente mai essere sottovalutato e viene quindi evocato in tutti i saggi, si rivela in alcuni casi una chiave di lettura dirimente per spiegare le scelte del traduttore. Anne Rolet evidenzia in effetti l’influenza dell’edizione aldina del 1503 degli epigrammi dell’Antologia Planudea sulla presentazione dell’antologia allestita da Giovanni Battista Pio; Moreno Savoretti spiega come proprio il rapporto diretto tra editore e lettore, fondamentale per un personaggio come il Dolce, permetta di chiarire l’oscillazione tra i due poli del diletto e dell’utilità. L’esempio della traduzione di Orazio identifica due movimenti diversi: da un lato, lo scopo, cioè il successo editoriale, rimane identico quale che sia il genere classico tradotto (il genere didascalico dell’Ars Poetica, le Satire oppure l’epica), dall’altro le traduzioni di Orazio del poligrafo rivelano il cambio di attitudine secondo l’opera tradotta, passando dal «giovamento» al «piacere» con studiata attenzione al lettore attraverso la dedica.

Modelli tipografici

Dai manoscritti alla stampa, dal greco al latino e dal latino al volgare, i testi tradotti si trasformano e viaggiano non solo attraverso i generi e i supporti di lettura, ma anche da un paese e da una lingua all’altra, esportando modelli di esperimenti editoriali.

Seguendo le traduzioni si può viaggiare nelle biblioteche europee, ed è un viaggio appassionante ancora quasi interamente da compiere. Le traduzioni possono infatti disegnare itinerari nuovi attraverso generi letterari diversi: la traduzione è un filo che permette di studiare alcuni procedimenti compositivi ed editoriali specifici, che svelano le fonti stesse della composizione. Anne Rolet segnala l’importanza del modello della raccolta dei Progymnasmata di Thomas More e John Lily (Basilea, 1518) per la presentazione degli epigrammi offerti a Leone X, mentre Jean Balsamo offre l’esempio probante del volume delle Opere di Lodovico Martelli, pubblicato a Firenze nel 1548, che include la traduzione del IV dell’Eneide e fa da modello a Du Bellay per la sua raccolta poetica dove compare la traduzione dell’episodio di Didone (1552). Tra la Francia e l’Italia, quindi, e sicuramente anche tra l’Italia e il resto dell’Europa, non solo restano da studiare i viaggi di tanti esemplari nelle biblioteche, ma andranno indagati i viaggi dei modelli editoriali che questi esemplari esportano. In questo caso il testo passa da Virgilio alla traduzione italiana del Martelli e dal Martelli a Du Bellay, alimentando quella dimensione di esercizio e di competizione, quella tensione all’esposizione al giudizio che si avverte fortissima nelle prefazioni dei traduttori e che è la stessa che presiede a ogni forma di ispirazione e manifestazione poetica rinascimentale. Jean Balsamo richiama molto opportunamente il fatto che la traduzione dei classici è un campo di esercizio di emulazione e di competizione tra i poeti italiani e francesi nelle loro lingue rispettive, ma anche, significativamente, tra poeti francesi e poeti italiani, come la scelta di un modello editoriale comparabile sembra suggerire.

Tornando all’invito di Madame de Staël citato in apertura, l’Iliade del Monti ha senz’altro influenzato le interpretazioni ottocentesche di Omero e quelle successive, che andrebbero rilette tenendo conto di questa influenza «orizzontale» delle traduzioni in lingua volgare; prendendo spunto dalla traduzione di Virgilio di Du Bellay, sicuramente ispirata dal canzoniere di Lodovico Martelli, possiamo affermare che questo lavoro di confronto tra volgarizzamenti in lingue diverse, che implica anche i modelli editoriali, non è ancora stato approfondito, almeno non in modo sistematico, neanche dai comparatisti, e può senz’altro riservare molte sorprese e fornire elementi per nuovi percorsi critici.

Il campo di studi dell’analisi comparata delle traduzioni, a partire da quelle dei classici, si rivela un campo ancora poco frequentato e promettente, che può schiudere una miniera di informazioni finora ignorate. I saggi sui testi manoscritti inediti presenti in questo volume (Rolet, Nassichuck), infine, testimoniano come, pur trattandosi di temi di primo piano che toccano la cerchia dei papi in un caso e una traduzione latina sconosciuta di Omero nell’altro, il campo delle traduzioni dei classici sia ricco di argomenti e autori sostanzialmente ancora da scoprire.

Una conferenza del compianto studioso fiorentino Giovanni Parenti (1947-2000) apre la sezione dei “Varia”, che presenta quattro contributi. È un bilancio sul ventennale lavoro svolto attorno ai Poeti latini del Cinquecento presentato, a fatica ormai ultimata, alla Facoltà di lettere di Firenze nell’aprile del 1979 ed offre una riflessione di grande rilievo sulla pubblicazione di testi poetici latini. Il modello presente a Parenti è il Contini di Esperienze d’un antologista del Duecento poetico italiano (1961), ma problemi, gusti e soluzioni proposti divergono poi a testimoniare l’autonomia e la competenza di questo grande studioso del nostro Rinascimento.

Barbara Tanzi Imbri affronta il rapporto della poesia di Chiabrera con la dimensione agonistica, muovendo da quattro canzoni dedicate al calcio fiorentino e riflettendo sulla percezione ‘eroica’ degli atleti tra XVI e XVII secolo. La tematica è posta a confronto con una letteratura ‘antiquaria’ che, quasi negli stessi anni, nutre una duplice trattazione sull’atleta-soldato presso autori come il francese Guillaume du Choul o il medico Girolamo Mercuriale, entrambi affascinati – come il pindarico Chiabrera – dall’apporto che anche in questo campo viene dall’antico.

Elisabetta Olivadese propone una prima analisi delle Rime di Girolamo Gualdo, testo singolare entro il percorso che vede i canzonieri cinquecenteschi abbandonare progressivamente il modello petrarchesco e contribuire a una strutturazione delle raccolte per sezioni tematiche. L’esempio del Gualdo, il cui canzoniere appare postumo nel 1569, consente di riflettere sulla questione dell’autorialità delle soluzioni strutturali e, in particolar modo, sulla tripartizione in rime d’amore, d’occasione e morali e sacre, che sarà cristallizzata dal Tasso.

Massimo Scandola legge la tragedia Semiramis del cesenate Muzio Manfredi (1593), con attenzione ai temi come quelli tardo cinquecenteschi del ‘re giusto’ e della tirannia, in cui si riflettono le tensioni vissute a corte. L’analisi dei motivi e dello stile conferma l’importanza di una tradizione tragica, d’impronta senechiano-giraldiana che colora le vicende della regina assira, qui còlta nei suoi ultimi sette giorni di vita, e di ricostruirne le principali fonti da Diodoro Siculo innanzi.

Infine Jean Balsamo offre in questo numero un desideratissimo indice dei volumi di “Italique” dal 1998 al 2023, accompagnando i titoli dei contributi di questi primi 25 anni con un indice degli autori e degli argomenti. Il bilancio, che è ora possibile, parla a favore di una rivista di taglio internazionale con interventi in tre lingue, cui hanno collaborato finora circa 200 autori con tematiche che vanno dal Trecento di Dante e Petrarca al Seicento di Marino, Shakespeare o Garcilaso de la Vega.

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1 Madame De Staël, Sulla maniera e la utilità delle traduzioni, «Biblioteca italiana», I, gennaio 1816, pp. 9-18.