Revue Italique

Il libro di rime tra secondo Cinquecento e primo Seicento

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Introduzione

Valeria Di Iasio

Franco Tomasi

Lo studio delle forme del libro di poesia del Cinquecento ha goduto, negli anni recenti, di una discreta fortuna. Nodi critici come la problematica assimilazione del modello macrotestuale dei Rerum vulgarium fragmenta, la registrazione della significativa presenza, all’interno del più canonico petrarchismo amoroso, della dimensione spirituale, politica ed encomiastica, la crescente incidenza dell’intervento di stampatori e curatori nel processo di produzione del prodotto librario e l’articolazione degli usi sociali della poesia sono oggi sempre più al centro delle attenzioni degli studiosi. In particolare ha inoltre assunto sempre maggiore spazio la riflessione sui rapporti tra letteratura e stampa, intesi come l’insieme delle complesse relazioni che si instaurano tra autori ed editori, testo e libro, cultura, mercato e storia.

Come appare dallo stato degli studî ed è stato messo in luce da Simone Albonico (Antologie di lirica cinquecentesca, in Antologie d’autore, la tradizione dei florilegi nella letteratura italiana, Atti del Convegno internazionale di Roma, 27-29 ottobre 2014, a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, Roma, Salerno, 2016), la stagione editoriale del primo Cinquecento, e in particolare il periodo che va dal 1545 al 1565, è stata già fruttuosamente percorsa dalla critica sia per campate d’insieme sia per casi singoli e rappresentativi. Rimane ancora molto da dire, invece, sulla seconda metà del secolo che, come è noto, rappresenta una stagione se non di crisi almeno di cambiamento, a fronte della quale la produzione letteraria e il mercato editoriale reagiscono mettendo in campo proposte nuove.

Questo vale tanto per le antologie quanto, e forse soprattutto, per le raccolte d’autore che, proprio in corrispondenza del progressivo venir meno della spinta propulsiva di libri collettivi, vivono un turbolento momento di sviluppo e trasformazione, con la messa in campo di cantieri destinati a mutare definitivamente la morfologia del libro di rime. Il pensiero, in tal senso, va in primo luogo al caso tassiano, ma anche ai molti altri casi che possono dire tanto sulla fisionomia della lirica di fine secolo, contribuendo proficuamente al dibattito ancora aperto sui destini della lirica secondo cinquecentesca.

Dalla condivisione di questo quadro concettuale e dell’importanza delle questioni critiche che lo sostanziano ha preso avvio il confronto critico di cui questo numero monografico rappresenta l’esito scritto. La ricerca condivisa dagli studiosi coinvolti si è mossa nell’arco cronologico che va dagli anni immediatamente successivi alla chiusura del Concilio di Trento sino alle edizioni mariniane del 1602 e del 1614. Questo perché, come già messo in luce da Bruscagli (La preponderanza petrarchista, in Storia letteraria d’Italia, il Cinquecento, vol. 3, La letteratura tra l’eroico e il quotidiano. La nuova religione dell’utopia e della scienza (1573-1600), a cura di G. Da Pozzo, Padova – Milano, Nuova Piccin – Vallardi, 2007, pp. 1561-1615), è proprio a partire dalla seconda metà del secolo che prende avvio una ingombrante intromissione della storia nel mondo delle lettere e della cultura, destinata ad incidere profondamente nel tessuto intellettuale della società cinquecentesca. Tra vari casi di resistenza e conservatorismo, tali cambiamenti contribuiscono non poco ad assestare alcuni colpi finali al ‘tradizionale’ – anche se sempre mosso – sistema bembesco di emulazione petrarchesca. Per quanto concerne il termine ante quem, l’uscita a stampa delle raccolte di Marino può essere considerata uno dei punti nodali di un processo, lungo più di mezzo secolo e convergente su alcune tra le più importanti personalità del secolo, di progressivo sgretolamento della forma canzoniere, così come era stata variamente concepita tra il primo petrarchismo quattrocentesco e il pieno Rinascimento (cfr. M. Santagata, Dal sonetto al Canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costruzione di un genere, Padova, Liviana 1979-1989) e, quindi, come ideale rappresentante di istanze di innovazione e cambiamento.

Gli studi qui presentati si sono mossi lungo due principali assi di ricerca, svolti secondo approcci metodologici e disciplinari diversi ma, si spera, convergenti. Il primo riguarda le vicende delle raccolte antologiche che, a partire dalla loro stagione di maggiore fortuna – tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’60 – si ramificano, a partire dagli anni ’70, in forme talvolta radicalmente differenti rispetto a quelle assestatesi verso la metà del secolo. Il secondo riguarda invece le raccolte d’autore, latrici delle più profonde e talvolta sotterranee ragioni delle innovazioni e dei mutamenti che, sancendo la definitiva sublimazione verso forme altre del modello petrarchista di marca bembesca, stanno molto spesso alla base della lirica secentesca. L’intenzione comune è stata quella di voler creare un confronto aperto ed interdisciplinare sulla storia del libro di poesia e sulle varie soluzioni che poeti, curatori ed editori mettono in campo in una stagione in cui, a fianco dei più tardi lasciti del petrarchismo, si fanno sentire, in modo sempre più netto, istanze storiche, culturali e letterarie del tutto nuove. L’obiettivo è stato, dunque, quello di mettere a fuoco, in particolare, alcuni aspetti specifici della storia del libro inteso, oltre che come prodotto culturale, anche come oggetto materiale, posto al centro di una complessa rete di rapporti economici e sociali. Tra questi vi sono, ad esempio, la sperimentazione di strumenti di consultazione e di lettura (paratesti, argomenti, didascalie, commenti, etc.), la messa in campo di nuove forme di organizzazione strutturale delle diverse tipologie di libro (dalle antologie alle raccolte d’autore) e i rapporti stessi tra queste tipologie e tra la lirica ed altre forme di espressione artistica, in primis quella musicale.

Paolo Procaccioli mette al centro della sua attenzione il libro di rime inteso come fatto caratterizzante dell’editoria cinquecentesca e, dunque, come oggetto testuale complesso, in grado di rispondere ad istanze diversificate. In particolare, l’analisi dello studioso, che verte sul rapporto tra produzione dei testi e prassi tipografica, riguarda i libri che nascono per iniziativa di editori e stampatori. Questa tipologia di raccolta di rime, infatti, si distingue nettamente dalle antologie manoscritte, a maggior ragione a partire dal secondo Cinquecento quando si assiste al passaggio da volumi di natura ‘storiografica’, studiati per «colligere fragmenta o documentare una situazione passata per celebrarla o promuoverla a esempio» a libri costruiti, che rappresentano un «opus fragmentarium» che guarda, in un’ottica non sempre strettamente letteraria, al presente. È così che il ruolo dei tipografi, degli editori e dei curatori si evolve e affianca in modo sempre più stringente quello degli autori e la tipografia diventa non più solo il luogo di approdo di un libro progettato altrove, ma il luogo stesso in cui il libro nasce. Conseguentemente, dunque, anche i rapporti tra testo e pubblico cambiano e le logiche del mercato editoriale si mescolano in modo sempre più stretto a quelle della prassi puramente letteraria. A partire da queste considerazioni, Procaccioli analizza minutamente le serie di libri di rime – e i loro paratesti – stampate negli anni centrali del secolo e le complesse interazioni culturali e sociali esistenti tra le figure che progettano e producono i volumi, agonisticamente impegnate nel raggiungimento del primato produttivo di un oggetto editoriale che doveva essere riconoscibile come tale. Un «bellum tipographicum» insomma, in cui è in gioco non solo il successo commerciale ma anche, e forse soprattutto, la conquista di un ruolo del tutto nuovo, in diretta competizione con quello «che il lettore conduceva da sempre con gli autori».

Il contributo di Emilio Russo studia il rapporto tra le raccolte mariniane del 1602 e del 1614 e il più ampio panorama della lirica di primo Seicento, inserendosi nel dibattito, ancora del tutto aperto, relativo all’incidenza del ‘marinismo’, «etichetta che una diretta analisi sui testi rileva sempre più sbiadita» e dunque all’«effettivo ruolo modellizzante svolto dalle opere» del poeta. Patendo da un primo confronto tra le Rime e Lira, relativo alla «planimetria» e alla «distribuzione delle masse testuali» ed atto ad inquadrare le peculiarità rappresentative dei due progetti lirici, lo studioso prosegue analizzando il rapporto tra il modello mariniano e La selva di Parnaso di Antonio Bruni (1615). L’attenta disamina condotta da Russo (che guarda sia agli aspetti testuali della raccolta, più strettamente imparentati con le Rime, che a quelli paratestuali, legati maggiormente alla Lira) rivela non solo una volontà di reinterpretazione del modello, ma anche la ricerca di una misura e di un controllo che dialoga in modo dialettico sia con le peculiarità delle Rime che con quelle della Lira, producendone una sintesi composta forse più da «agonismo» che da «deferenza».

La profondità prospettica del saggio è poi restituita dalla presenza di alcuni fondamentali spunti critici che, ampliando l’orizzonte dell’indagine, richiamano l’attenzione sia sul ruolo delle suddivisioni tematiche e delle distribuzioni interne nei libri di rime che, soprattutto, sulla necessità di approfondire le indagini dedicate all’evoluzione progressiva dei cantieri lirici d’autore, a partire dagli stessi Marino e Bruni sino a Stigliani, Murtola, Casoni, Rinaldi e Achillini, Testi e Campeggi, Cesarini e Ciampoli.

L’intervento di Valeria Di Iasio è dedicato al libro di rime d’autore, inteso come oggetto editoriale che si trova a dover soddisfare il doppio fronte delle istanze letterarie e delle esigenze e del gusto del pubblico cui si rivolge.

Tali esigenze, tra cui quella di incrementare la ‘leggibilità’ del volume utilizzando strategie che ne rendano più facilmente individuabile la struttura interna, sono ricostruibili su base indiziaria, grazie allo studio estensivo e comparativo delle diverse strategie che i poeti, ma non solo, mettono in campo per dare forma al loro libro. Risultano così rintracciabili quei movimenti, fatti di avanzamenti quanto di recuperi, che testimoniano la vivacità e la varietà di questa sorta di laboratorio lirico aperto e condiviso, all’interno del quale è spesso difficile definire le influenze e le gerarchie reciproche ma in cui è possibile individuare uno sforzo comune, anche se talvolta divergente, orientato a trovare un equilibrio tra le istanze culturali dell’autore e quelle del pubblico che lo riceve.

Le attenzioni maggiori vanno dunque a quell’insieme di aspetti (ripartizioni interne, arricchimenti paratestuali, etc.) che, oltre alle peculiarità contenutistiche e stilistiche, creano proposte editoriali differenziate e connotate, che Di Iasio riassume in due insiemi: il libro a campata unica (privo quindi di una organizzazione interna riconoscibile prima di una sua lettura integrale) e il libro organizzato, che presenta una struttura interna evidente. Particolarmente interessante, inoltre, si rivela lo studio delle evoluzioni successive dei cantieri lirici autoriali cui, in linea teorica, va congiunta l’indagine più prettamente testuale.

L’insieme delle prose che accompagnano e corredano il testo lirico all’interno dei libri di Rime è l’oggetto dello studio di Federica Pich, che propone un attento esame delle varie forme di «peritesto» che le raccolte rinascimentali (e, in particolare, del secondo Cinquecento) adottano in modo sempre più regolare e controllato, in risposta a ben precise istanze sociali e culturali. Il saggio illustra con grande chiarezza l’ampio spettro qualitativo delle interazioni tra versi e prose (che si declina variamente in chiave narrativa, esegetica o encomiastica), e il suo stretto nesso con le trasformazioni che investono, sia dal punto di vista strutturale che contenutistico, il libro di poesia, in sintonia con un più ampio progetto di rivendicazione del ruolo culturale della poesia lirica.

Alcuni tra i casi più rappresentativi di questa varietà, come i libri di Bernardo Cappello, Bernardino Rota, Giuliano Goselini, Curzio Gonzaga, Alessandro Piccolomini e Diomede Borghesi, vengono qui efficacemente messi a sistema sia tra loro sia con il più ampio contesto letterario in cui si trovano calati. Ciò permette di riflettere su alcune tra peculiarità più significative di questo variegato insieme di strategie paratestuali (che possono assumere di volta in volta una funzione «designativa», «rematica», «onomastica», «contenutistica» ed «esegetica») tra cui la «fortissima integrazione strutturale e funzionale tra testi in versi e prosa di corredo» che conferma l’alto grado di «progettualità macrotestuale» che converge complessivamente attorno al libro di rime.

Sono tre i casi di libro di rime con autocommento discussi nel contributo di Paolo Zaja. L’indagine si avvia dalle Rime spirituali di Gabriele Fiamma (1570), il cui commento assolve a scopi differenziati quanto cruciali, che vanno dalla prevenzione di «potenziali rischi di censura e condanna» sino al ripensamento complessivo del valore della lirica, intesa come mezzo di espressione della «verità». Tali scopi appartengono, del resto, ad un più ampio orizzonte, all’interno del quale testo e commento agiscono in ‘simbiosi’ e in cui rientrano le necessità di suggerire al lettore «la più adeguata modalità di ricezione dei testi stessi». Lo studio della Dichiaratione di alcuni componimenti di Giuliano Goselini (1573) porta a conclusioni simili. Qui, tuttavia, il commento assume un peso preponderante rispetto a quello del testo lirico, che viene qui inteso come veicolo di «sensi riposti e oscuri da rivelare attraverso una complessa lettura sapienziale». La medesima geometria contraddistingue anche le Rime platoniche di Celso Cittadini, tanto che si ha la percezione che le liriche rappresentino semplicemente uno degli elementi, non necessariamente il più rilevante, di un più ampio discorso di natura insieme religiosa e filosofica orientato alla legittimazione dell’esperienza amorosa.

In sostanza, dunque, proprio attraversando tre libri molto differenti (anche sul piano delle scelte tipografiche) lo studio pone in luce i tratti comuni di approcci autoesegetici che, pur distinguendosi, sono ugualmente orientati alla ricerca di una nuova rappresentazione non solo del poeta ma anche della stessa pratica lirica, all’interno della quale il paratesto riveste un ruolo chiave.

Jacopo Galavotti studia la relazione che si viene creando tra scelte metriche e organizzazione contenutistica del libro di rime. A questo fine lo studioso individua tre direttrici di analisi. La prima ha per oggetto alcuni casi rappresentativi (tratti dai libri di Orsatto Giustinian, Giacomo Zane e Gaspara Stampa) in cui la distribuzione delle forme metriche nella raccolta ha un significato strutturale e macrotestuale. La seconda riguarda invece la seriazione e l’intitolazione dei testi come indice della percezione di alcune forme metriche da parte dell’autore (o, altrettanto interessante, da parte dei curatori, nel caso di opere postume), e in particolare della canzonetta in quartine e della ballata (Domenico Venier, Girolamo Molin, Bernardino Baldi). La terza, infine, si occupa di un paio di casi notevoli di ibridazione tra forme metriche e, in particolare, tra canzone e madrigale e tra canzone e ballata (Girolamo Fenaroli, Girolamo Molin).

Secondo Galavotti, in sostanza, il non facile compito di studiare i rapporti tra la metrica e l’assetto dei libri di rime – qui condotto attraverso campionature altamente rappresentative – può essere fruttuosamente affrontato tenendo conto di due approcci convergenti. Il primo va dalla metrica al libro, e prevede di riconoscere la presenza di equilibri e simmetrie distributive nel disegno complessivo dei libri e, poi, di individuare la presenza di particolarità in posizioni rilevate, che possono coincidere con snodi diegetici. Il secondo, va da sé, imbocca una strada inversa e complementare che, andando dal libro alla metrica, indaga il nodo, tanto complesso quanto stimolante, della percezione che i contemporanei hanno delle forme metriche (a partire dalla loro distribuzione nel macrotesto e dalle indicazioni paratestuali) e la gestione della sintassi rispetto al metro (cui è legato il processo di identificazione delle ragioni metriche e delle componenti di forme ibride e sperimentali).

Il saggio di Livio Ticli è dedicato al multiforme tema degli aspetti performativi che accomunano poesia e musica, nei riguardi dei quali il Cinquecento rappresenta ancora una volta una specola privilegiata, sia dal punto di vista storico che dal punto di vista della prassi esecutiva. Con la sua ampia analisi lo studioso intende dunque sia problematizzare il fenomeno della performance poetico-musicale, sia proporre un diverso paradigma utile a comprendere la complessa figura del virtuoso nell’epoca tardo rinascimentale. Viene così preso in esame un eterogeneo insieme di fonti che, comprendendo poesie, cronache, trattati e repertori musicali, consente di definire le componenti espressive della performance e l’insieme delle competenze – coreutiche, improvvisatorie, melico-poetiche, attoriali e oratorie – dei virtuosi rinascimentali. I casi di studio attraversati concernono di volta in volta specifici ambienti, come quello veneziano (in cui rientrano personaggi come Irene di Spilimbergo, Gaspara Stampa e Veronica Franco), personaggi singolari (come Tarquinia Molza, Laura Peperara e Giulio Caccini) e pratiche rappresentative (come il ‘concerto segreto’, l’improvvisazione, l’intonazione poetica al liuto), all’interno delle quali l’esecuzione musicale e attoriale assume i contorni di un vero e proprio atto esegetico nei confronti del testo. A coronamento di questo quadro critico lo studioso, oltre ad intavolare una interessante riflessione sulla modernità e sulla percezione della figura dell’artista ‘eclettico’, propone nuovo paradigma con cui descrivere e riattualizzare il fenomeno complesso della performance poetico-musicale-coreutica («esecuzione integrata»).

Le Rime di Vincenzo Guidoni, stampate nel 1619 a Padova e sino ad ora piuttosto trascurate dalla critica, sono l’oggetto dello studio di Marcello Mazzetti. Prima dell’analisi ravvicinata del libro, che occupa la seconda metà del saggio, lo studioso offre una attenta ricostruzione dell’ambiente culturale, quello bresciano della famiglia Maggi-Gambara, nel cui alveo nasce la raccolta. A tal proposito Mazzetti ricorre ad alcuni documenti – come una missiva del liutista Giovanni Pacalone a Barbara Maggi – che dimostrano il legame viscerale tra poesia e musica presente nel contesto dell’ambiente nobiliare bresciano di riferimento e il riconoscimento del valore e dell’importanza della relativa dimensione performativa. A proposito delle Rime, viene poi presentato un capillare esame delle peculiarità metriche e contenutistiche della raccolta che, indugiando sulla predominanza della forma per eccellenza ‘musicale’ del madrigale e sulla presenza di cicli tematici e di rilevanti tracce autobiografiche (che testimonia la compartecipazione dell’autore alla vita musicale di svariate città ed istituzioni), descrive con fine acribia critica il legame tra la produzione lirica di Guidoni e la sua «controparte» musicale, secondo Mazzetti presente sì in questa raccolta di rime ma più ampiamente comune a gran parte del repertorio poetico tardo-rinascimentale e primo-secentesco.

A completare il volume vi sono poi saggi, nella sezione dei «Varia», di Martina Dal Cengio, dedicato allo studio delle presenze della lirica dantesca nella poesia rinascimentale, di Giada Guassardo sulla poesia bucolica in volgare del poeta di corte Niccolò da Correggio e di Pietro Giulio Riga sui destini della poesia morale e spirituale del secondo Cinquecento. Martina Dal Cengio, che come Giada Guassardo è stata borsista presso la Fondazione Barbier-Mueller, propone una indagine di ampia portata sulla persistenza del Dante lirico in una stagione della poesia apparentemente dominata dal modello petrarchesco; l’indagine proposta dalla studiosa dapprima illustra il quadro della diffusione delle rime dantesche, tra edizioni a stampa e testimoni manoscritti, per poi osservare i modi attraverso i quali è possibile registrare forme di assimilazione del modello, che sembrano essere rilevabili soprattutto sul fronte metrico o in sperimentazioni particolarmente consapevoli. Giada Guassardo esamina l’utilizzo di temi e soggetti pastorali nella produzione lirica di Niccolò da Correggio (1454-1508), fuori e dentro l’ambito eclologico. In particolare, si sofferma sul rapporto fra il locus amoenus (o horridus) e l’autoritratto morale del poeta, che talora veste i panni dell’‘esule’, insinuando una sottile polemica anticortigiana. Un discorso che intende stimolare una riflessione sulla permeabilità fra codici (lirico, bucolico, satirico) nel Quattrocento, sul grado di verità biografica misurabile nell’uso di certi temi e sulla possibilità di guardare ai ‘lirici cortigiani’ non come a un panorama indifferenziato ma individuandone la specificità e la cifra personale e stilistica. Il lavoro di Pietro Giulio Riga intende proporre uno studio sui modi in cui il nuovo clima culturale del secondo Cinquecento, e più in particolare il crescente peso della censura ecclesiastica, incidono sulle forme della poesia, sia sul versante della prassi che su quello più teoretico. La genesi di veri e propri filoni tematici, come quello della poesia spirituale e quello morale, nascono, secondo la convincente tesi di Riga, da un più generale bisogno che gli autori avvertono di piegare la loro produzione lirica all’interno di un perimetro di generi percepito come legittimo e autorizzato.

Il volume si chiude infine sulla grande novità dei Poeti latini del Cinquecento dello studioso fiorentino Giovanni Parenti (1947-2000), ora editi per le cure di Massimo Danzi presso le Edizioni della Scuola Normale di Pisa con la collaborazione dell’Istituto nazionale del Rinascimento di Firenze. I due volumi, con un totale di quasi millecinquecento pagine, richiedevano una riflessione particolare che fosse viatico alla lettura e il lettore troverà qui i testi della presentazione, avvenuta il 15 aprile del 2021 presso la romana Accademia dei Lincei, di Stefano Carrai, Massimo Danzi e Sebastiano Gentile.