Revue Italique

Il libro di rime tra secondo Cinquecento e primo Seicento

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Note su didascalie, “argomenti” e “dichiarazioni” nei libri di rime del secondo Cinquecento

Federica Pich

Queste pagine inquadrano una fase specifica e per molti aspetti decisiva di una storia molto più lunga, che al limite potrebbe cominciare con le rubriche dei canzonieri delle origini per arrivare fino agli «intertitoli» delle raccolte di poeti contemporanei:1 la storia, cioè, delle brevi prose destinate ad accompagnare singoli testi lirici e variamente poste a loro corredo, in forme e con funzioni di volta in volta diverse. In una prospettiva di lunga durata, l’evoluzione di queste strutture nel corso dei secoli sembra portare da un loro ruolo tendenzialmente accessorio e di servizio a un’integrazione sempre più consapevole di testo e «peritesto», cui corrisponde il passaggio da uno statuto anche materialmente precario e mobile degli elementi paratestuali a una loro presenza più regolare e stabile, oltre che da un’attribuzione spesso incerta a un controllo più chiaro e diretto da parte di autori e curatori. Un simile quadro d’insieme si può azzardare solo a costo di molte semplificazioni,2 obliterando controspinte che invece è bene esplicitare da subito, riconoscendo non solo la grande varietà di soluzioni adottate in libri di rime dello stesso decennio o addirittura dello stesso anno, ma anche la notevole escursione, in opere cronologicamente vicine, tra usi ancillari e generici della prosa e meccanismi di sinergia talvolta molto sofisticati. Ad esempio, per restare al Rinascimento, la prassi di ricorrere a concise didascalie per segnalare i destinatari dei componimenti è tra le più comuni e diffuse tanto nel Quattrocento quanto in raccolte di fine Cinquecento, in risposta alle persistenti esigenze “sociali” di una poesia che è in primo luogo codice di mediazione e di scambio all’interno di varie comunità, locali o meno, dove la riconoscibilità dell’encomio e della corrispondenza è essenziale per la costruzione dell’immagine del rimatore e della sua fortuna. Al tempo stesso, casi di interazione più complessa tra versi e prose di corredo, in chiave ora narrativa ora esegetica, non mancano tanto in stagioni ad alta intensità teorica e normativa, come il tardo Cinquecento, quanto in esperienze apparentemente meno consapevoli, come la poesia cortigiana.3

Pur con tutte le cautele suggerite dall’attraversamento di un territorio così ampio e, come si è visto, irregolare in sincronia non meno che in diacronia, ritengo che sia possibile individuare con sicurezza una fase acuta di crescita di queste strutture proprio nel cinquantennio che è stato al centro del convegno padovano da cui questo intervento ha avuto origine. È indubbio che, grosso modo tra gli anni Cinquanta del Cinquecento e i primi decenni del Seicento, si assiste a una forte accelerazione nello sviluppo di elementi paratestuali ed epitestuali in sede lirica: anche considerando solo le raccolte giunte alla stampa, come farò in questa occasione, il processo è evidente in termini di moltiplicazione dei paratesti (anche per influenza delle coeve edizioni commentate di Canzoniere e Trionfi), di espansione di singole componenti (ad esempio dichiarazioni che diventano sempre più lunghe) e di sperimentazioni che tendono a confondere i confini tra testo lirico e autocommento, sfociando in esiti lato sensu prosimetrici. A questi sviluppi corrisponde un controllo più sistematico da parte dei diversi agenti che creano il libro (autori, curatori, stampatori) e una maggiore consapevolezza nell’uso dei materiali peritestuali, che si riflette anche nell’impiego di designazioni più precise per identificarli. È a questa altezza, ad esempio, che sembra stabilizzarsi, in sede lirica, il ricorso al termine argomento per riferirsi alle brevi prose, di impianto ora nominale ora narrativo, che individuano il soggetto o l’occasione di un componimento; ed è negli anni estremi della stessa cronologia che si registra la volontà di distinguere chiaramente i diversi elementi del peritesto, come quando, nel 1591, Torquato Tasso fa stampare argomenti ed esposizioni in due zone diverse della pagina, identificandoli esplicitamente come tali tramite apposite intestazioni, o quando, nell’avviso che rivolge A’ lettori come curatore degli Scherzi (1612) di Girolamo Borsieri, Ettore Capriolo si sofferma sulla differenza tra «argomento» e «dichiaratione».4

La spiegazione più convincente della proliferazione dei peritesti e del loro consolidamento attraverso un discorso secondo che li identifica e dà ragione della loro presenza va verosimilmente ricercata, come hanno mostrato gli studi di Franco Tomasi, in una trasformazione di più ampia portata che investe il libro di poesia in questa fase.5 L’elemento di novità non è, genericamente, che gli apparati che affollano lo spazio intorno al testo lirico siano funzionali al progetto di auto-affermazione sociale e letteraria perseguito dai poeti (si pensi all’uso già molto articolato dei paratesti nel Compendio di Giuliano Perleoni, del 1492), ma che nel tardo Cinquecento tale progetto, in molti casi e certamente nei più notevoli, sia caratterizzato da una specifica enfasi sulla novità dei contenuti della poesia e sul suo ruolo morale e sapienziale. In questo passaggio storico, un ruolo essenziale è svolto dalla questione della “materia” della lirica, oggetto di riflessione teorica in scritti di poetica e lettere di dedica, in quanto la nobilitazione del genere passa anche dalla moltiplicazione dei “soggetti” di cui può trattare adeguatamente. Il superamento della (presunta) unicità della materia amorosa si compie attraverso l’estensione programmatica del campo del poetabile oppure facendo di quella stessa materia il veicolo di contenuti filosofici e morali, che proprio i paratesti hanno il compito di illustrare e valorizzare. Le strategie di rivendicazione messe in atto dagli autori trovano un supporto fondamentale nelle prose che precedono o seguono i singoli componimenti oppure si trovano raccolte in chiusura di libro, o ancora inserite nell’indice dei capoversi: da una sede interna all’oggetto-libro, queste strutture mediano tra le affermazioni di poetica, affidate a dedicatorie e avvisi o a veri e propri scritti teorici, e la loro realizzazione nei versi. Contemporaneamente, per il libro di rime si sperimentano nuovi assetti strutturali, con sezioni distinte su base tematica, e si adottano architetture tipografiche sempre più coerenti, ornate e cariche, che ribadiscono anche visivamente la rinnovata organizzazione interna delle raccolte.6

Dalla nuova centralità dei “soggetti” discende, dunque, quella delle strutture da almeno due secoli deputate, anche se non unicamente, a identificarli, cioè quelle brevi prose che, con termine volutamente neutro e invalso negli studi, chiamerò “didascalie” e che proprio nel secondo Cinquecento sembrano acquisire un’identità più precisa agli occhi di chi le usa. Quella di individuare il contenuto di un testo è solo una e probabilmente la più complessa tra le funzioni svolte da queste strutture, che descriverò brevemente con l’aiuto di due interventi dedicati ai «titoli» in poesia ma fondamentali anche per lo studio delle didascalie.7 Muovendo dalla funzione più semplice e diffusa a quella più sofisticata, senza dimenticare che di fatto sono spesso compresenti, le didascalie possono svolgere: una funzione «designativa», cioè di pura individuazione del testo come oggetto, primaria e connaturata a questo tipo di peritesti, a norma di Genette; una funzione «rematica» (ancora Genette), di esplicitazione dello statuto metrico o di genere del testo (“sonetto”, “elegia”); una funzione che potremmo definire «onomastica»,8 quando individuano l’autore e/o il destinatario di un componimento (si potrebbe parlare rispettivamente di rubriche attributive e di intestazioni dedicatorie, simili ai «titoli-dedica» di Mengaldo); una funzione «contenutistica», che è quella che qui ci riguarda; infine, una funzione propriamente esegetica.9 Anche il semplice tentativo di trovare un’etichetta univoca per definire le didascalie che individuano il contenuto rivela la duplicità intrinseca nel loro oggetto: se Mengaldo ricorre al più ampio e comprensivo «titoli contenutistici», Blasucci parla di titoli «‘occasionali’ o circostanziali», con rinvio a «soggetti assoluti, situazioni o figure».10 In termini puramente astratti,è possibile distinguere il tema di un testo (soggetto) dalla descrizione delle circostanze della sua composizione o alle quali si riferisce (occasione), ma di fatto nelle didascalie i due aspetti tendono a confondersi, in quanto spesso illustrare il soggetto di un testo significa esporre le circostanze vere o presunte che lo hanno ispirato o con le quali si mette in relazione, e viceversa. Così, la bilancia si inclina chiaramente dalla parte del soggetto in casi come «Sopra i begli occhi amati et gl’effetti che fanno in lui» o «In lode de gli amati capelli» e da quella dell’occasione in formule come «In una partenza dell’Autore» o «Quando la nobilissima e virtuosissima Madonna Honorata Tancredi partì da Livorno per NAPOLI»,11 ma rimane in equilibrio quasi perfetto in esempi come i seguenti, sia che tendano alla forma nominale sia che includano una narrazione:

Sopra una mascarata, nella quale era la sua Donna.

Vide lo Svegliato bella et savia gentildonna pianger così teneramente et con tanta gratia presso al corpo morto d’un suo parente, che egli subito fu dolcemente sforzato di prendersi dell’amor di lei.12

Nel primo caso, l’avvio della didascalia è analogo a tante stringhe che designano concisamente il soggetto, ma la relativa interviene a mettere l’accento sulla situazione e dunque sulle circostanze che avrebbero dato origine al testo; nel secondo caso, la formulazione rende sostanzialmente indistinguibili occasione e soggetto. Un ulteriore livello di complessità si aggiunge se la didascalia esplicita ciò che l’autore fa nel testo e eventualmente riassume ciò che il testo dice, come in questi casi:

Al Conte Francesco Landriano, a cui era morta la moglie, con la qual occasione gli racconta lo stato in che si ritrova, passando ultimamente alle lodi del Sereniss[imo] Sig[nor] Don Giovanni.

Racconta che Amore, andato a trovar la G[rande] Orsa in villa, deposte le sue armi e fattosi un villanello, si gode delle bellezze di lei, spesso favellando seco; onde il prega che voglia pregar lei, c’homai faccia ritorno a Roma, aspettata et chiamata non solo da lui, ma dai colli e dal fiume et da tutto il mondo insieme.13

Nel primo esempio la funzione “onomastica” e quella “contenutistica” sono compresenti e la seconda include tanto l’occasione (un lutto) quanto un breve sommario del contenuto così come viene articolato nel testo (descrizione dello stato del poeta e lode di un altro personaggio contemporaneo). Nel secondo caso, se non sapessimo che la prosa si trova stampata subito sopra il componimento al quale si riferisce, potremmo facilmente identificarla come parte di un commento, o ancora più precisamente come la sezione iniziale di un commento, cioè quella che di norma veniva destinata alla descrizione del “soggetto”.

Quest’ultimo esempio ci ricorda che i confini tra didascalie estese e commento sono labili e storicamente non evidenti, come conferma anche una rapida indagine sul fronte terminologico. Fino al Cinquecento maturo la designazione esplicita di quelle che chiamo “didascalie” è relativamente rara e molto irregolare: “rubriche” (o, in accezione analoga, “tituli”/“titoli”), “argomenti”, “dichiarazioni”, dove la mancata sinonimia rivela una notevole instabilità in re, cioè quella di elementi peritestuali affini anche se non identici, cui si ricorre abitualmente ma che non si sente il bisogno di distinguere. In particolare l’ampia zona di sovrapponibilità, nella prassi, tra argomento e dichiarazione riflette la difficoltà (teorica) e la mancata necessità (pratica) di tracciare un confine chiaro tra identificazione del soggetto e commento, perché la definizione della materia è di per sé una forma di esegesi (e, anzi, è di norma il primo passo compiuto dallo spositore) e perché gli esempi stessi sembrano suggerire una continuità tra didascalie «contenutistiche» e dichiarazioni che in modo più connotato possono essere designate come esplicazioni o sposizioni. Così vengono definite, ad esempio, le brevi prose poste in coda a ciascuno dei sonetti e madrigali di Francesco Denalio (1580), sistematicamente introdotte dalla titolazione «SPOSITIONE», per quanto perfettamente assimilabili ad argomenti dal punto di vista tematico e sintattico.14 Allo stesso modo, in coda alle Rime de gli Academici Eterei ([1567]) si leggono «Argomenti overo brevi dichiarationi sopra alcuni de i componimenti dell’opera» e nelle Rime (1588) di Giuliano Goselini gli argomenti «dichiarano», come recita il frontespizio (Con Argomenti brevissimi dichiarate) e come suggerisce, e contrario, la segnalazione di componimenti che non richiedono spiegazione («È per sé medesimo chiaro»; «È chiaro»).15 Si tratta di un’ambiguità connaturata a queste strutture, fin dalle origini situate in un ambito biografico-esegetico e più generalmente narrativo-esegetico,16 e viva nella loro storia tre-quattrocentesca; tuttavia, nell’epoca che qui ci interessa, tale ambiguità tende a risolversi attraverso il consolidamento della pratica di commentare i moderni e di auto-commentarsi, attraverso la maggiore diffusione degli argomenti come sussidio specifico anche in contesti lirici e attraverso la designazione degli elementi peritestuali tramite altrettante etichette incluse nella mise en page.

Nel ragionare sul funzionamento e sui caratteri delle didascalie “contenutistiche” nei libri di rime del secondo Cinquecento, muoverò da raccolte in cui la loro incidenza è minima a sillogi in cui diventano centrali. Con apparente paradosso, il ruolo delle didascalie che individuano il soggetto o l’occasione di un testo tende ad essere marginale nelle raccolte a dominante encomiastica, dove il peritesto, presenza ora regolare ora discontinua, svolge principalmente una funzione di consolidamento dell’operazione celebrativa attraverso intestazioni “onomastiche”. Oltre ai nomi e eventualmente ai titoli nobiliari o alle cariche dei personaggi storici a cui i singoli testi sono rivolti, si incontrano quasi solo sintetici riferimenti alle occasioni che hanno offerto il pretesto per l’omaggio poetico, in primo luogo nozze e lutti: cenni che hanno un ruolo non trascurabile nel disegnare contesti e relazioni, ma non determinano quel variopinto predominio della cronaca (cortigiana, militare e politica) che invadeva i dintorni del testo in raccolte come le Rime (1493) di Bernardo Bellincioni o la Cronica (post 1527) di Girolamo Casio. Ad esempio, nel Primo libro dell’opere toscane (1560) di Laura Battiferri, una didascalia richiama l’origine nuziale di un sonetto («NELLE NOZZE DEL S[IGNOR] VESPASIANO PICCOLHUOMINI E DELLA SIGNORA LUCREZIA SODERINA») e del madrigale che lo segue («NELLE MEDESIME»), e una serie di intestazioni «in morte» tengono insieme un’ampia sequenza di testi funebri.17 In modo del tutto coerente con l’impianto di una silloge organizzata su base gerarchico-genealogica e geografica,18 la maggior parte delle numerose didascalie si limitano però a identificare i destinatari, a partire dai duchi di Firenze e di Siena Leonora e Cosimo, nel nome dei quali la raccolta si apre e si chiude, e dal loro erede Francesco, secondo una sequenza poi replicata per i duchi di Urbino e il principe loro figlio.19 Esiti analoghi dà l’esame di raccolte in cui la significativa incidenza di componimenti d’encomio si combina con la presenza estesa e caratterizzante di testi amorosi. Per restare al 1560, nella princeps delle Rime di Bernardo Cappello non si incontrano didascalie se non, a testo, per le rime di corrispondenza (pp. 264-275) e, dislocate nell’indice dei capoversi, per i componimenti con destinatari storici, cui il poeta si rivolge per omaggi in vita o in morte (ad esempio, «Per la pace et per le nozze di Madama Margherita di Valois et del Duca di Savoia»; «Ne la natività del Signor Francesco Maria Principe d’Urbino»; «In morte de la Sig[nora] Virginia da Gambara»).20 Se, come è stato persuasivamente sostenuto da Irene Tani, l’edizione può essere considerata d’autore nonostante la mediazione del curatore Dionigi Atanagi, all’iniziativa di quest’ultimo andrà forse ricondotta la presenza di rubriche a testo e nell’indice.21 Nei Sonetti et canzoni di Berardino Rota, stampati lo stesso anno per le cure di Scipione Ammirato, la tavola alfabetica dei capoversi raccoglie indicazioni assenti dal corpo del testo, che identificano destinatari («Alla Signora Isabella Colonna Prencipessa di Sulmona»,«A gli Academici Sereni», «A Carlo Quinto Imperadore») o, più raramente, occasioni («In morte di Monsignor della Casa Arcivescovo di Benevento», «In morte del Sig[nor] Antonio Epicuro»).22 Guardando avanti nel secolo e anche a rimatori di caratura minore, si incontra una situazione simile, ad esempio, nelle raccolte di Francesco Caburacci (1580) e di Giovan Maria Agaccio (1598), in cui i testi di materia spirituale o amorosa sono privi di didascalie, ben presenti invece per le rime d’encomio, di cui segnalano i destinatari e le occasioni private o pubbliche («All’Illustre Mons[ignor] SASSATELLI in morte del S[ignor] Conte FRANCESCO suo fratello»; «Al S[ignor] Cardinal CESI quando dipartì per Romagna»), e per le corrispondenze poetiche.23 Passando a libri incentrati più decisamente sulla materia amorosa, la presenza di didascalie “contenutistiche” rimane di norma limitata. Il dato non deve stupire, se considerato alla luce del rapporto tra componimenti di soggetto amoroso e rubriche in una cronologia più ampia: per i versi d’amore, il peritesto tende infatti ad essere generico (del tipo «All’amata», «Alla sua donna», «De amore») o addirittura assente, secondo il modello petrarchesco; fanno eccezione alcune raccolte di fine Quattrocento e primo Cinquecento, come il Tyrocinio de le cose vulgari (1504) di Diomede Guidalotti e il Fior de Delia (1507) di Antonio Ricco, nelle quali l’evidenziazione dei motivi e delle situazioni amorose in sede di rubrica è invece estremamente ricca e vivace, e opere al limite del prosimetro come quelle di Olimpo da Sassoferrato, del “Notturno Napoletano” o di Niccolò Liburnio. Tuttavia, proprio negli ultimi decenni del Cinquecento, nonostante l’indubbio persistere di titolazioni generiche come «amoroso»,24 la materia d’amore diventa –o meglio ridiventa, se pensiamo ad alcune esperienze quattrocentesche – oggetto di un trattamento peritestuale più attento e articolato, per due vie principali: da una parte, direttamente, in quanto materia amorosa riletta e risignificata in chiave morale e filosofica, precisamente con l’ausilio della prosa; dall’altra, indirettamente, attraverso una rinnovata e crescente insistenza sui “soggetti” che investe la lirica in generale, traducendosi dapprima in strumenti come tavole dei “concetti”, che invitano ad attraversamenti discontinui delle raccolte in chiave tematica, e poi in veri e propri repertori, come il Tesoro di concetti poetici (1610) di Giovanni Cisano, mentre comincia ad affermarsi un gusto per la titolazione breve.25 Tra gli esempi pertinenti per illustrare il ruolo delle didascalie “contenutistiche” nel sostenere e realizzare la trasformazione dei soggetti amorosi in chiave allegorica e sapienziale, dagli Amori di Giovan Battista Pigna (rimasti manoscritti) all’autocommento (1591) di Torquato Tasso, ho scelto due raccolte molto ampie e dotate di peritesti ricchissimi: le Rime di Giuliano Goselini, nell’edizione postuma e definitiva del 1588, e quelle di Curzio Gonzaga, nella stampa del 1591.

Per le Rime di Goselini, la cui lunga storia editoriale è stata ricostruita nel dettaglio da Simone Albonico, una serie di lettere attestano il coinvolgimento diretto e a volte tormentato dell’autore nel progetto e nella stesura degli «argomenti», per l’allestimento dei quali dà indicazioni precise e chiede consiglio ai suoi interlocutori.26 In una lettera del 15 marzo 1580 a Benedetto Guidi esprime preoccupazioni di ordine sia tipografico che compositivo: «È anco da avvertire, che se l’argomento sarà più lungo di due righe, come peraventura ce ne può esser qualcuno, di necessità s’haverà a variare l’ordine preso; il che parrà male»; e più avanti, «Afar gli argomenti a i componimenti non amorosi et diversi non mi so ben risolvere; vederò se mi ci saprò adattare».27 Qualche inquietudine in merito agli argomenti emerge anche per l’ultima edizione, ancora accresciuta e uscita postuma nel 1588, come si ricava da una lettera del 22 ottobre 1586 a Francesco Melchiori, dove il destinatario e curatore viene invitato a scegliere buoni caratteri e carta bianca e ad escludere senza esitazione «i parti men buoni», cioè i componimenti meno riusciti, facendo lo stesso con gli argomenti: «Sotto la medesima legge et censura le mando gli argomenti, de’ quali molti conosco per freddi, et poco o niente valevoli, i quali desidero che da lei ricevano spirito et vivacità, dal cui vivacissimo ingegno posson sicuramente riportarla».28 Goselini non solo si preoccupa che gli argomenti abbiano una misura più o meno regolare e non manchino di spirito, mostrando che essi sono parte dell’opera a tutti gli effetti (e come tali saranno letti, causando noia o meraviglia nel lettore), ma rivela il proprio disagio di fronte al compito di approntare quelli relativi ai componimenti «non amorosi et diversi», cioè ai testi d’occasione. Per quanto marginale e fatta di passaggio, l’affermazione può suonare paradossale a fronte del nesso logico e storico tra occasioni e didascalie (evidente ad esempio nelle citate raccolte di Bellincioni e Perleoni) ed è indizio dell’emergere di una strategia di annotazione che non esclude ma anzi mette in primo piano i testi amorosi. In effetti, nella seconda parte delle Rime, dominata da versi d’encomio e d’occasione, gli «argomenti» si riducono spesso all’identificazione dei numerosi destinatari storici, mentre hanno uno sviluppo maggiore nella prima parte, dove non si incontrano interlocutori esterni alla vicenda amorosa tranne due artisti, Agostino Decio e Ambrogio Figino, comunque chiamati in causa in merito al ritratto della donna.

Verosimilmente alla ricerca di un trattamento omogeneo, regolarmente contenuto entro il limite delle due righe tipografiche, Goselini (e Melchiori) in genere si tengono lontani dagli estremi dello spettro sintattico potenzialmente attivo nelle didascalie, cioè tanto dalla massima concisione nominale quanto da sviluppi di tipo narrativo. Rari sono i casi di etichette succinte come «Spirituale», «Amore mal guiderdonato» (entrambe riferite a madrigali), «Di gelosia», «Di penitenza» o «In lontananza», cui si affiancano rubriche la cui brevità è motivata dall’iterazione del soggetto («Del precedente soggetto»; «Del medesimo soggetto»; «Sopra il medesimo») o dalla ridondanza di un’eventuale spiegazione («È chiaro»).29 Del tutto assenti sono argomenti lunghi e di impianto narrativo, che non mancheranno invece nelle Rime di Gonzaga, e le prose (relativamente) più estese indugiano su ciò che accade nel testo più che sull’extratesto, come suggerisce l’uso frequente di verbi come “narrare”, “descrivere” e “mostrare”, coniugati alla terza persona, o la presenza sottintesa di un verbum dicendi:

Narra come ei fu preso da Amore, con l’Alba al cognome et alla bellezza alludendo della S[ua] D[onna].
Narra la battaglia che Amor hebbe seco per conquistarlo; tolta da Anacreonte.
Descrive l’amata D[onna] in atto pensoso et lagrimevole.
Uscito a riveder la S[ua] D[onna] mostra che piovve per temperar la sua fiamma et che incontrandola poi il giorno si rasserenò.
[Dice] La bellezza esser riposta, quasi in sua propria imagine, nella S[ua] D[onna] et quindi partorir effetti d’amore più degni dell’ordinario.
[Dice] Che Amore, sotto le nere bende et ne’ begli occhi nascostosi della S[ua] D[onna], quanto più par celato, più infiamma.30

Si può registrare così, con cautela, un doppio movimento: da un’occasionalità esterna a un’occasionalità interna, dall’enfasi sul contesto (o sul soggetto “non lavorato”) a quella sul concetto, eventualmente mediato da una fonte. Che l’accento sia sui testi e non sui dati di realtà – veri o presunti – che li avrebbero ispirati è confermato da una certa attenzione per il nucleo retorico o argomentativo dei componimenti:

Paragona il cagnolo et la bellezza della S[ua] D[onna] a quello et a quella d’Helena.
Al monte che sul lago di Como fa la fonte Pliniana et alla fonte stessa assimiglia se medesimo et le sue lagrime.
Argomenta come la bellezza della S[ua] D[onna] sia più rara d’ogni altra.31

In questi come in altri casi, l’individuazione di una figura o di un fatto retorico è inseparabile da quella del “soggetto”, al confine tra inventio ed elocutio. In alternativa, si trovano argomenti di ordine generale in forma di sentenza, spesso con verbo all’infinito e talvolta con rinvio a nozioni filosofiche, come:

Gli amanti veri sempre esser giovani.
Non potersi amar con misura una smisurata bellezza.
Dall’invisibile bellezza dell’anima proceder quella del corpo visibile.
Allude ad una Platonica opinione.
Amore esser desiderio et di bellezza et d’immortalità, come appresso i Platonici.
32

Tali nozioni avevano ben altro spazio nella Dichiarazione (1573) allestita dal poeta a commento di quasi duecento dei propri testi, per l’esattezza 177 dei componimenti poi giunti fino alla stampa postuma (più un testo rifiutato), che corrispondono al 52% delle 340 rime d’amore nell’assetto del 1588: un numero cospicuo, che aiuta a spiegare la disomogeneità quantitativa degli esiti di un progetto auto-esegetico sostanzialmente coerente. Come è stato osservato, nella Dichiarazione i contenuti filosofici e religiosi e le digressioni in cui vengono discussi sembrano contare più dei testi, come dimostra la fondamentale chiarezza di molti dei versi commentati, per quanto l’autore affermi che «parve ad alcuno che molti di quei componimenti havessin bisogno di qualche dichiaratione».33 Se in molti casi le prose del 1573 prendono spunto dai testi ma se ne allontanano, inscrivendone i temi in ragionamenti di portata molto più ampia, gli «argomenti» preparati per corredare le Rime, inseriti a testo fin dall’edizione del 1581, fanno centro sul soggetto dei componimenti o sulla loro destinazione, restando di norma sul piano letterale. Questa distinzione riflette lo scarto tra le due operazioni, cioè tra un autocommento vero e proprio, la cui genealogia prosimetrica risale, attraverso il Comento de’ miei sonetti di Lorenzo de’ Medici, alla Vita nova, e un libro di poesia in cui la prosa peritestuale è una presenza sistematica ma non tale da mettere in questione la centralità dei testi poetici. Può confermarlo, e contrario, un esperimento come quello proposto nella prima parte delle Rime (Venezia, Francesco Sansovino, 1560) di Luca Contile, dove gli «argomenti» approntati da Francesco Patrizi, riuniti in fondo alla sezione (cc. 25r-36v), attivano un’ambiziosa sinergia con il Discorso (cc. 14r-24v) di impianto teorico che le precede: come questo riflette sulla materia della poesia e sul rapporto tra «soggetto» e «concetto», così gli argomenti affrontano i soggetti in chiave retorica e non occasionale o aneddotica, con una sistematicità che investe anche le formule di apertura («Il soggetto è…»; «Il soggetto et concetto…») e le strutture interne delle singole esposizioni.34

L’analogia più evidente tra l’edizione 1588 delle Rime di Goselini e le Rime di Curzio Gonzaga ristampate con gli Argomenti ad ogni compositione (1591) consiste nell’accento che, in entrambe, gli «argomenti» pongono sul soggetto così come viene espresso nel testo più che sulla sua eventuale origine occasionale. Anche l’assetto tipografico delle due raccolte, per quanto realizzate rispettivamente in dodicesimo e in quarto, è simile, con il ritratto dell’autore e con argomenti regolarmente presenti, stampati in tondo e in corpo minore, ma nella seconda le prose di corredo sono mediamente più estese e, a livello macrotestuale, sono integrate in un’organizzazione tematica più complessa. Sul piano microtestuale, la maggiore articolazione degli argomenti di Gonzaga è particolarmente evidente per canzoni e capitoli, a suggerire una corrispondenza tra estensione della prosa e dimensione narrativa del testo poetico. Così, ad esempio, per la citata canzone sulla visita di Amore in villa (Come leggiera et sciolta, p. 57), a corredo del capitolo Ah non comporti il ciel, Gioan Paolo mio e della lunga canzone Lass’io mi struggo a poco a poco et sento:

Allontanatosi mal sodisfatto dall’Orsa, dice ch’Apollo gli apparve in sogno, persuadendolo a lasciarla come ingrata et cruda, promettendogli insieme ch’era amato et desiderato da altra Donna più bella et più grata d’essa; ma destatosi si adira con lui, affermando ch’egli non conosca l’eccellenza di lei et di non volerla lasciar in eterno, cruda o pia che le si mostri.

Parla con Amore, lamentandosi che comporti che l’Orsa stia tanto rinchiusa, come non curante il valore di esso, attendendo ella a ricamar di sua mano la tavola di Calisto, onde lo prega ad oprar in modo che divenga più pia.35

Sul piano macrotestuale, la separazione tra rime d’amore e rime d’encomio, che in Goselini coincideva con quella tra prima e seconda parte, in Gonzaga viene mantenuta e insieme superata alla luce di un disegno complessivo che pone ciascuna delle sei parti sotto l’insegna di un diverso tipo di «amore», la cui natura viene chiarita nelle relative titolazioni:36

PARTE PRIMA, Intitolata, AMOR PUNGENTE: In cui si contiene un discioglimento d’amore del Poeta riconosciuta la Donna amata per indegna della di lui servitù.

PARTE SECONDA, Intitolata, AMOR LIGANTE: In cui si contiene il novello, pudico et nobilissimo innamoramento del Poeta con la div’Orsa.

PARTE TERZA, Intitolata, AMOR LANGVENTE. In cui si contengono molti affetti et effetti d’Amore, et speranze, et temenze, et passioni, et contentezze gentili.

PARTE QVARTA. Intitolata, AMOR TRASFORMANTE, O ESTATICO, In cui si contengono le innumerabil virtuti dell’Orsa amata, et fra l’altre la sua infinita honestà, et la incomparabil bellezza.

PARTE QVINTA. Intitolata, AMOR DI CARITÀ E BENEVOLENZA. In lode di diversi valorosi, et meritissimi Prencipi, et Letterati, et di bellissime, et virtuosissime SIGNORE.

PARTE SESTA. Intitolata, AMOR DI GLORIA. In cui si contengono cose di guerra, et particolarmente la rotta di mare data a Selim Re de, Turchi dal Sereniss. Don GIOANNI d’Austria.

Ciascuna parte si regge su un macrotema e, al suo interno, ciascun testo è preceduto da un argomento. Il senso di unità strutturale è ribadito dall’argomento del primo sonetto, che lo identifica come «propositione» dell’intera raccolta («Questo primo nobilissimo Sonetto ripieno di modestia, di humiltà, et di valore, abbraccia tutti i Libri di questa opera come propositione», p. [1]), mentre la narrazione prende avvio con il secondo («Comincia la narratione, scoprendo il poco degno soggetto che si havea tolto ad amare, pentendosi del suo errore», p. 2) e si sviluppa secondo una storia più o meno riconoscibile, costruita intorno ad alcuni macro-nuclei narrativi e tematici – superamento di un amore non degno (I), nuovo e più degno innamoramento (II), con le sue alterne passioni (III) e le doti dell’amata (IV); infine, si conclude con un pentimento, posto al termine della quarta parte ma ribadito in chiusura della sesta e ultima, con un sonetto in cui il poeta, malato, «si rassegna nel voler di Dio» (p. 235), e uno autocelebrativo che costituisce la «Chiusa di tutto [sic] quest’Opra» (Ibid).

L’integrazione di un disegno amoroso unitario e di rime di «lode» e di «guerra» è coerente con la doppia eccellenza rivendicata al Gonzaga, poeta lirico e poeta eroico, nella dedicatoria del curatore Battista Manassi (c. †2r) e con la presenza di didascalie «contenutistiche» anche nelle sezioni di argomento encomiastico e militare, secondo un pro-getto lirico-biografico a tutto tondo, che non manca di riscontri nel secondo Cinquecento, da Anton Francesco Rainerio (Cento sonetti, 1553[-1554]) ad Annibal Guasco (Rime, 1581), le cui raccolte sono accompagnate rispettivamente da una Brevissima espositione dei soggietti loro, attribuita al fratello Girolamo, e da una Breve dichiaratione de i concetti de le presenti rime. Come ha osservato Bruscagli, mettendo a frutto uno spunto di Gorni, «le soluzioni possono essere divergenti […], ma la rottura del tempo interiore petrarchesco a favore del tempo fortunoso di vite appassionatamente combattute […] è indubbia, e spezzando il cliché di un petrarchismo trascendentale, in sé concluso, invita piuttosto a vedere in molti di questi canzonieri un capitolo del diarismo autobiografico cinquecentesco».37 Qualcosa di simile accade anche nel Ben divino di Giovan Battista Pigna (silloge mai giunta alle stampe), dove le occasioni della corte ferrarese fanno da sfondo alle vicende dell’amore per Lucrezia Bendidio, e nell’immenso laboratorio delle rime tassiane, dove «dei margini casuali della realtà» si può fare «il contenuto di una poesia».38 La realizzazione e la tenuta di tutti questi diari poetici del tempo esteriore, mi pare, trovano nelle prose peritestuali un puntello essenziale, così come, per converso, i Rerum vulgarium fragmenta prendevano senso, forma e unità precisamente nel fare a meno della prosa. L’attenzione per le occasioni nelle didascalie “contenutistiche” diventa sistematica e, per così dire, strutturale in quelle raccolte che adottano consapevolmente una maggiore varietà di temi e nascono proprio come libri di occasioni, secondo un modello oraziano e non petrarchesco: non canzonieri ma nemmeno diari o cronache, in quanto episodi e situazioni vi costituiscono soprattutto il pretesto per riflessioni di ordine morale o per esperimenti poetici in cui la prosa, come vedremo, tende a diventare inseparabile dai versi. Notevole è il caso dei Cento sonetti (1549) di Alessandro Piccolomini, in cui le didascalie sono controllate dall’autore e verosimilmente vanno ricondotte allo stesso progetto poetico illustrato nella importante lettera che li precede.39 La novità di questa propostaè legata a una presa di posizione rispetto alla questione della «materia» della lirica, sviluppata anche a contatto con l’ambiente degli Infiammati, per cui il valore del poeta dipende soprattutto dalle sue scelte tematiche, che non devono essere per forza limitate all’amore, a dispetto di chi ha avuto «ardire di affermare che le rime lirice italiane non comportano altro che sospiri e tormenti amorosi, e fiori, herbe e frondi».40 Stando alla lettera, Piccolomini avrebbe operato una selezione delle proprie rime, includendovi non solo soggetti amorosi ma anche «diverse materie morali e piene di gravità, ad imitation d’Horatio» e questa maggiore varietà di soggetti si riscontra effettivamente nella raccolta.41 Delle didascalie non si fa menzione nella lettera, ma la loro importanza sembra trovare conferma nella loro doppia presenza, a testo e nella finale «TAVOLA DE LI CENTO SONETTI, secondo le materie che contengano, e a chi son mandati». Molte identificano semplicemente i destinatari, altre registrano tempi e occasioni («La mattina del Giovedì santo, innanzi la Communione»; «A M[esser] Ottaviano Scotto, sopra un sogno fatto da l’Autore, essendo infermo nel mese d’Agosto in Roma») oppure soggetti («Contra gli studij de le scientie»; «Contra l’ambitione e soverchi desiderij»),42 altre ancora esplicitano il legame tra figure e situazioni e i temi morali sviluppati nei testi:

A M[esser] Pavolo Riccardo, de la corrotta vita de la nostra etade A M[esser] Martio Altieri, contra l’astrologia giudicativa
A ’l Dottor Iuan Paez, in lode de la vita de la villa
Al S[ignor] Mariano Savello, in defensione de gli studij de le scientie

A uno avaro, sotto ’l nome di Mideo
Ad un amico ambitioso, che vive di avisi e di nuove
Ad un inquieto e incostante de la vita sua, sotto ’l nome di Tigello
Ad uno già vecchio, che ha gran timor de la morte, sotto ’l nome di Tideo43

La presenza regolare delle didascalie, stampate in corsivo sopra la rubrica metrica, contribuisce a scandire anche tipograficamente il ritmo di un libro di episodi biografico-esemplari, affidati ad altrettanti sonetti, disposti uno per pagina, e a costruire un discorso morale basato sull’interazione di testo e peritesto.

Una diversa declinazione del “libro di occasioni” è offerta da un altro senese, Diomede Borghesi, con le Rime amorose (1585). Se nelle raccolte andate a stampa tra il 1566 e il 1571, poi rifiutate dall’autore, erano presenti solo didascalie “onomastiche” e riferimenti alle occasioni d’encomio, qui la silloge è accompagnata da «brievi argomenti» di Cesare Perla. Stando a quanto affermato nel suo avviso «a coloro che leggeranno», il curatore avrebbe voluto preparare «molte particolari annotationi sopra i concetti, le voci, le locutioni e le figure» che fanno «vaghe e riguardevoli» le rime del Borghesi; tuttavia, data l’opposizione dell’autore, si sarebbe limitato a qualche rapido commento, celebrandone innanzitutto i soggetti («subietti»), «quasi tutti nuovi e di quella maniera in cui si mostra maggiormente la vivacità dell’ingegno e la fermezza del giudicio», e quella versatile capacità «nello spiegar poetando altri concetti che d’amore» per cui il Borghesi «riesce il medesimo in qualunque subietto».44 Nello stesso avviso, Perla assegna agli «argomenti» una funzione esplicativa:

Quando in leggendo ritroverete qualche componimento di cui non vi paia poter bene intendere il soggetto e desiderete haverne pieno intendimento, piacciavi di ricorrere a’ nostri argomenti, che sarano sul fine. Perché così facendo, havrà subito effetto il desiderio vostro.45

Il ricorso solo eventuale agli argomenti da parte del lettore appare coerente con la loro collocazione in fondo al volume, fatta eccezione per la canzone funebre «Nella morte del sereniss[imo] Sig[nor] Cosimo de’ Medici Gran Duca di Toscana» (p. 65), già richiamata nell’avviso come prova della varietà di soggetti che il poeta è in grado di trattare efficacemente. Come nei Cento sonetti, i componimenti sono stampati uno per pagina, ma lo spazio là (in ottavo) riservato alle didascalie e alle rubriche metriche è qui (in quarto) regolarmente occupato da un fregio, cui fa eco la cornice che decora le iniziali, mentre gli argomenti sono appunto radunati «sul fine» (pp. 65 [ma 73]-[89]), nello stesso ordine dei testi ai quali si riferiscono. Pur con alcune eccezioni (come «In una partenza della Donna del Borghesi»; «Si spiega un particolar sogno dell’Autore», p. 69 [ma 77]), queste prose sono mediamente più estese e articolate rispetto agli argomenti di Gonzaga e generano meccanismi di integrazione narrativa di più ampia portata, incoraggiando il lettore a stabilire collegamenti tra testi diversi, oltre che tra testi e situazioni. Ad esempio, per il sonetto Deh, rimovi o mia dolce aspra guerriera (p. 23), l’argomento restituisce in forma di narrazione il contesto in cui si colloca lo scambio proposto nei versi e insieme accenna proletticamente alle conseguenze prodotte da questo incontro, fuori e dentro i confini della poesia:

L’Autore, nel mirar fisamente una molto celebrata Signora, che con neri veli e con sozza e spiacevol mascara s’havea nascosto il viso, il collo e ’l seno, si sentì subito da’ miracolosi occhi di lei rapir la miglior parte di se stesso. Laonde per acconcio modo accostatosele, la pregò che si volesse smascarare. Ma ella né gli compiacque, né gli diede allora risposta. In lode di questa medesima donna, che poi fece al Borghesi di molti onesti favori, fu composto il sonetto che comincia Mentr’a bagnar.46

Il lettore è invitato non solo a rileggere il sonetto alla luce della situazione descritta nella prosa ma anche a confrontarlo con l’altro componimento riferito alla stessa misteriosa donna (p. 3) e con il relativo argomento (pp. 65-66 [ma 73-74]). In modo analogo, il limite tra dato biografico (o pseudo-biografico) e invenzione poetica viene valicato quando l’argomento aggiunge informazioni sul rapporto tra extratesto e testo dal punto di vista della cronologia («Qui non è da tacere che egli compose tutte queste rime et che io feci questi argomenti avanti che egli prendesse mogliere»).47 Altrove Perla fornisce spiegazioni di ordine meta-poetico rispetto alla genesi e al valore di un testo (l’imitazione di Rvf 134 proposta nel sonetto Per te s’alza il timor, cresce la spene supererebbe tutte le altre «nel concetto»)48 o alla sua collocazione, come accade per il sonetto Aspro cinghial, di cui non hebber forse (p. 41):

Un feroce cinghiare, cacciato da cani e forse impaurito per la presenza di molti Cavalieri, che con gli spiedi in mano lo stavano attendendo in un campo, circondato da tele, si fermò, quasi dubbioso di quello che far dovesse. Al fine con grande impeto andò a farsi uccidere avanti la carozza [sic] della sopra nominata valorosissima S[ignora] DUCHESSA d’Urbino, la quale, accompagnata da molte Signore, era andata quivi per veder la caccia. Questo sonetto (sì come di quattro o cinque altre compositioni s’è fatto per la medesima cagione) s’è posto fra le Rime amorose, per essere spiegato il nuovo concetto assai leggiadramente.49

Oltre a chiarire nel dettaglio le circostanze che avrebbero ispirato il ben più ellittico sonetto, l’argomento dà ragione della sua inclusione tra le rime amorose, nonostante un soggetto apparentemente inadatto a tale sede: la scelta si giustifica sul piano dell’elocutio, in quanto il «nuovo concetto» esplorato da Borghesi (a livello di inventio) è stato da lui «spiegato», cioè svolto, realizzato nei versi, con lo stile leggiadro tipico delle rime d’amore. È evidente che, a fronte del libro di occasioni morali proposto da Piccolomini, quello di Borghesi è soprattutto un libro di occasioni poetiche, secondo una tendenza destinata a rafforzarsi, ad esempio, nelle citate rime di Guasco. A livello dei paratesti, questa evoluzione si riflette nello scarto tra le sobrie didascalie d’autore dei Cento sonetti e i lunghi argomenti allestiti, per Borghesi e per Guasco, con il coinvolgimento dei curatori: nei secondi, gli episodi rievocati contano soprattutto in quanto hanno ispirato uno svolgimento arguto (che la prosa valorizza, svelando le circostanze che i versi hanno trasformato fino a renderle irriconoscibili) o addirittura una serie di variazioni ingegnose su un medesimo «soggetto».

In un discorso sulla progressiva estensione dei paratesti nell’ultimo scorcio del secolo, un capitolo a parte meriterebbero le antologie, le cui tavole sono sempre più spesso corredate di argomenti, e la lirica di ispirazione morale o religiosa, che presenta configurazioni di estrema complessità, tra autocommento – si pensi alle Rime spirituali (1570) di Gabriele Fiamma – e commento, come nelle Rime morali di Pietro Massolo (1583) e di Angelo Grillo (1599), accompagnate da annotazioni rispettivamente di Francesco Sansovino e di Giulio Guastavini. Qui mi limito a osservare, in chiusura, che queste raccolte illustrano con particolare evidenza il dato più caratteristico dei paratesti lirici a questa altezza, che coinvolgano o meno un curatore: una fortissima integrazione strutturale e funzionale tra testi in versi e prosa di corredo, che rivela un livello molto elevato di «progettualità macrotestuale», talvolta spinta al limite del prosimetro.50 Se i canzonieri di impianto petrarchesco tendono a fare a meno della prosa peritestuale, riservandola a componimenti d’encomio e d’occasione, molti libri di rime organizzati secondo altri criteri, di tipo metrico o tematico, e quelli che ho definito “libri di occasioni”, si costruiscono e funzionano precisamente attraverso un uso sistematico di didascalie e argomenti, secondo una dinamica che agisce in due direzioni: lo sviluppo dei paratesti presuppone usi non petrarcheschi del libro di poesia e al tempo stesso li incoraggia e indica nuove direzioni e possibilità.

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1 Qui e di seguito ricorrerò alla terminologia di Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989.

2 Per alcune riflessioni di ordine metodologico su questo tipo di semplificazioni cfr. Claudio Giunta, Sulla morfologia dei libri di poesia in età moderna, in Francesco Lomonaco, Luca Carlo Rossi, Niccolò Scaffai (a cura di), «Liber», «Fragmenta», «Libellus» prima e dopo Petrarca, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2006, pp. 445-457.

3 Per l’analisi di un esempio quattrocentesco mi permetto di rinviare a Federica Pich, Sulle «declarationi» nei Rithimi di Gaspare Ambrogio Visconti, in Simone Albonico e Simone Moro (a cura di), Gaspare Ambrogio Visconti e la Milano di fine Quattrocento. Politica, arti e lettere, Roma, Viella, 2020, pp. 223-242.

4 Delle rime del sig. Torquato Tasso parte prima. […] Con l’espositione dello stesso autore […], Mantova, Francesco Osanna, 1591; Gli scherzi del sig. Girolamo Borsieri, sotto due parti divisi […], Milano, Nicolò Moioli, 1612, p. 7.

5 Franco Tomasi, Studi sulla lirica rinascimentale (1540-1570), Padova, Antenore, 2012; Id., Osservazioni sul libro di poesia nel secondo Cinquecento (1560-1602), in Alessandro Metlica e Franco Tomasi (a cura di), Canzonieri in transito. Lasciti petrarcheschi e nuovi archetipi letterari tra Cinque e Seicento, Milano-Udine, Mimesis, 2015, pp. 11-36.

6 Cfr. Alessandro Martini, Le nuove forme del canzoniere, in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco. Atti del convegno internazionale di Lecce, 23-26 settembre 2000, Roma, Salerno Editrice, 2002, pp. 199-226.

7 Pier Vincenzo Mengaldo, Titoli poetici novecenteschi [1990], in Id., La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi, 1991, pp. 3-26; Luigi Blasucci, I titoli dei «Canti», in Id., I titoli dei «Canti» e altri studi leopardiani [1989], Venezia, Marsilio, 2011, pp. 146-157.

8 Per questa definizione prendo spunto dall’Introduzione all’Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento, a cura di Andrea Comboni e Tiziano Zanato, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2017, p. XXVI.

9 In questa sede mi limito a elencare le funzioni principali, ma una loro disamina più approfondita sarà offerta in un lavoro attualmente in preparazione, nell’ambito del mio progetto Framing the Lyric Subject Matter: Prose Headings in Italian Books of Poetry (c. 1450-c. 1650), finanziato dalla Alexander von Humboldt Stiftung con un Forschungsstipendium für erfahrene Wissenschaftler (Freie Universität Berlin, 2019-2021).

10 P.V. Mengaldo, Titoli poetici novecenteschi, cit., p. 5; L. Blasucci, I titoli dei «Canti», cit., pp. 154-155.

11 Gli esempi sono tratti, nell’ordine, da Rime del s. Giuliano Goselini […], Venezia, Francesco Franceschi, 1588, pp. 30 e 38; Rime amorose del sig. Diomede Borghesi […] novellamente poste in luce, con alcuni brievi argomenti di M. Cesare Perla, Padova, Lorenzo Pasquati, 1585, p. 69; Cento sonetti. Di m. Alisandro Piccolomini, Roma, Vincenzo Valgrisi, 1549, c. [C viijv].

12 Cito rispettivamente dalla «Tavola del libro» presente in Giovan Maria Agaccio, Rime […], Parma, Erasmo Viotti, 1598, c. [G 6v], e da Borghesi, op. cit., p. 65.

13 Rime dell’illustriss. sig. Curtio Gonzaga […], Venezia, Al segno del Leone, 1591, pp. 228 e 57, dove le prose citate introducono rispettivamente il capitolo Signor, ch’oppresso da Fortuna acerba e la canzone Come leggiera et sciolta.

14 Mi riferisco a Prima parte delle rime dell’eccellentiss.mo giureconsulto il sig. Francesco Denalio […], Bologna, Alessandro Benacci, 1580.

15 Mi riferisco a Rime de gli Academici Eterei [...], [Venezia, Comin da Trino, 1567?], cc. 76r-[X1v], e cito da Rime del s. Giuliano Goselini, cit., pp. 33 e 40; ma cfr. anche ivi, p. 53.

16 Cfr. Maria Luisa Meneghetti, Il pubblico dei trovatori. La ricezione della poesia cortese fino al XIV secolo, Torino, Einaudi, 1992.

17 Il primo libro dell’opere toscane di m. Laura Battiferra degli Ammannati, Firenze, Giunti, 1560, rispettivamente p. 22 e pp. 91 [ma 94]-101.

18 Cfr. Chiara Zaffini, Le Rime di Laura Battiferri Ammannati nel ms. 3229 della Biblioteca Casanatense. Struttura, motivi, questioni storico-filologiche, «Accademia Raffaello. Atti e studi», s. II, a. XIII (2014), fasc. 1-2, pp. 43-58 (p. 48).

19 Il primo libro dell’opere toscane di m. Laura Battiferra, cit., pp. 9-10 e 12-13. In altri casi le rubriche identificano gli autori dei sonetti cui Battiferri risponde per le rime, mettendo in evidenza le sue numerose corrispondenze poetiche.

20 Rime di m. Bernardo Cappello, Venezia, Domenico e Giovan Battista Guerra, 1560, cc. [Oo 4v], [RRr], [Oo3r], che rinviano rispettivamente a pp. 258, 170 e 237, ma cfr. anche Id., Le Rime di Bernardo Cappello, Edizione critica a cura di Irene Tani, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2018.

21 Ivi, p. 62, nota 149: «L’abbondanza di rubriche nella princeps del veneziano deriva forse dal gusto del curatore, Dionigi Atanagi, il quale era solito rubricare le liriche e gli indici […]».

22 Sonetti et canzoni del s. Bernardino Rota. Con l’Egloghe pescatorie, Napoli, Giovan Maria Scotto, 1560, cc. Lr, Lv, L4r, Lr, L2r.

23 Cito da Rime di Francesco Caburacci da Immola, Bologna, Giovanni Rossi, 1580, pp. 60 e 72. La silloge fu approntata per la stampa da Alessandro Vandini, che firma la lettera di dedica. Nelle citate Rime di Giovan Maria Agaccio, curate da Girolamo Alessandrini, le corrispondenze con altri poeti assumono grande rilievo.

24 Ad esempio, nelle Rime di Pietro Porro le didascalie hanno contenuti e funzioni diverse, dall’identificazione del metro alla concisa designazione dell’occasione, ma molte recitano semplicemente «amoroso» o «amorosa», talvolta in combinazione con il riferimento alla destinataria, come «Amoroso a la S[ignora] Angela…» (Rime di Pietro Paolo Porro […], Milano, Paolo Gottardo Pontio, 1573, p. 11). Del resto anche nelle Rime di Annibale Guasco, che pure includono ampie «dichiarationi» per soggetti d’amore, non mancano definizioni frettolose come «Amoroso et chiaro», «Amoroso et facile», «Chiaro et amoroso» (Il primo volume delle rime del s. Annibal Guasco […] et insieme il secondo volume […] con una breve dichiaratione de i concetti loro […], Pavia, Girolamo Bartoli, 1581, p. 72).

25 Sulla fortuna degli argomenti «brevi», tra Battista Guarini e Marino, cfr. A. Martini, Le nuove forme del canzoniere, cit., pp. 206-208.

26 Simone Albonico, Descrizione delle «Rime» di Giuliano Goselini, in Id., Ordine e numero. Studi sul libro di poesia e le raccolte poetiche nel Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006, pp. 136-181.

27 Lettere di Giuliano Goselini […], Venezia, Paolo Megietti, 1592, cc. 105r-106v (citazioni a c. 105v e c. 106r). Cfr. anche la lettera del 2 aprile allo stesso Guidi (cc. 106v-108r), in cui l’autore afferma di essere intervenuto sugli «argomenti», che ora considera pronti.

28 Ivi, cc. 156v-158r (c. 157r).

29 Rime del s. Giuliano Goselini, cit., pp. 67; 101; 52; 66 e 193; 132; 18; 104; 78-79; 40 e 53. Cfr. Giuliano Goselini, Rime (1588), a cura di Luca Piantoni, Padova, Cleup, 2014.

30 Rime del s. Giuliano Goselini, cit., pp. 3, 45, 183, 107, 13, 36.

31 Ivi, pp. 28, 39, 71.

32 Ivi, pp. 58, 77, 183, 158, 165.

33 Armando Maggi, Il commento al “sé oscuro”: la «Dichiarazione» di Giuliano Goselini e la fine del sapere rinascimentale, «Italianistica», 32/1 (2003), pp. 11-28.

34 Sugli argomenti di Patrizi per le Rime di Contile cfr. Ester Pietrobon, Gli Argomenti di Francesco Patrizi come teatro ermeneutico del testo, in A. Metlica e F. Tomasi (a cura di), Canzonieri in transito, cit., pp. 37-58, e Pietro Petteruti Pellegrino, La negligenza dei poeti. Indagini sull’esegesi della lirica dei moderni, Roma, Bulzoni, 2013, pp. 114-122.

35 Rime dell’illustriss. sig. Curtio Gonzaga, cit., pp. 93 e 107.

36 Ivi, pp. [1; 33; 67; 103; 146; 198]. Già nella princeps del 1585 le Rime di Gonzaga si presentavano divise in sei parti ma senza argomenti, seguite da sonetti di diversi all’autore (come poi nel 1591) con didascalie attributive; nell’indice comparivano indicazioni relative ai destinatari, solo in un caso con esplicito riferimento all’occasione («Per lo nascimento del Sig[nor] Don Ferrante Gonzaga», c. Eer). Cfr. Massimo Scorsone, “Del bel Parnaso al seno anch’io ritorno”: per una rilettura delle rime di Curzio Gonzaga, in Anselmo Villata (a cura di), Curzio Gonzaga fedele d’amore, letterato e politico, atti del convegno di studi Torino (1999), Roma, Verso l’arte, 2000, pp. 15-28; Oler Grandi, Di Curzio Gonzaga e delle sue opere, in Simone Albonico et al. (a cura di), Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996, pp. 535-546; Curzio Gonzaga, Rime, a cura di Giovanna Barbero, Roma, Verso l’arte, 1998.

37 Riccardo Bruscagli, La preponderanza petrarchista, in Giovanni Da Pozzo (a cura di), Storia letteraria d’Italia, Il Cinquecento, vol. 3, La letteratura tra l’eroico e il quotidiano. La nuova religione dell’utopia e della scienza (1573-1600), Padova-Milano, Piccin Nuova Libraria, 2007, pp. 1559-1615 (p. 1568).

38 Bruno Basile, Introduzione, in Torquato Tasso, Rime, a cura di Bruno Basile, 2 voll., Roma, Salerno, 1994, vol. I, p. xxxvii.

39 Sul ruolo di queste didascalie nel «suggerire al lettore il senso e la funzione del singolo testo» cfr. F. Tomasi, Studi sulla lirica, cit., p. 115, n. 30. Cfr. Alessandro Piccolomini, I cento sonetti, a cura di Franco Tomasi, Genève, Droz, 2015.

40 Cento sonetti, cit., c. [A VIIr].

41 Ibid.

42 Ivi, sonetti XXV, XCI, XL, XC.

43 Ivi, sonetti VIII, XII, XVI, XLI; XXVI, LVII, LXVIII, LXXXVIII.

44 Rime amorose del sig. Diomede Borghesi, cit., cc. ††r e ††2r.

45 Ivi, c. ††2r.

46 Ivi, pp. 70-71 [ma 78-79].

47 La precisazione riguarda il sonetto Poi c’ha leggiadro avventuroso sdegno (p. 63), per il quale la prima parte dell’argomento recita: «L’Autore, col favor di nobile sdegno ricoverata la libertà, delibera di non voler mai più servire a crudele e superba femmina» (ivi, p. [89]).

48 Ivi, p. 12 e pp. 68-69 [ma 76-77].

49 Ivi, p. 75 [ma 83].

50 Cfr. Pietro Giulio Riga, «Canterò di virtù l’altro valore». Appunti sulla tradizione della lirica morale tra Cinque e Seicento, in Lorenzo Geri e Marco Grimaldi (a cura di), La lirica in Italia dalle origini al Rinascimento, Roma, Bulzoni, 2017, pp. 211-235: pp. 223-224 e Francesco Ferretti, Le muse del Calvario. Angelo Grillo e la poesia dei benedettini cassinesi, Bologna, Il Mulino, 2012.