Revue Italique

I Poeti latini del Cinquecento di Giovanni Parenti

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Qualche considerazione sui Poeti latini di Giovanni Parenti

Sebastiano Gentile

A differenza di Stefano Carrai, ho conosciuto appena Giovanni Parenti, poco più che di vista, malgrado fossimo tutti all’Università di Firenze, a Lettere, all’incirca negli stessi anni, con gli stesi maestri.

Ne conoscevo alcuni lavori, in particolare Pöeta Proteus alter, il suo bel volumetto su Pontano del 1985, e quello sul Cariteo, del 1993.1 Per il resto avevo letto alcune delle sue belle e sempre puntuali recensioni, ripubblicate nel volume miscellaneo in sua memoria, del 2009,2 e qualche articolo, ricavandone sempre l’impressione di uno studioso di rara intelligenza e cultura.

Quando Michele Ciliberto mi ha invitato a partecipare a questa presentazione, annunciandomi la pubblicazione dei Poeti latini del Cinquecento, non avevo idea che Parenti avesse lasciato inedita un’opera così importante per la nostra cultura e di così grande spessore.3 E a proposito di spessore, in senso non figurato, quando ricevetti i due volumi, confesso che pensai che dalle Edizioni della Normale mi avessero mandato in omaggio ben due copie dell’opera. Guardato meglio, devo dire con un certo sgomento misto ad ammirazione, scoprii invece che si trattava dei due volumi di una stessa opera per quasi 1400 pagine complessive. Impresa notevole per chiunque, sorprendente per uno studioso che in vita non aveva pubblicato poi moltissimo.

Leggendo la bella introduzione di Massimo Danzi, a cui saremo sempre grati per avere curato la revisione di quest’opera, apprendiamo che alla morte di Parenti essa era rimasta nei cassetti di Gianni Antonini, storico e benemerito curatore della Collana della Ricciardi «Letteratura italiana. Studi e Testi», a cui era destinato il volume, ma che nel frattempo era stata chiusa; e che poi Antonini nel 2001 inviò il materiale del libro di Parenti a Michele Ciliberto, nella speranza che questi trovasse un modo per pubblicare il lavoro altrove; e che, infine, dobbiamo a Ciliberto, che ne affidò la edizione a Danzi, la pubblicazione di questi bei volumi per le Edizioni della Scuola Normale.4

L’opera in origine doveva far parte di una sezione della Collana, in tre volumi, affidati alla supervisione di Guglielmo Gorni, dedicati alla poesia del Cinquecento. Prima della chiusura della Collana poté uscire un solo volume, coi Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, curato dallo stesso Gorni, da Massimo Danzi e da Silvia Longhi.

Nella Introduzione Gorni, accennando al piano dell’opera, ricordava:

Il terzo tomo, a norma del progetto originario, è riservato al lavoro del compianto Giovanni Parenti intorno ai poeti neolatini, commentati e tradotti a fronte degli originali: un recupero che è un’autentica novità storiografica. Per la prima volta si scommetteva seriamente, traendone le conseguenze, sul valore della poesia rinascimentale in latino, fortunatissima in Europa, ma non più letta da secoli. È l’ultimo capitolo veramente creativo di un bilinguismo istituzionale delle nostre lettere: il Tasso, per dire, a differenza di Bembo, Ariosto o Castiglione, non compose carmina (i pochi versi latini tramandati sotto il suo nome sono modestissima cosa, o non sono suoi). L’altro bilinguismo invece, quello col dialetto, resisterà a lungo nel tempo.5

«Un’autentica novità storiografica» che andava a dissodare un terreno molto poco coltivato, quello appunto della poesia latina cinquecentesca, che aveva visto proprio negli anni in cui si progettava questo terzo volume, la pubblicazione di due antologie di poesia latina del Rinascimento: quella curata da Pierre Laurent e Claudie Balavoine e pubblicata nel 1975, e quella dovuta ad Alessandro Perosa e John Sparrow uscita quattro anni più tardi.6 Due antologie che abbracciano un arco temporale più ampio di quello previsto per il volume ricciardiano – l’antologia di Perosa e Sparrow inizia col Petrarca – e che si presentano come antologie della poesia del Rinascimento, non soltanto italiano, ma europeo. L’antologia di Perosa e Sparrow inoltre offre i testi solo in originale, senza la traduzione.

Danzi nella sua introduzione ha condotto un accurato confronto tra l’antologia di Parenti e questi due precedenti, rilevandone le molte differenze nell’impostazione e nella scelta dei testi: se le tre antologie hanno in comune un buon numero di autori, la scelta dei singoli componimenti raramente coincide. Ma è soprattutto la cura dedicata da Parenti ai suoi testi, scelti dopo un’estesa e faticosa ricognizione su tutto il vastissimo materiale cinquecentesco tramandato, che scava un solco profondo tra questa e le altre due antologie. A fronte dell’essenzialità delle note biografiche e critiche di quest’ultime, come rileva Danzi,

In Parenti, i cappelli introduttivi hanno la misura del saggio critico e le note filologiche – estese all’intera tradizione filologica degli autori – sfiorano in qualche caso (per il tempo in cui furono redatte) l’esaustività.7

Il piano originale dell’opera, risalente al 1978, prevedeva ben 41 autori, suddivisi in sezioni, seguendo un criterio prevalentemente geografico. I volumi che si presentano oggi comprendono invece sedici autori, meno della metà. Si aggiunga che tra questi 16 sono compresi i due ferraresi Celio Calcagnini e Lilio Gregorio Giraldi che non figuravano nel primo elenco di 41 autori. Vennero inoltre esclusi a priori quegli autori le cui poesie latine avevano trovato spazio in altri volumi della Ricciardi, si pensi ad Ariosto e a Sannazzaro.

Tuttavia la scomparsa di Parenti interruppe l’opera a meno della metà degli autori previsti. Potrà quindi sorprendere che i sedici autori antologizzati coprano, come si è detto, quasi 1400 pagine.

Dei capitoli dedicati ai sedici autori, quattro spiccano per ampiezza: Girolamo Vida (202 pagine), Marco Antonio Flaminio (186 pagine), Pierio Valeriano (132 pagine), Francesco Maria Molza (112 pagine). Facendo una proporzione approssimativa, se il piano dell’opera del 1978 fosse stato portato a compimento, avremmo davanti non 1400, ma qualcosa come quasi 4000 pagine. Ma soprattutto credo che sia importante insistere sul rapporto che nei sedici autori completati vi è tra testo, traduzione e apparato di note, da un lato, e le parti introduttive dall’altro.

Se prendiamo come esempio il primo autore antologizzato, il pesarese Guido Postumo Silvestri, le pagine introduttive assommano a più del doppio rispetto a quelle dedicate a testo, traduzione e apparato. A testimonianza di un’opera, questa di Parenti, in cui le parti introduttive – biografia, edizioni e manoscritti, bibliografia, nonché le prefazioni alle singole opere – hanno avuto larghissimo spazio: vi è la ricerca, insomma, più della completezza del quadro d’insieme, in cui collocare l’autore e le sue opere, che del numero totale dei versi antologizzati.

Apriamo il primo volume. Dopo l’introduzione di Danzi, indispensabile per comprendere la genesi e il carattere del lavoro di Parenti, ci imbattiamo dunque proprio in Silvestri. Quando Parenti lavorava alla sezione a lui dedicata, consegnata nel 1991, sul Silvestri non era facile mettere insieme una notizia che fosse esaustiva. Tra l’altro non era ancora uscita la voce di Guido Arbizzoni nel Dizionario Biografico, pubblicata nel 2018.8 Ora, proprio un confronto della trattazione che Parenti fa del Silvestri con la voce del Biografico, rivela quanto la sua informazione fosse completa. Ma i suoi testi non sono mai banali, anche le biografie: non rifuggono mai dall’episodio curioso, che magari permette al lettore di capire meglio l’autore. Un esempio. Durante un suo viaggio in Francia, nel 1511, al seguito del cardinale Ippolito d’Este, Silvestri scrisse una lettera a Isabella d’Este, di cui Parenti non si trattiene dal riportare un particolare vagamente piccante, a proposito delle donne francesi, definite «un pocho sporche, cum un pochetto di rogna alle mane», ma in compenso «humanissime in lasciare basciarse, tocharse et abraciarse et in fare ogni piacevoleza excepto l’ultima: pur anchora a quella se lasciano giongere qualche volta».9 Ma se la biografia del Silvestri è vivace e ricca di notizie, non meno approfondita è la nota dedicata a Edizioni e manoscritti, dove sono descritti i vari testimoni che ne tramandano l’opera; i rapporti tra la tradizione manoscritta e quella a stampa, per esempio, sono così riassunti, in maniera efficace e lapidaria:

L’edizione del 1524 non deriva (per il numero e l’ordine dei testi che non corrispondono a quelli degli altri testimoni) da alcuno dei quattro principali mss. di carmi del Postumo, e neppure è formata, sebbene riveli a tratti un certo carattere raccogliticcio, dalla somma dei componimenti contenuti in quelli, poiché essa presenta 14 carmi che sono esclusivamente suoi.10

Il primo componimento che Parenti pubblica del Silvestri è un breve carme, in cui questi narra come, grazie a Leone X, suo protettore, che lo aveva voluto ricompensare per la sua attività poetica, poté ricostruire la sua casa a Pesaro, che aveva dovuto abbandonare dopo essere stato mandato in esilio nel 1500; una ricostruzione su cui Parenti fornisce ogni particolare: dall’anno, il 1517, in cui essa ebbe luogo, alla somma stanziata dal pontefice per l’occasione. Il cappello introduttivo è breve, come è breve il carme in questione, il cui testo tuttavia è corredato, come sempre nei due volumi di Parenti, da un attento e puntuale apparato delle fonti antiche, in questo caso quasi esclusivamente ovidiane.

Il secondo componimento di Silvestri pubblicato da Parenti, Elyssa ad simulacrum Hannibalis Rangoni, di un’ottantina di versi, colpisce sotto un duplice aspetto: il primo è il tema affrontato dal poeta, che immagina come la moglie di Annibale Rangoni, in una rivisitazione originale delle Eroidi ovidiane, si lamenti per l’assenza del marito di fronte a un suo simulacrum, a un suo ritratto, la cara tabella, che questi gli aveva mandato. Ma sorprende anche la lunga introduzione a questo carme, in cui Parenti ci dà un’inedita biografia del Rangoni, membro di una nobile e importante famiglia emiliana, uomo d’arme e poeta, allievo del Silvestri, che, divenuto cardinale, chiamò a sé, a Roma, nel 1517. Esempio significativo di una ricerca che nulla trascura, ma che scava nel profondo, per consentire una comprensione non superficiale del testo proposto e dei personaggi che lo animano.

Se da Silvestri passiamo a Pierio Valeriano, uno dei quattro autori a cui Parenti dedicò più pagine (in questo caso 132), oltre a una dettagliata biografia, nella parte introduttiva troviamo una sezione Edizioni e manoscritti in cui Parenti non si limita a illustrare la tradizione dei carmi da lui scelti, ma fa un utile excursus su tutta la tradizione, manoscritta e a stampa, delle opere di Valeriano, compresi ovviamente i celeberrimi Hieroglyphica e le Castigationes et varietates Virgilianae lectionis; di quest’ultime, pubblicate a Roma nel 1521, dà per esempio notizia dell’attuale collocazione (in Marciana) dell’unico esemplare, per altro noto già nel Settecento, con postille dell’autore; viceversa a proposito degli Hieroglyphica, vengono illustrate le prime edizioni a stampa, ma non si ricorda il manoscritto autografo, oggi a Belluno, a testimonianza di una scrittura, di questi capitoli introduttivi, che non segue criteri precisi, ma che è piuttosto, diciamo così, libera, lontana da trattazioni schematiche e tradizionali.11

Il primo carme del Valeriano, Ad eruditos, de paralysi Calphurnii, è in trimetri giambici, ed è dedicato alla morte dell’umanista bresciano Calfurnio, colpito da un ictus, che dapprima lo rese invalido e poi lo condusse alla morte; un fatto a cui Valeriano accenna anche nel suo De litteratorum infelicitate, come ci informa Parenti nel cappello introduttivo al carme, nel quale tratteggia la figura di Calfurnio. Nel carme leggiamo una descrizione, assai vivace anche nella traduzione italiana di Parenti, degli effetti del male che colpì l’umanista. Calfurnio sarebbe stato colpevole di aver voluto tenere per sé tutto il suo sapere, dottissimo com’era di greco e di latino, pubblicando pochissimo, e causando così l’esplosione del suo cervello, dovuta alla pressione della sua dottrina, delle troppe nozioni accumulate e mai fatte sfogare, non avendole volute comunicare ad altri (et impetu tali caput / Rupere, ut omnes excusserint cerebrum: «eruppero dal capo con tale violenza da intronare tutto il cervello»).12 Un monito, per gli eruditi, a non tenere per sé, gelosamente, il frutto dei propri studi.

Il successivo carme del Valeriano è molto particolare. È intitolato Carpio, il carpione. L’introduzione di Parenti si sofferma sull’origine di questo pesce e sulla storia inventata da Valeriano, che prende spunto da un episodio della vita di Catullo. Il poeta, tornato dalla Bitinia a Sirmione, con Lesbia e altri amici va a fare un giro in barca sul suo Benaco, il Garda. Catullo declama alcuni suoi versi composti in Bitinia, e per ascoltarlo dal lago emergono Benaco, il dio, e le ninfe che lo accompagnano, tra queste la bellissima Sirmia di cui Benaco è follemente innamorato: invano le offre tutte le cose belle in suo possesso e le sue ricchezze, rivelandole, tra le altre cose, una profezia di Manto che avrebbe annunciato la nascita nel lago di un nuovo pesce. Le ninfe intanto, affascinate dal carme di Catullo, si affollano attorno alla barca e nel trambusto le carte su cui erano scritti i versi del poeta finiscono in acqua, subendo una metamorfosi: le lettere si trasformano in granelli d’oro che vanno a depositarsi sul fondo, mentre le pergamene si tramutano in pesci; questi si nutriranno proprio di quei frammenti d’oro, acquistando così quei riflessi dorati che ne caratterizzeranno l’aspetto: pesci squisiti, destinati alla mensa dei potenti.

Leggendo la premessa al carme, un particolare aveva mosso la mia curiosità, la definizione del carpione, come di «una varietà di carpa celebrata quale prelibatezza tipica del Garda da Fazio degli Uberti, Bembo e Aretino», nota, prima di Valeriano, a Giannantonio Campano e al Boiardo, celebrata poi anche, in un altro poemetto, da Girolamo Fracastoro, nonché nel Sarca, attribuito, quest’ultimo a Niccolò d’Arco.

Mi aveva colpito l’identificazione del prelibato carpione con la carpa, che, appassionato di pesca, stentavo a considerare un pesce prelibato, visto il suo habitat naturale, spesso stagni fangosi, che non giovano alle sue carni. Il carpione in realtà appartiene a una varietà di trota di lago, rimasta nei secoli esclusiva del Garda, malgrado i tentativi fatti di diffondere la specie anche in altri laghi, vista la sua bontà.

Ma vorrei soprattutto aggiungere che la favola del carpione e la sua fama gastronomica sembrano essere molto più diffuse nella letteratura rispetto ai nomi appena fatti. Allargando la ricerca, ne vengono fuori altri, anche illustri, che possiamo annoverare tra i conoscitori di questo pesce. Molti sono stati indicati da altri studiosi, ma gli appunti che seguono, vogliono essere una minima, modestissima appendice, scaturita dalla mia personale curiosità, a questa parte dell’opera del Parenti.

Si può iniziare nel primo Trecento con le Historiae imperiales di Giovanni Mansionario, che, discorrendo del Benaco, descrive il carpione; e con il Chronicon di Benzo d’Alessandria, in cui viene lodata la prelibatezza delle carni di questo pesce, il suo habitat esclusivo, appunto il lago di Garda, e la facilità di conservazione;13 lo ritroviamo poi protagonista di una discussione con un temolo, in cui sostiene la superiorità della sua carne, nel Dialogus creaturarum.14 Ma anche Petrarca, in quella che può essere ritenuta la sua prima epistola metrica, indirizzata a Rinaldo Cavalchini nel 1366 e scoperta e pubblicata da Michele Feo nel 1985, elencando le bellezze di Verona e del Garda, accenna al carpione, scrivendo che le acque del Garda sono abitate auratis piscibus.15 Così Boccaccio, nel De montibus, a proposito del lacus Benacus:

Hunc [scil. il Benaco] aiunt aureas harenas evolvere et ex eis nutriri pisces quos vocant indigene carpiones, nusquam alibi repertos,

dove troviamo le sabbie auree di cui si nutrono i carpioni e la notizia che questi pesci non vivono altrove, al di fuori del lago di Garda.16

I carpioni sono poi ricordati nei commenti danteschi: nelle cosiddette Chiose Ambrosiane, dove a Purg. XXIV, 24, a proposto delle «anguille di Bolsena», si ricordano pesci tipici di altri laghi, tra cui il «carpion de Garda»;17 a Inf. XX, 70 («Siede Peschiera»), ricorda il carpione Benvenuto da Imola; a Inf. XX, 61 («Giace un laco») Guglielmo Maramauro;18 a Inf. XX, 63 («Benaco») Guiniforte Barzizza19 e Cristoforo Landino.

Benvenuto è l’unico commentatore a indicare il modo in cui i pescatori di Sirmione cucinavano i carpioni, cioè fritti, con l’olio, unico prodotto locale, accennando pure alla loro lunga conservazione, dovuta a una marinatura, successiva alla frittura, che ancor oggi viene chiamata ‘in carpione’:

in qua insula [scil. Sirmione] morantur solum piscatores, nec ibi nascitur nisi oleum, in quo frigunt pisces, qui dicuntur carpiones, qui sunt pisces boni et diu conservabiles.20

Cristoforo Landino, a sua volta così commenta Inf. XX, 63:

Preterea dicono che el fondo suo tiene harena d’oro, della quale si pascano e carpioni pesci suavissimi, et e quali molti dicono che non si truovano in altra acqua,21

ricordando le sabbie dorate, la soavità delle carni del carpione e la sua presenza esclusiva nel lago di Garda.

Pochi anni più tardi un allievo del Landino, Bernardino Barducci Cherichini, fiorentino, ma vissuto a Verona,22 nella sua epistola in lode della città veneta, diretta a Giovanni Nesi e datata 15 maggio 1489, si sofferma sul carpione:

Qui lacus [scil. il Benaco] limpido aquarum decursu, quom ventorum tempestate fluctuat, aureas funditus evolvit arenas, quibus depascitur genus piscis gustu persuavis, nusquam, ut fertur, alibi quam in eo reperti, quem accolae carpionem vocitant, ut ego ipse vidi reque ipsa degustavi.23

Anche Ermolao Barbaro in una sua elegia giovanile ricorda il carpione, aggiungendo che esso veniva pescato in profondità con delle grandi reti capaci di catturarne cinquecento in una volta sola, e che era pesce destinato alle mense dei signori, sia fresco che marinato e spedito in lidi lontani:

Plurimus hos fontes hiberno mense frequentat
Carpio nectareae praecipuaeque gulae.
Cernitur haud alibi (neque enim lacus educat omnis);
Has praeter nullas carpio novit aquas.
Retibus immensis capitur, pelagoque profundo,
Quingentos unus iactus ut excipiat.
Conditus longas sive hinc mittatur ad oras,
Sive recens, magnis munera sunt dominis.24

Ricordano inoltre i carpioni Luigi Pulci,25 Teofilo Folengo,26 Francesco Berni,27 il Lasca,28 per limitarmi a citare le occorrenze che mi è capitato di incontrare, e che immagino si possano ancora moltiplicare.29 Ricordo solo da ultima Isabella d’Este, i cui rapporti con Valeriano sono per altro noti, dalle cui lettere traspare la sua passione per questo pesce e per i diversi modi di conservarlo e cucinarlo, nonché l’enorme numero di carpioni che era solita inviare in tutta Italia per le mense dei personaggi più in vista dell’epoca.30

Possiamo quindi dire che intitolando il suo carme al carpione, Valeriano rendeva omaggio a un pesce che era una celebrità gastronomica, almeno dal Trecento, e allo stesso tempo rendeva omaggio a Catullo, visto che proprio dalla metamorfosi di un suo carme sarebbe nato il prelibato carpione.

Vorrei ora accennare a quello che mi pare un altro punto di forza dell’antologia di Parenti, vale a dire l’apparato di note che correda il testo latino: assolutamente esaustivo per quel che riguarda le fonti antiche. Talora vi troviamo segnalata qualche variante, di manoscritti rispetto alle stampe o viceversa. Qui non è ben chiaro il criterio di volta in volta seguito da Parenti nella scelta di una lezione piuttosto che un’altra, specie quando lo vediamo preferire la lezione di una stampa a quella di un manoscritto autografo. Ma sono minuzie.

Resta un’antologia di eccezionale valore, che si fatica a definire come una normale antologia. Verrebbe piuttosto da considerarla come una serie di monografie scientifiche, più o meno estese, frutto di un esegeta colto e raffinato, legate dal comune denominatore dei poeti latini del Cinquecento.

Le opere che entrano nelle antologie si può dire che divengano ‘le’ opere di un determinato periodo o di un determinato autore, soprattutto quando si pubblicano testi leggibili non in edizioni moderne, ma solo su manoscritti, cinquecentine o in edizioni settecentesche, come la stragrande maggioranza dei testi curati da Parenti. Si potrebbe anzi dire che spesso di un autore si conoscono, si studiano e si citano solo i brani pubblicati nelle antologie. Si pensi quanto hanno influenzato i successivi studi sull’Umanesimo le antologie di Eugenio Garin, a iniziare da quelle, veramente pionieristiche, intitolate Il Rinascimento italiano31 e Filosofi italiani del Quattrocento,32 pubblicate nel 1941 e nel 1942; lì si poterono finalmente leggere in un’edizione moderna, con traduzione italiana, passi tratti da Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti, Leon Battista Alberti, Marsilio Ficino, Angelo Poliziano, Giovanni Pico, Ermolao Barbaro e tanti altri. Lo stesso Garin poi allestirà una seconda antologia, per la Ricciardi, con una scelta ancora più ampia di testi, i Prosatori latini del Quattrocento.33 Antologie, quelle di Garin, su cui si sono formate generazioni di studiosi dell’Umanesimo.

La pubblicazione di questa antologia potrebbe condurre, se non è troppo sperarlo, a qualcosa d’analogo, cioè a riportarci a leggere e studiare testi, apprezzatissimi nelle età passate, ma oggi quasi completamente dimenticati. Ma anche a ricostruire una fisionomia della nostra letteratura meno falsata dalla tendenza a privilegiare le opere scritte in volgare rispetto a quelle in latino, a restituirle la sua unità. Mi vien fatto di ricordare nuovamente Garin, e la sua insistenza, nel caso dell’Alberti, sulla necessità di studiarne anche i testi latini – il Momo e le Intercenali per esempio – perché altrimenti, diceva, della sua opera e del suo pensiero avremo soltanto una visione assolutamente parziale e lontana dal vero.34 L’antologia di Parenti costituisce un grande passo in questa direzione, affiancando alla poesia cinquecentesca in volgare, quella in latino, il più delle volte opera dei medesimi autori, che componevano i loro scritti in entrambe le lingue. Ma potrebbe essere di conforto sapere che proprio in questi giorni è stata ultimata un’opera, altrettanto coraggiosa, per molti versi analoga a quella che stiamo qui illustrando. Per l’Accademia dell’Arcadia, curato da Maurizio Campanelli, è in uscita un altro volume di grossa mole con una raccolta di satire e sermoni latini settecenteschi, tutti di ambiente arcadico, con dotte note introduttive e traduzione italiana.35 Anche per il Settecento, quindi, si è iniziato a sanare una lacuna secolare, affrontando terre inesplorate e sconosciute ai più. Gradualmente, forse, con imprese del genere, che meritano la nostra ammirazione, si arriverà a ricostruire un quadro della nostra letteratura che tenga conto anche dell’altro suo volto, spesso troppo trascurato, quello latino.

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1 G. Parenti, Poëta Proteus alter. Forma e storia di tre libri del Pontano, Firenze, Olschki, 1985; Id., Benet Garret detto il Cariteo. Profilo di un poeta, Firenze, Olschki, 1993.

2 Per Giovanni Parenti. una giornata di studio, a cura di A. Bruni e C. Molinari, Roma, Bulzoni, 2009. Il volume comprende alle pp. 147-152 una bibliografia di Parenti e alle pp. 153-230 le sue recensioni.

3 G. Parenti, Poeti latini del Cinquecento, introduzione ed edizione a cura di M. Danzi, Pisa, Edizioni della Normale, 2020.

4 Per quanto riguarda la storia del volume si rinvia una volta per tutte all’introduzione di Danzi, «Dal caos al cosmo». I Poeti latini di Giovanni Parenti, ibidem, pp. VII-XXXV.

5 Poeti del Cinquecento, I, Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi, Milano, Ricciardi, 2001, p. XXVIII.

6 «Musae reduce». Anthologie de la poésie latine dans l’Europe de la Renaissance, Textes choisis, présentés et traduits par P. Laurens, avec la collaboration de C. Balavoine, Leiden, Brill, 1975; Renaissance Latin Verse, compiled and edited by A. Perosa and J. Sparrow, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1979.

7 Poeti latini cit., p. XXI.

8 G. Arbizzoni, Silvestri, Guido Postumo, in Dizionario biografico degli Italiani, XCII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2018 (consultato online: https://www.treccani.it/enciclopedia/elenco-opere/Dizionario_Biografico).

9 Poeti latini cit., p. 8.

10 Poeti latini cit., p. 12.

11 Sugli autografi di Valeriano oggi possiamo rinviare a P. Pellegrini, Giovanni Pietro (Pierio) Valeriano (Belluno 1475-Padova 1558), in Autografi dei letterati italiani. Il Cinquecento, I, a cura di M. Motolese, P. Procaccioli, E. Russo, consulenza paleografica di A. Ciaralli, Roma, Salerno Editrice, 2009, pp. 327-336.

12 Poeti latini cit., pp. 86 e 87.

13 M. Petoletti, Il «Chronicon» di Benzo d’Alessandria e i classici latini del XIV secolo. Edizione critica del libro XXIV: «De moribus et vita Philosophorum», Milano, Vita e Pensiero, 2000, p. 41, nota 6. Ma cfr. anche, per altri autori che ricordano i carpioni, Id., Milano e i suoi monumenti. La descrizione trecentesca di Benzo d’Alessandria, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, pp. 144-145, 162-164 nota 84.

14 P. Rajna, Intorno al cosiddetto Dialogus creaturarum. ed al suo autore. A proposito di una recente edizione, «Giornale storico della letteratura italiana», IV (1884), pp. 337-360: 341-342.

15 La prima corrispondenza poetica fra Rinaldo da Villanova e Francesco Petrarca, ritrovata e pubblicata da M. Feo, «Quaderni petrarcheschi», iv (1987), pp. 13-33: «Frondosumque numus passimque in vallibus imis / Hac illac domitos indomitosque greges, /Aut simul auratis habitatas piscibus undas /Antraque nimpharum concelebrata choris»; ibidem, p. 48 Feo commenta: «Petrarca si spinge fino alla menzione dei pisce aurati, che sono i carpioni, pesci dai riflessi dorati e saporosi al gusto, unici pare del lago di Garda, che hanno dietro di sé tutta una letteratura locale». Cfr. Petoletti, Milano cit., p. 161.

16 G. Boccaccio, De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibuset de diversis nominibus maris, a cura di M. Pastore Stocchi, Milano, Mondadori, 1998, p. 1898. Cfr. Petoletti, Milano, cit., pp. 162-163. Anche Giovanni Manzini, in una lettera del 1388, ricorda, assieme ad altri pesci, il carpione (vd. ibidem, p. 163).

17 Ho tratto la citazione, come più avanti quelle da Maramauro e Barzizza, dall’ancora utilissimo cd-rom I commenti danteschi dei secoli XIV, XV e XVI, a cura di P. Procaccioli, Roma, Lexis Progetti Editoriali, 1999.

18 «GIACE UN LAGO chiamato Garda, e ivi sono pessi in quantitate, e trovassene qui li carpioni. E io gli sono stato ne li anni MCCCLXII, mandato da madamma la Regina in Lombardia». Cfr. Petoletti, Milano cit., p. 162.

19 «Dobbiamo ancora sapere, che in Lombardia ne’ confini delle diocesi Bresciana, Trentina e Veronese è un bellissimo lago, volgarmente chiamato di Garda, in latino chiamato Benaco. Preziosa è l’acqua sua, e tra molti pesci preziosi, ne produce uno preziosissimo, chiamato carpione».

20 Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, nunc primum in lucem editum sumptibus Guilielmi Warren Vernon, curante Jacobo Philippo Lacaita, II, Florentiae, Barbera, 1887, p. 81. Cfr. Petoletti, Milano cit., p. 162,

21 Cristoforo Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno Editrice, 2001, II, p. 777.

22 Sul Barducci cfr. G. Gál, Bernardini de Florentia Dialogus de laudibus castitatis atque virginitatis, «Franciscan Studies», xxiii (1963), pp. 140-178, in part. le pp. 140-144.

23 [Verona, Paulus Fridenperger, dopo il 15 maggio1489]; ISTC: ib00343500, c. [4v]; il Barducci, ibidem, c. [6]v, prega il Nesi di far leggere l’epistola al loro comune maestro Landino (praeceptori nostro) e a Piero de’ Medici.

24 Ermolao Barbaro, De coelibatu. De officio legati, ed. critica a cura di V. Branca, Firenze, Olschki, 1969, p. 188 (vv. 136-144).

25 Morgante XIV, 66, 6: «e ‘l muggin colla trota e col carpione». E anche, sempre del Pulci: «I’ ho tanti sonetti, e son de’ buoni: / e mentre ch’i’ fo l’un, l’altro rasciugo / et ho messo le rete in luogo e frugo / che n’uscirà de’ pesci, e fien carpioni» (Matteo Franco-Luigi Pulci, Libro dei sonetti, a cura di A. Decaria e M. Zaccarello, Roma, Cesati, 2017, p. 138; ovviamente non si tratterà di «grosse carpe» (ibidem, p. 140).

26 Teofilo Folengo, Macaronee minori. Zanitonella – Moscheide – Epigrammi, a cura di M. Zaggia, Torino, Einaudi, 1987, p. 510 (De Benaco, epigr. XV, 5-6: «Non nisi boni pisces mangiantur semper ab illo: / sardenae, anguillae, carpio, tenca, trotae»). Cfr. L. Messedaglia, Pesca e pesci nelle Maccheronee folenghiane: il carpione gloria del Garda, in Id., Vita e costume della Rinascenza in Merlin Cocai, a cura di E. e M. Billanovich, Padova, Antenore, 1974. II, pp. 406-412; ibidem, p. 410, tra gli autori che nominano il carpione, è citato anche Virgilio Zavarise (1484).

27 Poeti del Cinquecento cit., p. 841 (LI, 7-8: «Ha [scil. Verona] presso un lago che mena carpioni / E trote e granchi e sardelle e frittura»).

28 Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, Le rime burlesche edite e inedite, per cura di C. Verzone, Firenze, Sansoni, 1882, p. 65 (LXXVII, 58): «Carpioni e pesci lupi e pesci buoi».

29 Già M. Butturini, La pesca sul lago di Garda, «Archivio storico lombardo», VIII (1881), pp. 157-195: 162-164, aveva elencato una serie di autori, per lo più posteriori a Valeriano, che menzionano il carpione. Per altri autori quattrocenteschi, in particolare i veronesi Giovanni Antonio Panteo e i già ricordati Virgilio Zavarise e Bernardino Barducci, cfr. P. Pellegrini, «… donec Avogaro dicas nomine de meo salutem». Umanisti veronesi e benacensi nei carmi di Pierio Valeriano, in Giulio Cesare Scaligero e Nicolò d’Arco: la cultura umanistica nelle terre del Sommolago tra XV e XVI secolo, a cura di F. Bruzzo e F. Fanizza, Provincia autonoma di Trento. Servizio beni librari e archivistici-Comune di Riva del Garda, Assessorato Attività Culturali, Biblioteca Civica, 1999 pp. 204-206, 208 nota 48.

30 Cfr. A. Luzio-R. Renier, Delle relazioni di Isabella d’Este Gonzaga con Ludovico e Beatrice Sforza, «Archivio storico lombardo», XVII (1890), pp. 74-119, 346-399: 116-117 e nota 2, 389; e soprattutto G. Malacarne, Sulla mensa del principe. Alimentazione e banchetti alla Corte dei Gonzaga, Modena, Il Bulino, pp. 233-234.

31 E. Garin, Il Rinascimento italiano, Milano, Istituto per gli studi di politica internazionale, 1941.

32 Id., Filosofi italiani del Quattrocento, pagine scelte, tradotte e illustrate, Firenze, Le Monnier, 1942.

33 Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952.

34 Cfr. S. Gentile, Eugenio Garin e Leon Battista Alberti, in Eugenio Garin. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Atti del Convegno, Firenze, 6-8 marzo 2009, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 49-73, in part. le pp. 59-65.

35 M. Campanelli, «Eya age dic satyram». La Musa pedestre nel Bosco Parrasio, Roma, Accademia dell’Arcadia, 2021.