Revue Italique

I Poeti latini del Cinquecento di Giovanni Parenti

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Per Giovanni Parenti e per i suoi Poeti latini del Cinquecento

Stefano Carrai

C’è un passo di Fernando Bandini che mette ben a fuoco la percezione sua e di molti circa la poesia latina del Cinquecento:

La grande stagione della poesia neolatina, come sanno gli addetti ai lavori, è il Quattrocento. […] Nello stesso periodo si colloca la grande opera di Giovanni (Gioviano) Pontano, e nelle sue ninne-nanne c’è in nuce (si pensi alla ninna-nanna di Thallusa) quella vivificazione del latino che ritroveremo in Pascoli.
Nel Cinquecento, così gessato nelle sue pretese umanistiche quando già così vivace è la letteratura in volgare, non c’è più quel fuoco che animava la poesia in latino del secolo precedente. Insomma, la poesia in latino del Cinquecento (dal Vida al Bargeo
and company), in tutte le sue sedi elette e ben segnalate dai manuali, è sempre un po’ noiosa. Non riesce ad affermare le ragioni della sua legittimità. Tutto è bello e perfetto ma freddo. Si tratti di Gesù o di amanti, l’evento accade altrove. Nell’italiano del Della Casa o del Venier.1

Bandini, professore nelle università di Padova e di Ginevra, oltre che un fine studioso è stato un poeta tra i più importanti dell’estremo Novecento: in italiano, nel dialetto vicentino e in latino. Suoi carmi sono stati premiati al Certamen Hoeufftianum di Amsterdam nel 1965 e nel 1977. Il brano, che risale al ’96, fa parte di un saggio intitolato Scrivere poesia in latino oggi, sorta di dichiarazione di poetica in cui egli spiegava che il movente di chi scrive poesia in latino nella modernità è quello di creare uno schermo o una distanza espressiva fra sé e l’oggetto del proprio dire poetico, non però azzerando quelle emozioni senza le quali la poesia non ha vita. In questo quadro si capisce l’esaltazione della poesia latina del Quattrocento, così ricettiva delle istanze anche lessicali della società coeva, a paragone del rappel à l’ordre che si verifica nella latinità poetica del secolo XVI, e perciò si comprende anche la valorizzazione della poesia umanistica quattrocentesca come precorritrice della vivacità che sarà del latino di Pascoli.

Ci si potrebbe chiedere se Bandini manterrebbe fermo oggi tale riduttivo giudizio anche di fronte ai due grossi volumi che accolgono l’antologia di poeti latini del Cinquecento, appena data alle stampe, rimasta incompiuta al momento della morte prematura di Giovanni Parenti.2 La sua scomparsa, avvenuta nel gennaio del 2000, ha lasciato un vuoto negli studi filologici e letterari, sia sul piano scientifico sia su quello umano, che ancora si sente. Cresciuto alla scuola dei suoi maestri fiorentini – Lanfranco Caretti, Alessandro Perosa, Gianfranco Contini, Eugenio Garin e poi soprattutto Domenico De Robertis, cui andrebbe aggiunto, per la frequentazione assidua, anche Gigi Baldacci – Giovanni si era presto volto alle ricerche sulla poesia di Pontano, cui era dedicata la sua tesi di laurea. Ma i suoi interessi come italianista spaziavano dal medioevo di Dante e dalla poesia rinascimentale volgare e latina fino a D’Annunzio e ai contemporanei, e da qui si rivolgevano alle letterature classiche come a quelle europee moderne e poi alle arti in genere con una spiccata predilezione per il melodramma. Per la sua versatilità e per la sua curiosità onnivora la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze difatti gli aveva assegnato l’insegnamento di Letterature comparate, talché la vastità dei campi che era in grado di padroneggiare risulta sia dall’elenco dei corsi tenuti, in cui s’incontrano titoli come La lezione di Petrarca in Francia: la poesia della Pléiade, sia da quello delle tesi seguite, tipo La fortuna di Richard Wagner nella Letteratura italiana e simili.3

L’imponente selezione postuma dei poeti latini del secolo XVI è stata messa meritoriamente a disposizione degli studiosi, con amicale devozione, da Massimo Danzi, che ha recuperato il dattiloscritto consegnato a suo tempo a Gianni Antonini della casa editrice Ricciardi e conservato ora presso l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento. Il lavoro era stato concepito e avviato nell’ambito dei Poeti del Cinquecento della Ricciardi, coordinati da Guglielmo Gorni. Le vicende che portarono al tracollo della casa editrice bloccarono l’impresa dopo l’uscita del primo volume, nel 2001, comprendente solo testi in volgare. La sezione latina, affidata appunto a Parenti, avrebbe dovuto includere quarantuno poeti. Egli arrivò a preparare le scelte antologiche di sedici di essi, che bastano però a riempire due ponderosi volumi e riguardano nell’ordine: Guido Postumo Silvestri, Pierio Valeriano, Iacopo Sadoleto, Francesco Maria Molza, Giovanni Cotta, Baldassar Castiglione, Celio Calcagnini, Lilio Gregorio Giraldi, Pietro Bembo, Andrea Navagero, Benedetto Lampridio, Marcantonio Flaminio, Marco Girolamo Vida, Girolamo Fracastoro, Niccolò d’Arco, Giovanni Della Casa.

Si noterà che molti degli autori antologizzati sono poeti di primissimo piano, anzi direi che i più insigni ci sono quasi tutti. Pur nel rimpianto, dunque, che Parenti abbia potuto svolgere meno della metà del piano originario, è tuttavia chiaro che la raccolta che abbiamo ora fra le mani è comunque uno strumento di prim’ordine, e non solo per la qualità del lavoro critico che accompagna i testi, ma anche quanto alla rappresentatività della selezione stessa. Certo alcune assenze vistose ci sono: specie la totale mancanza dei meridionali e quella quasi assoluta dei toscani, la cui pattuglia è ridotta al solo Della Casa – che peraltro fu, com’è noto, un fiorentino della diaspora – sicché mancano all’appello poeti del calibro di Berni, Varchi e Piero Angeli da Barga detto il Bargeo. Altre assenze invece erano già previste dall’organizzazione stessa della serie Ricciardi, essendo già stati antologizzati i carmi di Sannazaro entro i Poeti latini del Quattrocento e quelli di Ariosto nel volume delle sue Opere minori. Ciò che manca di più, in verità, è l’articolazione in sezioni che nel progetto originario avrebbero dovuto rispecchiare i diversi ambienti e le differenti generazioni. L’incompiutezza del lavoro ha reso irrecuperabile tale aspetto, sicché gli autori si susseguono l’uno dopo l’altro, senza potersi calare in quel disegno storiografico complessivo di ascendenza dionisottiana che Parenti aveva in mente, come risulta nitidamente dal carteggio fra lui e Antonini, di cui l’introduzione di Danzi riporta e commenta passi significativi.

La difficoltà per l’antologista risiedeva in primo luogo nel fatto di non avere quasi predecessori moderni, con le rare eccezioni di scelte realizzate durante gli anni Settanta del secolo scorso, ma su un orizzonte non esclusivamente italiano, anzi dichiaratamente europeo, come Musae reduces di Pierre Laurens e Claudie Balavoine, pubblicata nel 1975, e Renaissance Latin Verse del già ricordato Perosa e di John Sparrow, uscita nel 1979, cui si potrebbero accludere quella di minore entità di Fred J. Nichols (An Anthology of Neo-Latin Poetry, 1979) e un’altra di Ian D. McFarlane (Renaissance Latin Poetry, 1980). In effetti per molti aspetti i punti di riferimento immediati del progetto di Parenti sembrano piuttosto certi frutti dell’erudizione settecentesca come i Carmina illustrium poetarum italorum di Giovanni Gaetano Bottari, a loro volta fondati sull’antecedente cinquecentesco analogamente intitolato, compilato da Giovammatteo Toscano. Il valore aggiunto del lavoro del curatore è efficacemente individuato e presentato da Danzi, a cominciare dalla solidità del metodo consistente nella «capacità di coniugare magistralmente accesso filologico, erudizione letteraria e gusto per la poesia» (p. VII). I punti forti dell’antologia sono costituiti dai cappelli introduttivi, che si configurano come dei medaglioni sul singolo autore straordinariamente densi d’informazioni storico-biografiche e critiche; dalle note filologiche, le quali danno conto dell’intera tradizione dei testi e delle loro varianti; dal raffinato commento, che segnala con discrezione la miriade di allusioni e reminiscenze mettendo in luce le modalità dell’imitazione senza però risultare prevaricante; e poi ci sono le elegantissime versioni a fronte, in cui si segnala «la versatilità di registri usati dal traduttore nel rendere temi e toni molto diversi tra loro» (pp. XXV-XXVI).

Va detto inoltre che i vent’anni trascorsi potrebbero far pensare a un lavoro inevitabilmente invecchiato, che si riesuma più che altro come tributo allo studioso scomparso, e invece così non è. La decisione di Danzi di non rinfrescarlo mediante un aggiornamento bibliografico – che sarebbe rimasto inerte, senza possibilità cioè di interagire col lavoro di Parenti – non pregiudica in nulla l’importanza e l’utilità del libro, tanto più che sulla poesia latina del Cinquecento gli studi certo non pullulano. Si fa presto a riunire in effetti le rare voci che sovvengono relativamente ai testi inclusi nell’antologia. Sulla poesia latina di Della Casa si deve menzionare l’attenta lettura di Francesco Bausi, che prende le mosse proprio dagli studi già pubblicati sull’argomento da Parenti.4 Così per Nicolò d’Arco novità utili che egli non fece a tempo a considerare sono venute, sia sul piano biografico sia su quello testuale, dalle indagini di Mariano Welber, che ha procurato anche una edizione critica dei Numeri, come s’intitola la raccolta del poeta trentino.5 Più importante ancora la monografia, con edizione critica inclusa, sui carmi di Sadoleto opera di Francesco Lucioli.6 Sempre per non uscire dal perimetro disegnato dalla raccolta ora edita: per la lirica di Marcantonio Flaminio si segnalano uno studio di Monica Bottai e i numerosi interventi di Giovanni Ferroni;7 per Navagero e Fracastoro quelli di Roberto Norbedo e di Enrico Peruzzi;8 per Vida la monografia di Susanne Rolfes.9 Queste le integrazioni bibliografiche necessarie. Qualche titolo più in dettaglio non mette conto citare qui e qualcos’altro può essermi sfuggito, anche se dubito si tratti di contributi tali da incidere sul quadro generale offerto dall’antologia.

Naturalmente non si deve dimenticare che testi e commenti, pur mirabili per eleganza non meno che per dottrina, sono comunque pagine alle quali Parenti non giunse a dare l’ultima mano. Come avverte lo stesso Danzi (p. XXXIII), lo evidenzia il fatto che due carmi di Cotta siano privi di commento e che il libro del Syphilis di Fracastoro qui antologizzato non abbia cappello introduttivo. Su questi testi evidentemente, come avrebbe detto Giovanni, cecidere manus. Resta dunque la possibilità, se non il sospetto, che rivedendo il lavoro, magari anche in bozze, uno studioso incontentabile come lui avrebbe potuto limare o ritoccare qualcosa.10 Non mi farò scrupolo allora di discutere un luogo in cui avrei fatto una scelta diversa, e lo dico non per pedanteria di filologo, ma per rinnovare idealmente il dialogo che fu sempre vitale con l’amico ormai assente. Mi riferisco a un esametro del Laocoonte di Sadoleto, v. 35, il cui primo emistichio nel testimone unico costituito dalla stampa del 1532 si legge «implexuque angit rapido». L’espressione si riferisce al serpente che, uscito dal mare, avvolge nelle proprie spire i figli di Laocoonte, reo agli occhi di Pallade di aver avversato il trasferimento del cavallo entro le mura di Troia. Parenti accoglieva esplicitamente l’emendamento amplexuque già introdotto contro implexuque nell’antologia di Perosa e Sparrow, certo sulla base dell’«amplexus» con cui Virgilio (Aen. 2, 2143) sintetizza l’azione del rettile, e perciò Parenti stesso traduceva «li soffoca nel suo rapido abbraccio» (p. 211). Ritengo però che la lezione tràdita implexuque non sia erronea perché non si deve pensare, nella fattispecie, ad una stretta unica da boa constrictor. Come si sa, il carme di Sadoleto, pur tenendo d’occhio il modello virgiliano, è prima di tutto una puntuale ékphrasis del celebre gruppo marmoreo rinvenuto a Roma, sull’Esqulino, nel gennaio del 1506, subito visionato per conto di papa Giulio II da Michelangelo e Giuliano da Sangallo, e ora conservato ai Musei Vaticani. Guardandolo, si vede chiaramente che quello formato dal serpente (uno solo e non due come in Virgilio) è piuttosto un esteso intrico che si attorciglia, passando da una parte all’altra, intorno ora a Laocoonte ora a ciascuno dei due giovinetti, sicché implexu non solo risulta difendibile, ma sembra anzi poziore rispetto al congetturale amplexu, tanto che l’editore moderno Gregor Maurach l’ha mantenuto a testo, seguito da Lucioli, che vi pone a fronte la traduzione italiana di Elena Spangenberg Yanes «li soffoca con un intreccio repentino».11

Per tornare ora al limitativo giudizio di Bandini, bisognerà dire che il punto di vista di Parenti sulla lirica latina del Cinquecento non era poi troppo distante dal suo. Da critico intelligente qual era, Giovanni non aveva nessun bisogno di enfatizzare il valore dei propri oggetti di studio. Basti qui richiamare quanto, una decina d’anni prima di lasciarci, scriveva in un saggio pubblicato in rivista, a suo modo fondativo del lavoro stesso di antologista:

Del dilemma posto da Eliot, secondo il quale o si imita, e si è poeti immaturi, cioè piccoli, o si ruba, e si è poeti maturi, cioè grandi, i neolatini del Cinquecento scelsero per sé il primo corno e furono, nella media, piccoli poeti, con la conseguenza di apparire, specialmente al nostro giudizio, solo gregari dei classici.12

Si noterà la solidarietà sostanziale con le considerazioni di Bandini, dovuta anche al paragone sottaciuto con la verve pirotecnica del suo Pontano. Tuttavia Parenti sapeva bene che accanto a elementi di discontinuità con la tradizione quattrocentesca sussistevano anche quelli di continuità, e sapeva peraltro che nel decoro formale spesso piatto di questi poeti – come avvertiva – «non mancano impennate del diagramma, che segnalano l’emergere di alcuni». In effetti il suo gusto era tale da riproporci ora una serie di testi godibilissimi, dove gli schemi della poesia classica sono applicati a fatti della vita vissuta: come è, per fare un esempio, il caso della brillante eroide di Francesco Maria Molza in persona di Caterina d’Aragona, moglie ripudiata di Enrico VIII d’Inghilterra, la quale si rivolge al marito nei distici elegiaci del poeta modenese per lamentarsi e rivendicare i propri diritti nei confronti dell’usurpatrice Anna Bolena. E la prosa del traduttore aiuta assai a percepire lo scintillare di questa collana di piccole gemme, sia che vengano estratte dal filone erotico oppure da quello religioso o anche politico o encomiastico. Credo valga dunque la pena di darne almeno qualche specimen. Ne prelevo uno da un poeta dei più rilevanti nel panorama di cui stiamo parlando, ovvero Marcantonio Flaminio, la cui personalità è resa in tutta la sua complessità intellettuale e inquietudine spirituale nel ricco profilo stilato da Parenti. Fra gli altri brani scelti, egli ha commentato e tradotto uno dei più graziosi fra i lusus pastorales:

Vidisti nitidas per candida lilia guttas
    Ludere, cum tenui decidit imber aqua?
Et rorem de puniceis stillare rosetis,
    Cum spirat nascens frigora blanda dies?
Haec facies, haec est Ligurinae flentis imago:
    Illius lacrimis me ferus urit Amor.

Ora, dei carmi flaminiani abbiamo una versione italiana integrale data alla fine dell’Ottocento dal prete forlivese Livio Carloni, che restituisce i tre distici di questo epigramma con tre terzine di endecasillabi a rima alternata:

    Veduto hai tu scherzar soavemente
Nitide gocce su pe’ bianchi gigli,
Quando la pioggia cade leggermente?
    Veduto inoltre hai tu per avventura
Da purpurei rossi stillar rugiada,
Quando il nascente dì spira frescura?
    Questo è il volto e l’immagine fedele
Di Ligurina piangente: di lei
Con le lacrime m’arde Amor crudele.
13

Sebbene la grazia dell’originale non andasse perduta del tutto neppure in questa versione, l’introduzione della struttura anaforica per formare le terzine e l’adozione di qualche zeppa funzionale alla misura del verso danno un che di scolastico all’andamento del discorso, per non dire di una soluzione francamente infelice come «purpurei rossi» per «puniceis […] rosetis». L’antecedente vale dunque molto bene a mettere in risalto, per contrasto, la qualità della resa di Parenti. Sciolta da vincoli metrici e di rima, essa riesce a effetti ben altrimenti poetici nel ritrarre la piangente Ligurina (p. 869):

Vedesti gocce d’argento scherzare su candidi gigli, quando cade una pioggerellina leggera? E rugiada stillare da purpurei roseti, quando il giorno che nasce spira una carezzevole brezza? Tale il volto, tale è l’immagine di Ligurina che piange: con queste lacrime m’arde impietoso Amore.

Senza tradire l’originale di Flaminio, il fluido testo di Parenti ne affianca la delicatezza con un piacevole ritmo da poema in prosa. Esempi come questo si potrebbero moltiplicare, ma non è il caso. Sia detto invece che, se per Flaminio un precursore con cui fare un paragone esiste, nella maggior parte dei testi la versione di Parenti non ha precedenti: ciò che dà la misura non solo dell’utilità del libro, ma anche dell’onere e della difficoltà del suo lavoro.

Ecco, per chiudere, un altro campione preso dai carmi di Bembo. Si tratta del compianto funebre per Poliziano:

Duceret extincto cum Mors Laurente triumphum
    Laetaque pullatis inveheretur equis,
Respicit insano ferientem pollice chordas,
    Viscera singultu concutiente virum.
Mirata est tenuitque iugum: furit ipse pioque5
    Laurentem cunctos flagitat ore deos;
Miscebat precibus lacrimas lacrimisque dolorem.
    Verba ministrabat liberiora dolor.
Risit et antiquae n on immemor illa querelae,
    Orphi Tartareae cum patuere viae:10
    – Hic etiam infernas temptat rescindere leges
    Fertque suas – dixit – in mea iura manus. –
Protinus et flentem percussit dura poetam,
    Rupit et in medio pectora docta sono.
Heu, sic tu raptus, sic te mala fata tulerunt,15
    Arbiter Ausoniae, Politiane, lyrae!

L’epigramma celebrava il ricordo solenne di un poeta e filologo che era stato assai caro a Bembo fin da quando, ragazzo, egli lo aveva conosciuto di persona per il tramite del padre Bernardo, e a cui aveva guardato come a un fulgido modello fin dal tempo in cui, a Venezia, aveva avuto l’occasione, ancora giovanissimo, di aiutarlo nella collazione del famoso codice terenziano di famiglia.14 Bembo coglieva qui lo spunto per rievocare insieme con lui una intera stagione culturale legata a Lorenzo il Magnifico, immaginando che la Morte in persona, di fronte al lamento di Poliziano che avrebbe voluto richiamare in vita l’amico, temesse di essere sconfitta un’altra volta come al momento della catabasi di Orfeo, e perciò si risolvesse a colpire inesorabilmente anche Poliziano stesso. Il tono encomiastico e insieme nostalgico determinato dalla circostanza obituaria è reso nell’italiano di Parenti con un’eleganza che non oscura l’afflato drammatico:

Mentre la Morte guidava, defunto Lorenzo, il trionfo, e baldanzosa trascorreva sui luttuosi cavalli, scorse un uomo – il singhiozzo gli scuoteva il petto – percuotere con folli dita le corde, e meravigliata fermò la pariglia: costui, fuori di sé, reclamava con voce pietosa, da tutti gli dèi, Lorenzo; mescolava alle preghiere il pianto, al pianto il dolore e il dolore suggeriva troppo audaci parole. Ella sorrise e, non dimentica dell’antico lamento, quando a Orfeo si dischiusero le vie del Tartaro: – Anche questi – disse – cerca di rompere le leggi infernali e attenta ai miei diritti. – E subito percosse inesorabile il poeta in lacrime, e spezzò a mezzo il canto la dotta sua voce. Così, ahimè, tu ci fosti strappato, così ti rapirono i fati iniqui, o arbitro dell’Ausonia lira, Poliziano!

Si avverte anche qui – insieme con la padronanza del genere epigrafico da parte di chi aveva studiato attentamente lo stile dei Tumuli di Pontano,15 cui Bembo dichiaratamente si riallacciava – l’estro di un traduttore che pur senza cedere all’arbitrio non riesce mai pedissequo, capace com’è di ricreare nella lingua moderna lo spirito del testo di partenza.

In definitiva allora i due volumi di Parenti offrono una possibilità che fin qui non si dava: quella di avere una visione ampia di un filone poetico che ha una importanza storica cospicua, tanto più che il bilinguismo italiano-latino avrebbe avuto un seguito ancora lungo nella poesia italiana, almeno fino a tutto il Settecento, preparando il terreno, come detto, alla straordinaria reviviscenza pascoliana. L’egregio corredo paratestuale approntato dal curatore consente peraltro di affrontare testi spesso non facili e crea quindi le condizioni per sperare che il suo imponente ancorché incompleto lavoro, giunto finalmente alla stampa, valga a ravvivare l’interesse per tale ingiustamente negletto settore di studi.

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1 Fernando Bandini, Tutte le poesie, a cura di Rodolfo Zucco, Milano, Mondadori, 2018, p. 497.

2 Giovanni Parenti, Poeti latini del Cinquecento, introduzione ed edizione a cura di Massimo Danzi, Pisa, Edizioni della Normale, 2020.

3 La lista completa in Arnaldo Bruni e Carla Molinari (a cura di), Per Giovanni Parenti. Una giornata di studio, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 23-27.

4 Francesco Bausi, I carmi latini di Giovanni Della Casa e la poesia umanistica fra Quattro e Cinquecento, in Stefano Carrai (a cura di), Giovanni Della Casa ecclesiastico e scrittore, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007, pp. 233-58.

5 Mariano Welber, I Numeri di Nicolò d’Arco, Trento, U. C. T., 1996; Id., “Nobiscum bibe, lude, scribe, canta”. Appunti sul contributo di Nicolò d’Arco alla mappa della “cultura gardesana”, in François Bruzzo e Federica Fanizza (a cura di), Giulio Cesare Scaligero e Nicolò d’Arco. La cultura umanistica nelle terre del Sommolago tra XV e XVI secolo, Trento, Litotipografia Alcione, 1999, pp. 65-127. Ricordo per completezza anche il riconoscimento di Stefano Carrai, Nicolò D’Arco personaggio di un’egloga ariostesca, in Id., I precetti di Parnaso. Metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 141-51.

6 Francesco Lucioli, Jacopo Sadoleto umanista e poeta, con l’edizione dei carmi, tradotti da Elena Spangenberg Yanes, Roma, Roma nel Rinascimento, 2014.

7 Monica Bottai, La ‘Paraphrasis in triginta Psalmos versibus scripta’ di Marcantonio Flaminio: un esempio di poesia religiosa del XVI secolo, «Rinascimento», n. s., XL (2000), pp. 157-265; Giovanni Ferroni, “Liber ultimus”. Note sui “De rebus divinis carmina” di Marcantonio Flaminio, in Luisa Secchi Tarugi (a cura di), Roma pagana e Roma pagana nel Rinascimento, Firenze, Cesati, 2014, pp. 301-10; “Siculis et Tarentinis”. Teologia, esegesi e poetica nei “De rebus divinis carmina” di Marcantonio Flminio, «Bollettino della Società di Studi Valdesi», 218 (2016), pp. 33-70; Rilievi sulla struttura dei “De rebus divinis carmina” di Marcantonio Flaminio, in Lorenzo Geri e Marco Grimaldi (a cura di), La lirica in Italia dalle origini al Rinascimento, Roma, Bulzoni, 2017, pp. 147-67; “La persona dell’humanista”: immagini della giovinezza di Marcantonio Flaminio (1515-1529), in Uberto Motta e Giacomo Vagni (a cura di), Lirica in Italia 1494-1530. Esperienze ecdotiche e profili storiografici, Bologna, I libri di Emil, 2017, pp. 197-247; Id., Generi e lettori dei “De rebus divinis carmina” di Marcantoni Flaminio, in Lorenzo Geri e Ester Pietrobon (a cura di), Lirica e sacro tra Medioevo e Rinascimento, Roma, Aracne, 2020, pp. 91-128.

8 Roberto Norbedo, Per l’edizione dell’Itinerario in Spagna di Andrea Navagero, «Lettere italiane», LII (2000), pp. 58-73; Enrico Peruzzi, La poetica del ‘Naugerius’ tra platonismo e aristotelismo, in Alessandro Pastore e Enrico Peruzzi (a cura di), Girolamo Fracastoro fra medicina, filosofia e scienza della natura, Firenze, Olschki, 2006, pp. 217-27.

9 Susanne Rolfes, Die lateinische Poetik des Marco Girolamo Vida un ihre Rezeption bei Julius Caesar Scaliger, München-Leipzig, Saur, 2001.

10 Per dovere di cronaca si dica che qualche raro refuso si insinua nei testi latini (ad es. p. 212 v. 53 «auspicimus» recte aspicimus, p. 1282 v. 9 «actu» recte actus). Uno risale certo a Parenti stesso, nel titolo di una satira di Pierio Valeriano che è Simia e non Sirmia, e Danzi avvisa opportunamente che va corretto (pp. XXXIII-XXXIV), ma poi per svista compare invece sia a p. 145 che nei relativi titoli correnti.

11 Cfr. Gregor Maurach, Sadoletos Laocoon. Text, Übersetzung, Kommentar, «Würzburger Jahresbücher für die Altertumwissenschaft», N. F., 18 (1992), p. 249, e Lucioli, Jacopo Sadoleto…, pp. 129-30.

12 G. Parenti, La poesia latina del Cinquecento. Esemplarità e imitazione, «Studi italiani», II (1990), pp. 6-7.

13 Le poesie di Marco Antonio Flaminio, tradotte dal sac. Livio Carloni forlivese, Imola, Tip. Galeati, 1899, p. 114.

14 Mi permetto di rinviare nella fattispecie a S. Carrai, Poliziano e il giovane Bembo collazionano Terenzio in una malnota testimonianza epistolare, in Francesco Lo Monaco e Luca Carlo Rossi (a cura di), Il mondo e la storia. Studi in onore di Claudia Villa, Firenze, SISME – Edizioni del Galluzzo, 2014, pp. 123-28.

15 G. Parenti, L’invenzione di un genere, il ‘tumulus’ pontaniano, «Interpres», VII (1987), pp. 125-58.