I Poeti latini del Cinquecento di Giovanni Parenti
OJ-italique-914
Breve viatico ai Poeti latini del Cinquecento di Giovanni Parenti
Nel 1974 Guglielmo Gorni, che di «Italique» è stato direttore dal 1989 al 2010, venne chiamato dall’Editore Ricciardi di Milano a dirigere l’impresa dei Poeti del Cinquecento pensati per la collana «La Letteratura italiana. Storia e Testi». La collana era ancora diretta da Raffaele Mattioli, Pietro Pancrazi e Alfredo Schiaffini e Mattioli, “grand patron” della Ricciardi e tanto vicino a Croce da divenire nel 1952 presidente dell’Istituto Italiano di Studi storici di Napoli,1 l’aveva inaugurata con l’autoantologia delle opere di Croce, curata dal filosofo stesso. Era l’omaggio a un autore decisivo nella cultura italiana del primo Novecento, che sarebbe morto l’anno dopo. Comunque fosse, neppure un decennio dopo, i due volumi dei Poeti del Duecento di Gianfranco Contini e collaboratori imprimevano alla collana la svolta che sappiamo e da quel 1960 gli autori ricciardiani avrebbero ricevuto, sotto la vigile guardia di Gianni Antonini, un ben più raffinato e filologico trattamento. I tre volumi previsti dei Poeti del Cinquecento dovevano essere l’opera di una équipe di studiosi, nel numero assai inferiore a quella continiana, ma il secondo volume dedicato ai poeti latini sarebbe stato curato da un unico studioso, il fiorentino Giovanni Parenti (1947-2000). A Parenti, in grado come pochi di tenere insieme il filo della tradizione classico-umanistica con quello volgare d’ambito non solo italiano (tenne infatti, per molti anni, la cattedra di letteratura comparata a Firenze), era stata affidata anche un’ampia sezione dei poeti in volgare, per la maggior parte meridionali o operanti nel meridione d’Italia, che avrebbe completato invece il terzo volume dell’opera. In realtà, dei tre volumi previsti solo il primo di Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici uscì a stampa nel 2001,2 a cinquant’anni esatti dall’antologia di Croce ma in un clima affatto diverso. Alla fine del secolo, infatti, una serie di passaggi di proprietà avevano sfigurato il volto di una Casa editrice che, coi suoi classici, aveva accompagnato la ricostruzione politico-culturale del paese nel secondo dopoguerra. E appena pochi anni dopo, della vecchia Ricciardi non sarebbe rimasto quasi più nulla. In questo clima di tramonto annunciato, nel gennaio del 2000 Giovanni Parenti mancava improvvisamente all’età di appena cinquantatré anni lasciando un enorme vuoto negli amici che con lui condividevano l’impresa dei Poeti del Cinquecento e in chi l’aveva frequentato e conosciuto. Nel 1974, il piano editoriale che aveva redatto per i latini aveva disegnato un panorama fitto di una quarantina di nomi suddivisi per i principali centri politico-culturali d’Italia, ma al momento della morte solo sedici autori erano terminati e costituiscono ora la sostanza dei due volumi che ho curato. Non si era trattato, come accadeva spesso, di metter su un’antologia sulla base di altre antologie e magari con gli stessi pezzi. Parenti aveva sondato un territorio praticamente vergine agli studi affrontando la lettura diretta di centinaia di raccolte e di poeti, per sceglierne i più rappresentativi. Va detto che mentre il panorama della poesia volgare del Cinquecento appariva relativamente acquisito dopo la nuova importante ripresa di studi datasi a partire dagli anni settanta del Novecento, per la poesia latina del secolo mancava invece ancora qualsiasi sistemazione critica. Bisogna ritornare al nostro Settecento per trovare un uguale fervore filologico e critico nell’ambito della poesia rinascimentale, quale era stato di editori che rispondevano al nome di Pierantonio Serassi, Antonio Federico Seghezzi, dei fratelli Giovanni Antonio e Gaetano Volpi, di Giuseppe Comino e di altri. Ma dopo quell’aureo periodo, è vero che lo studio e l’edizione di poeti neolatini si era rapidamente esaurito. Chi lavora sulla poesia latina ma anche volgare del Cinquecento sa bene che, in molti casi ancora oggi, occorre rivolgersi a quel secolo per leggerne gli autori e conoscere i pochi dati della loro tradizione a stampa e manoscritta. Parenti, che ben conosceva quella prima sistemazione filologica e critica della poesia cinquecentesca, è andato coi suoi poeti ancora oltre, ricuperando le stampe e i manoscritti originali e scegliendo i testi, come ricorda in una lettera all’Editore, dopo averne percorsi a centinaia alla ricerca del pezzo utile per l’antologia. Alla fine, la discrepanza tra il piano editoriale e la sua realizzazione era certo dovuta alla natura stessa del lavoro, generosamente intrapreso ex novo su un terreno poco o nulla studiato e drammaticamente interrotto dal destino anzitempo; ma anche, ritengo, al precisarsi del quadro storiografico di cui si precisavano in itinere allo Studioso le direttrici fondamentali. Rispetto al piano originario, quello nuovo, di cui abbiamo un ultimo aggiornamento al 1978, si differenziava per l’aggiunta di qualche nome, per maggiori e importanti soppressesioni ma, soprattutto, per un parallelo incremento, che poteva arrivare fino a tre o quattro volte, dei versi antologizzati. Di nessuno degli autori oggi pubblicati, lo Studioso avrebbe comunque visto la stampa, considerato che anche l’unica sezione che aveva accettato di anticipare apparve dopo la morte.3 Con queste premesse, è chiaro che, in questa antologia, Giovanni Parenti è stato anzitutto un grande legislatore, facendo emergere entro un quadro assai poco studiato personalità che ha giudicato decisive per scuola, qualità letterarie o per l’importanza della loro fortuna europea. È stato il caso, accanto a poeti ben noti in volgare come Bembo o Della Casa (ma il Casa latino rimane, anche ora, assai poco studiato), di Niccolò d’Arco, Giovanni Cotta, Marc’Antonio Flaminio, Benedetto Lampridio, Francesco Maria Molza, Andrea Navagero o Pierio Valeriano, la cui fama fu certamente più latina che volgare. Su entrambi questi fronti, lo sforzo e la preoccupazione di Parenti fu di distinguere tra personalità, ambienti ed esperienze stilistiche nell’intento di farne la storia senza rinunciare a pronunciarsi sul valore poetico di quelle superbe o umili, ma sempre decorose suppellettili, di una civiltà trascorsa. Lontana da lui era l’idea di mettere tutti su uno stesso piano come era accaduto, anni prima, a un’antologia poetica di umanisti meridionali del Quattro e del Cinquecento per la quale lo Studioso lamentava «una volontà così pervicace di voler tutti rappresentare e a tutti concedere suppergiù le stesse proporzioni che, mentre infoltiva il panorama, ne depauperava la profondità prospettica».4 La scuola cui era cresciuto era altra e lo induceva piuttosto a distinguere riconoscendo, sullo sfondo dei principali centri culturali d’Italia, attori e situazioni di rilievo molto diverso.
Nella prefazione ai Poeti latini del Cinquecento ho ricordato il ruolo che Carlo Dionisotti ebbe accanto ai maestri fiorentini di Giovanni Parenti e ho indicato la profonda assimilazione della lezione dionisottiana entro l’articolazione dell’antologia. Andrà ricordato che Parenti era entrato alla facoltà di lettere di Firenze nell’anno in cui Einaudi pubblicava il decisivo Geografia e storia della letteratura italiana (1967) e che, quattro anni dopo, nella commissione che discuteva la tesi sulla poesia di Pontano, Carlo Dionisotti appariva accanto ad Alessandro Perosa e Domenico De Robertis.5 La lezione dello storico piemontese, cui Parenti dedicherà il suo primo e il suo ultimo scritto,6 gli era del resto arrivata prima di tutto dalle opere che riformulavano spesso il quadro della letteratura e storia nazionale collegando tra loro eventi e fenomeni anche minori con quella sovrana capacità di distinguere che ci resta testimoniata proprio in un suo antico giudizio sulla poesia del Cinquecento.7 Su questa base si capisce anche l’impianto regionalistico dei Poeti latini del Cinquecento, che include il tradizionale e decisivo asse Venezia-Firenze-Roma in un contesto più ampio di centri politico-culturali testimoniati in questa antologia spesso per la prima volta. Certo, poco meno della metà degli autori avrebbe documentato le due maggiori sezioni, quella della corte romana da Leone X alla Controriforma e quella dei poeti di Toscana. Ma una buona dozzina di altre sezioni riguardava poi il resto d’Italia, con le indicazioni di «Poeti eterodossi» (Aonio Paleario e Marcello Palingenio Stellato), di poeti veneti, di veronesi, di una serie di decisive figure (dal Castiglione al Molza, dal Lamrpidio al Flaminio, dal Giraldi al Bembo) cui si aggiungevano l’ambiente della bresciana accademia degli Occulti e i poeti meridionali di scuola sannazariana.8 La sezione dedicata alla «scuola sannazariana» avrebbe chiuso il volume dei latini. La poesia latina di Iacopo Sannazaro era stata in effetti già antologizzata nella collaudatissima silloge dei Poeti latini del Quattrocento, apparsa nella stessa collana ricciardiana.9 A Parenti toccava dunque di documentare il lascito di quella decisiva esperienza con una sezione di poeti che avrebbe avuto il suo perfetto pendant nella sezione dei «Poeti napoletani fuori Napoli, siciliani e provinciali» destinata a chiudere, sempre per sua cura, il terzo volume dei poeti in volgare. Erano due sezioni, non importa dirlo, particolarmente attese da quel colto e raffinato interprete della Napoli aragonese e del Vicereame che già aveva dato le monografie su Pontano, Cariteo e Antonio Caracciolo.10 Di queste sezioni, quella latina appariva più sobria, affidata a pochi nomi decisivi (Pietro Gravina, Onorato Fascitelli, Bernardino Rota e Scipione Capece), mentre un poeta come Girolamo Angeriano, contemporaneo di Sannazaro e decisivo anche fuori d’Italia, avrebbe avuto una sezione a parte.
Oggi, queste quasi millequattrocento pagine a stampa dei Poeti latini del Cinquecento, di cui si misura la distanza dalle più importanti antologie umanistiche fino a oggi disponibili (quella di Pierre Laurens e Claudie Balavoine del 1975 e l’altra di Alessandro Perosa e John Sparrow del 1979) sono dunque il frutto di una lunga e tutta inedita fatica del grande Studioso fiorentino. I sedici poeti antologizzati, i quasi 6000 versi tradotti e commentati con accuratissime note, le introduzioni alle sezioni che sono dei veri saggi critici e gli apparati bibliografici e filologici che li accompagnano offrono un quadro che per l’epoca in cui furono redatti appare spesso esaustivo. Alle monografie che Parenti ci ha lasciato su Pontano, Cariteo e l’ambito meridionale e agli altri suoi studi su generi come la nenia, il tumulus, la poesia bucolica o sulla fortuna rinascimentale di temi classici, si aggiungono ora questi Poeti latini che completano un quadro storiografico che dalla metà del Quattrocento arriva alla Controriforma e da soli rappresentano circa un terzo dell’intera attività dello Studioso.11 Di quest’opera, stante l’ampiezza e la novità nel panorama degli studi sul Rinascimento, non sarà inutile proporre ora un breve viatico che segnali al lettore alcune delle principali acquisizioni.
Va intanto osservato che la poesia latina del Cinquecento, oggi ancora curiosamente ignorata e raramente integrata nei panorami letterari del nostro Rinascimento, è fenomeno importante sia per numero che per qualità di autori, alcuni dei quali (si pensi al Della Casa, al Molza o al Castiglione) eccellenti anche in ambito volgare. E insomma il quadro del nostro Rinascimento, se appiattito su una produzione unicamente volgare, risulta inevitabilmente parziale. Il latino, e questi testi lo dimostrano bene, costituisce un ponte privilegiato verso l’Antico e i suoi autori cui questi poeti si ispirano a volte direttamente. Anche va ricordato che se il latino è oggi considerato una lingua morta, ebbe in realtà una vitalità che andò ben oltre la stagione umanistico-rinascimentale e fu strumento di comunicazione per l’Europa colta almeno fino alla fine del Settecento non solo nell’ambito prettamente letterario, come si potrebbe immaginare, ma nel campo della matematica, dell’astronomia, della meccanica o anche del diritto, della filosofia o della medicina e perfino in quello della nascente psicologia, se un autore apprezzato da Leopardi come Christian Wolff scrive la sua Psychologia empirica in quella lingua (1732). Del resto, lo stesso Descartes, che con le passioni sta alla base di quel testo, come anche un Galileo o altri grandi pensatori videro i loro discorsi De la méthode o Sui massimi sistemi tradotti dal volgare in latino per maggiore divulgazione. Così che si può ragionevolmente ritenere che, con l’eccezione di alcuni grandi classici della poesia italiana o di qualche fortunato petrarchista, i poeti di questa antologia fossero allora, in Europa, più noti per i testi latini che per quelli in volgare. E, in qualche caso, come quello del ferrarese Celio Calcagnini o del napoletano Girolamo Angeriano, solo furono noti in quella lingua.
Uno degli aspetti che emerge in questi Poeti latini è la maggiore libertà e direi disinvoltura nel trattare temi che non rientrano nel repertorio lirico volgare, il quale specialmente dopo Petrarca notoriamente riduce il dicibile a uno spettro limitato di temi e registri linguistici. Un esempio della varietà e direi vivacità di questa poesia offre per esempio Marc’Antonio Flaminio. Figura di grande spiritualità, amico di eterodossi e coautore a pieno titolo del libro più compromesso con le idee riformate (il Beneficio di Cristo), Flaminio arriverà a far intimamente sua quella dottrina della giustificazione per fede che è uno dei pilastri dell’ideologia riformata. Ora, accanto alle versioni poetiche dei Salmi per i quali il poeta è ben noto, o ai suoi fortunati Lusus pastorali, Parenti ci presenta un breve carme nel quale a parlare è una cagnetta, una cagnetta per di più incinta, che si rivolge al suo padrone (niente di meno che il cardinale Reginald Pole) comodamente seduto in carrozza implorandolo di considerare il suo stato e chiedendogli di potergli stare accanto invece di trotterellare dietro alla carrozza. La novità del testo, ci dice Parenti, consiste nel fatto che gli animali domestici erano, in poesia e fuori dei generi del ‘bestiario’ e della bucolica, fino ad allora soggetto quasi esclusivo di testi sepolcrali. Flaminio restituisce invece all’animale dignità e, diciamo pure, affetto e protagonismo; e la cagnetta alla fine se la prende con un servitore che le impedisce di veder esaudite le sue suppliche. Come non richiamare a questo punto anche la parodia che, in tempi di illuminate rivendicazioni, Parini fa della giustizia nobiliare nel celebre episodio della «vergine cuccia» (Mz 517 e sgg.), dove una giovane cagnetta mordicchia giocosamente il piede di un servo provocandone l’irata reazione poi punita come «misfatto atroce» dalla dama con il licenziamento? Ora questa nobiltà a rovescio, che i poeti latini riconoscono al piccolo mondo animale, o altrove a quello naturale (si vedano il poemetto sul baco da seta del cremonese Vida o il lamento del fagiano che sta per finire in tavola in un carme del Calcagnini, qui antologizzati), è molto presente in questa poesia e corrisponde in parte a quella propensione cristiana verso l’humilitas che alberga per esempio nei discorsi sulla creazione di alcuni padri della chiesa come Basilio Magno.12 Si stenterebbe per contro a ritrovare il tema nella poesia in volgare.13 E una stessa nobiltà sfiora anche il mondo degli umani, se Molza soccorre in versi una cortigiana cui offre consigli medici in occasione del parto o se, sempre sulla gravidanza, s’appropria del registro coniugale pontaniano trovandovi una sua cifra personale. L’umanità di questo testo è anche più evidente se pensiamo che agli autori classici, per esempio a Ovidio, interesserà al massimo – osserva Parenti – il tentato aborto di Corinna (Amores II xiii). Altrove è la iocositas di questa poesia che interessa Parenti, quando legge un testo di Molza che accompagna il dono di ova gallinacea al cardinal Farnese alla luce della tradizione bucolica e degli Scriptores rei rusticae.14 Gli esempi di una tale umanità in poesia, come i percorsi dell’ironia che la sostengono (‘ironia’ vale originariamente ‘simulazione’)15 si possono moltiplicare. Credo anzi che sia questa una cifra più generale della lettura che Parenti fa di questo Rinascimento poetico latino. Un percorso dettato da due condizioni che si intersecano: per un verso, la predilezione dello Studioso per esemplari testuali non privi di grazia e leggerezza, di umanità e tenera sollecitudine e che insomma affidino il rapporto coll’Antico a un registro meno severo, spesso segnato da raffinata parodia, ludico quando non apertamente erotico; e per altro verso una sensibilissima auscultazione del testo, che coglie la rete di riferimenti e allusioni. Lasciando a più tardi una breve illustrazione di questo secondo aspetto, dirò che il disinvolto e nuovo rapporto che questi poeti hanno con l’Antico, Parenti lo ha indagato, per esempio, anche in un bel saggio su Penelope dove mostra come al mito della moglie fedele che aspetta con sacrificio il ritorno del marito se ne accosti uno opposto e libertino che fa di Penelope una donna infedele e libera, nato nei commenti a Petrarca e giunto ai poeti della pléiade.16 La tematica ludica non fu estranea neppure al Bembo latino, destinato tardi e con molte opposizioni a diventar cardinale. Nella poesia latina, Bembo fu piuttosto l’allievo di Poliziano e degli umanisti che della poesia sacra, che coltivò tutto sommato poco a confronto con autori come Sannazaro o Vida, e in lui un certo rilievo ebbe proprio il versante erotico sia che incrociasse gli antichi priapeia o che illustrasse le liti tra amanti maschi, come nel carme De Galeso et Maximo. Parenti non antologizza quest’ultimo testo come non ci offre il raffinatissimo Phaunus bembesco, ma ci soprende invece con un Priapus di cui mostra la dimensione parodica insita nella ripresa dei testi de re rustica e, in particolare, di un raro carme di Colummella. Il Priapus gli appare così, al di là della scabrosità del genere, «una prova di virtuosisimo lessicale, in termini di indovinello, sugli equivalenti metaforici del membro maschile» con cui «sostituendo la malizia del doppio senso all’oscenità dei termini propri dei Priapeia, il poeta si inserisce nella tradizione ‘ortolana’ delle canzoni carnascialesche recitate da ortolani e giardinieri».17 Si misura qui la qualità dell’esegesi e la sua singolarità nel panorama italiano dei commenti ai testi umanistici. I suoi commenti addensano sì, nelle note, riferimenti al linguaggio dei classici, ma raccolgono poi e oltrepassano quei singoli dati sintetizzando con gusto sicuro le linee di fuga che li giustificano entro il quadro più ampio di una tradizione letteraria che richiamano e alla quale alludono. Questa cifra della sua esegesi s’appoggia a una posizione di memoria che ha nutrito una parte importante della nostra più grande filologia. È noto l’intervento che sotto il titolo di «Arte allusiva» Giorgio Pasquali affidò nel 1942 a una rivista e ripubblicò nel 1951 in Stravaganze quarte e supreme.18 In esso, il filologo classico avvertiva del carattere fisiologico che nella poesia colta d’epoca augustea, ma non solo lì, hanno «reminiscenze… allusioni… evocazioni e in certi casi citazioni» degli autori, consce o inconsce poco importa. I procedimenti allusivi non erano, per Pasquali, fenomeni esclusivi della poesia antica; egli recava esempi anche da poeti moderni (Dante, D’Annunzio, Carducci o il Pascoli latino) e giudicava poi la stessa poesia del Cinquecento «per la maggior parte un’infinta serie di ingegnose variazioni su un libro sacro che tutti avevano a memoria». E, appena più in là, riteneva il procedimento «comune a tutte le arti». Questa posizione, poi fatta propria in Italia anche da una corrente della filologia italiana, è stata ulteriormente indagata dalla scuola che da Pasquali è uscita o a lui si è rifatta e, in particolar modo, da classicisti come Antonio la Penna o Gian Biagio Conte. Soprattutto La Penna, interessato ai precedenti umanistici del discorso di Pasquali, ci ha dato saggi fondamentali su Sannazaro, Vida e Ariosto.19 Nel Vida, in particolare, la raffinata pratica allusiva s’accompagna a una moderna coscienza del «fare», che il poeta esplicita nei tre libri del De arte poetica (il «poïein» dei greci).20 Parenti ne mette a frutto gli esiti, prima antologizzando ampi brani da ognuno dei tre libri poi commentando testi di notevole fortuna europea come la Chistias, lo Scacchia, ludus o il poemetto del Bombyx o anche l’Alcon del Castiglione. In un brano del III della Poetica, Vida promuove esplicitamente i furta letterari da altri autori («non è vergogna parlare talvolta con la voce di un altro. Quando però trami un furto ai danni di qualche squisito poeta, agisci con somma cautela e bada ad occultare la refurtiva») e relaziona la modalità allusiva con la parola degli antichi («Saepe mihi placet antiquis alludere dictis»). Alludere, che qui significa qualcosa come ‘giocare’, ci porta in pieno nel dibattito sull’imitatio che occupò – con gli italiani (da Petrarca a Bembo) anche il grande Erasmo e continuò poi nell’Europa del Sei e del Settecento con Boileau, Menzini o Alexander Pope, che di Vida fu grande ammiratore. Ma le pagine del Vida o quelle che Erasmo dedica all’allusione nel De copia verborum ac rerum (1512) hanno ormai qualcosa di inesorabilmente moderno. Nei suoi commenti, Parenti si mostra sensibile a questa cooptazione di testi e autori ma anche precocemente interessato alla coscienza che, per quella via, i poeti mostrano del proprio mestiere o di quello degli altri. Così richiama i raffinati consigli di Pierio Valeriano agli allievi perché non si stanchino, componendo, di esercitare l’orecchio («ipsi aures vestras consulite») o fa emergere, dalle Castigationes a Virgilio dello stesso, la peculiare sensibilità per il labor dell’artista, che il poeta ha maturato nella frequentazione di testi come l’Actius di Pontano. Anche Marc’Antonio Flaminio esprime, scrivendo al Bassiano, questa moderna coscienza del lavoro formale sul testo che mi pare molto vicina a quel concetto di «labor» che Virgilio menzionava ad apertura della sua egloga più letteraria («Extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem», X 1) e che Valéry chiamerà tout simplement «le travail du poète».21 Questa sensibilità per l’assetto formale del testo, e la necessità di giustificarlo nel suo rapporto con l’Antico, è dunque una costante di questa antologia; ma ha abitato lo Studioso molto presto e non si può scindere dal suo lungo apprendistato pontaniano. Da quell’apprendistato esce, per esempio, la lettura di Parthenopeus I 7 condotta con sensibilità postsaussuriana per le «partiture foniche» di figure come l’iteratio, la repetitio o l’allitteratio, fenomeni che Pontano pone sotto la lente nell’Actius (e alliteratio è per l’appunto un suo neologismo).22 Ora, come aveva mostrato Antonio La Penna ritrovando i precedenti umanistici del discorso di Pasquali, la coscienza della dimensione allusiva della poesia è presentissima nella Poetica del Vida, autore anche per questo ben consono a Parenti. Nello sforzo dichiarato di «emulare la realtà con le parole» («verbisque ipsam rem aequare canendo»), il poeta cremonese affronta temi come l’ispirazione («furor»), il suo governo attraverso la revisione del testo, l’importanza degli affetti e la loro promozione in poesia ecc. Senza dimenticare gli ostacoli che si presentano alla composizione (stanchezza, melancolia, titubanze…), a vincere i quali solo occorre attendere il momento opportuno («felixque ideo, qui tempora quivit / adventumque dei, et sacrum expectare calorem»). C’è insomma una continuità di interessi tra la grande stagione aragonese e postaragonese e la riflessione di questi poeti cinquecenteschi, per i quali – se può azzardarsi un paragone – gli affreschi del Campi che il vescovo Vida promuove in Santa Margherita a Cremona paiono un quasi equivalente nordico della riproduttissima Tavola Strozzi per il Quattrocento meridionale. Certo Vida esprime al più alto livello il raffinato commercio di questo Cinquecento poetico con l’Antico e non sarà un caso che Parenti lo prediliga capitalizzandone le idee poetiche. Ciò capita per il Bombyx, dove l’episodio dei bachi da seta uccisi dalla curiosità degli amorini è interpretato dallo Studioso sullo sfondo della favola di Aristeo delle Georgiche con queste parole magistrali: «Alla perdita delle api da parte del pastore virgiliano corrisponde l’uccisione dei bachi da seta in Vida, mentre la loro risurrezione (ottenuta da Venere che si reca presso Plutone) equivale al viaggio di Orfeo agli Inferi per riottenere Euridice».23 O capita, per fare un ultimo esempio, nel Siphilis del veronese Girolamo Fracastoro, poemetto che risolvendo in invenzione mitologica le teorie sul contagio esposte nel De contagione e nel De simpathia riunisce allusivamente la dimensione cristiana e scientifica del poeta. Del Siphilis è offerto per intero il III libro. Qui, l’episodio del guaiaco venuto dalle Americhe a guarire il mal francese e la suggestiva evocazione del Nuovo mondo che l’accompagna (frutto della familiarità col Ramusio) fa di Cristoforo Colombo un emulo dei navigatori del tempo e in particolare l’erede dei Troiani in fuga verso il Lazio. Colombo si fa dunque novello Enea. Per tali modalità di rimemorazione, non solo il Siphilis può dirsi «l’esempio di emulazione virgiliana più clamoroso di tutto il secolo» ma gli stessi episodi della fortunosa navigazione di Colombo quasi «un’Eneide abbreviata alle dimensioni dell’epililio».24 Qui, la lettura di Parenti ancora una volta trascende il puntuale rapporto con le fonti per farsi comprensione totale del concetto che Fracastoro ebbe della poesia e l’accento posto sul «labor» del poeta finisce per sollecitare, in un patto ideale di collaborazione tra poeta e critico, le più moderne riflessioni sul mestiere di poeta.
____________
1 Si veda Gennaro Sasso, Sulla genesi dell’Istituto. La ricerca del primo direttore, in Martina Herling (a cura di), L’Istituto Italiano per gli Studi Storici nei suoi primi cinquant’anni 1946-1996, Napoli, nella Sede dell’Istituto, 1996, pp. 3-71.
2 Poeti del Cinquecento. Tomo I. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di Guglielmo Gorni, Massimo Danzi e Silvia Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 2001.
3 Giovanni Parenti, Introduzione, edizione traduzioni e commento a quattro «carmina» di Baldassar Castiglione, in Isabella Becherucci, Simone Giusti e Natascia Tonelli (a cura di), Per Domenco De Robertis. Studi offerti dagli allievi fiorentini, Firenze, Le Lettere, 2000, pp. 344-397. A Parenti è dedicato il volume promosso dall’Università di Firenze Per Giovanni Parenti. Una giornata di studio, a cura di Arnaldo Bruni e Carla Molinari, Roma, Bulzoni, 2009, dove anche è un profilo dello Studioso ad opera di chi scrive.
4 Recensione all’Antologia poetica di umanisti meridionali, a cura di Antonio Altamura, Francesco Sbordone, Emilia Servidio, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1975, in «Filologia e critica», a. 2, fasc. 2, settembre-dicembre 1977, pp. 481-484: p. 482.
5 G. Parenti, Tradizione e elaborazione del Liber parthenopeus di Giovanni Pontano, Firenze, Facoltà di lettere, 1971. Lo studio, allargato alle indagini sull’elaborazione di altri due libri pontaniani (quello funebre dei Tumuli e quello familiare del De amore coniugali), si fa libro nel 1983: Id., «Poeta proteus alter». Forma e storia di tre libri di Pontano, Firenze, Olschki, 1985.
6 La recensione della miscellanea fiorentina per Dionisotti (Studi di filologiae di letteratura italiana offerti a Carlo Dionisotti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1973), in «Paragone/Letteratura», 306, agosto 1975, pp. 75-86 e l’ancora inedito ricordo dello Studioso tenuto, a un anno dalla morte, il 19 novembre 1999, all’istituto Nazionale del Rinascimento di Firenze.
7 Alludo, per esempio, a queste parole su un un ambito dei nostri studi – quello del ‘petrarchismo’ cinquecentesco – in cui più pareva urgente fare storia per l’incomprensione e il giudizio che lo accompagnavano: «Bisogna riconoscere che la nostra critica letteraria qualcosa dovrebbe pur apprendere da quale delle arti figurative, per esempio che non si può giudicare d’un’opera quando non si sappia distinguere se è di scuola veneta o fiorentina, se vi si risenta o no l’influsso questo o quel maestro che abbia impresso all’arte un indirizzo nuovo. Non dico che le scritture cinquecentesche si prestino a una notomia stilistica analoga a quella ormai praticata e accertata sulle contemporanee architetture e sculture e pitture, ma dico che certe differenze esistono evidentisime e costanti anche fra scrittori di varia educazione e scuola. Le rime del Bandello non fanno eccezione» (Carlo Dionisotti, Una canzone sacra del periodo mantovano del Bandello, in «Italia medioevale e umanistica» XI (1968), pp. 293-307: 294, ma lo scritto è del 1946).
8 Piano di lavoro e documentazione relativa ai poeti latini e volgari di competenza di Parenti sono oggi presso l’Archivio APICE dell’Università degli Studi di Milano (Archivi della Parola, dell’Immagine e della Comunicazione editoriale): Archivio Ricciardi. Corrispondenza, fasc. Giovanni Parenti.
9 Poeti latini del Quattrocento, a cura di Francesco Arnaldi, Lucia Gualdo Rosa e Liliana Monti Sabia, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 1964.
10 G. Parenti, «Poeta proteus alter». Forma e storia di tre libri di Pontano, cit. e Id., Benet Garret detto il Cariteo. Profilo di un poeta, ivi, 1993. Ma si aggiungeranno una dozzina di voci redatte per il Dizionario biografico degli Italiani e almeno gli ampi studi dedicati al De Jennaro e a Antono Caracciolo: Un gliommero di P.J. De Jennaro: «Eo non agio figli né fittigli» e «Antonio Carazolo desamato». Aspetti della poesia volgare aragonese nel ms. Riccardiano 2752, apparsi entrambi sugli «Studi di filologia italiana» XXXVI (1978), pp. 321-365 e XXXVII (1979), pp. 119-279.
11 Penso all’ampio quadro della poesia meridionale manierista offerto in Vicende del sonetto tra manierismo e marinismo (in margine a una recente antologia) apparso in «Metrica» I (1978), pp. 225-396, al saggio sulla Nenia, in «Inventario», XXI, n° 7, aprile 1983, pp. 45-60 o a quello sul tumulus (L’invenzione di un genere, il «tumulus» pontaniano, in «Interpres», VII (1987), pp. 125-58). Il saggio sulla poesia pastorale e l’eterodossa rivistazione di Penelope sono di questo stesso anno: cfr. La poesia pastorale come poesia artificiosa. Origine e fortuna del «Summationsschema», in «Colloquium Helveticum», VI (1987), pp. 27-75 e L’infedeltà di Penelope e il petrarchismo di Ronsard, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XLIX (1987), pp. 547-70.
12 Fabrizio Gonnelli, Il bestiario esamerale: poesia biblica bizantina e barocca, in “Compara(i)son” 1 (1996), pp. 105-32.
13 Per il testo del Flaminio, cfr. Poeti latini, vol. I, cit., pp. 831 e sgg. Per quello del Vida, ibid. pp. 1129 e sgg. il testo del Molza, II 297 e sgg.
14 Poeti latini, I, cit., pp. 297 e sgg. e rispettivamente 321 e sgg.
15 Lo ricorda, recando esempi di riprese allusive nei classici, Gian Biagio Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Palermo, Sellerio Editore, 2012, p. 105. E si veda il vecchio saggio di W. Hermes Büchner, Über den Begriff der Eironeia, lì cit., in “Hermes” 76, 4 (1941), pp. 339-358.
16 G. Parenti, L’infedeltà di Penelope e il petrarchismo di Ronsard, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XLIX (1987), pp. 547-70.
17 Ibid., I, p. 593 e p. 595.
18 Giorgio Pasquali, Arte allusiva, in Id., Stravaganze quarte e supreme, Vicenza, Neri Pozza, 1951, pp. 11-20: pp. 11-12.
19 Antonio La Penna, Tersite censurato e altri studi di letteratura tra Antico e Moderno, Pisa, Nistri Lischi, 1991 (ma i saggi ricordati sono del 1983, 1985 e 1988). Di Conte, più interessato ai meccanismi allusivi della memoria nei classici, si vedano in particolare le pagine sull’allusività incipitaria in Virgilio, Catullo, Ovidio ecc., in Memoria dei poeti e sistema letterario: Catullo, Virgilio, Ovidio, Lucano, Palermo, Sellerio, 2012 (ed. orig. 1986), pp. 78 e sgg. E anche il più recente Dell’imitazione: furto e originalità, Pisa, Edizione della Scuola normale, 2014.
20 Il rinvio dei poeti al greco ‘poiein’ (il ‘fare’, il ‘poetare’) è naturalmente presente anche prima di Vida. Ricordo almeno Dante nel De vulgari eloquentia II iv, 2, Leonardo Bruni nella Vita di Dante («questo nome di ‘poeta’ è nome greco, e tanto viene a dire quanto ‘facitore’», in Paolo Viti (a cura di), Opere letterarie e politiche, Torino, Utet, 1996, p. 549) e il Landino nel proemio dantesco: «e’ Greci dissero poeta da questo verbo ‘poiein’, il quale è in mezzo tra ‘creare’, che è proprio di Dio quando di niente produce in essere alcuna cosa, e ‘fare’, che è degli uomini in ciascuna arte, quando di materia e forma compongono…» (Scritti critici e teorici, a cura di Roberto Cardini, Roma, Bulzoni, 1974, vol. II, p. 301). Il concetto troverà poi ampio sviluppo in Paul Valéry, Œuvres. Édition établie et annotée par Jean Hytier, Paris, Gallimard, 1957, I, p. 1342: «c’est enfin la notion toute simple de faire que je voulais exprimer. Le faire, le poïein […] est celui qui s’achève en quelque œuvre […] qu’on est convenu d’appeler œuvres de l’esprit», ecc.
21 Per Pierio Valeriano, cfr. Poeti latini, I, cit., p. 49; per Marc’Antonio Flaminio, ibid., pp. 763-765. Sull’equivalenza di poésie e travail (con le metafore del poeta ouvrier e della composizione come fabrication), cfr. P. Valéry, Œuvres, cit. I, p. 483 e 1324, 1329 e 1333-1334.
22 G. Parenti, Pontano o dell’allitterazione: lettura di Parthenopeus I, 7, in «Rinascimento» , s. II, XV (1975), pp. 89-110.
23 Poeti latini, I, cit., p. 1131.
24 Ibid., I, p. 1159.