Revue Italique

Varia

OJ-italique-888

Autoritratto del poeta “in villa”: la poesia lirico-bucolica di Niccolò da Correggio

Giada Guassardo

In un contributo del 1998, Massimo Malinverni invitava al superamento del pregiudizio che vedeva nella lirica delle corti padane di fine Quattrocento un continuum pressoché privo di articolazioni stilistiche interne, e in netta contrapposizione al petrarchismo ‘alto’ rappresentato dagli Amorum libri di Boiardo.1 La sua proposta è stata raccolta da vari studiosi, che attraverso commenti e ricognizioni hanno contribuito a tracciare profili più definiti degli autori in questione (Tebaldeo, Sasso, Visconti); ed è auspicabile che un simile approccio sia oggi ulteriormente incoraggiato dalla disponibilità di un utilissimo strumento orientativo quale l’Atlante dei canzonieri quattrocenteschi allestito da Andrea Comboni e Tiziano Zanato.2

Con queste premesse vorrei recuperare le fila del discorso critico sul poeta estense Niccolò da Correggio (1454-1508), il cui corpus lirico si legge nell’edizione di Antonia Tissoni Benvenuti.3 Si tratta di un autore tutt’altro che trascurato dagli studiosi, che anzi sono pervenuti (anche di recente) a efficaci percorsi tematici e sintesi complessive.4 Io intendo invece soffermarmi su un determinato aspetto di queste rime: il ricorso costante a un’ambientazione pastorale, e a rimandi tematici e stilistici al genere bucolico, anche al di fuori dell’ecloga propriamente detta. Questa predilezione5 è in parte spiegabile con l’ambiente in cui gravita Niccolò, il triangolo culturale Ferrara-Mantova-Milano – che negli ultimi due decenni del secolo poteva disporre, oltre che delle ecloghe toscane stampate nell’edizione Miscomini (1482), del modello di Boiardo, autore di una serie di dieci Pastoralia latini (1463-1464) e, a distanza di vent’anni, di un’analoga serie di ecloghe in volgare (Pastorale, 1482-1483); e sul quale in aggiunta pesava l’influenza di Alberti e Giusto de’ Conti, pionieri dell’ibridazione fra genere lirico e bucolico. D’altra parte, in Correggio l’inclinazione alle tonalità pastorali appare più spiccata che nei contemporanei, e assume un’importanza che direi distintiva. Esplorare questo atteggiamento poetico sembra dunque opportuno nell’ottica di un approccio analitico allo studio delle ‘personalità individuali’ che articolano la costellazione lirica cortigiana. A questa ragione si affianca la necessità (di cui sono persuasa) di approfondire i tasselli costitutivi dell’ecloga rinascimentale (e di conseguenza i confini fra questo genere e il lirico), argomento, questo, la cui sicura produttività è stata dimostrata dagli studi recenti.6 Qui si affronterà soprattutto la raffigurazione del locus amoenus, ossia lo spazio pastorale per eccellenza –7 un tema oggi forse sottovalutato, ma tutt’altro che criticamente esaurito – e più nello specifico il rapporto fra il locus amoenus e l’articolazione dell’‘io’ lirico: tale pista di indagine, oltre a essere in sé promettente, pare applicarsi con particolare felicità al caso del Correggio.

Dignitario al servizio di Ercole I d’Este (con un significativo intervallo presso la corte milanese di Ludovico il Moro) e influente diplomatico, Niccolò da Correggio trasmise nel corso della sua vita un’immagine di sé che incarnava perfettamente l’ideale cortese. Un profilo di cui l’attività poetica costituiva parte integrante: «il più atilato e de rime e cortesie erudito cavagliere e barone che ne li tempi suoi se ritrovasse in Italia», lo definì Isabella d’Este;8 e la sua fama di letterato è confermata dall’essere stato dedicatario di opere come i Rithimi di Gaspare Ambrogio Visconti e l’Amore di Girolamo Benivieni. Se l’etichetta di ‘letteratura di corte’ certo gli si addice nel caso di opere come la Fabula di Cefalo e la Psiche, nate espressamente per essere diffuse e rappresentate in quell’ambiente,9 la situazione delle liriche è più complessa. L’unico manoscritto che oggi ci trasmette esclusivamente rime del Correggio è l’Harley 3406 del British Museum, compilato dal segretario Antonio Valtellina, verosimilmente a ridosso della morte del poeta.10 Il codice ospita 404 testi, in gran parte amorosi, con ogni probabilità composti in periodi diversi e raccolti in seguito. Rimane però il dubbio sul grado di ‘finitezza’ della raccolta, nonché sulla destinazione per essa prevista: Niccolò, è noto, aveva promesso a Isabella d’Este di dedicarle un canzoniere; tuttavia ci sono valide ragioni per sostenere che l’Harleiano non rifletta tale progetto.11 Se in aggiunta si tiene conto della povertà della parallela tradizione spicciolata delle rime, dell’esiguità delle estravaganti (solo quaranta quelle oggi note) e della rarità nel corpus di allusioni a personaggi o eventi dell’epoca,12 si ricava l’impressione di un’attività lirica coltivata in forma soprattutto privata: con quale progettualità, resta incerto. Enrico Fenzi, cui si deve la più articolata discussione in merito, fa perno su alcuni elementi ‘scomodi’ della raccolta (le critiche contro la corte, su cui torneremo, ma anche l’elaborazione del tema amoroso – che secondo lo studioso lascerebbe intuire un’infatuazione per la duchessa di Ferrara), ipotizzando che questi avessero finito per caratterizzarla, compromettendo gli originari piani autoriali.13 Si può essere o meno d’accordo: ma la deriva intima di molte rime del Correggio è evidente in ogni caso, e così pure l’autocoscienza poetica, che si manifesta nei pur rari affondi metaletterari. Si può vedere a riguardo il sonetto ‘autobiografico’ 109, con cui Niccolò ripercorre – per poi dirsene pentito, secondo il topos – la propria attività di poeta lirico («Cantai già versi a la mia ninfa e a Amore», v. 1), bucolico («cantai con voci alpestri in qualche loco / ove più che ’l civil piacea il pastore», vv. 3-4) e scenico («cantai comedie e riportàme onore, / ne le scene ludendo a exempio e a gioco», vv. 5-6). La sfida è domandarsi in quale punto biografia e stilizzazione si incontrino, e secondo quali modalità il codice pastorale si inserisca nel quadro.14

Mi pare innanzitutto opportuno distinguere fra due declinazioni del locus amoenus che si possono incontrare nelle rime di quest’epoca, che definirò (con un necessario margine di semplificazione) ‘lirico-elegiaca’ e ‘satirica’. A individuarle è, più che la formulazione – entrambe attingono alla stessa riserva di elementi canonici, come l’ombra, il fiume e il canto degli uccelli, secondo una stilizzazione imposta già dai poemi omerici –, il ruolo che tale ambientazione svolge nel testo. Il primo tipo, inflazionato nella poesia amorosa, mette in relazione il paesaggio con lo stato d’animo del poeta, secondo un’ampia gamma di possibilità: il locus amoenus può servire a far risaltare, per contrasto, il suo dolore (secondo lo schema dell’‘esordio primaverile’ di Rvf, 310); oppure può essere il rifugio prescelto nella sua ricerca di solitudine; ed è anche frequente la situazione che vede l’amante infelice rivolgersi agli elementi della natura, come suoi confidenti. Impossibili qui da riassumere gli ‘accessori’ tematici più ricorrenti: tra questi, l’amata indicata come ninfa (o con un nome pastorale) e l’inscriptio corticis (l’incisione del nome dell’amata sulle cortecce, topos caro al Correggio).15 Non ripercorrerò neppure la trafila dei modelli, limitandomi a ricordare l’importanza archetipica – accanto a Virgilio e Ovidio – di testi petrarcheschi come Rvf, 35 e 129, il ruolo stabilizzatore dei già citati Alberti e Giusto (si veda Odite, monti alpestri), ma anche del Boiardo degli Amorum libri (con II 39-48, vero ‘ciclo pastorale’, oppure II 56 e II 59, sulla disforia fra il rifiorire della natura e il dolore del poeta) e delle Pastorale, ricche di escursioni nel registro della lirica amorosa.16 Del Correggio si potrebbero citare il sonetto 77, descrizione campestre che prelude al parallelo finale fra il volo degli uccelli e il proprio sprofondare negli inferi («Ogni ucelletta al nido or torna carca / per la futura prole. Io vo in abisso / e per Stige passar spalmo la barca» vv. 12-14),17 e il capitolo 361 (Stagione aprica, natural tesauro), lunga descriptio veris cui fa seguito il lamento d’amore.

Nel Correggio tuttavia risulta più interessante la configurazione ‘satirica’ del tema, che fa della natura la sede di valori come l’innocenza e il libero arbitrio, in antitesi alla città – sottoposta al caso, dominata dall’avidità e dall’invidia. La componente amorosa è in questo caso assente o marginale: la funzione del locus amoenus è, o aspira a essere, anti-elegiaca. Il paradigma contrastivo città-campagna e in generale l’ideale di vita secundum naturam, che trova i suoi archetipi in Orazio e Seneca,18 genera a cavallo fra i due secoli una doppia tradizione, latina (con i Sermones di Tito Vespasiano Strozzi, 1503) e volgare: fra i più fecondi esponenti di quest’ultima è proprio il Correggio,19 che la declina, oltre che nella più consueta forma del ternario, anche nel sonetto. Un esempio è il 72, una laus ruris che termina con una stoccata finale contro la vita cittadina:

La villa, i boschi, i verdi prati e i fiori,
    i monti e i colli, le campagne, i fiumi,
    le dolci fraghe per le ripe e i dumi
    con lor fructi, a gli ucei dolci sapori,4
 
i suoni alpestri, i canti de’ pastori,
    gli abiti strani e i rozi suoi costumi,
    satiri e fauni, de le selve numi,
    drïade e ninfe in ordinati cori,8
 
solcati campi e le fecunde vite,
    i fructi inserti ne i giardin suavi
    e il sole e l’ombra in sua stagion perfecti11
 
fa vincitor di questa tanta lite
    la vita agreste; e a te, cità, non gravi,
    ché tu pur nutri invidie, odii e dispecti.14
(Rime, 72)

Non escludo che la «tanta lite» del v. 12 sottintenda un riferimento preciso, come il De summo bono di Lorenzo de’ Medici – il cui nucleo originario (1473), era proprio l’altercazione fra ‘Lauro’ e il pastore Alfeo sui due opposti stili di vita.20 Sospendendo il giudizio su questo punto (in mancanza di elementi per avvalorare la relazione),21 noterò piuttosto che il poeta qui non segue il topos dell’età dell’oro: a caratterizzare il paesaggio infatti non è la fecondità spontanea della terra ma l’operosità dell’uomo (indicativi i «giardin» e il verbo ‘solcare’, raro in poesia se non riferito a mare o fiumi),22 che è tema che rimanda, piuttosto che all’ecloga,23 alla satira.

In altre rime correggesche la matrice satirica si manifesta nell’adozione della forma epistolare abbinata a un registro che riecheggia il sermo oraziano delle Epistole e di alcune Satire (distaccandosi dunque dalla pur popolarissima epistola ‘ovidiana’, che prendeva a riferimento le Heroides).24 Si veda il sonetto 97, un invito in villa forse indirizzato al poeta Antonio Cammelli ‘il Pistoia’ – che dimorò a Correggio, come segretario di Niccolò, fra il 1478 e il 1482:25

Siede, Panisco mio, dolce compagno,
    la capanella mia sopra un pogietto
    non erto da salirvi, e l’umil tetto
    copre un robusto, antico e gran castagno.4
 
Sotto gli corre un fiume, del qual bagno
    un mio culto orticel dolce di aspetto;
    qui sto col pover gregge, e tempo aspetto
    ch’io possa far di lui qualche guadagno.8
Qui presso è quella solitaria villa
    ove Insidoria tua tanto ti piacque,
    ch’io scio che ’l pecto ancor te arde e sfavilla.11
 
Tòrnati a riveder queste dolci acque,
    ché se provasti mai vita tranquilla,
    certo dirai che qui la requie nacque.14
(Rime, 97)

Come nel caso di 72 siamo di fronte a un paesaggio non soggettivizzato, quasi ‘da cartolina’, alla cui definizione amoena concorrono alcuni espedienti retorici (il nome, non tradizionale ma allusivo al mondo bucolico, di Panisco, l’allitterazione di -qunella seconda terzina, i diminutivi vezzeggiativi ai vv. 2 e 6). Qui però l’‘io’ poetico è formulato con maggior incisività: i deittici identificano la «solitaria villa» con il suo mondo esperienziale; le espressioni locative contribuiscono alla percezione di concretezza («sopra», «copre»). È Niccolò insomma, e non una generica prima persona, a vestire i panni dell’agricoltore e del pastore e a far proprio l’ideale della medietas.

Anche in altri testi si verifica un analogo incontro fra riferimenti reali e il tradizionale repertorio di temi morali associati alla vita agreste. Ad esempio nel capitolo 371 (Né più né men como a natura piace), noto con il nome di Vita quieta e forse in origine indirizzato – sebbene la sua fisionomia epistolare sia poco accentuata – a Giovanni Pico della Mirandola.26 Il capitolo è un lungo elogio della vita in campagna. Dopo una sezione moraleggiante, il poeta passa a descrivere la propria quotidianità:

Ma a me ritorno, e questo dir prosumo:
    che in questo mio tugurio ho il secul tutto,
    benché oltra il viver non m’avanzi un numo.
Dove el fonte non sorge, è l’aquedutto;
    dove non nascon cedri o palme, è il sorbo,
    che, quando piace a me, mi è dolce frutto.
[…]
Ho l’aglio almanco e le spogliose cepe,
    fragole, aspargi, ed èvi el spineo cardo,
    e nespoli inestati entro le sepe,
caperi, fongi, erbette e il spico nardo,
    fior’ varii e rose, non che a primavera,
    ma l’estate, l’autunno e al verno tardo.
S’io non ho mare o laghi, ho la peschera,
    e s’ella non ha tunni, orate o rombi,
    ha d’umil pesci una infinita schiera.
Ho le reti coi subri e al fondo i piombi,
    che quel ch’io voglio portono a la riva;
    de ucelli ho puoi galline, oche e colombi.
(
Rime, 371, vv. 55-75)

Oltre ai nomi dei frutti e ortaggi coltivati, e degli uccelli allevati e cacciati, spiccano l’«aquedutto» (v. 58) e la «peschera» (v. 70), tecnicismi ‘realistici’ rari in poesia. Che il poeta possedesse effettivamente una peschiera (elemento tipico della ‘villa’ rinascimentale) lo conferma una sua lettera a Isabella d’Este:

[…] feci heri peschare in una mia peschera a Corregio, dove si sono presi molti pesci, e fra gli altri questo luzo ch’io mando a la Excelentia vostra non perch’io non sapi che non li mancha pesce, ma perché veda se è bono, ben ch’io non credo ch’el sia bono como el sole, per essere pocha acqua in la peschera […].
(Fabbrico, 25 agosto 1497)
27

Niccolò sta scrivendo dai suoi possedimenti nei dintorni di Correggio, dove si è rifugiato per fuggire da una pestilenza. Per inciso, il carteggio contiene molti spunti utili per comprendere la sua autocoscienza poetica e il valore da lui assegnato al tema della campagna. In un’altra missiva a Isabella, risalente allo stesso periodo, l’isolamento viene trasfigurato con filtro letterario:

Domatina, illustrissima madonna mia, voglio andare a disinare a la Selvapiana, longi da Rosena dua miglia, dove el celebratissimo misser Francischo Petrarcha compose tante opere: locho ameno et apto a tal exercitio. E se la legie la vita sua che è stampita dreto a li Sonetti e Triumphi soi la vederà nominata. E cusì alegramente anderò passando questi fastidii. Rosena è longi da Coregio 25 miglia et è locho molto remoto.
(Campegine, 8 giugno 1497)
28

L’avverbio «alegramente» suggerisce la funzione ricreativa della poesia, con facili reminiscenze della ‘brigata’ decameroniana. Ma il soggiorno forzato assume anche i tratti di un ritiro umanistico, poiché su quei luoghi aleggia – diretta ispirazione per il conte di Correggio – lo spirito di Petrarca:29 l’impostazione sottesa è quella che fa capo al De vita solitaria e all’umanesimo fiorentino, che individua nella campagna il luogo dell’otium intellettuale o filosofico.30 Occorre però precisare che Niccolò non raccoglie quasi mai (se ho visto bene) questo spunto nelle liriche, prediligendo la connotazione morale della ‘villa’ a quella intellettuale. Così nella Vita quieta, dove si dice consapevole che «più gode / un libero voler dentro el deserto / che in le cità, dove l’un l’altro rode» (vv. 98-100). Così anche nel capitolo 402 (Dal solingo ricetto ove ancor vivo), anch’esso in forma epistolare, in cui scrive di aver rinunciato a «invidie, detraczione, onte e dispecti» (v. 36) per vivere «in un tugurio facto da natura / al piè di un monte e da un monte coperto» (vv. 8-9).

Al lettore della raccolta non sfuggirà, inoltre, che la polemica anticittadina si traduce sistematicamente in polemica anticortigiana.31 Gli attacchi contro la corte vi risuonano con un’insistenza (e spesso con una virulenza) particolare, tanto da autorizzare l’interrogativo sulla spendibilità sociale di questi testi (un punto cui si è accennato all’inizio).32 L’oggetto dell’invettiva finisce poi per inglobare anche l’esperienza amorosa, in ragione del legame che l’autore percepisce fra questa e la corte33 (ideale cornice, quest’ultima, di avventure galanti, e in quanto tale poeticamente stilizzabile, come in certe rime del cugino Boiardo). In tale contesto, che la polemica del Correggio muova da un piano intimo e personale (ancor prima che topico) lo suggeriscono i toni di accusa, i continui rigurgiti vittimistici, le allusioni più o meno oscure a episodi di ingratitudine. Se la delusione amorosa non è verificabile sul piano aneddotico, che il suo prestigio a corte a un certo punto si fosse eclissato lo conferma la relazione di Bernardino Prosperi a Isabella d’Este, sulla malattia che lo portò alla morte (a Ferrara, lontano dalla sua ‘villa’): «Il se conosce essere prevenuto da la morte qualche anni più presto non ge saria accaduto quando se ne fose stato a Correzo, perché il se tiene comunemente che affanno et melenconia de vederse grande et poi abassato lo habi aterrato».34 Anche in passato oltretutto non erano mancati i dissapori: eclatante un episodio del 1492, quando Ercole I gli interruppe la provvigione rinfacciandogli di barcamenarsi fra il servizio agli Estensi e quello del Moro, accusa a cui Niccolò rispose protestando la sua fedeltà.35

Il senso di conflittualità irrisolta che – come si sarà capito – pervade la raccolta lirica correggesca va a incidere in modo significativo sulla raffigurazione della campagna. Il canone del locus amoenus infatti non è sempre assunto pacificamente, ma presenta sottili increspature che si manifestano, in certi casi, solo a una lettura incrociata dei testi. Nel sonetto 38 il poeta sembra seguire coordinate oraziane, aprendo e concludendo con una massima sull’autodeterminazione («Quello è contento a chi il desio rïesce», v. 1; «ché chi ha il bisogno suo, di nulla è privo», v. 14) e dichiarandosene seguace: «anch’io a la villa in poverel tugurio / con cibo equale a la mia fame vivo» (vv. 9-10). Che tuttavia tale situazione sia turbata da un ‘fantasma’ del passato si capisce raffrontando il sonetto con il 16 – la cui sentenza conclusiva si lega strettamente a quella iniziale di 38 («ch’io godo, e i gran desii posto ho da parte, / perché de i mille l’un non ci rïesce», vv. 13-14):36 qui è esplicito il ricordo di un ‘prima’, e il mutamento di sorte è imputato ad Amore («Tacito e solo in questa amena valle, / ove il mio exilio già mi diè Cupido, / stommi, e del mondo e suoi inganni mi rido, / ch’io me l’ho posto già drieto a le spalle», vv. 1-4). Anche nel sonetto 237, in cui l’accusa ricade sulla corte, proprio come in 16 si parla di esilio («Perso servizio col favore insieme / m’han facto abandonar l’invida corte, / dandomi exilio in queste parti extreme», vv. 9-11): termine non neutro, che getta un’ombra sull’amenità della vita rustica («amena valle», 16, v. 1).

Ma è soprattutto interessante il sonetto 289, che tornando alla forma epistolare di 97 si rivolge a un Antonio, forse nuovamente il Cammelli:37

L’ozio già tanto disïato godo
    qui, Antonio, in villa, d’ogni invidia privo,
    e mover sassi da un corrente rivo
    vedo, e a vane speranze ho posto el chiodo.4
 
Non più biasteme, anzi dil cel mi lodo,
    né di lacrime più versi ti scrivo,
    ma in solitudine a me stesso vivo
    con cetre e canti e compagni a mio modo.8
 
In una cosa sol me stesso danno:
    de l’età persa vanamente in corte,
    e ch’io non venni qui al vigesimo anno.11
Qui non ha forza Amor, né ardire ha Morte,
    e se offendeno alcun, l’è per inganno,
    ché qui l’arbitrio regna, e non la sorte.14
(Rime, 289)

Nel quale andrà notato il paradosso per cui Niccolò offre – ‘satiricamente’ – una descrizione della campagna come spazio dell’autosufficienza («a me stesso vivo», «a mio modo», «me stesso») costruendola però ex negativo, attraverso l’insistita presa di distanza da corte e amore, dunque di fatto subordinandola alla descrizione del suo contrario.

Si comprende insomma come il soggiorno in villa di Niccolò si tenga in bilico fra i due paradigmi dell’‘evasione’ e dell’‘esilio’. In un manipolo di testi la seconda accezione prende decisamente il sopravvento: in questi casi il locus amoenus si rovescia nel suo opposto, divenendo una prigione angosciosa che tiene il poeta in ostaggio della sua sofferenza. Si veda il sonetto 198, di nuovo indirizzato ad ‘Antonio’, legato da un rapporto di specularità sia a 97 sia a 289:

Fra dense nebbie, fra paludi e canne,
    como un leon che incatenato ruggi,
    Antonio, stommi, e se da me ti fuggi
    ti scuso, ché non sei un rustico Panne.4
 
In un tugurio misurato a spanne
    vivo, ch’io non scio como io non mi struggi;
    s’io esco fora, odo de tori i muggi,
    cornar le capre e i porci arodar zanne.8
 
Non si comparte con campane il giorno,
    ma, in cambio de orilogli, le cicale
    ce insegnon l’ore, o qualche alpestre corno.11
 
Vivo con gli animali uno animale;
    pur se da me m’alargo o in me ritorno,
    ognora in mezo il cor mi sento un strale.14

Se in 97 il poeta invitava ‘Panisco’ a godere con lui dell’otium campestre, qui viceversa mostra comprensione verso l’amico che non lo raggiunge in quello che è di fatto un locus horridus38 (Antonio nonè un «rustico Panne», dove l’aggettivo porta con sé l’accezione spregiativa del corrispondente latino). L’inospitalità del luogo è veicolata tramite il mutamento di segno degli elementi tipici del canone paesaggistico, come il «tugurio» (qui non rifugio frugale39 ma alloggio angusto e inabitabile) o il canto delle cicale; anche il combattimento fra animali, che apparterrebbe alla tradizione del locus amoenus in quanto lotta amorosa,40 diventa pura esibizione di violenza. Lontano dalla civiltà, qui il poeta non solo non ritrova se stesso, ma degenera in uno stato ferino (v. 2 e v. 12), e soltanto in certi momenti prende coscienza di sé («in me ritorno»).41 Il sonetto 264 condivide con quello appena esaminato il tema dello smarrimento («fra sterpi noto, e me non ricognosco», v. 13) e quello della vita selvaggia («Col sol mi levo e sùbito m’imbosco, / fuggo le case per minor mia pena, / cercando tra le frondi un loco fosco», vv. 9-11) – che appare qualcosa di più inquietante della ricerca di solitudine di Rvf, 35, tingendosi di sfumature quasi patologiche. In questo testo però diviene esplicito il binomio tra frustrazione amorosa e cortigiana («Da Amor sbandito in solitaria villa42 / e del favor di corte in tutto privo,/ tra fere alpestre incognito mi vivo, / e il foco usato al pecto pur sfavilla», vv. 1-4).

Il paragone con il leone, che il poeta riferisce a se stesso in 198, torna nel capitolo 366 («un leon fero e indomito», v. 70), testo che riunisce tratti dell’ecloga – è interamente in sdruccioli – e dell’epistola elegiaca.43 Sfogandosi con ‘Pico’, forse il Mirandolano (ma potrebbe trattarsi di uno pseudonimo mitologico), per il tradimento dell’amata Licia, il poeta descrive la propria alienazione «ove la selva è più folta e densissima» (v. 22), fuori dalla civiltà («e più di me non stenta in villa un rustico», v. 42) e circondato da animali violenti («Vidi l’altrier tra duo tori un certamine», v. 43). Il suo dolore lo spinge a danneggiare gli elementi della natura, affinché l’ambiente circostante rispecchi il suo stato d’animo («S’io vegio lauri o bei cipressi o miriti / pullular per le selve, e io li extermino, / perché i lochi ov’io sto sian vani ed iriti», vv. 52-54), e ad auspicare lo sconvolgimento del mondo intero («[voria] che ’l mondo avesse fin tutto ad un termino», v. 57). Questa configurazione rovescia lo stereotipo della natura che dà conforto, subendo piuttosto l’influenza della disperata, genere di grande successo nella poesia dell’epoca (e praticato dallo stesso Cammelli) caratterizzato proprio dalle lunghe sequenze di maledizioni pronunciate da un amante infelice.44

In Amorum libri tres, II 41 Boiardo proponeva il locus horridus in termini simili, ed enfatizzava inoltre il proprio ‘inselvatichimento’ («Ripe de fiumi e jogi di montagne / son ora mieco, e son fatto selvagio / per boschi inculti e inospite campagne», vv. 9-11) tramite il confronto con il suo passato di cortigiano, quando si accompagnava con «gióvanni lieti e liete damigelle» (v. 2). La lacerazione fra vecchia e nuova vita è ben avvertibile anche nelle liriche correggesche, sia laddove la corte venga solo allusa, sia nei testi in cui il suo potere seduttivo è suggerito più apertamente. Tra questi ultimi segnalo i capitoli 364 e 365, uno scambio epistolare in sdruccioli tra Fauno e Florida (ossia tra il poeta e l’amata, designata anche altrove con questo nome).45 Tema del dittico è l’opposizione fra l’integrità morale della vita bucolica, abbracciata da Florida, e i vizi connaturati in quella prescelta da Fauno, che è inequivocabilmente la vita cortigiana, nonostante sia anch’essa stilizzata in termini pastorali. Scrivendo di aver dovuto lasciare le greggi per obblighi più impegnativi («mandre, armenti grossi e vitoli», v. 6), Fauno assicura a Florida di non averla per questo dimenticata, e di non trarre alcun piacere dai passatempi cui lo invitano le onnipresenti ninfe:

Quante volte, d’affanni afflicto e carico,
    mi circondan le ninfe e mi confortano!
    Ma ogni dolce parlar mi è abscinzio e agarico.
Talor de varii fior ghirlande portano,
    talor ballando intorno mi si agirano,
    talor seco a cantar tutte me exortano.
(
Rime, 364, vv. 58-63)

Fauno precisa anche il luogo in cui si trova, sul delta del Po:

El fiume che discorre ha nome Eridano:
    nasce di picol fonte al monte Vexulo,
    e scorre ove sei foce in mar se annidano.
Una isoletta che è chiamata el Mexulo
    fa il fiume e il mar, de pastor riceptaculo:
    qui vien ciascun che al suo nido è facto exulo.
E qui mi sto, benché con molto obstaculo,
    ché maghe e strie in queste parti abondano;
    ma un gran pastore è il mio sustegno e baculo.
(vv. 46-54)

L’isola deltizia di Mesola, già appartenuta alla famiglia Pendasi, nel 1495 (possibile terminus post quem per il capitolo) era stata riacquistata da Ercole I, che ne aveva fatto una riserva di caccia.46 Niccolò dunque ammicca a un luogo realmente legato alla corte; al tempo stesso lo trasfigura sulla falsariga dei poemi cavallereschi, come ricettacolo delle insidie delle maghe.47 Nella sua epistola Florida mette in guardia Fauno dalle incantatrici, anche con un rimando (vv. 76-78) alla storia classica di Pico e Circe:

El mi ti par veder che già debbi essere
    in man di Circe e de’ suoi veneficii,
    qual pico in gabbia, a non poterne escere.
48
Non te dilectin suoi bei lanificii,
    non l’erbe sue, no el ber dentro a suoi pocoli,
    né ti fidar de suoi grandi artificii.
[…]
Se ti senti ligar, subito sfèrratti:
    forza non han le strie, non ti pon nocere;
    più tosto che assentirli, in fossa attèrratti.
(
Rime, 365, vv. 76-87)

Per richiamare a sé l’amato Florida fa inoltre leva sulla serenità della vita pastorale, chiosando «che son più dolci pabule / l’acqua e le giande ove se’ usato pascere, / che ’l nectare e l’ambrosia in regie tabule» (vv. 43-45); l’invito a «non voler seguitar l’orme de Corido» (v. 70 – il riferimento è al pastore della seconda ecloga virgiliana, innamorato del cittadino Alessi) è ulteriore conferma di come la remota isola di Mesola adombri di fatto l’ambiente di corte.

Il dittico, si sarà notato, infrange il paradigma binario che con un poco di semplificazione ho proposto all’inizio di questo contributo: la gestione ‘lirico-elegiaca’ degli stilemi pastorali qui convive con quella ‘satirica’. Questa fluidità fra generi, consueta nel repertorio cortigiano, lo è particolarmente nelle liriche del Correggio. Una conseguenza è che anche i testi 362, 363 e 367, con più rigore classificabili come ecloghe nella misura in cui il codice pastorale vi assolve la funzione di ‘velame’ su eventi e personaggi contemporanei,49 mancano tuttavia di alcune caratteristiche del genere: ad esempio la modalità amebea, topoi come l’età dell’oro, o cifre stilistiche come l’adynaton50 e l’uso virtuosistico dello sdrucciolo. Assai limitate risultano anche la componente metaletteraria e quella celebrativa (marcate viceversa in Virgilio e nelle serie pastorali boiardesche). Risulta invece spiccato, perlomeno in due dei testi,51 il ricorso a una soggettività lirico-autobiografica che li avvicina ai sonetti e capitoli finora considerati.

L’ecloga dialogica Pasciute pecorelle, ite, or che ’l verno (Rime, 363), nota come La semidea,52 si apre con il lamento del pastore Mopso, costretto dalla cattiva sorte a lasciare la patria, le greggi e la donna amata – un’ibridazione fra ecloga ed elegia che richiama Giusto de’ Conti (citato nella clausola iniziale),53 ma anche la terza delle Pastorale, possibile precedente per l’accoglimento dello schema della dipartita nell’ecloga.54 A questi riferimenti si aggiunge, in filigrana, il contrasto virgiliano Melibeo-Titiro: infatti l’interlocutore di Mopso, Dafni, al contrario di lui vive serenamente, godendo della protezione di un «semideo» (v. 155, corrispondente al «deus» di Buc., I, v. 6).55 Da Virgilio – o meglio dall’esegesi tradizionale della prima bucolica, a partire da Servio – Correggio mutua anche la funzione di alter ego di uno dei due personaggi, non però il fortunatus bensì l’infelice Mopso. Ricapitolando le sue disgrazie, quest’ultimo tocca infatti episodi riconducibili alla biografia del poeta: la nascita fuori dalla sua terra (ossia a Ferrara), la morte del padre prima che lui nascesse, le seconde nozze della madre (Beatrice d’Este, con Tristano Sforza) e il trasferimento della coppia (a Milano, 1454); le precoci preoccupazioni per i beni familiari:56

Chi ha più iusta cagion di me a dolersi?
    Nato in exilio, pria defuncto il padre,
    parte de le mie mandre infante persi;
puoi, derelicto da la dolce madre,
    che a un altro si legò per iugal nodo,
    fui dato a gubernar l’ovile squadre.
El peculio paterno, ohimè, in qual modo
    dilacerato fu, che al pover nido
    non posso dir che rimanesse un chiodo!
(
Rime, 363, vv. 25-33)

Impossibile invece risalire all’identità di Dafni, che ripercorre le proprie vicende in termini molto più vaghi: dopo un periodo di sventure, è finalmente giunto «in una valle tanto amena, / che men che viva l’om, vive cent’anni» (vv. 101-102 – segue una dettagliata descrizione del locus amoenus), dove è divenuto il ‘vicario’ del suo benefattore: «un semideo mi regge, el quale observo, / e il primo in loco suo spesso rimango; / a cenni sono inteso, e ogni suo servo / non men di lui si studia di piacermi, / tanto l’amor d’ognun ben mi conservo» (vv. 155-159). Conclude esortando Mopso a trattenersi con lui e ad abbracciare la «solitaria vita» (v. 203), dimenticando la «patria ingrata» (v. 197) ed esercitando quella saggezza che Dafni stesso sa appartenergli: «ma io ti cognosco in ciò più di me experto, / ché vano è l’affannar, como tu sciai» (vv. 206-207) – versi che individuano in Dafni un poeta della cerchia dei corrispondenti di Niccolò, abituato alla sua vena moralista.57 Dal canto suo Mopso rifiuta l’invito: preferisce prolungare il suo lamento fino alla morte, errando giorno e notte; il che equivale a rimanere saldo, in questo caso, nella scelta elegiaca.

Ma quali sono le avversità che hanno costretto Mopso a partire? Stando a due passaggi (v. 60 e v. 197), il suo sembrerebbe un esilio imposto, oltre che dalla fortuna avversa, dalla patria «ingrata» (il tema, che ho in parte già affrontato, è pervasivo nei testi correggeschi di impianto anticortigiano).58 Che l’oscurità fosse intenzionale lo conferma (se ce ne fosse bisogno) una lettera a Isabella d’Este in cui Niccolò, dopo aver risposto a una richiesta della marchesa di recapitarle una lira, le fa omaggio proprio di questa ecloga per i suoi esercizi canori, rimandando a un’occasione successiva l’illustrazione a voce del significato.59 La lettera è del 1493, ma il poeta specifica che il componimento è anteriore («già facto più anni»), il che ostacola ulteriormente la ricostruzione del senso originario. Non sorprenderebbe oltretutto se nel riproporre il testo a Isabella (conscio della sua passione per il genere, che la spingeva in quel periodo a tentare di raccogliere «uno libretto de aegloge»)60 Niccolò ne avesse sfruttato l’ambiguità per offrirle una chiave di lettura diversa, e a lei più adeguata, seguendo la pratica – comunissima nella poesia di corte – del ‘riutilizzo’. Che possa essersi verificata proprio questa situazione lo suggerisce la presenza di due redazioni dell’ecloga: oltre a quella dell’Harleiano ne esiste infatti un’altra, trasmessa da due collettori di rime di poeti settentrionali, E1 (Modena, Biblioteca Estense, Į. H. 6. I) e P (Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Cod. it. 560), che reca un discreto numero di varianti.61 Una di queste, che troviamo nella sezione ‘autobiografica’ di Mopso, mi pare significativa: rievocando la fama di cui un tempo godeva nei tornei cavallereschi («marcïal certami», v. 41), nella redazione estravagante dà il merito al favore di Amore («Pur come piacque al mio signor Cupido», v. 34), mentre nella versione di H accenna a un signore – «Pur, mercé dil signor de ch’io mi fido, / che mi levò dagli occhi el denso velo» – che nulla però suggerisce di identificare nuovamente con Cupido. Più facile pensare a Ercole I, sebbene tale omaggio appaia un po’ forzato in un contesto che per il resto, come si è appena detto, non risparmia qualche stoccata (per quanto vaga e topica) alla patria. Da notare anche una variante nel discorso di Dafni, che nella versione estravagante qualifica come amorosi i suoi passati affanni, dettaglio che sparisce in H.62 Questi elementi inducono a pensare a una doppia redazione d’autore63 e a ipotizzare la seriorità di quella di H, nella quale Correggio avrebbe ‘asciugato’ il tema amoroso e introdotto una nota encomiastica. Se immaginiamo che questa fosse la versione inviata a Isabella, la ratio degli interventi è chiara: omaggiare il duca di Ferrara, attenuando così, con una soluzione poco impattante sebbene lievemente forzata, la potenziale scomodità delle critiche alla patria. A questa difficoltà peraltro Niccolò poteva ovviare giocando proprio sull’oscurità del testo; la «patria ingrata» può infatti essere quella adottiva, Ferrara (è l’interpretazione più lineare ricavabile dal racconto autobiografico appena concluso) ma vi si potrebbe cogliere un più neutrale riferimento a Correggio. Analogamente, la «valle amena» che accoglie Dafni poteva essere letta in senso encomiastico, magari come allegoria della stessa Ferrara, qui idealizzata come luogo di soavi passatempi («intrescati balli», v. 109) e spogliata dei vizi tipici delle corti.64

Merita attenzione anche Aminta, un pastor saggio, a questi giorni (Rime, 362), stavolta un’ecloga monologica di impostazione epistolare: il personaggio che dice ‘io’, evidentemente il poeta stesso, si rivolge a un pastore che risponde nuovamente al nome di Dafni (v. 5, v. 36). L’impianto allegorico è qui più marcato che nella Semidea. Il poeta ha abbandonato la patria, constatandone l’impoverimento e la siccità e spinto dal preannuncio di minacce future: «Le rotte rete e le mandre in ruine, / i morti cani e le squarzate tende, / ogni pastor con rabuffato crine […]» (vv. 13-15). Attribuisce la responsabilità al pastore Titiro, che si è invaghito perdutamente di una «iuvenca infecta» (v. 20) e sterile, e per onorarla trascura il gregge, i campi e le offerte agli dèi.65 La situazione ha indotto il poeta, che serviva Titiro stesso, a passare al servizio di un pastore più saggio e oculato («che ha sì bon prati / che a mezo il verno alcun gli ne è fiorito», vv. 35-36); tuttavia è ancora forte l’affetto per il vecchio padrone («tanto ancor mi stringe a lui l’amore», v. 40). Nella parte finale si augura che Titiro riprenda la routine bucolica, evitando il rischio di divenire «un pastor solitario, inculto e vile» (v. 53): quest’ultima sezione accoglie inflessioni satiriche e non trascura le formulazioni proverbiali («El par che l’om le man mai non si tingi / a fare i facti suoi (proverbio è usato)», vv. 67-68).

In tale quadro, l’unica corrispondenza che pare certa è quella di Titiro con Ercole I, dato che gli sono attribuiti (come era norma nelle allusioni encomiastiche al duca) tratti dell’Ercole del mito: nello specifico la cacciata del leone nemeo, probabile allusione alla guerra fra Ferrara e Venezia del 1482-1484 (che sarà dunque terminus post quem della stesura).66 Molto più enigmatica la ‘giovenca’, con cui Correggio forse allude a un influente dignitario nel quale il duca riponeva fiducia ma che era inviso al resto della corte. Nel contesto ferrarese all’indomani della guerra, tale profilo si addice in realtà non a uno, ma a numerosi personaggi. Come registra la cronaca del Caleffini, gli anni 1485-1490 sono segnati da una crisi profonda per il ducato, dovuta anche allo scarso controllo di Ercole I sui suoi officiali: in tale situazione accadeva regolarmente che denaro pubblico e privato si confondessero, e che il dignitario di turno divenisse bersaglio di accuse da parte di fazioni nobiliari opposte (passata alla storia è la rapacità, vera o presunta, di personaggi come Tito Vespasiano Strozzi o Niccolò Ariosto).67 In mancanza di una datazione per il testo – non è dimostrabile, per quanto plausibile, una sua collocazione agli anni 1490-1498, quando Niccolò serviva il Moro pur mantenendo i contatti con gli Estensi (cfr. supra) – il simbolo rimane dunque indecifrabile.68 Le difficoltà interpretative, ad ogni modo, non impediscono di notare un’affinità fra questa ecloga e la 363 nell’articolazione dell’‘io’ poetico. In entrambe l’alter ego di Niccolò lascia la patria a causa di circostanze avverse,

Alor ch’io vidi i nostri campi pieni
    de aride spine, presi per partito
    lasciarli, ché a mie greggi eron veneni.
(
Rime, 362, vv. 31-33)

lasciare intendo questa fede rara,
    questa natura de omini perversi,
    che chi non scia mentir da lor s’impara.
(Rime, 363, vv. 22-24)
[…]
Da la mia dolce patria e sue confine
    cusì intendo partir, lasciando il gregge,
    puoi che cadute son su i fior le brine.
(
Ivi, vv. 67-69)

ma ci tiene a rimarcare il suo legame ancora forte con la patria stessa:

Io non ho i liti tuoi, Dafne, lasciati,
    perché Titir non abbia in summo onore
    e che gli altri pastor non me sian grati;
e tanto ancor mi stringe a lui l’amore, […]
(Rime, 362, vv. 35-38)
Già non torrò dal mio paese bando,
    anzi sempre serò, Dafne, più in stima,
    da quello absente per un tempo stando.
(
Rime, 363, vv. 79-81)69

Inoltre, nell’ecloga 362 si manifesta nuovamente la vena satirica dell’‘io’ poetico (che descrive la sua vita quotidiana e si dice pago del suo «tugurio», v. 86). In questa sezione oltretutto il poeta ospita anche uno dei suoi rari inserti metaletterari, protestando la sua inadeguatezza alla poesia lirica e il desiderio di dedicarsi piuttosto alla «zampogna» e alla lettura di testi bucolici («legendo de pastori alcun quaderno», v. 87).70

Nella versione correggesca del genere pastorale, dunque, convergono spinte molteplici: alle funzioni tradizionalmente assolte dal codice – la stilizzazione della vicenda amorosa e/o la copertura allegorica di vicende contemporanee – se ne sovrappone un’altra che potremmo definire esistenziale, di ricerca di una dimensione autentica.71 Una ricerca che si rivela sofferta e accidentata: in Correggio è più evidente che in altri autori la scissione fra la propria appartenenza alla corte e l’ambizione a proiettarsi ‘altrove’. È interessante che la cangianza di tale profilo trovi eco nelle apparizioni di Niccolò come personaggio in testi bucolici di altri poeti. La più nota è nella quarta ecloga delle Pastorale, dove Boiardo imposta un’allegoria mitologica sulla prigionia sofferta da Correggio nella guerra contro Venezia: al lamento del pastore Dameta sulla sorte di ‘Teseo’ (Niccolò) Melibeo risponde profetizzando la sua prossima liberazione per opera di ‘Ercole’ (Ercole I) e Alfonso d’Aragona.72 Nonostante il genere di appartenenza del testo, Teseo-Niccolò non è descritto come un pastore ma come un gentiluomo di corte:

Cum lui Prodecia e Senno ce abandona
    sieco ranchiusa e presa è Cortesia,
    né di tornar sanza esso a noi ragiona.
Il saggio Ardire e honesta Ligiadria
    di qua son dipartiti e il dolce Amore
    per gire a impregionarsi è posto in via.
(Boiardo,
Pastorale, IV, vv. 58-63)

Vedi il figlio de Egeo che ha la regàlia
    di Pasithea e di tute le Gratie,
    e per lui solo è un paradiso Italia.
(vv. 127-129)

Molto meno conosciuta, ma egualmente interessante in questo contesto, è la raccolta di ecloghe latine Bucolicorum mimisis dell’umanista Curio Lancillotto Pasio, vissuto a cavallo fra i due secoli tra Ferrara e Reggio Emilia. I dieci testi (stesso numero delle Bucoliche virgiliane e dei testi inclusi in ciascuna delle serie di Boiardo), inediti e finora oggetto di un unico contributo critico a firma di Pinotti,73 sono tramandati dal manoscritto Vaticano Latino 2866, compilato dall’autore e dedicato a Niccolò da Correggio al principio del 1506. Tre di questi (I, III e VIII) si distinguono per gli espliciti omaggi al conte, la cui liberalità è lodata come un’eccezione ai vizi imperanti nelle corti: quella del Pasio è dunque una bucolica encomiastica e al tempo stesso ‘satirica’,74 che forse intende porsi in continuità con l’opera dello stesso Correggio75 (nonché con la recente esperienza latina di Tito Vespasiano Strozzi). Nella terza ecloga il pastore Corydon, tornato dalla città, non si rassegna a riprendere il lavoro: ormai infatti è consapevole della miseria della sua condizione, avendo conosciuto lo splendore della dimora di Correggio («o porticus apta», v. 56) e del suo giardino, vero locus amoenus («hic ver aeternum, cedrosque aeterna virentes, / divorum munus, conspexi; hic fructus et umbra est», vv. 68-69). Tale configurazione, paradossale e di fatto antibucolica (e ‘manierista’ come lo è il suo modello, la settima ecloga di Calpurnio Siculo, che fornisce anche il nome – comunque virgiliano – di Corydon), ci restituisce un profilo di Niccolò nelle vesti di signore raffinato di una corte ‘ideale’; lo stesso nell’ecloga ottava, i cui personaggi si stanno recando alla dimora del signore per offrirgli doni. Si può credere che fosse il divario sociale a frenare il Pasio dal rappresentare il signore di Correggio in vesti pastorali. Ma in aggiunta, se si considera che questi sono gli anni del declino di Niccolò – che morirà nel 1508 – presso gli Estensi, non è da escludere che a tale altezza cronologica lui stesso avesse ‘ritrattato’ il suo self-fashioning pastorale e pensasse a riappropriarsi del lato più nobile della sua immagine pubblica.

In definitiva, questa rete di temi evidenzia l’insufficienza e i limiti di una categorizzazione come quella di koiné lirica cortigiana: il caso di Correggio pare anzi confermare la vitalità critica di uno sguardo che miri a individuare le peculiarità degli autori già interessati da questa definizione. Al tempo stesso, lo studio della produzione correggesca richiama l’attenzione sulle possibili ramificazioni del locus amoenus e sui suoi diversi usi in rapporto al genere poetico – un approccio che, esercitato con sistematicità, potrebbe anche in questo caso far emergere una varietà interna più ampia di quanto finora osservato, contribuendo alla definizione di nuove prospettive per lo studio dei topoi.

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1 Massimo Malinverni, La lirica volgare padana tra Boiardo e Ariosto: appunti su una transizione rimossa, in Giuseppe Anceschi e Tina Matarrese (a cura di), Il Boiardo e il mondo estense nel Quattrocento, Atti del Convegno internazionale di studi (Scandiano-Modena-Reggio Emilia-Ferrara, 13-17 settembre 1994), Padova, Antenore, 1998, II, pp. 695-722. Sulla categoria di ‘poesia cortigiana’ e sugli stilemi condivisi dai suoi autori, rimando solo a Antonio Rossi, Serafino Aquilano e la poesia cortigiana, Brescia, Morcelliana, 1980; Antonia Tissoni Benvenuti, Quattrocento settentrionale, Roma-Bari, Laterza, 1980.

2 Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento, Andrea Comboni e Tiziano Zanato (a cura di), Firenze, SISMEL Edizioni del Galluzzo, 2017.

3 Niccolò da Correggio, Opere. Cefalo, Psiche, Silva, Rime, A. Tissoni Benvenuti (a cura di), Bari, Laterza, 1969.

4 Fra i contributi recenti segnalo Gaia Gentili, II capitolo in terza rima in Niccolò da Correggio: non solo elegia, in Andrea Comboni e Alessandra Di Ricco (a cura di), L’elegia nella tradizione poetica italiana, , Trento, Dipartimento di scienze filologiche e storiche, 2003, pp. 115-146; Enrico Fenzi, Isabella o Lucrezia? Una proposta per le rime di Niccolò da Correggio, «Humanistica», 1 (2006), pp. 145-160; Riccardo Stracuzzi, Una mano pudica. Di alcune rime e della «Silva» di Nicolò da Correggio, «Griseldaonline», XIII (2013), pp. 1-26; Matteo Bosisio, Tra “cetere” e “fistole”: le Rime di Niccolò da Correggio, «Misure critiche», XVIII, 1-2 (2019), pp. 60-84. Un commento integrale alla lirica del Correggio si attende dalla tesi di dottorato di Marco Sartor (Università di Parma).

5 Da sempre notata dai critici, a partire da Luzio e Renier: «Acquistano invece fluidità inusitata, perché sgorgano da sentimenti vivi, le poesie […] in cui manifesta la sua grande propensione per la pace idillica nei campi» (Alessandro Luzio e Rodolfo Renier, Niccolò da Correggio, «Giornale storico della letteratura italiana», XXI (1893), pp. 205-264 e XXII (1894), pp. 65-119: p. 86).

6 La bucolica in volgare è stata al centro dei contributi del numero monografico di «Italique» del 2017. Qui segnalo in particolare A. Tissoni Benvenuti, Genere bucolico poesia pastorale. Le metamorfosi dell’egloga nel Quattrocento, «Italique», XX (2017), pp. 13-31; Massimo Danzi, Gli alberi e il «libro». Percorsi dell’Arcadia di Sannazaro, ivi, pp. 119-148; María de las Nieves Muñiz Muñiz, Sul contributo della bucolica italiana al rinnovamento della poesia rinascimentale in Spagna (le fonti del locus amoenus e la mediazione di Garcilaso), ivi, pp. 149-171. Rimando inoltre a M. Danzi, Tra Virgilio e Petrarca. Primi elementi per una ‘grammatica’ dell’egloga volgare, in Maiko Favaro e Bernhard Huss (a cura di), Interdisciplinarità del petrarchismo. Prospettive di ricerca fra Italia e Germania. Atti del Convegno internazionale, Berlino, Freie Universität, 27-28 ottobre 2016, Firenze, Olschki, 2018, pp. 199-222. Riguardo la percezione del genere a cavallo fra Quattro e Cinquecento, mi limito a ricordare la teorizzazione della bucolica offerta da Calmeta: «Onde, avendo gli scrittori tre figure o vero caratteri di dire, umile, medio e grandiloquo, l’egloga solo dell’umile si debbe contentare, né in essa alcuna urbanità, arguzia, o vero declamativa sonorità si debbe ritrovare; anzi, tutte le azioni, tutte le comparazioni e faccende devono essere di cose rustiche» (Vincenzo Calmeta, Dell’antichità del buccolico verso e che circonstanze all’egloga si convengono, in Cecil Grayson (a cura di), Prose e lettere edite e inedite (con due appendici di altri inediti), Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1959, pp. 12-14: p. 12).

7 Rimando agli studi pionieristici di Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern, Francke, 1948, trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 207-223 e, per la letteratura classica, Gerhard Schönbeck, Der locus amoenus von Homer bis Horaz, Diss., Heidelberg, 1962. Il tema è stato studiato soprattutto in ambito antichistico (un’ampia ricognizione della sua tradizione classica è in Giorgio Pasquali, Orazio lirico: studi, Firenze, Le Monnier, 1920, pp. 521-553). Per l’approccio allo studio dei topoi è inoltre d’obbligo il richiamo a Giovanni Pozzi, Codici, stereotipi, topoi e fonti letterarie, in Intorno al “codice”, Atti del III Convegno della Associazione Italiana di Studi Semiotici (AISS), Pavia 26-27 settembre 1975, Firenze, La Nuova Italia, 1976, pp. 37-76; Id., Temi, topoi, stereotipi, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa III, 1. Le forme del testo. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 391-436. Un’antologia di testi italiani che hanno adottato il locus amoenus è in Gino Tellini, Natura e arte nella letteratura italiana, Firenze, Le Monnier Università, 2015.

8 Cito da Carlo Dionisotti, Nuove rime di Niccolò da Correggio, «Studi di filologia italiana», XVII (1959), ora in Id., Scritti di storia della letteratura italiana, I, Tania Basile, Vincenzo Fera, Susanna Villari (a cura di), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2008, pp. 333-377: p. 344. Per un profilo storico-letterario di Niccolò da Correggio, cfr. A. Luzio e R. Renier, Niccolò da Correggio, cit.; Alda Arata, Niccolò da Correggio nella vita letteraria e politica del tempo suo (1450-1508), Bologna, Zanichelli, 1934; Arnaldo Di Benedetto, Appunti sull’opera di Niccolò da Correggio, «Giornale storico della letteratura italiana», CXLVII (1970), fasc. 2-3, pp. 161-182; Paola Farenga, Niccolò Postumo da Correggio, in Dizionario biografico degli italiani, XXIX, Roma, Treccani, 1983, pp. 466-474.

9 A queste andrebbero aggiunte le Carte de triomphi (componimenti in terzine dedicati alle carte da gioco), qualora si accolga la proposta di Baldassari che ne ridiscute la tradizionale attribuzione a Boiardo, in favore appunto del Correggio (Gabriele Baldassari, Su una nuova edizione delle «Pastorale» di Boiardo e delle «Carte de triomphi». Considerazioni metrico-formali e una nuova ipotesi attributiva, «Stilistica e metrica italiana», XVII (2017), pp. 3-58). Abbiamo inoltre notizia di testi scenici correggeschi oggi perduti, tra cui una Fabula di Ippolito, Teseo e Florida e una Fabula di Callisto.

10 È andato perduto il codice torinese N. VI. 9, altra raccolta di rime (in numero di 137) del Correggio. L’Harleiano è stato scoperto e illustrato da C. Dionisotti, Nuove rime di Niccolò da Correggio, cit. Una ricapitolazione della fisionomia della raccolta correggesca (difficilmente riconducibile all’articolazione di un vero canzoniere, data la mancanza di una progressione del senso) è in A. Tissoni Benvenuti, Niccolò da Correggio (1454-1508), in Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento, cit., pp. 413-417.

11 La sua struttura è infatti diversa da quella del manoscritto visto dalla marchesa, e da lei descritto nelle lettere a Galeazzo da Correggio (figlio del poeta) attraverso le quali, pochi giorni dopo la morte di Niccolò, ne reclamava il possesso. Secondo la ricostruzione di Dionisotti e Tissoni Benvenuti, l’Harleiano sarebbe una silloge posteriore e più ampia.

12 Un fatto notato da C. Dionisotti, Nuove rime di Niccolò da Correggio, cit., p. 358.

13 E. Fenzi, art. cit., pp. 159-160.

14 Non mi soffermerò sull’adozione di tale codice nei testi scenici. Faccio solo notare che il secondo atto della Fabula di Cefalo si chiude con una Egloga de Coridone e Tirse che, come osserva Mauda Bregoli Russo (La Pastorale del Boiardo tra le egloghe del Quattrocento, «Studi e problemi di critica testuale», XX (1980), pp. 161-175: p. 173), condivide due serie di rime con la settima ecloga delle Pastorale di Boiardo.

15 Come evidenzia Silvia Longhi, Lettere a Ippolito e a Teseo: la voce femminile nell’elegia, in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale: Atti del convegno, Brescia-Correggio, 17-19 ottobre 1985, ed. Cesare Bozzetti, Pietro Gibellini, Ennio Sandal, Firenze, Olschki, 1989, pp. 385-398: p. 394. Sul motivo della scrizione bucolica, che ricorre con singolare frequenza nell’Arcadia sannazariana, cfr. M. Danzi, Gli alberi e il «libro», cit., pp. 132-139; Id., Tra Virgilio e Petrarca, cit., pp. 206-209.

16 Rimando ai rispettivi commenti: Matteo Maria Boiardo, Amorum libri tres, Tiziano Zanato (a cura di), Novara, Interlinea, 2012; Id., Pastorale, Carte de triomphi, Cristina Montagnani e Antonia Tissoni Benvenuti (a cura di), Novara, Interlinea, 2015. Da queste edizioni traggo anche le citazioni dei testi.

17 Un simile ‘effetto sorpresa’ finale è in Rime, 210, 232 e 330.

18 Rimando a Orazio, Epod. II; Sat. II 6; Epist. I 10 e I 14 e Seneca, Dial. 7.3.3; Ep. 41.8; 50.8; 94.8; 109.12; 118.12; importanti sono inoltre Tibullo, I 1 e Giovenale, Sat. III.

19 Sul genere rimando a Piero Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988; Paola Ugolini, The Court and Its Critics: Anti-Court Sentiments in Early Modern Italy, Toronto, University of Toronto Press, 2020 (sul trattamento dello spazio pastorale cfr. pp. 145-180). Più specificamente sul repertorio padano indicazioni utili provengono inoltre da Antonio Corsaro, Intorno al «Timone»: la scrittura satirica, in Giuseppe Anceschi e Tina Matarrese (a cura di), Il Boiardo e il mondo estense nel Quattrocento, Atti del convegno internazionale di studi (Scandiano-Modena-Reggio Emilia-Ferrara, 13-17 settembre 1994), Padova, Antenore, 1998, II, pp. 723-753. Sui Sermones strozziani, cfr. Béatrice Charlet-Mesdjan, La confrontation entre cité et campagne dans le Sermonum liber de Tito Strozzi, in Luisa Secchi Tarugi (a cura di), Città e campagna nel Rinascimento, Atti del XXVIII Convegno internazionale (Chianciano Terme-Montepulciano, 21-23 luglio 2016), Firenze, Cesati, 2018, pp. 137-153. Com’è noto, il repertorio satirico padano aprì la strada all’Ariosto: cfr. Alberto Godioli, La prima satira di Ariosto e la poesia delle corti padane, «Italianistica», 39, 2 (2010), pp. 115-127; rimando inoltre al commento e ai saggi inclusi in Ludovico Ariosto, Satire, Emilio Russo (a cura di), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2019 (e bibliografia). Sull’influenza di Orazio nel plasmare il contrasto città-campagna nei capitoli correggeschi, cfr. G. Gentili, art. cit., p. 131.

20 Conosciamo oggi solo la redazione finale del testo, più lunga e riorientata secondo le dottrine ficiniane (cfr. Mario Martelli, Il guazzabuglio dell’«Altercazione», in Studi laurenziani, Firenze, Olschki, 1965, pp. 1-35; Tiziano Zanato, Percorsi della bucolica laurenziana, in Stefano Carrai (a cura di), La poesia pastorale nel Rinascimento, Padova, Antenore, 1998, pp. 109-150: pp. 125-133). La contesa fra i due pastori ne riprende una analoga presente nel Driadeo d’amore di Luca Pulci, dove però Lauro si schierava a favore della vita in città. Un’analisi di questa polarità nel De summo bono è in Manfred Lentzen, Alla ricerca del summum bonum, in Città e campagna nel Rinascimento, cit., pp. 39-51.

21 Tuttavia le ricerche di Marco Sartor, che ringrazio per questa informazione, stanno portando alla luce le influenze puntuali dell’opera poetica del Magnifico sulle rime correggesche.

22 Il verbo è usato in senso negativo, all’interno di una formulazione dell’aetas aurea, da Poliziano, Stanze per la giostra, I 21, v. 4: «e non solcato il campo era fecondo».

23 Come nota (in ambito latinistico) Gianna Petrone, Locus amoenus/locus horridus: due modi di pensare il bosco, «Aufidus», V (1988), pp. 3-18: p. 8: «[il locus amoenus] non si presenta il più delle volte come paesaggio agricolo, dove sia evidente la fatica del contadino e il lavoro umano, ma come paesaggio pastorale e pertanto estraneo alla coltivazione». Ovviamente però il tema georgico non è assente dal repertorio lirico-pastorale. Sul côté lirico ricordo lo «zappador» di Rvf, 50, v. 18 (cfr. anche vv. 58-59: «veggio la sera i buoi tornare sciolti / da le campagne et da’ solcati colli»); nella letteratura pastorale, e per rimanere sul tema del ‘solco’, rimando alla metafora in Sannazaro, Arcadia, A la sampogna, 15: «voglio che rispondi, niuno aratore trovarsi mai sì esperto nel far de’ solchi che sempre prometter si possa, senza deviare, di menarli tutti dritti» (cito da Iacopo Sannazaro, Arcadia, Carlo Vecce (a cura di), Bologna, Carocci, 2013). Questo passo potrebbe (con i soliti dubbi sulla cronologia relativa) essere accostato a una metafora affine presente nelle rime correggesche: «Tener dritto camin, far dritti i solchi, / pigliare el mezo e abandonar gli extremi, / né tornar drieto, ancor che viltà i premi, / denno, preso l’aratro, i bon bifolchi» (Rime, 300, vv. 5-8).

24 Sull’epistola in terzine nel secondo Quattrocento rimane fondamentale il contributo di S. Longhi, art. cit.; si veda inoltre Matteo Largaiolli, Decoro e ordine. Vincenzo Calmeta e le forme dell’epistola in versi volgare tra Quattro e Cinquecento, in La lettera in versi: Canoni, variabili, funzioni, Trento, Università degli Studi di Trento – Dipartimento di Lettere e Filosofia, 2020, pp. 17-54. Più in generale sulla terza rima elegiaca cfr. A. Tissoni Benvenuti, La tradizione della terza rima e l’Ariosto, in Cesare Segre (a cura di), Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 303-313, e (sul Correggio) a G. Gentili, art. cit.

25 Cfr. A. Arata, Niccolò da Correggio, cit., p. 138. La dedica al Pistoia si ricava dall’intestazione del sonetto nel codice Sessoriano 413 (Roma, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele): «N. C. C. Antonio Pistorien. sal.» (N. da Correggio, Opere, cit., p. 549); per una proposta diversa di identificazione del destinatario cfr. infra, nota 75. A questo testo si lega il seguente del Cammelli: «Per secondar la tua vita tranquilla / in questa quarta età tediosa e ladia, / vivi felice con lo dio de Arcadia, / cantando fra le Muse in una villa. / Qui non vedi Neron, Mida, ni Silla / abietto, dal tuo nido poche stadia, / ni sai chi fa vendetta o chi se agladia, / né foco che secondi una favilla. / Bassi tugurii son gli tuoi alberghi, / col rozzo suon che di Siringa nacque, / contento al viver de i pastori inverghi. / Né vedi u’ Catilina morto giacque, / sai, quel perito ne gli antiqui zerghi, / che gli è bel navicar secondo l’acque. / – Dissemi in fine e tacque. / Quel che me te insegnò, da suoi legamini / al tuo sonetto e fal volare a’ ramini» (Sonetti faceti, CLXXXV, in Antonio Cammelli, Sonetti faceti secondo l’autografo ambrosiano, Erasmo Pèrcopo (a cura di), Napoli, Jovene, 1908, p. 225). Probabilmente fu il sonetto di Niccolò a iniziare lo scambio, come sostiene Pèrcopo (ma M. Bosisio, art. cit., p. 78 nota 60 ipotizza invece il contrario).

26 Nel testimone Vat. Lat. 7182 – una lettera di Girolamo Tasti ad Angelo Colocci del 1529 – il capitolo, accluso all’epistola, è attribuito al Mirandolano. Considerati però il tema e l’intonazione (più consoni al Correggio che al Pico), si potrebbe pensare che l’intestazione originaria sia stata alterata – dal Tasti o da altri prima di lui –, con un dativo trasformato in genitivo: è quanto ipotizza Francesco Bausi, Per le rime di Niccolò da Correggio, «Interpres», XII (1992), pp. 197-222 (terminus ante quem sarebbe dunque il 1494, anno della morte del Pico). Bausi ripubblica inoltre il capitolo (con alcuni ritocchi al testo dell’ed. Tissoni Benvenuti e, in apparato, le varianti del testimone Vaticano), corredandolo di un commento: è dal suo testo che traggo il passo qui citato.

27 Lettera 128 (si legge in A. Tissoni Benvenuti, Niccolò da Correggio e la cultura di corte nel Rinascimento padano, a cura del Comune di Correggio e del Comitato Allegriano nel v centenario della nascita di Antonio Allegri detto il Correggio, 1489-1989, Correggio, Cassa di Risparmio di Reggio Emilia, 1989, p. 139). Sulla ‘villa’ nei diversi generi letterari, si vedano i contributi raccolti nel volume La letteratura di villa e di villeggiatura. Atti del convegno (Parma, 29 settembre-3 ottobre 2003), Roma, Salerno, 2004.

28 Lettera 124 (ivi, p. 139).

29 Che Niccolò approcciasse il modello petrarchesco con un’attenzione non comune è suggerito dagli schemi metrici delle sue cinque canzoni, tutti esemplati su strutture dei Fragmenta, fatto non scontato a questa altezza cronologica (cfr. C. Dionisotti, Nuove rime di Niccolò da Correggio, cit., pp. 356-358). Il proposito imitativo è da lui dichiarato in una lettera a Isabella d’Este del 24 agosto 1504: «Circha la cantione che Vostra Excellentia mi dimanda ch’io voglia ellegiere del Petrarcha, perché la vole fargli fare sopra un canto, io ho ellecta una di quelle che più mi piace, che comincia “Sì è debile il filo a cui s’atiene”, parendomi che anche se gli possa componere sopra bene, essendo versi che vanno cresciendo et sminuendo, et aciò che la Excellentia Vostra conosca che la mi piace, gli ne mando una mia composta a quella imitatione, aciò che facendo fare canto sopra la petrarchesca, con quello canto medesmo potessi anche cantare la mia, se la non li dispiacerà, et non solo questa, ma anche un’altra de una reconciliatione d’amore composta a foggia di quella pure del Petrarcha che comincia “Chiare dolci et fresche aque”» (Lettera 236, in A. Tissoni Benvenuti, Niccolò da Correggio e la cultura di corte nel Rinascimento padano, cit., p. 164).

30 Nell’impossibilità di offrire, in questa sede, una panoramica completa degli studi sull’argomento, rimando solo ai contributi inclusi nella miscellanea Città e campagna nel Rinascimento, cit. (e relative bibliografie), e in particolare a C. Bevegni, Metropoli, città, campagna: variegate prospettive di vita nell’Umanesimo (ivi, pp. 13-23) e M. Lentzen, art. cit.

31 Nel sonetto di apertura il Correggio annovera lo «stato di corte» (Rime, 1, v. 3) fra i temi su cui ha poetato. Fra i testi di invettiva segnalo Rime, 99: «Pascul de vizii, pocul di veneno, / ospizio di dolor che hai nome corte, / de invidie, odii e rancori arra, di morte / in ogni canto e insino al tecto pieno, / ben sparge el seme in arrido terreno / quel che s’invecchia a le tue ingrate porte, / e sempre vive a più infelice sorte / quel che più applaudi o che blandisci al seno. / Como l’aquila fai de la testude, / che in alto i levi e puoi presto li abassi, / e godi più che l’un l’altro delude. / In te, casa d’error, continuo stassi / tra l’acqua e ’l foco, el martello e l’incude: / che sien maldetti a te tutti i mie’ passi». Significativo anche il capitolo ‘oraziano’ 368 (Chi semina fatiche e vòl quïete), che condivide vari elementi con la Vita quieta (ad esempio il ritiro del poeta nel «tugurio» di campagna e la lode dell’autosufficienza) ma attacca più esplicitamente la vita di corte (vv. 58-63: «L’un foco ha in gli occhi, e l’altro ha in bocca fele, / la invidia a’ pecti lor dà più tormenti / che supplicio che sia, benché crudele; / calumnie puoi gli iubilan fra’ denti / con false detractioni, accuse e fraude, / e gemiti e suspir continuo senti»). Tutti gli studiosi che hanno affrontato la lirica correggesca ne hanno opportunamente sottolineato la vena anticortigiana.

32 Laddove E. Fenzi, art. cit. propende per un’interpretazione in chiave biografica, sostengono invece la piena topicità nell’adozione del tema M. Bosisio, art. cit. (p. 70 nota 37: «La critica del poeta […] si dimostra un’accusa generica rivolta ai vizi e alle storture che si possono osservare nelle corti. Infatti, lo scrittore non nomina mai alcun personaggio negativo né circoscrive le sue invettive, che rimangono sempre piuttosto vaghe e, quindi, innocue») e anche, implicitamente, P. Ugolini, op. cit., che cita il caso di Niccolò entro una panoramica di testi anticortigiani (pp. 101-110; pp. 149-156). La questione resta aperta e meriterebbe ricognizioni mirate. Una riflessione sulle modulazioni di registro interne al genere cortigiano (applicata ad alcuni testi di Serafino Aquilano) è in M. Bosisio, Roma in Serafino Aquilano: biografia, maschera poetica e due proposte di attribuzione, «Roma nel Rinascimento», 2018, pp. 391-417.

33 Alla base della lettura di E. Fenzi, art. cit., sta appunto «l’ipotesi che [in Correggio] la vita di corte si ponga come una sorta di analogo dell’esperienza d’amore, e che si lasci giudicare secondo il medesimo implacabile meccanismo che va dall’illusione alla frustrazione» (p. 147).

34 Cito da C. Dionisotti, Nuove rime di Niccolò da Correggio, cit., p. 342. Dionisotti attribuisce la ragione del declino alla posizione ambigua assunta dal Correggio nella congiura di don Giulio d’Este (su questo punto si veda Riccardo Bacchelli, La congiura di don Giulio d’Este, Milano, Mondadori, 1931, passim).

35 Lettera 94, in A. Tissoni Benvenuti, Niccolò da Correggio e la cultura di corte nel Rinascimento padano, cit., pp. 108-119.

36 Questo genere di connessioni, ricordo, non è da considerarsi significativo ai fini di una ‘trama’, data la natura non organica della raccolta.

37 Ma potrebbe anche trattarsi del segretario Antonio Valtellina (sensibile ai temi pastorali in quanto autore di almeno un’ecloga: cfr. C. Dionisotti, Documenti letterari di una congiura estense, «Civiltà moderna», IX (1937), ora in Id., Scritti di storia della letteratura italiana, I, cit., pp. 19-33) oppure del diplomatico Antonio Costabili, corrispondente di Niccolò.

38 Seguo la definizione di G. Petrone, art. cit., p. 4: «la tipizzazione del locus horridus procede dagli stessi elementi del locus amoenus invertiti di segno: anche qui alberi, la cui ombra è non refrigerio ma tenebra, acque, non limpide e fresche ma nere e lente, grotte persino, non rifugio naturale ma tetra spelonca e scabra rupe». Si tratta della categoria critica, denominata anche locus terribilis, esemplificata da Klaus Garber (Der locus amoenus und der locus terribilis. Bild und Funktion der Natur in der deutschen Schäferund Landlebendichtung des 17. Jahrhunderts, Colonia, Böhlau, 1974) e come tale normalmente accettata, nonostante si tratti di una tipologia meno studiata rispetto al locus amoenus.

39 Il termine, sulla scorta di Virgilio, è comune nella poesia pastorale-arcadica: cfr. A. Corsaro, art. cit., p. 748.

40 Cfr. A. Poliziano, Stanze per la giostra, I, 85-87 (ad es. 86, vv. 5-8: «Pien di sanguigna schiuma il cignal bolle, / le larghe zanne arruota e ’l grifo serra, / e rugghia e raspa e per armar sue forze, / frega il calloso cuoio a dure scorze»); Lorenzo de’ Medici, De summo bono, I, vv. 91-93: «Se advien che un tauro con uno altro giostri, / credo non manco al cor porga diletto / che ’ feri ludi de’ tëatri nostri» (le citazioni sono tratte da A. Poliziano, Stanze per la giostra, Francesco Bausi (a cura di), Messina, Università degli Studi, 2016; Lorenzo de’ Medici, Opere, Tiziano Zanato (a cura di), Torino, Einaudi, 1992). L’archetipo è virgiliano (Georg., III, vv. 219-241; Aen., XII, vv. 715-722).

41 Questa espressione è usata da Correggio anche in Rime, 221, vv. 5-7: «parer m’ha facto ismemorato e insano […] / Or, ritornato in me, vi do la fede […]».

42 Il sintagma «solitaria villa», qui in accezione negativa, lega ulteriormente questo sonetto al 97, poiché riappare al nono verso di quest’ultimo. Da notare che la medesima espressione apre anche il sonetto 302, di argomento affine ma rivolto all’amata: «In solitaria villa a vui lontano, / madonna, stommi, […]» (vv. 1-2). Per inciso, i componimenti citati sinora permettono di rilevare una costante stilistica: la tendenza di Niccolò ad aprire il componimento con il dato naturalistico, subito mostrandone l’accezione (amoena o horrida), e solo dopo, al secondo o terzo verso, specificando la propria relazione rispetto a esso.

43 I modelli classici emergono soprattutto nell’ultima parte. Rievocando il suo inseguimento di Licia e le preghiere a lei rivolte, Correggio segue gli episodi di Apollo e Dafne e di Paride, descritti da Ovidio: ad esempio, i vv. 106-108 («Non son, s’io voglio, vil pastore o agricola; / cercato han già più ninfe i mie’ connubii / amo te Licia, e la mia pena dicola») riprendono Met., I (vv. 513-514: «non ego sum pastor, non hic armenta gregesque / horridus observo») e Her., XVI (Paris Helenae, vv. 95-96: «Nec tantum regum natae petiere ducumque, / sed nymphis etiam curaque amorque fuit»). Inoltre, l’atteggiamento del poeta – che cerca di sottrarre l’amata al più ricco rivale (il «gran pastor» Pan), allettandola con l’elenco delle proprie disponibilità e delle proprie abilità georgiche – ha i suoi archetipi nel Coridone virgiliano (Buc., II) e nel Polifemo ovidiano (Met., XIII, vv. 738-897, a sua volta derivato da Teocrito); tale situazione era stata inaugurata in volgare da Boccaccio (Ameto, XII) per passare al Corinto laurenziano e all’ottava delle Pistole di Luca Pulci.

44 Sulla disperata rimando alla monografia di Gabriella Scarlatta, The Disperata, from Medieval Italy to Renaissance France, Kalamazoo (MI), Medieval Institute Publications, 2017; per la sua adozione da parte del Correggio cfr. G. Gentili, art. cit., e A. Tissoni Benvenuti, La tradizione della terza rima e l’Ariosto, cit.

45 Ossia in Rime, 261, 262, 267, 268, 270 e Rime extravaganti, XXXVIII.

46 Cfr. Francesco Ceccarelli, La città di Alcina. Architettura e politica alle foci delPo nel tardo Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 38. Sull’isola verrà costruita, alla fine del Cinquecento, l’ultima delle ‘delizie’ estensi.

47 Si confrontino i vv. 58-63 con Orlando innamorato, I, viii, 7, vv. 6-8: «l’altre poi tutte menano una danza. / Come intrò dentro il cavalliero adorno, / così danzando lo acerchiarno intorno» (Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato, Aldo Scaglione (a cura di), Torino, UTET, 1963). Sul valore dei ‘giardini fatati’ cavallereschi nel sistema ideologico estense, cfr. Gianni Venturi, Costruzione del paradiso: giardini e “delizie” da Boiardo a Tasso, in La letteratura di villa e di villeggiatura, cit., pp. 143-167.

48 Nella storia ovidiana (Met., XIV, vv. 320-434) Pico, sposo di Canente, avendo rifiutato l’amore di Circe fu da quest’ultima trasformato in picchio. Nella dodicesima delle Pistole, Luca Pulci dà la parola a Canente, che si rivolge all’amato Pico. Che Correggio conoscesse le epistole pulciane è ipotizzato da S. Longhi, art. cit., p. 392 nota 20.

49 Rientra nelle coordinate dell’ecloga anche il testo estravagante ritrovato da Paola Vecchi Galli, Note su un libro cortigiano: il ms. Wellcome 461 di Londra, in Amedeo Quondam, Marco Santagata (a cura di), Il libro di poesia dal copista al tipografo, , Modena, Panini, 1989, pp. 131-156: pp. 147-156. Il testo si potrebbe definire una ‘fantasia mitologica’: Dameta contende a Mopso l’amore per Glauzia e, allo stesso tempo, al padrone Titiro l’amore per Alessi; sopraggiunge infine Mercurio ad annunciare che i due giovani sono desiderati in cielo da Giove e Apollo. Come osserva la studiosa, sono numerosi i segnali (ad esempio i deittici) che lasciano intuire che fosse destinata alla scena.

50 Sulla frequenza dell’adynaton (di origine virgiliana) nella bucolica italiana, cfr. M. Danzi, Tra Virgilio e Petrarca, cit., pp. 205-206.

51 Mentre l’ecloga 367, Abbiati, pastorelli, al gregge cura, si regge interamente su un’allegoria politica: che alluda a eventi della storia aragonese (nello specifico all’inizio della congiura dei Baroni) è stato ipotizzato con argomenti persuasivi da Marina Riccucci, Il neghittoso e il fier connubbio. Storia e filologia nell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, Napoli, Liguori, 2001, pp. 150-160, una lettura ripresa (con attenzione alle implicazioni boiardesche di alcune immagini) da Cristina Montagnani, Fra Ferrara e Napoli: percorsi bucolici, «Annali On line Ferrara Lettere», XIII (2018), pp. 47-60: pp. 56-58.

52 Dalla didascalia presente nel codice E1 (per cui cfr. infra): Aegloga chiamata la Semidea di Messer Nicolo da Corezo (N. da Correggio, Opere, cit., p. 553).

53 Cito dal polimetro La notte torna, e l’aria in ciel s’annera, vv. 7-8: «Itene a casa, e noi lassate al bosco / pasciute pecorelle» (il passaggio a sua volta è esemplato su Virgilio, Buc., I, v. 74: «Ite meae, felix quondam pecus, ite capellae» e X, 77: «Ite domum saturae, venit Hesperus, ite capellae»). Correggio è riconosciuto fra gli imitatori di questo luogo da I. Pantani, Il polimetro pastorale di Giusto de’ Conti, in La poesia pastorale nel Rinascimento, cit., pp. 1-55: p. 17, nota 24 (dal saggio di Pantani cito anche il testo critico).

54 Nel testo boiardesco il pastore Aristeo si lamenta per aver abbandonato l’amata Cloride (rimando al commento di Montagnani, che ne sottolinea i costanti prelievi dal lessico della lirica amorosa). Sull’applicazione del modulo della dipartita da parte di Correggio cfr. G. Gentili, art. cit., pp. 126-129.

55 Si confrontino anche le parole di Dafni in Rime, 363, vv. 73-77: «Tu vedi Borea i nubi oscuri e densi / agitar per il cel, grandine e tuoni, / fulguri e lampi di ver foco accensi: / se ’l povero tuo gregge ora abandoni, / ohimè como andarà misero errando!» con quelle di Melibeo in Virgilio, Buc., I, vv. 11-13: «[…] undique totis / usque adeo turbatur agris. En ipse capellas / protenus aeger ago».

56 Cfr. A. Arata, op. cit., pp. 20-21 e pp. 31-33.

57 Forte ovviamente la sensazione di identificarlo nel Pico, probabile destinatario (cfr. supra) della Vita quieta: di conseguenza, la «amena valle» sarebbe la campagna fiorentina e il «semideo» Lorenzo il Magnifico. A questa interpretazione osta l’assenza di riferimenti al ‘lauro’, senhal di Lorenzo. Più intuitiva l’identificazione del «semideo» con Ercole I, regolarmente sovrapposto all’Ercole del mito nella letteratura encomiastica.

58 Ivi, vv. 58-60: «quella che tien del mio voler la chiave / fa duro il dipartir; da l’altra parte / l’ingrata patria mia me ’l fa süave». Fra i vari testi riscontrabili citerò il sonetto 226 (Ingrata patria, ove non ha bon stato): dopo essere vissuto lietamente in patria, il poeta la abbandona, constatando che le sue virtù non vi sono premiate («partomi, perché a l’Idra ancor rinasce / capi su i tronchi e Alcide è superato», vv. 3-4 – forse un riferimento a una delusione ricevuta dal duca Ercole?).

59 Lettera 98 (in A. Tissoni Benvenuti, Niccolò da Correggio e la cultura di corte nel Rinascimento padano, cit., p. 120): «Mando ala Signoria Vostra uno capitulo da cantarli drento, già facto più anni, quale, se li piacerà, poterà tenerlo a questo effecto […]. Il capitulo è una egloga pastorale, dove Mopso et Dapni pastori parlano insieme: Mopso si duole di la fortuna, Dapni se ne gloria. El senso alegoricho lo dirò a bocha ala Excelentia Vostra como li parlo» (Correggio, 8 luglio 1493). La lettera è oltretutto un’interessante testimonianza della fruizione musicale di questo genere di componimenti.

60 Lettera di Isabella d’Este a Ludovico Pio, 16 luglio 1493 (in A. Luzio e R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d’Este Gonzaga, Simone Albonico (a cura di), Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2005 [1899-1903], p. 204).

61 Un’edizione del testo secondo E1 (non essendo l’Harleiano allora noto), corredata da un’introduzione, è stata fornita da Giorgio Rossi, La “Semidea” di Niccolò da Correggio, «Giornale storico della letteratura italiana», XXXII (1893), pp. 99-108.

62 La versione di E1 e di P riporta (vv. 97-99): «Già mi fu il ciel sì adverso e il proprio fato / che amante non provò i più acerbi affanni / fin che a lor piacque poi cangiar mio stato»; in H gli stessi versi suonano: «el cielo, o voglian dir la sorte o il fato, / adverso a me ancor fu, sì che in affanni / da alcun pastor non fu’ mai paregiato».

63 Come avvisa Tissoni Benvenuti nella nota al testo delle Rime (N. da Correggio, Opere, cit., p. 545), è molto difficile valutare le diverse lezioni nella produzione dei poeti di corte, considerata la loro circolazione spesso ampia e la facilità a subire rimaneggiamenti. Tuttavia, anche altrove nelle liriche correggesche sembra di poter riconoscere delle varianti d’autore, ad esempio nella Vita quieta (cfr. F. Bausi, art. cit., pp. 203-205).

64 Ad esempio è assente l’invidia (Rime, 363, vv. 116-117: «contento a la sua sorte ognun si vive, / d’invidia non gli è mai tra nui scintilla»).

65 Rime, 362, vv. 25-30: «Per ben pascerla lei, più non rendea / decime a’ templi, e i suoi famigli e cani, / como era usato, ben non li pascea; / non seminavon più i bifolci grani, / ché lei se li mangiava, e i suoi terreni / si férno inculti, e i suoi greggi mal sani».

66 Rime, 362, v. 19: «Titir nostro, che già vinse un leone»; vv. 22-23: «per lei [scil. la ‘iuvenca’] lasciò la clava e la saetta / e gli vestì talor la pèl nemea» (vv. 22-23). In ottica encomiastica il mito poteva funzionare, nonostante la pace di Bagnolo (7 agosto 1484) non fosse stata certo a vantaggio dei ferraresi (dato che comportò la perdita del Polesine, ceduto a Venezia). Un probabile riferimento per Correggio fu Boiardo, Pastorale, I, v. 19: «sotto lo ungion de lo animal nemeo»; ma si veda anche Tebaldeo, Rime della vulgata, 272, vv. 140-141: «il leon nemeo / de la scorza del qual ti festi un manto». Sul mito di Ercole nelle Pastorale e nei Pastoralia boiardeschi, cfr. Bodo Guthmüller, Ercole e il leone nemeo. Bucolica e politica nelle Pastorali di Boiardo, in Gianni Venturi (a cura di), Gli dèi a corte: letteratura e immagini nella Ferrara estense, Firenze, Olschki, 2009, pp. 55-69.

67 Un’accurata fotografia della situazione è in Marco Folin, Nota sugli officiali negli Stati estensi (secoli XV-XVI), «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. IV, I (1997), pp. 99-154.

68 Provo comunque ad avanzare una cauta proposta di identificazione della ‘giovenca’ con la famiglia Trotti o con uno dei suoi membri. I cinque fratelli Trotti erano giunti nell’arco di pochi decenni a ottenere il titolo comitale e un prestigio eccezionale, consolidatosi fra il 1485 e il 1490; le svariate maldicenze sul loro conto si appuntavano sull’attività di usurai e sulla presunta simpatia filoveneziana (faccio notare che nell’ecloga Correggio accenna a un pericolo che risorge, forse un’allusione alla minaccia veneziana: «L’erba che li fu già tanto inimica, / benché sia svelta, o Dafne, ha sparto un seme, / che pastor mai non fia che lo eradica», vv. 4-6). Giacomo Trotti rivestì il ruolo di plenipotenziario nella svantaggiosa pace di Bagnolo (cfr. la nota 66), fatto che portò all’apice la sua impopolarità. Nonostante per prudenza venisse allontanato da Ferrara, conservò tuttavia la fiducia degli Estensi, che lo nominarono ambasciatore a Milano. Paolo Antonio Trotti ebbe, fino alla morte avvenuta nel 1487, poteri eccezionali a Ferrara: tanto che Ariosto, secondo la ricostruzione di Bacchelli, l’avrebbe inserito nella sua ecloga Dove vai, Melibeo, dove sì ratto, accusandolo di avidità (R. Bacchelli, op. cit., pp. 63-66). Sui Trotti rimando al colorito profilo tracciato da Caleffini nelle Croniche, in occasione della morte di Galeazzo nel 1491 (anno in cui era giudice dei Dodici Savi). Il cronista insiste sulla sua smisurata ricchezza (citandone il soprannome di «re de dinari»), ma anche sull’inaudito ascendente che la famiglia esercitava sul duca: «Sì che se tiene per certo publice questi dui fratelli insieme [scil. Galeazzo e Paolo Antonio] retrovarse a casa de trenta miara de diavoli, li quali sono stati più in amore et gratia de lo illustrissimo signore duca Hercole, et più tempo, che fussero mai Danti, Vieri et Brichi, Iacomo de Ziliolo, Nicolò Bergamino […], né niuno altro che sia stato grandissimo cum la illustrissima casa da Este. Per modo che ardirò dire quello che se dice per la più parte del populo. Videlicet che questi hano afaturato il prefato duca, che non ha facto, nì dicto più inanci, nì più in dreto che loro gli habiano proposto et che, per stare epsi in gratia non hano mai permesso che sua signoria pigli amore ad alcuna persona. Et se hano visti che gli pigliase amore, hano tenuti quelli tali semper fuora per ambasatori et per altro […]» (Ugo Caleffini, Croniche: 1471-1494, Ferrara, Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, 2006, p. 810). Sui fratelli Trotti si vedano Marco Folin, Feudatari, cittadini, gentiluomini. Forme di nobiltà negli Stati estensi fra Quattro e Cinquecento, in Per Marino Berengo. Studi degli allievi, Milano, FrancoAngeli, 2000, pp. 34-75: pp. 47-57; Matteo Provasi, Giacomo Trotti, in Dizionario biografico degli italiani, XCVII, Roma, Treccani, 2020. Anche E. Fenzi, art. cit., pp. 145-146 ritiene probabile che il Correggio abbia dato voce in alcuni testi al diffuso sentimento di ostilità nei confronti della famiglia.

69 I testi condividono inoltre alcuni temi in generale ascrivibili all’universo bucolico, come la zampogna suonata dal poeta (362, v. 80 e 363, v. 11) e il timore dei lupi (362, v. 63 e 363, v. 6). Su quest’ultima immagine rimando al commento di Montagnani a Boiardo, Pastorale, VII, v. 15 (p. 206): «La simbologia del lupo è anch’essa virgiliana (Buc. II, 63) ma soprattutto rimanda a testi napoletani, alle prime egloghe della Pastorale di De Jennaro […] e soprattutto all’Arcadia di Sannazaro, per esempio alla II ecloga […] dove al tema dei ‘falsi lupi, che gli armenti furano’ viene dedicato ampio spazio». Il tema è affrontato, con particolare riferimento all’Arcadia, da M. Riccucci, op. cit., pp. 103-150.

70 Cfr. vv. 79-84: «Io fra tanto starò ne la mia grotta, / el verno el vòl, suonando la zampogna, / perché la lira già bon tempo è rotta. / El tuo exortarmi al canto non bisogna, / ché a quel che mostra el tuo verso moderno, / Corridone oggi mi faria vergogna». È possibile che qui il poeta si stia momentaneamente rivolgendo a ‘Corridone’ (da leggersi dunque come un vocativo), oppure che stia sempre interpellando Dafni indicandolo come discepolo di Corridone. Dietro quest’ultimo nome potrebbe celarsi il Boiardo bucolico: tuttavia il contesto sembra piuttosto indicare un poeta lirico, dato che l’omonimo personaggio virgiliano intonava un lamento d’amore (si potrebbe dunque pensare al Boiardo degli Amorum libri).

71 Nelle parole di C. Dionisotti, Nuove rime di Niccolò da Correggio, cit., p. 365: «una letteratura e lingua che rifiuta la pressione e soggezione della vita, della società, della storia contemporanea, e si sceglie e compone una sua région où vivre».

72 La profezia è ovviamente post factum; l’ecloga è dunque posteriore alla metà di settembre 1483, quando il Correggio venne rilasciato (cfr. il commento dell’ed. Montagnani; sull’episodio storico cfr. A. Arata, op. cit., pp. 35-41). L’episodio della prigionia fa anche da sfondo a un capitolo dello stesso Correggio, 354 (Como Penelopé scrisse al suo Ulisse): si tratta di un’epistola che si finge scritta dalla moglie del poeta, che invoca il suo ritorno (si veda M. Bosisio, Tra “cetere” e “fistole”, cit., pp. 73-74, che ne evidenzia i richiami ovidiani e specie alla prima delle Heroides).

73 Giorgio Pinotti, Curio Lancillotto Pasio e la “Bucolicorum mimisis” dedicataa Niccolò da Correggio, «Humanistica Lovaniensia», 32 (1983), pp. 165-196, a cui rimando per una lettura critica dei singoli testi. Dall’articolo ho tratto anche le citazioni dalla terza ecloga del Pasio.

74 Come ricorda sempre G. Pinotti (art. cit., p. 176), Pasio fu anche commentatore di Persio.

75 Sarebbe interessante approfondire la relazione fra i due, magari individuando altri testi del Correggio dedicati al Pasio. Un’ipotesi suggestiva, per cui ringrazio Massimo Danzi, è quella di riconoscere l’umanista ferrarese nel Panisco del son. 97 (e non il Pistoia, come suggerisce il codice Sessoriano 413 – cfr. nota 25), appellativo che, se pur estraneo alla tradizione, coniugherebbe – se riferito al Pasio – allusività bucolica e somiglianza onomastica.