Revue Italique

Varia

OJ-italique-888

«E l’autorità di Dante (perdoninmi alcuni) non vale»: riflessioni intorno all’incisività del Dante lirico nella poesia veneta del XVI secolo

Martina Dal Cengio

Colgo l’occasione per ringraziare la Fondation Barbier-Mueller pour l’étude de la poésie italienne de la Renaissance, presso la quale ho condotto un soggiorno di ricerca dedicato alla fortuna della lirica dantesca nella poesia veneziana cinquecentesca. Il qui presente lavoro ne raccoglie i primi risultati.

Tale, la decisa presa di posizione di Lodovico Dolce sull’«autorità» di Dante in materia di poesia.1 La fortuna di Dante nel Rinascimento – e quindi come fu inteso, che cosa significò – rappresenta una prospettiva d’indagine che, sulla scia di Michele Barbi,2 nel secolo scorso ha destato ripetutamente l’attenzione degli studiosi, per lo più affascinati dall’esegesi rinascimentale del poema dantesco,3 dal suo ruolo nel contesto della Controriforma4 o dalla sua funzione all’interno della dibattuta questione della lingua.5 Fino ad ora, l’attenzione collettiva è ricaduta soprattutto sulla permeabilità della Commedia, frequentemente oggetto di imitazione per componimenti in terza rima, nonché modello per numerose riprese sintagmatiche, spesso stilisticamente espressive, di cui la lirica cinquecentesca è ampiamente innervata.6 In questa sede ci si propone, invece, di prendere in considerazione la ricezione del cosiddetto Dante lirico. Se la presenza, nella letteratura cinquecentesca, di un alto numero di richiami alla Commedia è un indizio indiscutibile della sua popolarità, viceversa la quantità limitata di indagini sul versante delle rime non determina necessariamente una sfortuna del corpus o una scarsa familiarità da parte dei letterati del tempo. Al contrario, l’indiscusso apprezzamento dell’autore da parte degli intellettuali e il risvegliarsi di interesse per la poesia delle origini, su cui torneremo, sono tutti fattori che autorizzano – se non esortano – ad avviare una riflessione sull’effettivo riscontro delle Rime di Dante nel Cinquecento. Con lo scopo di provare a mettere a fuoco il significato alla base della sua ripresa, sarà opportuno distinguere tre livelli del discorso: la sua considerevole riscoperta letteraria promossa tra la fine del quindicesimo e l’inizio del sedicesimo secolo; la sua percezione in relazione al canone dominante; e la sua reale assimilazione nella rimeria del tempo, da verificare con sondaggi testuali che tengano conto di possibili interferenze, soprattutto petrarchesche.7 Per ragioni di brevità, si è circoscritta la presente analisi al solo panorama veneto cinquecentesco, terra di primi imitatori danteschi,8 area dove l’opera dell’Alighieri fu oggetto sia di molteplici commenti sia di numerose lezioni,9 vantando grande riscontro editoriale e consenso tra personalità di spicco, come Nicolò Liburnio e Sperone Speroni.10 In realtà, non si vuole elencare, autore per autore, le diverse memorie delle Rime dantesche, sicuramente rilevanti ma pur sempre isolate nell’orizzonte lirico del sedicesimo secolo. Si preferisce, piuttosto, indugiare sui motivi e le forme di una simile marginalità, pur nel pieno di una stagione letteraria molto sensibile al fascino della poesia duecentesca e promotrice di importanti scavi filologico-editoriali di soggetto dantesco.

In effetti, uno degli aspetti più intriganti del fermento lagunare di inizio Cinquecento coincide proprio con la vivace attenzione nutrita nei riguardi della poesia delle origini, intesa sia come tradizione lirica anteriore a Petrarca sia come esperienza poetica occitanica.11 La riscoperta della poesia duecentesca fu promossa, in primis, dallo stesso Pietro Bembo, alla cui biblioteca appartenevano almeno due codici fondamentali per la ricezione lirica medievale ossia l’attuale Vat. Lat. 3213, derivato dalla Raccolta Aragonese, e il Vat. Lat. 3214.12 Negli stessi anni, pure Trissino coltivò analoghi interessi duecenteschi e dovette possedere non pochi codici di rime antiche, a partire dal perduto antigrafo dell’attuale ms. 177 della Biblioteca Universitaria di Bologna, trascritto per mano di Gian Maria Barbieri. In più il Vicentino soggiornò prima a Roma, dove probabilmente entrò in contatto con Angelo Colocci, e poi a Firenze, dove frequentò invece l’ambiente degli Orti Oricellari, scenario in cui prese forma pure la Giuntina di Rime antiche del 1527 sulla quale torneremo.13 Inoltre, intorno al primo decennio del secolo, Trissino riscoprì anche il De vulgari Eloquentia dantesco, di cui avanzò egli stesso un volgarizzamento dato ai torchi nel 1529.14 Nella sua Poetica sono numerose le citazioni di passi lirici guittoniani di cui non esistono attestazioni altre se non le sue, aspetto che autorizza ad ipotizzare che fosse in possesso di manoscritti oggi andati perduti.15 Sulla scia di Bembo e Trissino, anche il veneziano Domenico Venier manifestò una simile inclinazione antiquaria, con un occhio di riguardo per la scrittura di Guittone d’Arezzo,16 poeta che probabilmente conobbe per il tramite dell’odierno ms. Laurenziano Redi 9.17 Un altro appassionato raccoglitore di lirica antica, e intimo amico di Venier, fu il bolognese Ludovico Beccadelli, proprietario di un codice oggi perduto ma di cui abbiamo almeno testimonianza grazie ad una celebre copia di Lorenzo Bartolini, noto come Raccolta Bartoliniana (ms. 53 della Biblioteca dell’Accademia della Crusca di Firenze) e concepito come integrazione della già citata edizione della Giuntina. Nel quadro che si va profilando è impossibile omettere il nome di Antonio Mezzabarba, personalità importante nello scenario veneziano di primo Cinquecento. Poeta in contatto con la schiera veneziana gravitante attorno a Bembo, Aretino e Venier, è oggi noto soprattutto per aver confezionato l’attuale ms. Marc. It. IX, 191 (= 6754), preziosa silloge di autori stilnovisti e trecenteschi.18 La sottoscrizione in apertura del codice ci fornisce indicazioni relative sia alla datazione dell’antologia, terminata nel 1509, sia alla rigorosa precisione del Mezzabarba-copista, il quale dichiara di aver trascritto personalmente i testi «nulla mutando, overo aggiungendo di quello, che io in antiquissimi libbri trovai scritto».

Al di là di quelle che potrebbero essere intese come attenzioni storico-filologiche, per il nostro discorso diventa decisivo porre l’accento sulla permeabilità di questi scavi nella rimeria cinquecentesca ovvero sulla liceità di intravedere una qualche testura arcaizzante, intesa come un ricercato “neoduecentismo”, nella lirica petrarchista di metà secolo. Nelle Rime di Trissino, è cosa nota, abbondano i richiami a Guittone, Cino da Pistoia e Benedetto Orbicciani.19 Parimenti, Monica Bianco ha già dettagliatamente valorizzato le tessere antiquarie della lirica di Venier e tracce di un analogo arcaismo metrico-stilistico affiorano anche in autori come Luigi Groto, Gabriele Fiamma, Pietro Massolo, Girolamo Molin, Giacomo Zane, Giorgio Gradenigo e altri. Quindi, a fronte del vistoso interesse per la rimeria italiana duecentesca da parte del contesto veneto rinascimentale, sembra doveroso chiedersi quale sia stato il ruolo del Dante lirico in questo processo “filo-arcaizzante”. In altri termini, in coincidenza con l’avvenuta riscoperta delle origini e data l’importanza ineludibile dell’autore, è lecito estendere anche alla sua produzione lirica una qualche capacità pervasiva? In caso contrario, bisognerà forse ammettere che le rime dell’Alighieri siano state messe in ombra da quelle di altri poeti duecenteschi o dal suo stesso poema in terza rima?

Benché non sia affatto necessario argomentare sulla notorietà di Dante nell’ambiente lagunare cinquecentesco, vale la pena ricordare che la sua scrittura lirica conobbe una discreta popolarità e godette di una vivace circolazione, anche grazie alla prontezza dell’editoria nell’assecondare il gusto anticheggiante di inizio secolo. In tal senso, il volume più significativo di tutti corrisponde alla famosa raccolta dei Sonetti e canzoni di diversi antichi Autori Toscani (Firenze, Philippo Giunta, 1527), che ospita duecentottantanove componimenti di Dante, Cino da Pistoia,20 Cavalcanti, Dante da Maiano, Guittone d’Arezzo e altri.21 Sono settantaquattro le rime dantesche ivi conservate: numericamente, Dante coincide con l’autore più rappresentato all’interno del corpus, giacché le sue poesie occupano ben quattro libri su undici.22 In effetti, l’intenzione alla base dell’operazione muove proprio a favore di un recupero del Dante lirico quale modello da affiancare ai Rerum vulgarium fragmenta, come si evince dalla famosissima introduzione:23

né il Divino Dante ne le sue amorose Canzoni indegno fia in parte alcuna riputato di essere insieme con il Petrarca per l’uno de’ duoi lucidissimi occhi della nostra lingua annoverato.

La silloge riscosse un enorme successo, come confermano gli esemplari spesso abbondantemente postillati e la quasi immediata ristampa veneziana per i tipi dei fratelli da Sabbio, del 1532.24 In verità, Venezia aveva già dato ai torchi altre due iniziative, sempre di natura antiquaria, meritevoli di nota. Innanzitutto, andrà ricordato il volume delle Canzoni di Dante, Madrigali del detto (Venezia, Guilielmo da Monferrato, 1518), che ospita anche poesie di Cino da Pistoia e Girardo Novello. L’edizione è assai scarna, priva di una prefazione ai lettori e, per quanto ancora poco considerata dagli studiosi, raccoglie ventisette componimenti danteschi (tutti confluiti nella successiva Giuntina); insieme a Cino da Pistoia, l’Alighieri è ancora una volta l’autore su cui si fonda il progetto editoriale. L’edizione del 1518 fu a sua volta preceduta dalla pubblicazione di un’appendice aldina alla riedizione del Petrarcha (1514), contenente in conclusione ventiquattro carte di rime duecentesche.25 Ovviamente, oltre alla tradizione a stampa, non manca una folta e complessa circolazione manoscritta di rime dantesche, in buona parte già indagata dai fondamentali lavori di Domenico De Robertis.26

Quanto delineato fin qui attesta la sicura circolazione – ma verrebbe da dire la familiarità – delle rime di Dante all’interno dell’ambiente veneto di primo Cinquecento. Per comprendere la loro (limitata) ricezione nella lirica rinascimentale, occorre preliminarmente discutere la funzione assegnata ai reimpieghi danteschi in epoca moderna, questione recentemente affrontata da Franco Tomasi.27 Semplificando un po’, lo studioso distingue tra: una funzione ancillare, laddove le rime dantesche hanno significato nell’ottica di un’esegesi petrarchesca; una funzione linguistica, nei termini di un interesse per la lingua delle origini; e, intendendo la poesia come processo in divenire, una funzione storica, meritevole di attenuare l’esclusività petrarchesca in favore di una «diarchia che affianchi ai Fragmenta l’esperienza lirica di Dante», dinamica di cui si avverte traccia fin dalla Raccolta aragonese.28 D’altro canto, il riconoscimento dell’Alighieri come autorevole precursore poetico non è un’invenzione cinquecentesca, bensì un fedele allineamento alla nota canzone delle citazioni (Rvf 70), dove Petrarca tratteggia una parabola, cronologicamente lineare, dei massimi esponenti della poesia amorosa medioevale: Daniel, Cavalcanti, Dante, Cino da Pistoia e sé stesso. A quest’ultima si allineò prontamente Pietro Bembo nella canzone A quai sembianze Amor madonna agguaglia, non priva di un certo intento auto-legittimante:29

la dolce vista angelica beatrice,
de la mia vita et d’ogni ben radice. (vv. 11-12)
[…]
del suo dolce parlar lo spirto et
l’aura
subitamente ogni mio mal restaura. (vv. 23-24)
[…]
similemente et io sempre
amaria
l’alto splendor, la dolce fiamma mia. (vv. 35-36)

Il futuro cardinale è autore anche di un’altra simile rassegna della poesia amorosa delle origini, i cui protagonisti sono identificati proprio in Cino da Pistoia, Dante Alighieri e Francesco Petrarca:30

Questa fe’ Cino poi lodar Selvaggia,
d’altra lingua maestro e d’altri versi;
et Dante, acciò che Bice honor ne traggia,
stili trovar via più leggiadri e tersi;
e perché ’l mondo in reverentia l’aggia,
sì come ebb’ei, di sì novi et diversi
concenti il maggior Tosco addolcir l’aura,
che sempre s’udirà risonar Laura.

L’inclusione di Cino da Pistoia non sorprende. Eppure, nell’orizzonte della rimeria moderna non è poi così usuale imbattersi in una triade poetica di questo tipo, ragion per cui si ha la tentazione di valorizzarne le occorrenze, come nel caso di un sonetto del bresciano Bartolomeo Arnigio (1523-1577), attivo tra Padova e Venezia alla metà del secolo, di cui riportiamo i versi 5-8:31

La Fama a guisa di verace Apelle
    mi vi dipinge, o gentil Claudia, et dice,
    ch’assai più che Selvaggia, et Laura, et Bice
    mertate loco fra l’aurate Stelle.

Nel repertorio poetico del sedicesimo secolo sono ben più diffusi i binomi “Dante e Petrarca”, con ovvio richiamo ai loro componimenti lirici, o “Laura e Beatrice”, travestimenti femminili della poesia dei loro cantori.32 Simili impieghi rispondono, per lo più, ad una duplice finalità: 1) d’encomio, nei confronti di dedicatari le cui qualità scrittorie vengono avvicinate a quelle dei grandi modelli due-trecenteschi o dell’amata, suggerendo che perfino i poeti per antonomasia, al cospetto di lei, ne avrebbero omaggiato lo splendore, topos tradizionale e dalle svariate declinazioni; 2) metapoetica, laddove si suggerisce implicitamente un canone a cui tendere, un paradigma lirico ideale a cui approssimarsi. A rappresentanza del meccanismo, un primo esempio è offerto da Luca Contile (1505-1574), trasferitosi a Venezia negli anni Cinquanta e membro dell’Accademia della Fama:33

S’a quei tempi di Dante e del Petrarca,
    fosse stata costei ch’io sola honoro
    e dove è di vertù tanto tesoro
    tal che natura n’è rimasa scarca,4
 
già di Bice e di Laura l’atra parca
    havrebbe i nomi spenti, e ’l verde alloro,
    e di men privilegio e men decoro
    e di men fama havria la fronde carca.8

Un uso affine si ripresenta in un paio di sonetti di Diomede Borghesi (1540-1598), intellettuale senese attivo a Padova nella metà del secolo, il primo dei quali indirizzato al poeta Francesco Pusterla:34

Al dolce suon de le sonore tue
    leggiadre rime in stil purgato e raro,
    che la tua Musa egual rende a le due
    che Bice e Laura al ciel cantando alzaro,

il secondo a Sperone Speroni:35

Or per te non invidia il divo Orfeo
    la Brenta a l’Ebro, o quei duo Cigni a l’Arno
    ch’eternar co i lor versi e Laura e Bice.

Di pari tenore è anche la proposta di Lodovico Dolce (1508-1568) che, nel tessere le lodi del poeta veneziano Giorgio Gradenigo e della sua amata Irene di Spilimbergo, affianca l’autorità orfica a quella dantesco-petrarchesca mediante una sovrapposizione di presenze femminili:36

Questi il vago, leggiadro, e puro canto,
che fermar l’onde a l’armonia poteo,
volto soavemente ha in novo pianto
dolce non men che quel del Thracio Orfeo,
chiamando Irene che nel suo bel manto
stupir già l’arte e la natura feo,
e per suoi tanti pregi in ciel felice,
splende più assai, che la gran Laura e Bice.

Ancora più eloquente si dimostra l’esordio di un sonetto del veneziano Pietro Massolo (1520-1590):37

Maraviglia non è che così bene
    Dante e ’l Petrarca cantasser d’amore,
    poi che, per viver fuor di noie et pene,
    sempr’hebber volta ad amor l’alma e ’l core.

Come chiosa Francesco Sansovino, autore delle glosse esegetiche al volume, il sonetto esprime l’apprezzamento di Massolo per la capacità dei due poeti di amare virtuosamente, merito di cui la loro eccellenza lirica è conseguenza. A prescindere dalle implicazioni morali, per il nostro ragionamento merita uno sguardo il v. 2, in quanto presenta la figura di Dante nelle vesti di cantore d’amore, proiettandolo in una dimensione fortemente liricizzata. Sebbene simili riferimenti vadano cristallizzandosi nel corso del secolo, trovando costante riscontro anche oltre i confini della Serenissima,38 occorre rilevare che l’accostamento tra i due poeti non si carica di un valore oppositivo – dinamica dialettica spesso avvertibile invece fra i Fragmenta e la Commedia, antitetici per genere letterario e registro stilistico – ma restituisce quasi l’effetto di una dittologia sinonimica, di una continuità dell’uno nell’altro. Questi riferimenti non sono riducibili a meri tasselli encomiastici figuranti di una comparazione celebrativa di marca petrarchesca, ma devono essere soppesati pure nei loro risvolti teorici, dato che tracciano, a supporto di quanto già sostenuto da Tomasi, un percorso tra magistri amoris disposti in un ordine di consequenzialità. In questa prospettiva, l’esperienza lirica di Dante sembra assumere significato sia in chiave di filiazione petrarchesca, perché ha avuto il merito di anticiparla, sia di diarchia con l’opera petrarchesca, in virtù di una giustapposizione quasi paritaria. Va da sé che un simile discorso non riguarda, invece, il Dante “filosofico” della Commedia, portavoce di una poesia narrativa e di impianto filosofico-teologale,39 categoricamente contrapposta all’elegante elocuzione dei Fragmenta, la cui primazia lirica non è mai messa in discussione: nel corso del Cinquecento il poema dantesco, pare quasi superfluo ricordarlo, è assunto per lo più a paradigma di una scrittura grave e dal lessico crudo, il cui autore è responsabile di «scriver di cose alte con parole basse et humili».40

È proprio a questo punto delle ricerche che ci si imbatte in quella che potrebbe sembrare una contraddizione. Nonostante la fascinazione per le origini, la fortunata circolazione testuale dell’opera dantesca e, per lo meno su un piano teorico, il riconoscimento di un’importanza esemplare nella varietà delle sue funzioni possibili, l’incidenza del Dante lirico su un piano scrittorio resta marginale. Le sue rime non godettero di indirette attenzioni canonizzanti, come possono esserlo, ad esempio, esercizi di traduzione in latino dei testi o rifacimenti integrali, sia pure di intento parodico.41 In questa direzione, sono ovviamente da distinguere i coevi tentativi di liricizzazione del poema dantesco, per il tramite anche di vere e proprie riscritture, fra le quali merita almeno un accenno l’eclatante proposta del veronese Girolamo Verità (1472-1552), sia pure isolata nel panorama poetico cinquecentesco:42

Nel mezo del camin di nostra vita,
    se vita è questa morte aspra e dura,
    mi ritrovai per una selva oscura,
    ch’ogni via di salute era smarrita.

In quest’ottica, andrà altresì sottolineata la penuria di un’esegesi cinquecentesca prettamente rivolta alle rime di Dante, situazione che Nicolò Franco sembra riassumere così nel Petrarchista:43

E la fama di Dante al succedere del Petrarca non s’arrestò anch’ella? […] Dove fu presa mai gara di commentare le rime sue, come quelle del nostro?44

Se è vero che, da un lato, mancano commenti esegetici alle rime dantesche, nella forma di edizioni con fitte e dense glosse ermeneutiche o esposizioni accademiche, dall’altro è innegabile che le sue liriche costellano i trattati di poetica del periodo, con l’obiettivo di esemplificare particolari usi grammaticali o metrici.45 In breve, le sue liriche paiono valorizzate nella loro importanza storica e linguistica, ma qual è il gradiente di influenza della poesia lirica dantesca a livello testuale? Nelle sue ricadute pratiche, il discorso si dimostra decisamente più spinoso. Innanzitutto, da un punto di vista quantitativo i prelievi dall’ipotesto lirico dantesco, pur meritevoli di ulteriori scavi, sono riprese sporadiche, assai meno diffuse rispetto a quanto attestato nello scenario primo-Quattrocentesco.46 Certo non mancano decise escursioni in territorio dantesco, soprattutto da parte dello scenario poetico fiorentino ma, limitatamente all’ambiente veneto e in termini generali, si tratta di recuperi degni di nota ma numericamente limitati. In un’altra sede si è già affrontato il compito di delineare le principali tipologie di riuso testuale dantesco nel Cinquecento, distinguendo tra pedissequi (ma vischiosi) reimpieghi lessicali, sintagmatici e metrico-rimici, dalle più articolate riprese tematiche.47 Proviamo ora a discutere come si debba problematizzare questa marginalità lirica, qui intesa come assimilazione del tutto saltuaria di stilemi danteschi; questa, con inevitabile semplificazione, trova pressappoco espressione in tre principali modalità: 1) continua interferenza con il dominante modello petrarchesco; 2) impiego di un vistoso prelievo dantesco, seppur isolato all’interno di una tramatura lirica complessivamente poco dantesca; 3) assenza di dantismi negli esercizi poetici rinascimentali d’ispirazione duecentesca. Dunque, tra i molti interrogativi possibili, se ne privilegiano alcuni: in che accezione sono impiegate le tessere dantesche all’interno di una compenetrazione tra modelli lirici? Quali sono gli elementi necessari e sufficienti per scorgere, in un testo cinquecentesco, un effettivo dantismo lirico? Che significato si deve assegnare all’esclusione dantesca da parte di uno sperimentalismo intenzionalmente pre-petrarchesco?

1. Nella rimeria del sedicesimo secolo è abituale incorrere in occasionali appigli dal sapore stilnovistico. Questi spesso riservano un margine di indecifrabilità tale da rendere la presenza del Dante lirico difficilmente afferrabile, quasi sfumato all’interno di un arcipelago di riferimenti altri, nonché oscurato dalla plausibile mediazione di Cino da Pistoia e Petrarca. Per esempio, nel sonetto Qual mostran meraviglia i fiori e l’erba del veneziano Girolamo Molin (1500-1569), si descrive la propria donna-angelo nell’atto di camminare, circondata da una compagnia femminile:48

donna sen va, come terrestre diva,
scorta da compagnia, d’onor superba.

Per quanto nell’immagine si avverta una vaga atmosfera duecentesca, coerente con i ripetuti arcaismi propri della scrittura moliniana, mancano calchi puntuali in dialogo con la lirica giovanile dell’Alighieri e, soprattutto, l’incedere angelico dell’amata è motivo solidamente attestato pure nel canzoniere petrarchesco (es. Rvf 191, 9-10). Identici dubbi investono anche il sonetto moliniano Non rasserena il ciel sì vaga aurora:49

A le sue faci, a quella luce pura,
    corron le genti a vagheggiarla in schiera,
    come a novo miracol di natura.

Nel descrivere l’entusiasmo delle genti che accorrono estasiate alla vista dell’amata, il poeta sembra sovrapporre al topos di marca evangelica influssi danteschi e ciniani, senza rinunciare però ad un deciso accento petrarchesco. Analoghe considerazioni si ripropongono pure per la prima quartina di un componimento di Diomede Borghesi:50

Scese dal sommo seggio angela pura,
    per mostrare a la terra il bel del cielo,
    accolta in vago, e sì leggiadro velo,
    ch’egual non ordì mai l’alma Natura.

La figura topica della donna angelicata, scesa dal cielo per farsi anticipazione di una bellezza ultraterrena, sembra dialogare con lo stilema stilnovista, suggestione a cui concorre la lontana reminiscenza di Tanto gentile e tanto onesta pare, 8 «dal cielo in terra a miracol mostrare». Eppure, sullo sfondo, è innegabile l’intarsio di memorie petrarchesche, quali: «posta a bagnar un leggiadretto velo / ch’a l’aura il vago…» (Rvf 52, 5-6); «Nova angeletta sovra l’ale accorta / scese dal cielo in su la fresca riva» (Rvf 106, 1-2); «sommo seggio» (Rvf 244, 8); «Anima bella da quel nodo sciolta / che più bel mai non seppe ordir Natura (: oscura)» (Rvf 305, 1-2); «leggiadro velo (: cielo)» (Rvf 319, 14). Questa continua contaminazione di tasselli lirici ispira due ordini di ragionamento: da un lato ricorda la necessità, dietro ogni singola ripresa testuale, di discutere le fonti soppesando adeguatamente, e caso per caso, le plausibili interferenze, respingendo scivolosi semplicismi; dall’altro, restituisce al lettore l’impressione che la voce lirica dantesca, nei termini di tessere e topoi testuali, si intersechi armoniosamente con quella petrarchesca. In altre parole, i prelievi danteschi non costituiscono un’occasione per perseguire un’esperienza lirica in opposizione al canone dominante, bensì si attua una fusione tra archetipi di riferimento, come se Dante venisse “petrarchescamente” assorbito in una trama lirica precisa, che ha nei Fragmenta il proprio punto di arrivo e di partenza. Questo loro accostamento, ai limiti della sovrapposizione, si evince perfettamente nel verso conclusivo del sonetto Sì dolce è il lume che mi fa morire del veneziano Giovanni Brevio (seconda metà del XV secolo-post 1549):51

per colei che ’l cor mio negli occhi porta (: apporta)

che non può non ricordare gli incipit della canzone dantesca Negli occhi porta la mia donna Amore (Vita Nova) e di Petrarca, Rvf 111 La donna che ’l mio cor nel viso porta (: smorta: accorta: morta).

Brevio, nel secondo emistichio dell’endecasillabo, ricalca quasi alla lettera il precedente petrarchesco, del quale ripropone anche lo schema metrico, pur non assimilandone la sequenza rimica e affidando l’immagine all’endecasillabo di chiusura. È forte però il sospetto che nella sua mente riecheggiasse anche il famoso prodromo della Vita nova, complice la riproposizione del sintagma “negli occhi porta”, che respinge il “viso” petrarchesco. A supporto della reminiscenza dantesca, vale la pena rammentare l’importante attività postillatoria di Brevio, nel cui “Petrarca aldino”, oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (St. Palat., E 6 6 38), non manca di accludere molteplici rinvii autografi proprio al Dante delle Rime e della Commedia.52 Sullo sfondo, inoltre, non andrà del tutto negata nemmeno la possibile interferenza da parte di autori coevi, dal momento che si tratta, in realtà, di una locuzione attestata non di rado nell’orizzonte poetico del sedicesimo secolo; ad esempio:53

Muzzarelli, Amorosa opra, cap. 48, canz. La donna, che ’l mio cor negli occhi porta
(: conforta), 1.
Pascale,
Rime 19, 1 «Donna gentil che ne’ begl’occhi porti (: apporti: morti: torti)».
Paterno, Rime, son. Se colei, che ’l mio cor ne gli occhi porta (: riconforta: porta: morta), 1.

Tuttavia, indipendentemente dall’interposizione di autori altri, rimane il fatto che l’intenzione di Brevio sembra quella di innalzare ulteriormente il tasso di preziosismo lirico del proprio sonetto, evocando in controluce un autore che non costituisce un’alternativa lirica al canone petrarchesco ma, per certi versi, lo integra armoniosamente. Per esemplificare ulteriormente la dinamica, osserviamo da vicino anche le terzine del sonetto Tra ’l sì e il no, dubbioso et mesto assai del veneziano Alvise Priuli:54

La cara mano, che mi diè fermezza
    di sempre amarmi, e il lampeggiar del riso,
    il dolce bacio honesto et gentilezza,

il volger d’occhi co ’l chinar del viso,
    mandomi dentro al cor tanta dolcezza,
    che pare a questa è nulla il paradiso.

Il componimento intreccia tessere vistosamente petrarchesche, suggestioni dantesche e memorie bembiane. Giusto qualche esempio: «il lampeggiar del riso» (v. 10) riporta alla mente Rvf 292, 6 «e ’l lampeggiar de l’angelico riso»; «il volger d’occhi» (v. 12) evoca sia Rvf 63, 1 «Volgendo gli occhi al mio novo colore» sia Dante Rime 59, 1 «Volgete li occhi a veder chi mi tira»; l’atto del chinare il viso suggerisce forse un legame con Se ’l viso mio a terra si china (Dante Rime A.11); «dentro al cor tanta dolcezza» rievoca Bembo Rime 101, 8 «tanta dolcezza in cor grave sentita», con precise reminiscenze di «che dà per li occhi una dolcezza al core» (VN son. Tanto gentile e tanto onesta pare, 10) e «onde eterna dolcezza al cor m’è nata» (Tr. Mortis II, 12); mentre il verso finale è quasi perfetta riscrittura di Dante Rime 68, 28 «a che nïente par lo paradiso». Le riprese dantesche si contaminano armonicamente con quelle di altri autori canonici, in un sonetto perfettamente allineato ai risultati mediani della rimeria di primo Cinquecento, dove la presenza del Dante lirico risulta conforme al paradigma dominante, ma inevitabilmente sfumata in una polifonia letteraria che, anche tramite mediazioni, rischia di metterne in ombra il recupero.

2. D’altro canto, nel mosaico lirico cinquecentesco, non è affatto raro imbattersi in tessere dall’indiscutibile marca dantesca, senz’altro meritevoli di essere valorizzate. Eppure, pur nella loro evidenza, sarebbe forse un po’ forzato dedurre automaticamente un dantismo lirico in senso stretto: infatti, la presenza del Dante rimatore non si traduce necessariamente in un vero e proprio fenomeno emulativo poiché i singoli tasselli, seppur persuasivi, nella maggior parte dei casi, tendono ad essere delle monadi all’interno di un sistema lirico che fa di Dante un preziosismo d’eccezione. A titolo esemplificativo, soffermiamoci su un paio di recuperi palesi, finora non valorizzati dalla critica:

Erasmo di Valvasone, Rime 77, vv. 90-94:55Dante, Rime 103, vv. 1-4:
 
Ohimè, ma colà dentro un cor s’annida, Così nel mio parlar voglio esser aspro
crudo, freddo, omicida,
che non cura d’amor face o faretra, com’è ne li atti questa bella petra,
ma da’ sospiri impetrala quale ognora impetra
maggior durezza per antica usanza.maggior durezza e più natura cruda

Pur in compagnia di impronte petrarchesche – come lo stilema «antica usanza» di Rvf 116, 8 – il prelievo dantesco da parte del poeta friulano Erasmo di Valvasone (1523-1593) sembra inequivocabile al netto dell’identica formula sintagmatica (con pari inarcatura), dell’atmosfera decisamente aspra, dell’uguale combinazione di un settenario + un endecasillabo, con analoga sequenza rimica “impetra”: “faretra”. In più, dell’amata si scrive che «bianca neve è ’l collo, e ’l largo petto / di vivo marmo lucido e tremante» (vv. 85-86), laddove il marmo erasmiano può corrispondere al diaspro che riveste la donna dantesca, mineralizzazione petrosa estesa da Erasmo anche alla strofa successiva: «la bella man di candido alabastro» (v. 99) e «la gemma avivi in lei gli ardori suoi» (v. 106), con vistoso dantismo verbale. Eppure, non mancano delle sostanziali differenze. Innanzitutto, la canzone di Erasmo, che non presenta un profilo metrico dantesco e circoscrive gli elementi petrosi esclusivamente alla settima strofa, intona un motivo lirico poco dantesco ossia la descrizione dell’amata intenta a guardarsi allo specchio. In più, nel resto delle sue Rime non ci si imbatte in nessun altro calco dantesco di pari tenore, al punto che l’occasionalità del recupero, per quanto ingombrante nella sua evidenza, è ben lungi da supportare l’ipotesi di un sistema poetico di ascendenza dantesca. Negli stessi anni, il medesimo antecedente risuona chiaramente anche in un capitolo lirico del veneziano Marco Venier (1537-1602), indirizzato a Veronica Franco:56

Marco Venier, cap. S’io v’amo al par de la mia propria vita, vv. 119-124:Dante, Rime 103, vv. 66-73:
 
Prenderei con le mani il forbito oro S’io avessi le belle trecce prese,
de le trecce, tirando de l’offesa,che fatte son per me scudiscio e ferza,
pian piano, in mia vendetta il fin tesoro.pigliandole anzi terza,
con esse passerei vespero e squille:
Quando giacete ne le piume stesa, e non sarei pietoso né cortese,
che soave assalirvi! E in quella guisa anzi farei com’orso quando scherza;
levarvi ogni riparo, ogni difesa!e se Amor me ne sferza,
io mi vendicherei di più di mille.

Senza trascurare la possibile mediazione dellacasiana,57 dietro al malizioso augurio vendicativo di afferrare le bionde trecce dell’amata riecheggia nitidamente la lezione dantesca. Tanto più che entrambi i poeti ricorrono al condizionale (prenderei / vendicherei) e fantasticano un impietoso attacco alla donna, incapace di opporsi alle violenze (decisamente erotiche) dell’innamorato. Ancora una volta, però, i punti di contatto tra i due testi, per quanto lampanti, si circoscrivono a questi pochi versi. In breve, pure il “dantismo petroso” di Venier si riduce al recupero di un’immagine emblematica, senza innervare il testo in maniera dirimente né tradursi in un habitus lirico. Sia Erasmo sia Venier sono autori di poesie che presentano immagini e sintagmi danteschi, ma che sarebbe improprio definire dantesche in senso stretto.

Prima di procedere con il ragionamento, ci si conceda una piccola digressione. Gli esempi appena annoverati attingono entrambi dalla celebre Così nel mio parlar voglio esser aspro (ABbC.ABbC. CDdEE), canzone paradigmatica per uno stile lirico petroso, alla ricerca di una corrispondenza tra la durezza del contenuto e della forma.58 Eppure nel corso del Cinquecento, come ha notato Massimo Danzi commentando una rara imitazione metrica di Matteo Bandello, l’impiego di questo schema si rarefà, in netto contrasto con l’ampia frequentazione tre-quattrocentesca.59 Non è immediato comprendere le ragioni di questo scarso impiego. Se oggi i repertori metrici a nostra disposizione, in primis quello di Guglielmo Gorni,60 offrono un’accurata fotografia della fortuna, o sfortuna, degli schemi danteschi nel corso Cinquecento, molto resta da dire in merito alle ragioni che hanno portato all’oblio alcune modulazioni, soprattutto se costituiscono l’ossatura metrica di canzoni di ampia popolarità. Il caso di Così nel mio parlar non costituisce un’eccezione. Anche il seguito di Amor, che movi tua vertù da cielo (AbBC.AbBC.CDdEFeF), tra le più autorevoli canzoni del repertorio dantesco, è praticamente nullo: nonostante la sua menzione in numerosi trattati del periodo, lo schema non ebbe fortuna, forse sulla scia dell’esclusione petrarchesca o del (troppo) simile esito operato da Petrarca in Rvf 119 (ABbC.ABbC.CDdEFeF), quest’ultimo invece di largo utilizzo. Di fronte ad una simile penuria, le limitate occorrenze d’uso non possono che risaltare per contrasto, destando subito l’interesse degli studiosi. È il caso, ad esempio, di La morte, onde ’l Metauro, ambe le sponde di Bernardo Cappello, perfettamente esemplata sullo schema di Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, seppur di argomento completamente differente: entrambe ricorrono infatti allo schema ABC.BAC.CDEEDFF, non autorizzato dai Fragmenta e quasi mai condiviso tra Quattro e Cinquecento.61 Per supportare l’ipotesi di un prelievo diretto dall’archetipo dantesco occorre verificare anche la presenza di ulteriori elementi testuali, per esempio di natura rimica, oppure l’effettiva familiarità dell’autore con il corpus dell’Alighieri. Nella scrittura di Cappello, «oltre a una consistente presenza delle opere dantesche, si possono individuare anche recuperi da poeti antichi»62 e, in merito alla canzone in esame, andrà quanto meno notata la riproposizione della sequenza rimica “salute”: “vertute”, tra le parole chiave del lessico dantesco, in associazione sempre alla limitrofa rima -ole:

Cappello, Rime 216, vv. 27-40:Dante, Rime 79, vv. 20-32:
 
Chi fia più che con opre et con parole Or apparisce chi lo fa fuggire
possa recar fra noi gioia et salute, e segnoreggia me di tal virtute
rendendo saggi gli huomini et felici? che ’l cor ne trema che di fuori appare.
Rado altra tenne mai tanta virtute, Questi mi face una donna guardare,
et fur suoi pregi a noi, sì come ’l Sole e dice: «Chi veder vuol la salute,
al mondo, d’alto ben specchi et radici: faccia che li occhi d’esta donna miri,
tornavan per costei quei tempi amici, sed e’ non teme angoscia di sospiri».
che le nove sorelle honoran tanto,
che desiar fan di Saturno gli anni; Trova contraro tal che lo distrugge
dinanzi a lei sparian sdegni et affanni, l’umil pensero, che parlar mi sole
e ’n lor vece apparia la pace e ’l canto; d’un’angela che ’n cielo è coronata.
né povertà, né vitio alcuno oppresse L’anima piange, sì ancor len dole,
ove del suo valor raggio splendesse.e dice: «Oh lassa me, come si fugge
questo piatoso che m’ha consolata!»

In più, la conclusione di due strofe presenta anche una vicinanza rimica, forse irrilevante ma che non si vuole tacere:

Cappello, Rime 216, vv. 51-52:Dante, Rime 79, vv. 25-26:
 
et che ciascuno in tutti i suoi desiri faccia che li occhi d’esta donna miri,
la sua bell’alma et Giulia non sospiri.sed e’ non teme angoscia di sospiri.
Cappello, Rime 216, vv. 77-78:Dante, Rime 79, vv. 51-52:
 
né più ’l vostro languir turbi la paceche tu dirai: «Amor, segnor verace,
in ciel di lei, cui ’l vostro ben sol piace.ecco l’ancella tua; fa che ti piace».

Ciononostante, non siamo nelle condizioni di poter assegnare a Cappello, tra i letterati più attenti alle direttive normalizzanti di Bembo, il merito di utilizzare davvero una metrica dantesca. Limitatamente alle sue canzoni, venticinque in totale, solo questa ricalca perfettamente uno schema dantesco: tra le rimanenti, tredici sono esemplate su schemi petrarcheschi, una su Bembo e le restanti undici rispondono a schemi altri (in due casi avvicinabili però all’ipotesto dei Fragmenta). Lievemente diverso è il caso della canzone Donna gentil, che glorïosa e sola (ABC.BAc.CDEEDFF) di Bernardo Tasso, nella cui filigrana sembra riconoscibile il profilo di Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete.63 Oltre a contenere a sua volta la rima “salute”:“virtute” (vv. 51-52), non passa inosservata la scelta tassiana di avviare il discorso appellandosi alla «Donna gentil», stilema di pronunciata tradizione stilnovista e mai impiegato da Petrarca in posizione incipitaria.64 Questi dettagli potrebbero non essere mere coincidenze alla luce dell’assodato interesse tassiano per la metrica di Dante,65 provato pure dalla riproposizione, in ben otto occasioni, dello schema ABC.BAC. cDEeDFF, già di Aï faus ris pour quoi traï aves.66

Forse in merito ai coevi dettami della trattatistica, è proprio sul piano metrico che l’influenza dantesca risulta più eclatante, offrendo ragguardevoli occasioni di scarto dall’autorità dei Fragmenta, sebbene, come si è detto, il recupero di un formalismo dantesco non implichi necessariamente la presenza di un dantismo lirico. A supporto di questa considerazione, prendiamo in esame proprio la forma metrica della sestina, di enorme popolarità nel sedicesimo secolo, la cui primazia dantesca è costantemente ribadita da parte dei teorici di epoca moderna.67 Nonostante i nove esemplari petrarcheschi, per un poeta cinquecentesco scrivere sestine rappresentava innanzitutto un consapevole dialogo con Dante e la tradizione provenzale. Non è motivo di sorpresa, dunque, che alcuni dei numerosi esemplari metrici cinquecenteschi, pur all’interno di un predominante linguaggio petrarchesco, conservino un sapore dantesco, vagamente tangibile per esempio nella terza stanza della poca conosciuta sestina Tante frondi non han l’ombrose selve di Bartolomeo Arnigio:68

Quando neva Aquilon, quand’Austro ’l cielo «che son sicuri d’Aquilone e d’Austro»
copre di nubi, et nudi sono i colli(Purg. XXXII, 99)
percossi intorno da gelati venti, «mi ritrovai per una selva oscura»
oscuro in vista esco fuor de le selve (Inf. I, 2)
a patteggiar co i più superbi fiumi,«ch’uscivan patteggiati di Caprona»
a farne un via maggior sol del mio pianto.(Inf. XXI, 95)

L’atmosfera cruda – a cui concorrono l’insistenza sulla sofferenza straziante dell’io, lo scenario invernale e burrascoso, i venti ostili, il freddo glaciale e i vari prelievi dalla Commedia – si affianca ad una scelta rimica che, pur nella costellazione di rimanti petrarcheschi, non trascura di servirsi anche di “colli”, riconducibile all’archetipo di Al poco giorno [ombra, colli, erba, verde, petra, donna]. Ma, per quanto sia probabile che il poeta conoscesse l’ipotesto medioevale, non si può tacere la verosimile mediazione di due imprescindibili autorità di primo Cinquecento come Trissino e Sannazaro, entrambi autori di sestine con le quali la proposta del padovano condivide ben due parole-rima: Salubre fωnte, ε tu, rinkiua valle [valle, COLLI, Arnω, Donna, SELVE, rime] (Trissino Rime 26) e Già cominciava il Sol da sommi colli [colli, ghiaccio, cielo, pianta, alba, fonte] (Sannazaro Sonetti e canzoni 9).69 Il possibile dantismo testuale è ulteriormente compromesso dal forte sospetto che nella mente di Arnigio riecheggiasse pure la sestina petrarchesca L’aere gravato, et l’importuna nebbia [nebbia, venti, pioggia, fiumi, valli, ghiaccio], da cui l’autore sembra attingere tasselli, quali «et a’ gelati et a’ soavi venti» (Rvf 66, 21), e motivi tematici. La filiazione dantesca risulta invece più convincente osservando una strofa della sestina doppia del poeta bresciano Girolamo Fenarolo (… -1569 ca.), attivo nel sodalizio di ca’ Venier, costruita sull’insolita alternanza tra settenari ed endecasillabi:

Fenarolo, sest. Se più tarda la notte, vv. 7-12:70 Dante, Rime 101, vv. 1-6:
Ahi nova iniqua morte,Al poco giorno e al gran cerchio D’OMBRA
mentre attendo la notte,son giunto, lasso!, ed al bianchir de’ colli,
perch’io sgombri dal cor l’usata doglia; quando si perde lo color nell’erba;
ogni picciola nube, e poco D’OMBRA, e ’l mio disio però non cangia il verde,
mostra ch’inclini ’l giornosì è barbato ne la dura petra
e par ch’escan le stelle.che parla e sente come fosse donna.

Il legame testuale con la sestina di Dante pare avvalorato dal riuso del rimante “ombra”,71 posto in coincidenza di un verso il cui andamento bipartito rievoca quello di Al poco giorno, da cui Fenarolo preleva anche l’avverbio “poco”: tutti recuperi che acquistano ulteriore pregnanza proprio perché operati in una sestina, metro di innegabile ascendenza dantesca. Sebbene il vocabolario delle sestine cinquecentesche tradisca quasi sempre una predominanza petrarchesca, fin dal Quattrocento la fortuna dei rimanti danteschi è meno esile di quanto non si è soliti pensare. Per esempio, entro i soli confini veneti di metà sedicesimo secolo, si registra la seguente situazione:72

OmbraUn’alma pianta uscita d’un bel lauro [lauro, OMBRA, fiume, venti, chiome, rami] (in Rime di M. Alessandro Lionardi gentil’huomo padouano, Venezia, al segno del Griffio, 1547, pp. 7-8); Ben mi credea fuggendo il mio bel Sole [sole, foco, ombra, boschi, raggio, vampo] (Rime della Signora Tullia e di diversi a lei, Venezia, Giolito, 1549, c. 12r-v); Veramente siam noi polvere, ed ombra [ombra, bella, cielo, morte, pianta, mondo] (di Dionigi Atanagi in De le rime di diversi, Venezia, Giolito, 1565, I, cc. 200v-201 r); Quando l’Aurora i rugiadosi fiori [fiori, giorno, sole, ombra, versi, alma] (B. Tasso Rime I 80); Se più tarda la notte [notte, ombra, stelle, giorno, doglia, morte] (Rime di m. Girolamo Fenarolo, Venezia, G. Angelieri, 1574, cc. 9r-10r).
ColliSalubre fnte, e tu, rinkiua valle [valle, colli, Arno, Donna, selve, rime] (Trissino Rime 26); Quando che lasso dolcemente l’aura [aura, herbe, tauro, terra, colle, donna] (Le Nuove rime con l’amoroso concetto del Boatto, s. e., 1540, cc. 8v-9r); Contraria sorte i patri ameni colli [colli, valli, belve, morte, cielo, pace] (Girolamo Troiano in De le rime di diversi, 1565, II, c. 225r-v); Tante frondi non han l’ombrose selve [selve, fiumi, cielo, venti, pianto, colli] (Rime dell’Arnigio, Brescia, Gio. Battista Bozzola, 1566, c. Iiiir-v).
ErbaQuando che lasso dolcemente l’aura [aura, herbe, tauro, terra, colle, donna] (Le Nuove rime con l’amoroso concetto del Boatto, s. e., 1540, cc. 8v-9r); Amor fra boschi, et solitarie, selve [selve, fiera, rai, herbe, arte, nodi] (Pascale Rime 102); Veggio l’aria turbata, e fosco il cielo [cielo, monti, piaggie, verno, herba, sole] (Le rime spirituali di F. Antonio Pagani, Vinitiano, Bolognino Zaltieri, 1570, p. 135); Già scrissi in dolce, et amoroso stile [stile, morte, herba, maggio, verno, pianto] (in Prima parte delle Rime di Pomponio Montenaro, Verona, Girolamo discepolo, 1595, pp. 122-123).
PetraS’alcun pensa inalzar con chiaro nome [nome, terra, pietra, tutto, fine, vita] (di Aurelio Vergerio in Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti, Venezia, Giolito, 1547, I, c. 163v); Poi che a gran torto il mio vivace sole [sole, pietra, core, foco, pianto, cielo] (di Francesco Maria Molza in Libro terzo delle rime di diversi, Venezia, al segno del Pozzo, 1550, *3v-*4v); Sarebbe oggi un voler dar lume al Sole [sole, pietra] (di Muzio Manfredi in Il sesto libro delle rime di diversi, Venezia, al segno del Pozzo, 1553, cc. 173r-174r).
DonnaSalubre fnte, e tu, rinkiua valle [valle, colli, Arno, Donna, selve, rime] (Trissino Rime 26); Quando che lasso dolcemente l’aura [aura, herbe, tauro, terra, colle, donna] (Le Nuove rime con l’amoroso concetto del Boatto, s. e., 1540, cc. 8v-9r).
LuceTorci la vista da l’ardente luce [luce, voglia, pene, vita, speme, merto] (Le Rime del magnifico messer Alvise Prioli gentilhomo veneto, Venezia, [s.e.] 1533, c. 38v-39r); Percosso da rabbiosi, et fieri venti [venti, legno, porta, stella, luce, scogli] (Rime di m. Girolamo Parabosco, Venezia, Giolito, 1547, c. 41v); Poscia morte crudel, che ’l chiaro Sole [sole, luce, foco, lumi, sospiri, boschi] (Compositioni volgari e latine di messer Iacopo Tiepolo, Venezia, Bindoni, 1549, cc. Ciiiiv-Cvr); Già privo de la sacra, e altera luce [luce, sole, vita, nebbia, venti, verno] (di Giorgio Merlo in Libro terzo delle rime di diversi, 1550, c. 116r-v); Mentre, ch’io fui ne l’amorosa piaggia [piaggia, Sole, luce, pianto, aura, stile] (di Camillo Faita in Rime di diversi bresciani, Venezia, Pietrasanta, 1554, pp. 113-114); Menami, Amor, omai lassa!, il mio sole [sole, giorno, notte, alba, luce, nebbia] (Stampa Rime 95); Dopo tanti sospiri, et tanto pianto [pianto, notti, note, rime, boschi, luce] (di Dionigi Atanagi in De le rime di diversi, 1565, I, cc. 206v-207r); La sotto ’l polo, ove in eterna notte [notte, valle, mente, pianto, luce, stella] (di Cesare Gallo in De le rime di diversi, 1565, II, c. 188r-v).
FreddoI peregrini augei fuggendo il ghiaccio [ghiaccio, neve, freddo, sole, foco, caldo] (Groto Rime I.64).

L’impiego di uno solo di questi rimemi non è, ovviamente, indizio sufficiente per supporre una discendenza diretta con l’ipotesto, ma lo può essere la compresenza di almeno un paio di essi.73 Per esempio, la sestina Quando che, lasso, dolcemente l’aura [aura, herbe, tauro, terra, colle, donna] del padovano Antonio Boatto è costruita intorno addirittura a tre rimanti danteschi.74 Tuttavia, nonostante le parole rima, questa sestina ha ben poco di dantesco. Osserviamone solo la prima stanza:

Quando che, lasso, dolcemente
l’aura spira tra le fiorite e minute
herbe,
e che ’l tepido Sol risplende in tauro,
lasciando ogni virtù cader in terra,
a’ piedi d’un fiorito e ameno
colle
prigion restai e servo di mia
donna.

Ancora una volta, siamo di fronte ad un innegabile recupero di Dante, mediato da un solido lirismo petrarchesco che pare quasi irrinunciabile. L’impronta dantesca, conferita dall’impiego di un così eclatante prelievo rimico, non si traduce affatto in un dantismo poetico avvicinabile all’antecedente Al poco giorno, bensì risulta sfumata dall’intreccio con tessere decisamente petrarchesche, quali: «Là ver’ l’aurora, che sì dolce LAURA» (Rvf 239, 1), «L’aura celeste che ’n quel verde lauro / spira, ov’Amor ferì nel fianco Apollo» (Rvf 197, 1-2 – la cui prima quartina descrive proprio la perdita della propria libertà), «L’aura che ’l verde lauro et l’aureo crine / soavemente sospirando move» (Rvf 246, 1-2), «Fresco, ombroso, fiorito, et verde colle» (Rvf 243, 1), «A pie’ de’ colli ove la bella vesta» (Rvf 8, 1). L’esempio veneto, diversamente da coeve sestine di area toscana (si pensi al Segni e alla Matraini), suggerisce nuovamente la presenza di una memoria dantesca innegabile ma da circoscrivere, a fronte di una permanenza petrarchesca prevaricante, perfino in un metro di così evidente marca dantesca.

3. In merito ai riusi danteschi nella rimeria cinquecentesca, quanto tracciato fin qui muove nella direzione di una costante secondarietà del fiorentino rispetto ad un canone petrarchesco dominante, mai davvero messo in discussione, rispetto al quale le riprese liriche di Dante si intersecano in maniera non antitetica, in una spirale, più o meno vorticosa, di reminiscenze. Tuttavia, se abbiamo parlato finora di un Dante “petrarchizzato”, ovvero di un recupero dantesco armonicamente collocato all’interno di un’ortodossia petrarchesca, occorre chiedersi se questa scarsa incisività valga anche per gli esercizi lirici intenzionalmente pre-petrarcheschi. La poesia del sedicesimo secolo è, infatti, costellata di componimenti redatti con lo scopo di ricreare consapevolmente un’atmosfera arcaica, in voluto dialogo con la lirica duecentesca e intenzionalmente anti-petrarchesca. Non si tratta più di verificare se e quali aspetti della lirica dantesca sopravvivano nella rimeria di impianto petrarchesco-bembiano, bensì quali suggestioni vengano privilegiate nell’evocare una testura arcaizzante, vistosamente anteriore all’exemplum dei Fragmenta. È noto che nella lirica veneta di metà sedicesimo secolo, in concomitanza con un interesse teorico, affiori non di rado un diffuso arcaismo metrico, conferito per lo più dal combinarsi di recuperi rimici e lessicali. Di questi esercizi anticheggianti è perfetto interprete Domenico Venier, frequentemente incline a soluzioni arcaizzanti, ma nel cui corpus lirico la presenza dantesca è decisamente circoscritta.75 Questa assenza trova espressione eclatante nelle Rime secondo l’uso dei Siciliani antichi di Bernardino Baldi (1553-1617), tra i più bizzarri versificatori del tempo, urbinate d’origine ma attivo a Padova alla metà degli anni Settanta. Il ciclo di componimenti intende proporre un’imitazione metrico-stilistica della poesia italiana delle origini, genericamente denominata “siciliana”. A rappresentanza dell’esperimento, limitiamoci a considerare un’unica ballata, dal profilo per nulla arcaizzante (yxxY – abBAaBccAddEexxY), posta in apertura della raccolta e dal valore inevitabilmente paradigmatico:76

Far vollìo demostranza,
s’eo pur saccio cantare,
sì come solia fare
l’antica gente di grande intendanza.4
 
Donque non ve sdegnate,
Donna de lo meo core,
che sì mi ditta lo corale Amore:77
però che sete degna in veritate,
per la vostra biltate,
a cui non have eguale altro bellore,10
che risurgesser quelli,
ch’in dolci versi e belli
fer lo nome sonar di loro Amate:
pregovi Donna gente,
non haggiate a neente,
se con antico verso eo canto, e scrivo
lo vostro nome divo;
ch’ogni lingua lodare
dovria biltà sì rare;
e farìa senno, et haveriane horranza.20

Sebbene Baldi annoveri l’Alighieri fra gli autori assunti a modello alla base dell’esperimento lirico,78 di dantesco questo testo non ha quasi nulla. In controluce sono agilmente riconoscibili stilemi propri della poesia del Duecento, mentre sono assai poco convincenti le flebili tracce dantesche, del tipo:

Baldi, ball. Far vollìo demostranza, vv. 5-6:Dante, Rime 70, v. 5:
Donque non ve sdegnate,Deh, gentil donne, non siate sdegnose
Donna de lo meo core,
 
Baldi, ball. Far vollìo demostranza,Dante, VN son. Tanto gentile e tanto onesta
vv. 18-19:pare, vv. 3 e 5:
 
ch’ogni lingua lodarech’ogne lingua deven, tremando, muta
dovria biltà sì rare;[…] ella si va, sentendosi laudare,

Una così debole presenza del Dante rimatore in apertura di un ciclo dichiaratamente duecentesco deve far riflettere; tanto più che né Baldi né Venier si cimentarono con calchi lirici del fiorentino, preferendogli sempre modelli altri: il primo si confrontò con l’esplicita riscrittura delle canzoni Madonna, dir vi vollio di Giacomo da Lentini e Tutto ch’eo poco vallia di Guittone;79 allo stesso modo, Venier è autore di due sonetti rimalmezzati – Non po’ la forza e la vertute del core e Sì grave doglia il cor per voi sostene – metricamente costruiti ad imitazione di Dante da Maiano.80 Il dittico, preso successivamente a modello anche da Gabriele Fiamma e Luigi Groto,81 venne incluso da Dionigi Atanagi nelle Rime di diversi (1565) e il poligrafo ne illustrò minuziosamente l’operazione antiquaria nella Tavola posta in chiusura.82 Questa puntualizzazione non è irrilevante per il nostro discorso perché suggerisce che, nei confini degli slanci arcaizzanti del milieu lagunare, autori come Guittone d’Arezzo o Dante da Maiano godettero, in non poche circostanze, di una considerevole incidenza.83 Dunque, come si può giustificare una simile marginalità dantesca, pure nei confronti di uno sperimentalismo letterario interessato a ciò che ha preceduto la canonizzazione dei Fragmenta? Per rispondere, è naturale tenere in considerazione, innanzitutto, l’influenza di Pietro Bembo giacché, pur attribuendo a Dante il merito di aver raffinato i propri precursori lirici, ne giudicò la maggior parte delle composizioni «molto gravi, senza piacevolezza», preferendogli categoricamente i versi di Cino da Pistoia e, soprattutto, di Petrarca.84 Secondo i criteri di Bembo, Dante avrebbe infatti dovuto esprimere «con più vaghe e più onorate voci quello che dire si sarebbe potuto […] et [che] egli detto ha con rozze e disonorate».85 Una seconda direzione da percorrere riguarda non tanto cosa fosse possibile trovare nelle rime di Dante, ma cosa non era possibile rinvenirci. Infatti, se da un punto di vista concettuale la lirica dell’Alighieri elabora i temi dello stilnovismo guinizzelliano e (in parte) cavalcantiano, pare assodato che invece se ne discosti progressivamente da un punto di vista metrico-formale.86 Questo scarto stilistico era stato còlto già nel Cinquecento, come sembra ad esempio sostenere il veneziano Valerio Marcellino (1536-1602) nel suo Discorso intorno alla lingua volgare, datato al 1561:87

et dir solamente de’ nostri, molte parole usò Dante, che non usarono gli altri scrittori Toscani, che scrissero inanzi a lui; […] il che procede da questo, che oltre alle voci nuove, con le quali gli scrittori sogliono dipingere le scritture loro; fanno etiando sempre una purgata scielta de’ modi del dire, et delle voci, che hanno prese dall’uso comune de’ tempi loro. […] Non già però, che essi facessero fascio d’ogni herba, che trovarono ne gli scritti de’ passati, o che videro nell’uso del parlar de’ lor tempi; ma cogliendo dall’uso de’ presenti, et delle scritture de’ passati, i piu vaghi fiori di questo, et di quello, sono andati leggiadramente tessendo quella gentil ghirlanda, che è la corona della vera eloquenza.

Sebbene tra il Dante giovanile e i suoi successivi esercizi comico-petrosi corrano non poche differenze, è innegabile che il fiorentino si sia impegnato fin da subito a bandire i “duecentismi” più spinti, a partire dalla riduzione progressiva del lessico delle origini, denso di gallicismi.88 Nelle Rime dell’Alighieri, come nota Sergio Bozzola, si avverte il «rigetto dell’artificio esibito e dello scavo esasperato nella semantica e nella virtualità scompositive e associative della parola, a favore di un’unità e fusione tonale di un lessico più prevedibile e piano».89 Parimenti, come ha dimostrato Andrea Afribo, nelle scelte rimiche di Dante incominciano ad avvertirsi preferenze destinate a diventare predominanti nel canzoniere di Petrarca, tra queste: la progressiva rinuncia al rimante polisillabico a favore del bisillabo (con inevitabili ricadute prosodiche), la sempre maggiore soppressione delle rime suffissali e desinenziali o il rifiuto dei termini astratti.90 Simili meccanismi si estendono puntualmente anche agli schemi metrici, a proposito dei quali non è affatto irrilevante costatare che, per esempio, le quartine dei sonetti danteschi tendono ad abbandonare il modulo arcaico per eccellenza, quello alternato, così come vengono categoricamente respinte variazioni metriche dalla scarsa tradizione letteraria ma consuete nei Siciliani e nei Toscani delle origini.91

Dunque, proprio la scrematura formale avviata da Dante potrebbe averlo reso, agli occhi di un letterato del sedicesimo secolo, un poeta “non abbastanza duecentesco”, ovvero non rispondente alla fascinazione per le origini di metà Cinquecento, intesa quasi come una sorta di “primitivismo letterario” che ha portato a prediligere scelte poetiche più vistosamente “pre-petrarchesche”, più esplicitamente alternative a quell’ortodossia petrarchesca avviata dal Dante rimatore. La considerazione trova supporto osservando da vicino alcuni tra gli esercizi di gusto antichizzante di metà sedicesimo secolo, spesso contraddistinti dal recupero di un duecentismo formale quasi mai autorizzato dal paradigma dantesco. Alla mente sovvengono alcune proposte liriche di Groto, autore di una sestina e un sonetto di versi retrogradi, quindi leggibili da sinistra a destra e viceversa, redatti con l’intenzione di eseguire fedelmente un’indicazione metrica di Antonio da Tempo.92 Nello stesso scenario, andranno rammentati pure l’ottava in versi retrogradi di Bernardo Cappello93 e gli esperimenti metrici del padovano Girolamo Musici, anch’egli autore di un intero ciclo di stanze e di un sonetto interamente costruiti su versi retrogradi.94 Le Rime ingegnose di Musici sono altresì costellate da ulteriori virtuosismi artificiosi, come enigmi e bisticci, del tipo:95

Di mirto merto mi sia cinto il canto
    del capo cupo, ove si chiama chioma
    se al spirto sparto lodo in rama Roma,
    che scelta è sciolta in fede ha il vinto vanto.

Risultati meno estremi, ma similari nel gusto stilistico, si avvertono pure nei corpora di Giustinian, Magno, Groto e Venier.96 Tralasciando qui il possibile influsso della poesia quattrocentesca, su cui è d’obbligo l’ipoteca del dubbio, in controluce alla loro scrittura riecheggiano certamente alcune prove poetiche duecentesche, dense di divertissements retorici respinti categoricamente dall’Alighieri. Per ragioni di brevità, scorriamo rapidamente una serie di tipologie metriche, dettagliatamente descritte nella Summa di Antonio da Tempo, di largo riscontro nella lirica primo-duecentesca e puntualmente escluse dal repertorio dantesco: è il caso, ad esempio, dei sonetti continui,97 di ragguardevole fortuna nella stagione poetica di metà sedicesimo secolo; dei sonetti ribattuti, ampiamente diffusi nella lirica delle origini e capaci di destare l’entusiasmo di alcuni autori cinquecenteschi;98 dei sonetti incatenati, pure questi negletti a Dante, assai ricorrenti invece in Guittone99 e che,a quest’altezza del discorso, non sorprende ritrovare in alcuni esperimenti metrici già di primissimo Cinquecento.100 Dante evitò pure quei sonetti costruiti interamente sull’iterazione ossessiva di parole-chiave, per lo più disposte nel cuore del verso, discretamente diffusi nel primo Duecento e sporadicamente attestati tra i virtuosismi della rimeria cinquecentesca, come nel caso di un componimento di Girolamo Musici, di cui si trascrive solo la prima quartina:101

Se come in nome Angelica sei detta
    ti piace esser
Angelica in effetto,
    procura haver
Angelico intelletto
    che
angelica sarai et Benedetta.

Pur tenendo conto dei riscontri artificiosi già tardoquattrocenteschi e primocinquecenteschi, di fronte a tutti questi recuperi non può che affiorare alla mente una considerazione di Georg Weise, che intese la stagione manierista di metà Cinquecento, di cui il Veneto fu nucleo principale, come la «riapparizione di tendenze gotiche e medievalizzanti nell’ambito della civiltà rinascimentale e il loro amalgamento col nuovo repertorio formale e con i nuovi schemi compositivi di sapore classico instaurati dal pieno Rinascimento».102 In breve, dietro allo sperimentalismo geometrico che contraddistingue parte dello scenario veneto – dominato da una ricercata stilizzazione, continue acrobazie retoriche, elaborati giochi fonici ed equivoci – è corretto riconoscere, tra gli antecedenti privilegiati, proprio quelle strategie stilistiche teorizzate da Antonio da Tempo e largamente messe in pratica, ad esempio, da Guittone d’Arezzo, più volte condannato con durezza dall’Alighieri.103 La poesia guittonianaè, in effetti, perfetto paradigma di una scrittura animata da sovrabbondanti virtuosismi rimici, elaborate figure di aequivocatio e bisticci linguistici di natura etimologica: tutti elementi, puntualmente rigettati da Dante, ma consoni invece con il gusto artificioso di metà sedicesimo secolo.104

Insomma, la ricezione del Dante lirico nel pieno Cinquecento si dimostra un terreno molto complesso, i cui nodi sono in gran parte ancora da districare, soprattutto in relazione al delicato equilibrio tra vivace ricezione teorico-filologica ed effettiva pervasività scrittoria. Si ha l’impressione che alla base di questa tensione dialettica vi sia la percezione della lirica dantesca come un’esperienza poetica costantemente in bilico tra l’essere considerata (solo) quasi petrarchesca e, al contempo, non abbastanza duecentesca per rispondere davvero agli interessi del “primitivismo” lirico di epoca moderna. Oltre alla necessità di proseguire operazioni di scavo finalizzate a mettere in luce orme finora ignorate, non ci si dovrà, quindi, sottrarre dal portare avanti una riflessione, qui solo avviata, sulle ragioni di una presenza dantesca complessivamente circoscritta, modestamente incisiva al netto della sua popolarità.

____________

1 Lodovico Dolce, I quattro libri delle Osservationi, a cura di Paola Guidotti, Pescara, Libreria dell’Università editrice, 2004, libro I, p. 246.

2 Michele Barbi, Della fortuna di Dante nel secolo XVI, Pisa, Nistri, 1890.

3 Tra questi: Francesco Flamini, Dante nel Cinquecento e nell’età della decadenza, in Dante e l’Italia nel VI centenario della morte del Poeta (1921), Roma, Fondazione Marco Besso, 1921, pp. 319-345; Emilio Bigi, La tradizione esegetica della Commedia nel Cinquecento, in Id., Forme e significati nella ‘Divina Commedia’, Bologna, Cappelli, 1981, pp. 173-209 (ma già Atti del Convegno di studi su aspetti e problemi della critica dantesca, Roma, De Luca, 1967, pp. 18-48); Eugenio Garin, Dante nel Rinascimento, in «Rinascimento», 1/ 7 (1967), pp. 3-28; Aldo Vallone, L’interpretazione di Dante nel Cinquecento. Studi e ricerche, Firenze, Olschki, 1969; Pasquale Sabbatino et al. (a cura di), Dante e il Rinascimento. Rassegna bibliografica e studi in onore di Aldo Vallone, Firenze, Olschki, 1994. Da ultimo: Simon Gilson, Reading Dante in Renaissance Italy. Florence, Venice and the ‘Divine Poet’, Cambrige, Cambridge University Press, 2018.

4 Davide Dalmas, Dante nella crisi religiosa del Cinquecento italiano. Da Trifon Gabriele a Lodovico Castelvetro, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 2005.

5 Riassunta recentemente in Laurent Vallance, Dante nella polemica linguistica cinquecentesca, in Francesco Furlan (a cura di), Letture e lettori di Dante. Umanesimo e Rinascimento, Ravenna, Longo, 2015, pp. 93-174 e, qualche anno prima, in Elena Pistolesi, Con Dante attraverso il Cinquecento. Il ‘De vulgari eloquentia’ e la questione della lingua, in «Rinascimento», xl (2000), pp. 269-296.

6 Seppur scavalcando i confini rinascimentali, può essere utile Marco Arnaudo, Dante barocco. L’influenza della Divina Commedia su letteratura e cultura del Seicento italiano, Ravenna, Longo, 2013.

7 In questa prospettiva è ineludibile il lavoro di Paolo Trovato, Dante in Petrarca. Per un inventario dei dantismi nei Rerum Vulgarium Fragmenta, Firenze, Olschki, 1979, ma rimando anche a Franco Suitner, Petrarca e la tradizione stilnovistica, Firenze, Olschki, 1977.

8 Impossibile non menzionare Gianfranco Folena, Culture e lingue nel Veneto medievale, con una nuova presentazione di Paolo Trovato e Il Veneto di Granfranco Folena di Alfredo Stussi, rist. anast. dell’ed. 1990, Padova, Libreria-universitaria, 2015 (capp. La presenza di Dante nel Veneto, pp. 287-308 e Il primo imitatore veneto di Dante, pp. 309-336) e Vittore Branca e Giorgio Padoan (a cura di), Dante e la cultura veneta, in Atti del Convegno di studi (Venezia, Padova, Verona, 30 marzo – 5 aprile 1967). Comitato nazionale per le celebrazioni del VII Centenario della nascita di Dante, Vol. IX, Firenze, Olschki, 1967.

9 Basti pensare a Trifone Gabriele, Annotationi nel Dante fatte con messer Trifon Gabriele in Bassano, a cura di Lino Pertile, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1993.

10 Per quest’ultimo è utile Stefano Jossa, La “verità” della Commedia. I Discorsi sopra Dante di Sperone Speroni, in «Rivista di studi danteschi», i, n. ii Lug./ Dic. (2001), pp. 221-241.

11 Per quest’ultima rimane ancora valido Santorre Debenedetti, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di studi provenzali, edizione riveduta, con integrazioni inedite, a cura di Cesare Segre, Padova, Antenore, 1995. Per il fenomeno è molto utile: Claudio Vela, Poesia del Duecento nel primo Cinquecento, in Carlo Caruso e Emilio Russo (a cura di), La filologia in Italia nel Rinascimento, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 2018, pp. 83-100.

12 Entrambi i codici sono descritti in Massimo Danzi, La biblioteca del cardinal Pietro Bembo, Genève, Droz, 2005, p. 331.

13 Mi limito ad accennare all’importante ms. Magliabechiano VII 371 della Biblioteca Nazionale di Firenze, che ospita rime di poeti vicini agli Orti Oricellari (quali Rucellai, Alamanni e Trissino), ma anche autori presi a modello dallo scenario contemporaneo (Bembo e Sannazaro) e antico (Dante e Cino da Pistoia).

14 Trissino possedeva l’attuale ms. Trivulziano 1088, contenente il De Vulgari Eloquentia.

15 L’ipotesi è sostenuta da Monica Bianco, Petrarchismo e filologia nel secondo Cinquecento, in Guido Baldassarri e Patrizia Zambon (a cura di), Le forme della tradizione lirica, Padova, Il Poligrafo, 2012, pp. 61-86: 70.

16 Nel ms. Marc. It. IX, 589 (= 9765), autografo di Venier, a c. 34r-v è conservata una trascrizione di parole, emistichi e versi tratti dalle rime di Guittone d’Arezzo; per uno studio rimando a Monica Bianco, Quarantana guittoniana in un autografo di Domenico Venier, in «Medioevo Romanzo», xxxii, 1 (2008), pp. 18-47. Per la presenza di Guittone nella Giuntina cfr. Lino Leonardi, Guittone nella Giuntina del 1527, in La filologia in Italia nel Rinascimento, cit., pp. 61-80.

17 Per questa tesi, e le opportune argomentazioni, si veda M. Bianco, Petrarchismo e filologia, cit., pp. 66-68.

18 Non mi è stato possibile consultare direttamente il manoscritto per ragioni di conservazione. Ho però avuto accesso ad altri codici di rime antiche ascrivibili al XVI secolo quali: il ms. Marc. It. IX, 364 (= 7167), contenente poesie tra gli altri di Dante, Cavalcanti, Cino da Pistoia, Guido Novello; il ms. Marc. It. IX, 352 (= 6487), contente rime degli stessi ma acquisito dalla biblioteca Marciana solo nell’anno 1826. Per Mezzabarba poeta cfr. le pagine a lui dedicate nella sezione dei Poeti veneti a cura di M. Danzi, in Poeti del Cinquecento, a cura di Guglielmo Gorni, Massimo Danzi, Silvia Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, I, pp. 270-366: 299-295.

19 Per esempio, Giovan Giorgio Trissino, Rime 1529, a cura di Amedeo Quondam, Nota metrica a cura di Gabriella Milan, Vicenza, Neri Pozza, 1981, nn. 2, 25, 28, 64. È prova eloquente dello stile arcaizzante del vicentino il fatto che nella Giuntina fu incluso un sonetto di Trissino con impropria assegnazione guittoniana, Quanto più mi distrugge il meo pensiero (Giuntina, vol. II, c. 96v), restituito al legittimo autore dai moderni editori (oggi Trissino Rime 39). Per i legami di Trissino con la Giuntina e la lirica duecentesca cfr. Carla Mazzoleni, L’ultimo manoscritto delle “Rime” di Giovan Giorgio Trissino, in Simone Albonico et al. (a cura di), Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Milano, Mondadori, 1996, pp. 309-344: 339-344 e anche la sezione a lui dedicata da Danzi nei Poeti del Cinquecento, cit., pp. 271-288.

20 Non si dimentichino le Rime di M. Cino da Pistoia, Roma, Antonio Blado, 1559.

21 Per la ristampa anastatica dell’originale cinquecentesco cfr. Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, con introduzione e indici di Domenico De Robertis, 2 voll., Firenze, Le Lettere, 1977 (qui Giuntina). Oltre agli studi di De Robertis, si veda anche Nadia Cannata Salamone, L’Antologia e il canone. La Giuntina delle Rime Antiche (Firenze, 1527), in «Critica del testo», ii, 1 (1999), pp. 221-247 e Pasquale Stoppelli, La Giuntina di Rime antiche, in Enrico Malato e Andrea Mazzucchi (a cura di), Antologie d’autore. La tradizione dei florilegi nella letteratura italiana. Atti del convegno internazionale (Roma, 27-29 ottobre 2014), Roma, Salerno Editrice, 2016, pp. 157-171.

22 «Dante domina del resto largamente nella Giuntina con 4 libri a lui interamente dedicati (più che quadruplicato, nonostante i precedenti, il numero di rime sue pubblicate, e ad ogni modo quasi triplicato a stare a quelle già a stampa sotto il suo nome), e con gli amici Cino e Guido e con le sole esplicite attribuzioni occupa più che metà dello spazio» (cit. da De Robertis, Introduzione in Giuntina, vol. I, p. 24).

23 Giuntina, vol. II, c. AA2r. L’intenzione di promuovere l’autorità lirica di Dante accanto a quella di Petrarca rappresenta uno dei tratti di maggiore interesse dell’ambiente degli Orti Oricellari, e di cui si rinvengono riflessi nella poesia di molti autori toscani quali Cosimo Rucellai e Luigi Alamanni. È altresì noto che Bardo Segni è autore di poesie connotate da un pronunciato recupero di dantismi e dettami stilnovistici.

24 Ma con titolo diverso – Rime di diversi antichi autori toscani – e differente ordinamento interno dei testi.

25 Delle Canzoni di Dante, Madrigali del detto esiste anche una ristampa milanese, data ai torchi nel settembre del 1518 presso Augustino da Vimercato. Per le inclinazioni arcaizzanti dello scenario e l’appendice aldina cfr. D. De Robertis, L’Appendix Aldina e le più antiche stampe di rime dello stil novo in Id., Editi e rari. Studi sulla tradizione letteraria tra Tre e Cinquecento, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 27-49 e Brian Richardson, The Two Versions of the ‘Appendix Aldina’ of 1514, in «The Library», voll. 6-13, Issue 2 (June 1991), pp. 115-125.

26 Per un inquadramento sul filone veneto delle rime stilnoviste cfr. D. De Robertis, Il Canzoniere Escorialense e la tradizione “veneziana” delle rime dello Stil Novo, suppl. 27 al «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 1954. Tra gli esemplari personalmente consultati presso la Biblioteca Marciana di Venezia, mi preme ricordare almeno il ms. Marc. It. IX, 333 (= 6081), di 42 cc., contenente quarantadue liriche dantesche. Il codice, particolarmente elegante nella sua confezione, è appartenuto alla famiglia Grimani, come suggerisce lo stemma a c. 1v. L’interesse dell’esemplare è dato dall’altezza cronologica del manoscritto in quanto il copista, il cui nome risulta intenzionalmente cancellato, nella sottoscrizione in explicit dichiara di aver terminato la trascrizione nel 1512.

27 Franco Tomasi, Dante e i poeti “moderni” nel primo Cinquecento. Primi appunti in Laura Banella e Franco Tomasi (a cura di), Oltre la Commedia. ‘L’altro Dante’ e il canone antico della lirica (1450-1600 ca.), Roma, Carocci, pp. 41-57.

28 Supra, p. 43.

29 P. Bembo, Le Rime, a cura di Andrea Donnini, 2 voll., Roma, Salerno editrice, 2008, I, n. 80. Il nome delle amate, e quindi dei poeti, si cela dietro ai vistosi senhal.

30 P. Bembo, Stanze, a cura di Alessandro Gnocchi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003, n. XXIII.

31 Le Rime di Messer Bartolomeo Arnigio, Brescia, Gio. Battista Bozzola, 1566, c. Iv. Per tutti i testi privi di un’edizione critica, mi limito qui a modernizzare la punteggiatura e la grafia secondo criteri correnti.

32 Simili corrispondenze si ripropongono anche in passi epistolari di argomento letterario; fra i molti esempi possibili: «che colpa ci ho io un’altra volta se vorrei esser il Petrarca, solamente perché voi foste la mia Laura? Esser Dante, perché voi foste la mia Beatrice? […] Ovidio, perché foste la mia Corinna? Horatio, perché foste la mia Laloge? Tibullo, perché foste la mia Cintia? Gallo perché foste la mia Licori? Et il Gradenigo, perché foste la mia Hirene?» (Lettere famigliari di Luigi Groto, Venezia, Giovacchino Brugnolo, 1601, cc. 14v-15v: 14v). La lettera è dell’11 giugno 1563.

33 Le Rime di m. Luca Contile divise in tre parti, Venezia, Sansovino, 1560, I, c. Biir. Il testo in esame risente senz’altro di Rvf 186 (Se Virgilio et Homero avessin visto), costruito intorno al medesimo topos e dal quale Contile eredita, oltre a molte tessere formali, l’attacco ipotetico. L’encomio letterario di Pusterla prosegue nelle terzine, dove il dedicatario è detto addirittura «novo Virgilio, anzi novello Orfeo» (v. 10).

34 Delle Rime di m. Diomede Borghesi gentil’huomo senese, Padova, Pasquato, 1566, VI, vv. 1-4, c. Aiiiiv. Di qualche interesse è l’andamento alternato delle quartine, dal sapore lontanamente arcaizzante.

35 Delle Rime di m. Diomede Borghesi, cit., III, c. 4v, son. Quando talora al suon di dolce lira, vv. 9-11.

36 Le Trasformationi di m. Lodovico Dolce tratte da Ovidio, Venezia, Francesco Sansovino, 1568, c. 20v.

37 Rime morali di M. Pietro Massolo, Venezia, Gio. Antonio Rampazetto, 1583, II, c. 135r. La coppia viene nuovamente evocata, questa volta in chiasmo, al v. 12 «qual s’innalzaro già il Petrarca et Dante». Del sonetto merita di essere appuntato anche lo schema metrico, ABAB.ABAB.CDD.EEC, assai poco petrarchesco.

38 Giusto qualche esempio esterno all’àmbito veneto: «Se cantò Beatrice il Tosco, pria / che Laura sua cantasse il successore, / e s’a lei fece col suo canto onore, / ma forse più che non le convenia, // debb’io però tacer di questa mia / donna più bella assai, s’io credo al core / che grida: “Canta pur: maggior valore /dal tuo subietto alto destin t’invia.”» (Pietro Barignano in De le Rime di diversi nobili, Venezia, Lodovico Avanzo, 1565, vol. I, c. 155v); oppure la rassegna amorosa proposta da un’ottava del lombardo Anton Francesco Rainiero: «I’ son Apollo et questo quivi è Dante, / che cantò Beatrice; ecco il Petrarca, / ch’arse di Laura; ecco il Boccaccio amante; / ecco il Bembo, c’honor l’anima carca; / il Sannazaro è quel, tutto elegante; / questo, a cui non poteo l’invida Parca / troncar’ il fil de’ suoi vivaci honori, / e quel, che cantò voi, l’arme et gli amori» (Rime di Anton Francesco Rainerio gentilhuomo milanese, Venezia, Giolito, 1554, p. 109). Ma non mancano molte altre occorrenze: Bernardino Rota, Rime, a cura di Luca Milite, Parma, Fondazione Pietro Bembo – Ugo Guanda Editore, 2000, son. CXCVI, vv. 1 e 3 «S’havessin visto voi Dante e Petrarca […] / a par di Bice e Laura havrebbon pianto»; Luca Valenziano, Rime in Id., Opere volgari, a cura di Maria Pia Mussini Sacchi, introduzione di Ugo Rozzo, Tortona, Centro studi Matteo Bandello e la cultura rinascimentale, 1984, son. 193, v. 4 «Di cantar tal valor Petrarcha o Dante»; Matteo Bandello, Rime, a cura di M. Danzi, Modena, Franco Cosimo Panini, 1989, son. 17, v. 13 «e Laura e Bice il mondo già vedria»; Benedetto Varchi, Rime, Roma, Biblioteca Italiana, 2003, son. CCV, v. 11 «Benché tornasse ancor Lauretta e Bice».

39 Secondo Tomitano, per esempio, Dante è più teologo e filosofo che poeta (Ragionamenti della lingua toscana di M. Bernardin Tomitano, Venezia, al Segno del Griffo, 1546, II, p. 286); così come, secondo Girolamo Muzio, Dante «è grande scrittore, ma più grande che leggiadro» (Battaglie di Hieronimo Mutio Giustinopolitano per la difesa dell’italica lingua, Venezia, Pietro Dusinelli, 1582, cap. XVIII, c. 80v). In merito al poema, è bene ricordare la frequente associazione tra Dante e Omero, su cui si è espresso Davide Colombo, Dante alter Homerus nel Rinascimento, in «Rivista di letteratura italiana», xxv, 3 (2007), pp. 21-50.

40 «Ancora è vitio, lo scrivere di colte alte con parole basse et humili: del qual vitio fu dal Bembo degnamente ripreso Dante, come di troppo licentioso» (Lodovico Dolce, Osservationi, cit., libro I, Delle figure, p. 380). Sempre Dolce, in merito alla contrapposizione tra la Commedia di Dante e la lirica petrarchesca sostiene che «in Dante c’è sugo e dottrina e nel Petrarca solo leggiadrezza di stilo et ornamenti poetici. Onde mi ricorda che un frate minoritano, che predicò molti anni sono a Vinegia, allegando alle volte questi due poeti, soleva chiamar Dante Messer Settembre e il Petrarca Messer Maggio, alludendo alle stagioni, l’una piena di frutti e l’altra di fiori. Ma recatevi inanzi un nudo di Michelagnolo et un altro di Rafaello: et avendogli prima ambedue pienamente considerati, risolvetevi poi in dire qual dei due è più perfetto» (Dialogo della pittura di Lodovico Dolce intitolato l’Aretino, Venezia, Giolito, 1557, c. 48r-v).

41 Per esempio, è di qualche interesse segnalare i poeti fatti oggetto di riscritture dialettali entro i quattro libri di Rime pavane raccolte da Maganza tra il 1558 e il 1583, capaci indirettamente di profilare un canone di riferimento: oltre a Francesco Petrarca, oggetto di quattordici rifacimenti, si annoverano autori contemporanei (Domenico Venier, Giulio Camillo, Marco Tiene, Giovanni Muzzarelli e Lodovico Ariosto) e, unico classico dell’intero repertorio, Anacreonte.

42 Massimo Castoldi, Per il testo critico delle rime di Girolamo Verità, Verona, Biblioteca civica, 2000, p. 60.

43 Niccolò Franco, Il Petrarchista, a cura di Roberto L. Bruni, Exeter, Exeter University Printing, 1979, p. 25. In realtà Petrarca, nel discorso del Franco, è presentato come superamento di tutta la lirica duecentesca, rievocata in un enfatico elenco funzionale a rimarcare la sua eccezionalità: «come a l’apparire che fece il nostro Petrarca, dimostrandosi a guisa d’un nuovo, e più chiaro sole, fu quasi mezzo spento il nome non solamente di quegli, che vissero ai suoi tempi, come fu messer Cino, Dino Frescobaldi, e Iacobo Alaghieri figliuol di Dante, ma di tutti inanti a quegli anni. Né s’udì nominare quel messer Piero delle Vigne, quel Bonagiunta da Lucca, quel Guitton d’Arezzo, quel messer Rinaldo d’Aquino, quel Lapo Gianni, con tutte quelle brigate, come fu Francesco Immera, Forese Donati, Gianni Alfani, ser Brunetto, Notaio Iacomo da Lentino, Mazzeo, e Guido Giudice messinesi, il re Enzo, lo ‘mpregnador Federico, messer Onesto e messer Semprebene da Bologna, Lupo degli Uberti, Guido Guinicelli, Guido Orlandi, Guido Cavalcanti, Guido Ghisilieri, Fabrizio Bolognese, Gallo Pisano, Gotto Mantoano e Nino Sanese» (N. Franco, ibidem). Dello stesso, vale la pena segnalare anche la bizzarra lettera a Dante, edita e commentata in Aldo Vallone, La «lettera a Dante» di Niccolò Franco in Id., Percorsi danteschi, Firenze, Le Lettere, 1991, pp. 95-108 e in Paolo Procaccioli, Scrivere a Dante nel Cinquecento: la lettera di Niccolò Franco, in A. Mazzucchi (a cura di), “Per beneficio e concordia di studio”. Studi danteschi offerti a Enrico Malato per i suoi ottant’anni, Cittadella, Bertoncello artigrafiche, 2015, pp. 783-796.

44 Commenti cinquecenteschi alla Commedia non mancano, pertanto è plausibile che con il termine ‘rime’ Franco si riferisca alla scrittura lirica di Dante.

45 Fra queste dissertazioni richiedono almeno una segnalazione le Prose di Pietro Bembo, la Poetica di Giovan Giorgio Trissino, la Poetica di Bernardino Daniello, l’Arte poetica di Antonio Minturno e le Istitituzioni di Mario Equicola, quest’ultime capaci di attestare una spiccata familiarità con le Rime dantesche e con il De vulgari Eloquentia, complici anche gli evidenti interessi duecenteschi dei loro autori.

46 Per quest’ultima considerazione cfr. Giuseppe Marrani, Con Dante dopo Dante. Studi sulla prima fortuna del Dante lirico, Firenze, Le Lettere, 2004, dove lo studioso approfondisce le acquisizioni dantesche da parte dei massimi interpreti lirici trecenteschi (escluso Petrarca) e primo quattrocenteschi, con il risultato di dimostrarne la finora trascurata pervasività.

47 Martina Dal Cengio, Le rime di Dante e il Cinquecento lirico. Primi sondaggi intorno alle strategie di riuso testuale, in Oltre la Commedia, cit., pp. 99-122.

48 Molin Rime 53, vv. 3-4 (per il testo si è fatto riferimento a M. Dal Cengio, Le Rime di Girolamo Molin [1500-1569] e la poesia veneziana del Cinquecento. Edizione critica e commento, Tesi di perfezionamento, Scuola Normale Superiore di Pisa, a.a. 2019/2020); per quanto forse irrilevante, l’andamento prosodico del verso moliniano, marcatamente a maiore con ictus su va, ricorda il profilo accentuale di «ella si va, sentendosi laudare» del son. Tanto gentile e tanto onesta pare, 5 della Vita nova (d’ora in poi VN), che si cita dall’edizione procurata da Stefano Carrai, Milano, Bur 2016 [20091]. Per i Rerum vulgarium fragmenta, qui abbreviati in Rvf, si veda Petrarca, Canzoniere, a cura di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 2004. Oltre alle edizioni già citate, si è sempre fatto riferimento: Petrarca, Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di Vinicio Pacca, Laura Paolino, Marco Santagata, Milano, Mondadori, 1996; D. Alighieri, Rime, a cura di Donato Pirovano e Marco Grimaldi, Introduzione di E. Malato, 2 voll., Salerno Editrice, Roma, 2019.

49 Molin Rime 6, vv. 12-14; in filigrana, andranno considerati, in rapida rassegna: Cino da Pistoia, Le rime, a cura di Guido Zaccagnini, Olschki, Genève, 1925, son. 9, 3 «poiché non c’è, non ci corron le genti»; VN 17 «Questa gentilissima donna di cui ragionato è nelle precedenti parole venne in tanta grazia delle genti che quando passava per via le persone correano per vedere lei»; Rvf 309, 1 «L’alto et novo miracol ch’a’ dì nostri».

50 Delle Rime di m. Diomede Borghesi, cit., III, c. 5r. Il sonetto è in morte di Taddea Costabile Rangona, della quale le notizie sono pressoché nulle.

51 Rime et prose volgari di m. Giovanni Brevio, Roma, Antonio Blado Asulano, 1545, c. Diir. Per un profilo bio-bibliografico dell’autore rimando a Le novelle di Giovanni Brevio, a cura di Sabrina Trovò, presentazione di Daria Perocco, Padova, Il Poligrafo, 2003, pp. 15-41.

52 Come è stato dimostrato da Gennaro Ferrante, Dante nelle postille ineditedi Giovanni Brevio sul Petrarcha Aldino (1514) e sugli scritti di Trissino (1529). Studio e edizione, in «Rivista di Studi danteschi», 12/I (2012), pp. 164-205.

53 Rispettivamente: Giovanni Muzzarelli, Amorosa opra, a cura di Emanuela Scarpa, Verona, Libreria universitaria editrice, 1982; Ludovico Pascale da Catharo Dalmatino, Rime volgari non più date in luce (Venezia, 1549), a cura di Laura Borsetto, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2016; Rime di m. Lodovico Paterno, distinte in quattro parti, Venezia, Gio. Andrea Valvassori, 1560, p. 223. Tuttavia, è doveroso precisare che le Rime di Pascale e Paterno sono posteriori al volume di Brevio.

54 Le Rime del magnifico messer Alvise Prioli gentilhomo veneto, Venezia, [s. e.], 1533, c. Cvv. Per un utile inquadramento sul poeta, da non confondere con il più giovane omonimo, cfr. Poeti del Cinquecento, cit., pp. 306-311 (sezione Poeti veneti a cura di M. Danzi).

55 E. di Valvasone, Rime, a cura di Guido Cerboni Baiardi e Antonio Del Zotto, Valvasone, Circolo culturale Erasmo di Valvasone, 1993. Sullo sfondo non si potrà evitare di suggerire la memoria di Giovanni Della Casa, Rime, a cura di S. Carrai, Milano, Mimesis, 2014, 41, 12 «tal provo io lei, che più s’impetra ogniora» e Gaspara Stampa, Rime, introduzione di Maria Bellonci, note a cura di Rodolfo Ceriello, Milano, Rizzoli, 1976, XLIII, 1 «Dura è la stella mia, maggior durezza».

56 Veronica Franco, Rime, a cura di Stefano Bianchi, Milano, Mursia, 1995.

57 Della Casa Rime 34, 1-3 «Son queste, Amor, le vaghe trecce bionde, / tra fresche rose e puro latte sparte, / ch’i’ prender bramo, e far vendetta in parte».

58 Non si trascuri, però, l’imprescindibile mediazione del Petrarca petroso; in questa direzione, è molto utile è lo studio di Claudia Berra, Appunti per una cronologia del Petrarca “petroso”, in Claudia Berra e Paola Vecchi Galli (a cura di), Estravaganti, disperse, apocrifi petrarcheschi, Milano, Cisalpino, 2007, pp. 99-116.

59 Cfr. Bandello Rime, cit., p. 104 canz. Anima afflitta, che così sovente (89). Oltre a questa segnalazione si veda Armando Balduino, Periferie del petrarchismo, a cura di Beatrice Bartolomeo e Attilio Motta, introduzione Manlio Pastore Stocchi, Padova-Roma, Antenore, 2008, p. 79 n. 109.

60 Repertorio metrico della canzone italiana dalle origini al Cinquecento (REMCI), a cura di Guglielmo Gorni e Massimo Malinverni, Firenze, Cesati, 2008 (per gli schemi analizzati a testo cfr. i nn. 13.079 e 13.114).

61 Dante Rime 79 e Bernardo Cappello, Rime, a cura di Irene Tani, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2018, n. 216 (REMCI 13.090). Non andrà però dimenticato Rvf 53 (ABC.BAC.CDEEDdFF), di schema molto simile.

62 I. Tani, Introduzione, in Cappello Rime, cit., p. 48.

63 Bernardo Tasso, Rime, 2 voll., a cura di Domenico Chiodo, San Mauro Torinese, Res, 1995, vol. I, I 62.

64 Sempre in posizione di attacco, il costrutto ‘Donna gentil’ si attesta anche in alcuni sonetti di Giovan Giorgio Trissino, Lodovico Domenichi, Chiara Matraini, Vincenzo Martelli, Francesco Maria Molza e altri. Lo stesso Tasso lo ripropone in altre tre circostanze: sonetto Donna gentil, che con sì bel desio (I 23), canzone Donna gentil, tanto è il favor che piove (IV 13) e sonetto Donna gentil, quale semplice colomba (IV 90).

65 Infatti «il panorama delle testure dei tre libri degli Amori è illuminato da due luci di intensità non così dissimile: 9 riprese puntuali dal Canzoniere e 7 calchi metrici danteschi, con assunzione di un modello quasi totalmente negletto dai lirici cinquecenteschi» (cit. da Gaia Guidolin, La canzone nel primo Cinquecento. Metrica, sintassi e formule tematiche nella rifondazione del modello petrarchesco, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2015, p. 76).

66 Rispettivamente B. Tasso Rime II 12; II 27; II 39; II 49; II 90; III 11; III 32; III 57; IV 61. Si dica però che, rispetto all’antecedente dantesco, Tasso aumenta sempre il numero delle strofe e rinuncia del tutto al plurilinguismo originale. Per una possibile reminiscenza con Aï faus ris, pour quoi traï aves, suggerisco di ricordare anche Sorgi delle onde fuor, pallido e mesto (ABC. BAC.cDEEdFF) del veneziano Celio Magno, dal profilo metrico quasi identico.

67 Sul metro esiste una folta bibliografia, per la quale ci si limita a segnalare: Andrea Comboni, La fortuna delle sestine, in «Quaderni petrarcheschi», I (2004), pp. 73-88; Jacopo Galavotti, Esperimenti sulla sestina nel secondo Cinquecento, in «Stilistica e metrica italiana», XVIII (2018), pp. 105-134; M. Dal Cengio, Ancora sulle sestine liriche in Martina Dal Cengio e Nicolò Magnani (a cura di), I versi e le regole. Esperienze metriche nel Rinascimento italiano. Atti della Giornata di Studi (Pisa, 4 giugno 2018), Ravenna, Longo Editore, 2020, pp. 67-105.

68 Le Rime di Messer Bartolomeo Arnigio, cit., c. Iiiir.

69 Per Sannazaro si è fatto riferimento a Jacopo Sannazaro, Opere volgari, a cura di Alfredo Mauro, Bari, Laterza, 1961, che include l’edizione dei Sonetti e canzoni (pp. 133-220).

70 Rime di m. Girolamo Fenaruolo, Venezia, Giorgio Angelieri, 1574, cc. 9r-10r.

71 Del testo, va segnalata pure la scelta non petrarchesca di doglia, in debito con Trissino Rime 33.

72 Non mancano riscontri anche oltre i confini geografici della Serenissima;ne riporto solo alcuni casi: Da indi in qua, che dal vital mio Cibo [cibo, morte, fame, ombra, core, passi] (di Pietro Barignano in De le rime di diversi, Venezia, Lodovico Avanzo, 1565, II, cc. 209r-209v); Tirsi, per Egle sua le piagge e i campi [campi, foschi, pioggia, colli, poggi, nome] e Chi vuol veder l’eterna mia gran luce [luce, tempo, pietra] (Le Nuove fiamme di m. Lodovico Paterno, Venezia, Gio. Andrea Valvassori, 1561, cc. 41r-42r e cc. 63v-64r); Quando si spoglia e si riveste d’erba [erba, bosco, sole, celo, fronde, fiume] (di Gio. Battista da Matelica in Rime di diversi, Cremona, Vincenzo Conti, 1560, pp. 281-282); Di quanto scalda il sol, e copre il cielo [cielo, terra, donna, valli, campi, fiumi] e È questo il lieto e avventuroso giorno [giorno, stelle, alba, notte, fine, pietra] (Bandello Rime 99 e 179). Ancora più rilevanti sono le tre famose sestine di Bernardo Segni, costruite tutte sui rimanti colli, ombra, donna, erba, verde, pietra ovvero: Infra l’onde del Tebro e i sette colli; Verdi piagge fiorite, erbosi colli; Verso i più alti e i più deserti colli (per i testi critici rimando a B. Segni, Rime, a cura di Raffaella Castagnola, Firenze, Accademia della Crusca, 1991, num. 6-8, pp. 65-71). Sempre in ambito toscano, anche Chiara Matraini compose la sestina Freschi, ombrosi, fioriti colli, e verdi colli [colli, ombra, giorno, herba, verde, mirto], articolata intorno a quattro parole rima dantesche. Per il testo rimando a C. Matraini, Rime e lettere, a cura di Giovanna Rabitti, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1989, num. 44, pp. 41-42.

73 Non si dimentichi nemmeno: Non sì tosto dal Ciel sparisce l’ombra [ombra, luce, piaggia, selva, gioia, pietra] del milanese Anton Francesco Rainiero (Rime di Anton Francesco Rainerio, cit., pp. 71-72). Nel complesso, il poeta è autore di altre due sestine – Già disfatto ha le nevi intorno il Sole [Sole, ghiaccio, Aure, onde, alma, note] e I’ non vidi più mai candido il giorno [giorno, stelle, luci, notte, occhi, onde] – edite alle pp. 68-71. Vistosamente dantesca è, infine, la sestina doppia a due soli rimanti Chi non sa ben, com’una fiera Donna [: pietra] di Claudio Tolomei, destinata ad una certa fortuna editoriale nelle miscellanee veneziane di metà secolo a partire dall’edizione giolitina Rime di diversi del 1547.

74 Le Nuove rime con l’amoroso concetto del Boatto, [Padova?], s. e., 1540, cc. 8v-9r.

75 Per il duecentismo di Venier e dintorni cfr. Edoardo Taddeo, Il manierismo letterario e i lirici veneziani del tardo Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1974, pp. 42 e 55; e M. Bianco, Quarantana guittoniana in un autografo di Domenico Venier, cit. Per il sonetto: Venier, Rime 181 (per il testo critico ci si è affidati a M. Bianco, Le ‘Rime’ di Domenico Venier (edizione critica), Tesi di dottorato in Filologia ed ermeneutica, Università degli Studi di Padova, 2000). Per un’analisi dei tratti arcaizzanti, e l’individuazione di sporadiche tessere dantesche, del sonetto veniero Movi interno desio nato nel core cfr. Agostino Casu, Sonetti «fratelli». Caro, Venier, Tasso, in «Italique», iii (2000), pp. 45-87: 56-57.

76 In Il lauro. Scherzo giovanile del sig. Bernardino Baldi, Pavia, Bartoli, 1600, p. 133; il testo è preceduto dalla seguente didascalia: «Che in ogni lingua dovrebbono scriversi le | lodi de la sua Donna. Ballata».

77 Non si può escludere una reminiscenza del celebre «E io a lui: «I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» (Inf. XXIV, 52-54). Impossibile non citare però Guittone d’Arezzo, Canzoniere: i sonetti d’amore del Codice Laurenziano, a cura di Lino Leonardi, Torino, Einaudi, 1994, son. 56, 12 «e metterò lo meo corale amore (: core)».

78 Come si evince dalla dedicatoria: «Intorno a quel tempo, nel quale si compiacque l’E. V. di farmi degno de la gratia su, mi trovavo haver poste insieme alcune compositioni amorose, cioè non picciola quantità di Madrigali, Sonetti, e Canzoni, et in particolare alcuni capricci, scritti da me in quella lingua, ne la quale si essercitarono Guittone d’Arezzo, Cino da Pistoia, Dante Alighieri, Dante da Maiano, e quelli altri nostri Poeti de la Scuola antica» (Il lauro, cit., p. 3) e dal sonetto Dolcemente uno giorno m’addormia, vv. 9-11 «Dissemi l’uno: «Amica gente vedi, / Cino, e Guittone, et Enzo, e Federico, / due Guidi, Honesto, e l’uno e l’altro Dante» (Il lauro, cit., p. 146). L’apprezzamento di Baldi per il poeta fiorentino affiora anche nei tre epitaffi encomiastici a lui dedicati: «Dante, perch’il tuo grave il marmo copra, / vive e vivrà col suo tua nobil opra»; «Dante sono Alighier, se cerchi il resto, / o non odi, o non vedi, o non sei desto»; «Io che per lunghi giri al ciel poggiai, / per più breve sentier lassù tornai» (da ms. XIII, D, 38, c. 54v della Biblioteca Nazionale di Napoli).

79 Rispettivamente: Se d’ascoltar degnate e Lo tacer mi tormenta (Il lauro, cit., pp. 159-162 e 163-166), quest’ultima nella Giuntina impropriamente assegnata a Dante da Maiano. Per l’edizione di Dante da Maiano cfr. Dante da Maiano, Le Rime, a cura di Rosanna Bettarini, Firenze, Le Monnier, 1969.

80 Venier Rime 179-180.

81 Mi riferisco a Rime spirituali del r. d. Gabriel Fiamma, Venezia, Francesco de’ Franceschi senese, 1570, pp. 298-299 (sonetto Al vivo sole, a quei celesti ardori) e Luigi Groto, Le rime, 2 voll., a cura di Barbara Spaggiari, Adria, Apogeo, 2014, I.95 (sonetto A un tempo temo, ardisco, ardo, agghiaccio) e I.115 (sonetto Su ragion, prendi l’arme, armati in fretta).

82 «La sola pubblicazione da parte di Dionigi Atanagi dei sonetti veniereschi ad imitazione di Dante da Maiano e lo spazio dato dal commentatore alla scelta peregrina, al misurarsi del veneziano con il poeta antico, era di fatto proporre (e in una raccolta che si voleva “antologia e storia” della poesia cinquecentesca) un ritratto del Venier ben preciso e che certo – dato lo stretto legame d’amicizia che legava poeta e commentatore – non doveva essere estraneo all’avallo dell’autore stesso» (cit. da M. Bianco, Petrarchismo e filologia nel secondo Cinquecento, cit., p. 86). I sonetti del Venier furono pubblicati nelle Rime di diversi 1565, vol. I, cc. 46v-47r. Per le indicazioni metriche di Dionigi Atanagi poste nella Tavola dei componimenti: «Non po’ la forza e la vertù del core. Questo è un sonetto doppio, fatto ad imitatione di tre sonetti simili di Dante da Maiano: ma con questa differentia, et maggiore obligatione, che dove ogni verso ordinario precedente, fuor che il primo, il terzo, et i quinti, dove o il detto verso di cinque sillabe non è, o non rima; questo l’ha in tutti: et accorda la rima di quello, che è nel terzo verso, con quella del verso ordinario precedente, come gli altri: et la rima di quello, che è nel i verso del primo quaternario, con la rima di quello, che è nel quinto, cioè nel primo verso del secondo quaternario: et il medesimo fa, ma con diversa rima, di quello, che è nel primo verso del primo ternario, con quello, che è nel primo verso del secondo ternario. Cosa veramente non meno difficile, et faticosa, che maestrevole, et artificiosa. In che riuscendo il Signor Veniero sì felicemente, |come si vede; mi pare, che sia vero cio, che un bello spirito in simile proposito disse di lui: cioè, che egli ne componimenti ordinari vince gli altri, ne gli straordinari vince se stesso. I soprallegati sonetti di Dante da Maiano, sono stampati nel libro de gli antichi poeti Toscani. L’uno de quali comincia Lasso per ben servire etc., l’altro Cera amorosa, etc. sono a carte 74b, il terzo comincia Lo meo gravoso etc. è a car. 77a. Avvertendo in questo ultimo, che il verso inchiuso ne l’ottavo, che dovea esser di cinque sillabe, come gli altri, non è se non di tre, et per cio forse meno perfetto. Sì grave doglia il cor per voi sostene. Questo sonetto è composto con la medesima obligatione, che il precedente, se non che quello ha i quaternari tessuti ad uso di strambotti, et questo accorda il quinto verso col quarto, come per lo più fanno i sonetti» (Rime di diversi 1565, vol. I, cc. Hh4v-5r).

83 Un simile interrogativo, riferito alla Commedia in epoca barocca, se lo pose Michael Caesar, Why Was Dante not Popular in the Seventeenth Century? in Id., Dante: The Critical Heritage, London, Routledge, 1989, pp. 35-39.

84 Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, cit., II. 9.

85 Supra, II. 5.

86 Un ottimo punto di partenza per la questione è Marco Praloran e Arnaldo Soldani, La metrica di Dante tra le Rime e la Commedia in Claudia Berra e Paolo Borsa (a cura di), Le Rime di Dante, Atti della Giornata di Studi (Gargnano del Garda, 25-27 settembre 2008), Milano, Cisalpino, 2010, pp. 411-447.

87 Valerio Marcellino, Lettera, over Discorso intorno alla lingua volgare in Il Diamerone di M. Valerio Marcellino, Venezia, Giolito, 1565, cc. Aviiiv-Cviiiv, Ciiiiv-Cvr. Nella missiva, diretta a Piero Zane, Marcellino prende posizione sulla questione linguistica, con considerazioni avvicinabili alla Lettera in difesa del volgare (Venezia, F. Marcolini, 1540) di Alessandro Citolini e al trattato In lode della lingua volgare et in biasimo della latina di Vincenzo Marostica, redatto negli anni Sessanta e rimasto inedito (ms. D 465 Inf. della Biblioteca Ambrosiana di Milano) fino al saggio di Giovanni Presa, A. Citolini, V. Marcellino e V. Marostica nella vicenda d’una lettera in difesa del volgare (sec. XVI) in Studi in onore di Alberto Chiari, Brescia, Paideia, 1973, II, pp. 1001-1024. Per Marcellino, protagonista del sodalizio ca’ Venier e autore anche di alcuni componimenti lirici andati in stampa nelle antologie di metà secolo, rimando a Lorenzo Carpanè, Marcellino, Valerio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, vol. 69, 2007, pp. 500-502.

88 Infatti, i più vistosi gallicismi sono presenti «solo nelle liriche della prima giovinezza di Dante, e poi non più. È il caso del meridionalismo saccio ‘so’, dei provenzalismi avvenente e parvente ‘parere, opinione’ (provenzale parven), dimoranza ecc.» (cit. da Claudio Marazzini, Storia della lingua italiana, Bologna, il Mulino, 2002, p. 208).

89 Cit. da Sergio Bozzola, La lirica. Dalle origini a Leopardi, Bologna, il Mulino, 2012, p. 30.

90 Infatti «lo Stilnovo asciuga come al solito gli eccessi guittoniani e primoduecenteschi, ma come al solito è il duo Dante post-stilnovista e Petrarca a dare il decisivo colpo di spugna» (cit. da Andrea Afribo, A Rebours. Il Duecento visto dalla rima, in Furio Brugnolo e Gianfelice Peron (a cura di), Da Guido Guinizzelli a Dante. Nuove prospettive sulla lirica del Duecento, Atti del Convegno di studi (Padova – Monselice, 10-12 maggio 2002), Padova, Il Poligrafo, 2004, pp. 227-237: 229). Per la questione segnalo anche Andrea Afribo, Sequenze e sistemi di rime nella lirica del secondo Duecento e del Trecento, in «Stilistica e metrica italiana», ii (2002), pp. 3-46.

91 Quali: ABAB.ABAB.ACD.ACD (uno in Jacopo da Lentini), ABBB.BAAA. CDD.DCC (uno in Cavalcanti), ABAB.ABAB.CBC.BCB (tre in Guittone d’Arezzo), ABBA.ABBA.ACC.ACC (uno in Cino da Pistoia) e simili. Bizzarrie metriche ancora più estreme si attestano, per quanto raramente, nel corso del Cinquecento; per esempio, in Rime et prose del sign. A. Minturno, Venezia, Rampazetto, 1559, p. 207, sonetto Chi vuol veder le rade, e pellegrine (ABAB.CDDC. EFE.GFG).

92 «Item nota quod in huiusodi soneto potest unus versus legi directe et ater retrorsum, vel e converso» (Antonio da Tempo, Summa artis rithimici vulgaris dictaminis, edizione critica a cura di Richard Andrews, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1977, p. 32). Non si dimentichi però l’edizione cinquecentesca del trattato: Antonius de Tempo De Ritmis vulgaribus, videlicet de sonetis, de balatis, de cantionibus extensis, de rotondellis, de mandrialibus, de seruentesijs; et de motibus confectis, Venetijs, Simonem de Luere, 1509. Per Groto cfr. Rime, vol. I, sonetto 84. L’osservazione è condivisa da J. Galavotti, Metrica, sintassi e retorica nei lirici veneziani del secondo Cinquecento, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Verona, XXX ciclo, 2017, p. 234.

93 La stanza Benefici il Pastor dona, non vende [Vende, non dona, il Pastor benefici] di Cappello, esclusa dal testo critico di Tani, è trascritta e commentata in J. Galavotti, Usi dell’ottava al circolo di Domenico Venier in Laura Facini (a cura di), Nuove prospettive sull’ottava rima, Lecce, Pensa MultiMedia, 2018, pp. 227-246: 230.

94 Rime ingegnose di m. Girolamo Musici, Padova, Lorenzo Pasquati, 1570, cc. 18r-19v, 30v-31r e 31v.

95 Rime ingegnose, c. 16v (si riporta solo la prima quartina a titolo esemplificativo). Il sonetto è preceduto da un’utile indicazione paratestuale: «Sonetto allegorico | con doppio Bischizzo, et doppia | Rima». Negli stessi anni simili analoghi artifici paronomastici, largamente attestati nell’orizzonte lirico italiano degli esordi, coinvolgono pure lo scenario letterario dialettale di area veneta, strettamente connesso con la coeva esperienza del sodalizio di Campo Santa Maria Formosa. Affiorano alla mente, per esempio, i sonetti Biffi, che per far beffe e baffe e buffe di Andrea Calmo (Andrea Calmo, Le bizzarre, faconde et ingegnose rime pescatorie, a cura di Gino Belloni, Venezia, Marsilio, 2003, n. 36) e Groto, a me gratto el cao sotto a ste grotte di Gian Battista Maganza al Cieco d’Adria (La quarta parte delle rime alla rustica di Menon, Magagnò e Begotto, Venezia, Giorgio Angelieri, 1583, c. 82v). Per un primo inquadramento della strategia retorica cfr. Il sogno del segno. Sonetti per bisticci dal Duecento al Seicento, a cura di Francesco Durante, Capri, Premio dell’enigma, 1988.

96 Rispettivamente: Orsatto Giustinian, Rime, a cura di Ranieri Mercatanti, Firenze, Olschki, 1998, nn. 137, 139 e 141; Rime di Celio Magno, Venezia, Andrea Muschio, 1600, p. 61 (son. Puro, e candido latte, o vaghe rose); Groto Rime vol. I, sonetto 55 e vol. II, sonetto 22; Venier Rime 22, 43, 187, 188, 258, 259 e 260. Per gli acrostici di Venier cfr. J. Galavotti, Interpretatio nominis e giochi onomastici nei lirici veneziani del secondo Cinquecento, in Maria Pia Arpioni, Arianna Ceschin (a cura di), Nomina sunt…? L’onomastica tra ermeneutica, storia della lingua e comparatistica, Gaia Tomazzoli, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2016, pp. 131-145: 140-143.

97 Respinti anche da Petrarca e Bembo, che ne fa cenno però nelle proprie Prose (II xi, p. 153: «che gli antichi fecero talora sonetti di due rime solamente»).

98 Solo a titolo rappresentativo, si pensi a: «Cent’anni e cento a l’acqua, al vento salda / (per l’uso antico e l’inimico avezza), / erge la fronte, e i colpi, e l’onte sprezza / torre fondata in elevata falda» (B. Baldi, Il lauro, cit., p. 92, vv. 1-4).

99 Ad es. Guittone d’Arezzo, Canzoniere, Son. 9 Se Deo – m’aiuti, amor, peccato fate.

100 Per esempio, si pensi ad un componimento di Alessandro Caperano: «Morto sendo il mio Sol anci in ciel posto, / discosto dal piacer gran dolor porto; / conforto più non sento, che pur tosto / deposto ha morte il segno del mio porto» (Opera nova di Alexandro Caperano, Venezia, Giorgio Rusconi, 1508, c. 39r. Il sonetto è preceduto dall’indicazione paratestuale «Incatenatus Sonetus». Infrangendo i prefissati confini veneti, merita di essere ricordata anche la prima quartina di un sonetto di Cristoforo Fiorentino: «Amor mi tiene, e sdegno, ch’io parta / parta dell’Amor tuo, partir non posso, / posso, ma come, ch’io son tuo per carta / carta, talché se sdegno m’ha percosso» (in Opere dell’Altissimo poeta fiorentino, Firenze, s.e., 1565, cap. VII, c. Fvir).

101 G. Musici, Rime ingegnose, c. [34]r.

102 Georg Weise, Manierismo e letteratura, Firenze, Olschki, 1976, p. 234.

103 «Smettano dunque i seguaci dell’ignoranza di esaltare Guittone Aretino e altri come lui, che nel lessico e nella costruzione non si sono mai liberati di quello che avevano di plebeo» (D. Alighieri, De Vulgari Eloquentia, a cura di Enrico Fenzi, con la collaborazione di Luca Formisano e Francesco Montuori, in Id., Le opere, vol. III, Roma, Salerno editrice, 2012, II vi 8, p. 191).

104 Voglio ricordare un caso metrico cinquecentesco, particolarmente estremo e oggi per lo più dimenticato; ne trascrivo la prima quartina: «Pensando nel pensar col pensier penso / che pensier col pensar mia diva pensa / col pensier penso, che pensando pensa / al pensier che di lei pensando penso». Il sonetto, di Sebastiano da Montefalco, è edito in Francesco Maria Molza, La nimpha tiberina del Molza eccellentiss. Novellamente posta in luce con altre sue rime. Et de altri diversi autori non più vedute in stampa, Ferrara, Antonio Maria de Sivieri, 1545, c. 8r. Sull’autore le informazioni biografiche sono pressoché nulle.