Revue Italique

Il libro di rime tra secondo Cinquecento e primo Seicento

OJ-italique-932

Dal colligere fragmenta al censimento del presente Il libro di rime come opus tipographicum

Paolo Procaccioli

Che la raccolta di rime sia uno dei fatti che caratterizzano il Cinquecento, e né solo il Cinquecento della lirica né quello più ampio della letteratura, è fuori discussione. È un dato di fatto conclamato dagli annali tipografici e messo a fuoco nei suoi termini propri da una tradizione di studi, soprattutto recenti, che ne hanno penetrato natura e portata. La rassegna di quei testi, li si veda catalogati in Biblia o li si penetri navigando in Lyra,1 consente di cogliere vitalità e varietà del prodotto “libro di rime”, un oggetto testuale estremamente duttile, in grado com’è di rispondere a una domanda che non conosce momenti di crisi durante tutto il secolo e che si rivela passibile di una grande varietà di approcci. Alle acquisizioni garantite da quella tradizione mi riallaccio in questa occasione per riprendere una delle sue fila, quella che connette la produzione e la raccolta di quei testi alla prassi tipografica rivelandosi materia insieme letteraria, tecnico-editoriale, di strategia culturale e anche, in una misura talora significativa, politica.

Con una premessa e una presa d’atto, tutte e due d’obbligo. La premessa è che a essere considerato non sarà ogni libro di rime in quanto oggetto tipografico, e dunque quando che sia e come che sia prodotto, solo il libro prodotto per iniziativa esplicita degli editori-stampatori, il che ci dà un post quem piuttosto basso e al tempo stesso circoscrive l’analisi a un numero discreto di testi (quelli che hanno continuato la serie aperta nel 1545 con la giolitina delle Rime diverse di molti eccellentiss. auttori). La presa d’atto è che nonostante in sé la raccolta di rime non sia un’invenzione né del Cinquecento né della tipografia, pure non ci sono dubbi che nel passaggio dalla consuetudine dell’antologia manoscritta a quella della raccolta a stampa si assista a un cambio vero e proprio di paradigma. A cominciare dal cambiamento dell’orizzonte all’interno del quale i testi vengono presentati e letti. Fino a allora genesi e destinazione delle sillogi liriche affiancavano alla funzione servile un’altra che in una misura significativa era di natura critica. La Raccolta Aragonese per esempio, la più famosa di quelle iniziative, o, e già nel pieno dell’età della stampa, la Giuntina di rime antiche, si proponevano, e concretamente proponevano, un’operazione storiografica dalla quale discendeva il ripensamento o la rivendicazione di un’intera tradizione o di un suo spezzone rappresentativo. Che nel caso della silloge Aragonese era in chiave apologetica, in quello della Giuntina in chiave polemica. Erano insomma operazioni critiche che, va detto, registravano fenomeni diremmo di lunga durata collocandosi a valle di essi. Per questo specifico aspetto le raccolte di metà Cinquecento delle quali intendo occuparmi sono invece altra cosa. Sono operazioni inedite, segnate a fondo dalla militanza. Chi le commissiona, sia o no lo stesso che poi materialmente le organizza, non si propone di colligere fragmenta o documentare una situazione passata per celebrarla o promuoverla a esempio, quanto piuttosto di costruire un opus fragmentarium. Il fine non è il recupero di un pregresso ma il censimento del presente. E di un presente osservato in un’ottica non necessariamente o esclusivamente letteraria.

Che è poi quanto accade con l’iniziativa gemella, la raccolta epistolare, che comincia come raccolta segnata dal presente (Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie. Libro primo) e solo in un secondo tempo si proporrà una prospettiva storica (Lettere di XIII huomini illustri, Lettere di Principi).

Naturalmente come tutte le operazioni condotte sul presente anche quei censimenti si trovano a fare i conti con i protagonisti della scena culturale e con le dinamiche nelle quali sono inseriti. Una scena che nel nostro caso, proprio per l’angolazione dalla quale mi propongo di considerarla, accanto agli autori, e anzi più degli autori, non può non guardare agli editori e ai letterati di tipografia. Col risultato che da subito l’allestimento di una raccolta di rime diventa un’occasione sia di dialogo che di contrapposizione. Di dialogo con gli autori e di scontro con e tra gli editori, episodio di un bellum tipographicum perenne da interpretare in termini nuovi rispetto a quelli delle antologie della tradizione e tali che facciano i conti con le dinamiche delle stamperie e con il mutare delle loro strategie.

Il vaglio della serie dei libri di rime insieme alla vitalità del fenomeno segnala elementi di continuità e altri di novità sostanziale. Tra questi ultimi quello che a me pare più significativo, tale almeno ai fini qui perseguiti, è quello che riguarda la genesi delle varie iniziative editoriali. In particolare il ruolo giocato dalle tipografie nella loro progettazione. Nel momento in cui la tipografia si rivela non l’approdo di un testo progettato altrove ma il luogo stesso in cui quel progetto nasce, allora è evidente che siamo di fronte a qualcosa di effettivamente diverso dal libro di rime tradizionale. Dove la diversità della genesi ha ripercussioni dirette e forti oltre che sulla figura autoriale anche sullo stesso testo. E naturalmente sulla funzione che si trova a svolgere chi è chiamato a allestire l’una o l’altra antologia.

Mentre infatti l’antologista della tradizione aveva una funzione che potremmo dire di osservatore, una specie di esploratore-notaio impegnato a allestire e a traghettare in tipografia una silloge nella quale dava conto dei risultati della sua perlustrazione, il nuovo antologista affiancava a quella funzione l’altra tutta nuova di chi invece quei risultati (quei testi) si trovava a sollecitarli. La funzione nella quale riconosciamo il ruolo del promotore, quando non quella del vero e proprio committente.

Non vorrei dare l’impressione né di schematismi né di automatismi. In tutto questo non c’è niente di meccanico, semmai la presa d’atto delle conseguenze della sovrapposizione delle logiche mercantili della tipografia e del mondo editoriale a quelle proprie della convenzione e della prassi letteraria.

Per mettere a fuoco i fatti dei quali stiamo parlando partiamo, come d’obbligo, dai dati, a cominciare da quelli della cronologia. Se consideriamo anno d’inizio della vicenda il 1545 del Libro primo giolitino, allora dovremmo concluderne che propriamente all’origine del nostro fenomeno non c’è la raccolta di rime ma quella epistolare. Lo scarto era di sette anni se si considera il 1538 del primo libro delle Lettere di Aretino, di solo tre anni se invece si guarda alla prima silloge di vari, quella delle Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini, et eccellentissimi ingegni allestita da Paolo Manuzio nel 1542. I termini delle due operazioni sono però tali che consentono di parlarne come di un parto gemellare, con uno scarto minimo tra l’uno e l’altro dei lieti eventi. Sono a tutti gli effetti i due scomparti di una vetrina nella quale la società del tempo nel suo complesso, non solo quella letteraria, si metteva in mostra. Non a caso i campioni dell’una erano gli stessi dell’altra (Caro, Bembo, Aretino…) come erano gli stessi i registicerimonieri di quei riti pubblici (Dolce, Domenichi, Ruscelli…).

Ho parlato di vetrina ma l’immagine non è quella giusta. Più che un inventario gli indici delle raccolte sono il resoconto di una rassegna, la cronaca di una sfilata nella quale un’intera classe dirigente si mette in mostra come in uno qualsiasi degli ingressi trionfali censiti da Bonner Mitchell. E come in ogni sfilata anche qui a contare sono i numeri e le posizioni: quanti autori, quanti testi, dove collocati. Dove il tutto è portatore di significato tanto dal punto di vista dell’autore quanto da quello dell’editore.

Quanto successo nel trattamento delle lettere può essere un buon precedente per mettere a fuoco quello che vediamo accadere con le rime. A cominciare dalle logiche che presiedono al loro accumulo, che fin dall’inizio prevedono accanto al recupero del pregresso anche la messa in cantiere di testi da realizzare per l’occasione. Esattamente quanto era successo con il libro epistolare del ’38, in cui solo una metà delle lettere edite erano state scritte prima della decisione di raccoglierle e stamparle. E come non è un mistero che il successo del libro aretiniano mise in moto una macchina che non si sarebbe più fermata, così non meraviglia costatare che il successo dell’iniziativa promossa da un editore come Gabriele Giolito, fino a allora assente dal mercato epistolare, suscitò gli appetiti degli altri editori, a Venezia e fuori.

Il tutto si tradusse in una competizione che si espresse in varie serie di libri di rime. Una, diremmo ufficiale, che nel 1560 approdò al nono libro; altre secondarie, gemmate dal troncone della prima e destinate a alimentare o anche solo a avviare filoni minori.

Quella primaria comprendeva:

  • Rime diuerse di molti eccellentiss. auttori nuouamente raccolte. Libro primo, Venezia, Gabriel Giolito, 1545 (1546, 1549), a cura di Lodovico Domenichi.

  • Rime di diuersi nobili huomini et ecellenti poeti nella lingha thoscana. Libro secondo, Venezia, Gabriel Giolito, 1547 [Bongi I 143 ignora il curatore].

  • Libro terzo delle rime di diuersi nobilissimi et eccellentissimi autori nuouamente raccolte, Venezia, al segno del Pozzo, 1550 (appresso Bartholomeo Cesano).

  • Libro quarto delle rime di diuersi eccellentiss. Autori nella lingua uolgare. Nouamente raccolte, Bologna, Anselmo Giaccarello, 1551.

  • Rime di diuersi illustri signori napoletani, e d’altri nobiliss. ingegni. Nuouamente raccolte et con nuoua additione ristampate. Libro quinto, Venezia, Gabriel Giolito, 1552 1-2, 1555 3 [Bongi I 357 (Libro terzo) e 365, 466 (Libro quinto); a cura Dolce; inizialmente Libro terzo, volendo ignorare come abusivi quelli Cesano e Giaccarello, ma poi si prese atto del fatto compiuto e si decise per Libro quinto].

  • Il sesto libro delle rime di diuersi eccellenti autori, nuouamente raccolte, et mandate in luce. Con un discorso di Girolamo Ruscelli, Venezia, al segno del Pozzo, 1553 (per Giovan Maria Bonelli).

  • Rime di diuersi signori napolitani, e d’altri. Nuouamente raccolte et impresse. Libro settimo, Venezia, Gabiel Giolito, 1556 [testi raccolti da Marcantonio Passero e inviati al Dolce]

  • Rime di diversi autori eccellentiss. Libro nono, Cremona, Vincenzo Conti, 1560.

Non è noto nessun libro il cui frontespizio si definisca «ottavo». Dal momento che abbiamo un «nono» si suppone che l’ottavo sia stato o edito, magari senza quella precisazione e poi percepito come tale,2 o anche solo annunciato come prossimo alla stampa e poi non realizzato, comunque non più documentato.

Come si diceva, accanto alla maggiore gli stessi editori-curatori misero in cantiere altre serie minori. La prima fu quella delle rime spirituali (la stamperia Al segno della Speranza ne propose tre libri tra il 1550 e il 1552, altre di altri editori seguirono per tutto il secolo), poi, allargatasi l’offerta, arrivarono le raccolte finalizzate esplicitamente a offrire una selezione dell’edito (Giolito nel ’53 proponeva le Rime di diuersi eccellenti autori raccolte dai libri da noi altre volte impressi tra le quali se ne leggono molte non più vedute, serie continuata con un secondo volume nel 1564, tutti e due poi ristampati; nel ’58 sarebbe stato Ruscelli, per i Sessa, con gli altrettanto fortunati Fiori delle rime de’ poeti illustri). Goderono di una certa fortuna anche i monumenti poetici edificati in onore o in memoria di personaggi a vario titolo celebri o da celebrare: il Tempio ruscelliano per Giovanna d’Aragona del ’54 (e ’55 e ’65), il Sepolcro di Beatrice di Dorimbergo del ’68, il Tempio di Geronima Colonna d’Aragona sempre del ’68, il Mausoleo di poesie volgari e latine in morte di Giuliano Goselini, del 1589. Si aggiungano le Rime di diversi eccellenti autori bresciani edite da Ruscelli nel ’53, le Rime diverse d’alcune nobilissime, et virtuosissime donne cui mise mano il Domenichi nel ’59, e, nel ’65, i due libri De le rime di diversi nobili poeti toscani di Dionigi Atanagi, e si avrà il quadro sul quale qui interessa ragionare.

Quanto appena visto mostra come a caratterizzare le raccolte di rime rispetto a quelle epistolari intervenga un tratto macroscopico come l’esibizione della loro serialità: Libro primo, Libro secondo, Libro terzo. In sé niente di nuovo, solo che fino a quel momento la pubblicazione di libri in successione aveva riguardato per lo più testi musicali, le Frottole, le Laude e i Motetti de la corona di Ottaviano Petrucci, i Mottetti di Andrea Antico, le Canzoni francese e i Madrigali di Ottaviano Scotto. Il tratto non era sconosciuto alla tradizione epistolare, e anzi era presente fin dall’esordio, ma qui si era imposto soprattutto nel caso della successione di testi dello stesso autore, e non fu neanche generalizzato (per il Cinquecento i casi noti sono quelli dell’Aretino – con i sei libri del mittente e i due del destinatario –, del Doni, del Parabosco, del Calmo, di Bernardo Tasso, del Bembo postumo, di Pietro Lauro); per le raccolte si rimase all’interno della replica della stessa iniziativa editoriale (Manuzio I, II, III; Facete I e II; Lettere di Principi I-II-III; Nuova scielta I, II, III; Idea I, II, III, IV). Solo per le rime dunque si avviò una seriazione indipendente da parte oltre che di autori e curatori anche di stampatori.

L’appropriazione del numero d’ordine per un verso comporta una legittimazione dei precedenti, per un altro è il riconoscimento del fatto che la titolarità di una silloge non dà diritto all’esclusività. La proprietà intellettuale, e la titolarità che ne consegue, rimangono appannaggio di chi si mostra in grado di raccogliere (in una certa misura, commissionare) i testi. Alla fine la logica che vince è quella del “chi primo arriva”, con le conseguenze del caso, per cui Giolito nel ’52 deve ribattezzare in fretta “quinto” il libro che era nato come “terzo”, e l’anno successivo Ruscelli deve scalare di un posto facendo diventare “sesto” il libro che aveva progettato e annunciato come “quinto”.

Il fenomeno si impone per la cronologia, per la geografia, per le stamperie coinvolte, per il dettaglio materiale. Dove la fissità del formato e della struttura indicano la volontà di replica di un oggetto che si voleva riconoscibile come tale. Nessun dubbio che la nascita fosse avvenuta in casa Giolito, ma nessuno può negare che presto la creatura sfuggì di mano. Persa l’occasione di governarla e di sottoporla a una progettualità concordata, editore e correttore non poterono che rassegnarsi alla presa d’atto dell’esistente e disporsi alla sua continuazione accodandosi alle iniziative promosse. Credo non sia un caso se qualche decennio dopo mettendo mano a altri progetti nella stessa casa li si sarebbe blindati e si sarebbe parlato di “collane”.

Anche a volerli considerare da soli i dati editoriali richiamati sono quanto mai significativi, ma lo diventano ancora di più e aiutano a cogliere i caratteri di questa competizione e i loro riflessi sulla pagina se insieme ai testi si ascoltano i loro loquacissimi curatori.3

Se si parte dalla presa d’atto che al pari dei singoli componimenti sono altrettanto d’occasione le sillogi che li raccolgono, si comprenderà come mai quei testi non sempre si propongano squisitezza di ritmi e di lessico, e neanche equilibri calcolati sulla base di rapporti di studiatissima variatio rispetto al canzoniere per antonomasia o a altri modelli lungamente meditati e interiorizzati. La logica che li attraversa e li sostiene è invece quella solo in apparenza rozza della quantità e della novità, il che si traduce presto in una gara all’accumulo di quanti più pezzi possibile.

Non fosse così non si comprenderebbero le excusationes non petitae, e per questo viene da pensare manifestissimae, consegnate da Ruscelli ai quattro punti dichiarati nell’avviso ai lettori del Tempio. È un luogo noto, sul quale da tempo ha richiamato l’attenzione Amedeo Quondam,4 e che qui rievoco ricordando l’argomento di ciascuno di quei punti: a) l’ordine dei componimenti; b) i casi di smarrimento o di falsa attribuzione; c) la discussione preventiva contro le critiche gratuite, in particolare quelle basate sull’opposizione quantità-qualità dei testi editi; d) l’annuncio di una seconda parte destinata a accogliere testi integrativi o versioni corrette. Dove i primi due e l’ultimo intervengono a illustrare-giustificare dettagli redazionali, il terzo invece, che muove contro i «molti valent’huomini di quegli che sanno seder su i poggiuoli o murelli delle strade a giudicar chi passa, senza far essi da mattino a sera veder attion loro che vaglia» si propone una difesa che può essere estesa a tutta la serie dei libri di rime.

La domanda che Ruscelli smania di rivolgere ai suoi futuri critici, e cioè «per che essi biasmino o tutto quel tal componimento, o parte», e alla quale prevede che «non sapranno poi che dir altro in somma, se non che a loro non piace», è la stessa che legittimamente potrebbero porsi tutti coloro che si sono trovati a mettere mano a quelle sillogi anche se la sua, precisa, non è come tutte le altre («questo non è un volume di scelta di componimenti diversi sopra diversi soggetti amorosi, ma è un Tempio, ove a ciascuno è lecito offerire i prieghi suoi, i suoi voti, et le degne lodi di quella gran Signora»). Lo sviluppo dell’argomentazione chiarisce come in ballo ci sia soprattutto la capacità di giudizio:

lasceremo che o per esservene in effetto, o per parer forse ad alcuno che ve ne sia qualch’uno alquanto più debile che gli altri, faccia, che i Momi si facciano cavalieri della tavola rotonda, non per altra valentigia loro, che per haver da che nacquero appreso tanto, che sappiano finalmente dire, che quei tali componimenti non si dovesser porre in questo libro? Quasi che in una chiesa per esservi il Re, l’Imperatore, et infiniti gran personaggi, non si lasci anco entrar altra persona di minor grado, o quasi che, come ho detto avanti, quello istesso, che essi così furiosamente giudicano al primo aspetto, et subito, non sia stato fin qui veduto, et essaminato, se non da loro.

Ecco dunque il punto: chi sottoscriveva l’avviso al lettore non era un mero raccoglitore, al contrario aveva i titoli per esprimere un parere e anzi emettere un giudizio. Allestire la silloge voleva dire garantire la qualità dei suoi contenuti e la congruenza rispetto al disegno proposto, appunto il “tempio”.

Non solo. Se per tutti gli editori la battaglia era sul piano del tempo e della quantità dei testi proposti, in alcuni casi si trattava anche di vedere affermata o riconfermata, comunque riconosciuta, una professionalità specifica. Ecco allora che mentre per il Giolito del Secondo libro (’47), il Cesano del Terzo (’50), il Giaccarello del Quarto (’51) e il Conti del Nono (’60) la partita poteva considerarsi chiusa una volta che i registri dei contabili li avessero confermati nella loro scommessa, per il Domenichi del Primo libro (’45), il Dolce del Quinto (’52) e del Settimo (’56), il Ruscelli del Sesto (’53) e del Tempio (’54), come anche per l’Atanagi dei due libri delle Rime (’65), e cioè per quanti diremmo oggi ci mettevano la faccia, la cosa prendeva un’altra piega. Si trattava di rivendicare un’affidabilità dalla quale dipendeva il ruolo, e cioè il patrimonio di fiducia accumulato, che era la fiducia dei lettori, quella degli autori e naturalmente quella degli editori.

A mettere le cose in questi termini quella nella quale erano impegnati editori e curatori dei nove libri di rime si configura come una sorta di gara alla quale partecipavano le scuderie maggiormente impegnate sul fronte del volgare, in particolare sul versante militante e socialmente esposto di quel fronte.

Le ricadute erano importanti, proporzionate all’impegno richiesto. Riguardavano il prestigio come interlocutori e come curatori. Non fosse così l’avviso ai lettori del Tempio non si preoccuperebbe di rassicurare gli autori sulla possibilità di un “piano b”, e cioè che

per essere i componimenti di questo libro venutici per le mani di tante et sì diverse persone, hora con lettere d’uno all’altro, hora per mezo di questo et quello, et in tanti mesi, potrà essere che o per colpa altrui, o ancor per mia propria, o per disgratia, o per qual si voglia altra via, alcuni ne sieno smarriti, et non si sien posti nel libro, et alcuni per aventura scambiati di nome, et attribuiti ad autore, di chi veramente non sieno. Il che però non credo. Ma quando pure o l’uno o l’altro in alcuni sia avenuto, potranno gli autori stessi darne aviso, che nella seconda parte, la quale con l’aiuto di Dio vien tuttavia crescendo, et mettendosi in ordine, si potrà poi, se in alcune cose si sarà ne i nomi de gli autori mancato o errato, rimediar pienamente. Et il medesimo sia detto, se nelle parole fosse incorso qualche errore, che tutto veramente si dee imputare a me solo, o alle stampe, non a gli autori.

E neanche ci sarebbe stato bisogno di difendersi con una pubblicità comparativa:

se alcuni pochissimi ve ne sono, non così d’alto grado come tutto il resto, esser non di meno begli in sé stessi, et tali che di molto men belli ne vanno per li libri di diversi autori fatti a scelta
(corsivo mio)

E allora, cosa difendevano i nostri selezionatori?

Domenichi, il primo della serie, poco dopo aver licenziato la silloge era partito per Firenze, e evidentemente aveva rinunciato al ruolo, per lo meno alla sua declinazione veneziana; giocò le sue carte con Torrentino e solo più tardi, si è visto, si sarebbe concesso un ritorno sull’argomento con la raccolta di rime di gentildonne, ma lo avrebbe fatto a Lucca, con Busdrago. Dolce, che lo sostituì presso Giolito, investì invece molto su quella tipologia testuale. Mise a frutto sia le competenze tecniche acquisite nel corso degli anni Quaranta sia i contatti stabiliti grazie a un’instancabile attività di redattore che aveva preso avvio nel 1542, sui primi due libri delle Lettere di Aretino (sulla seconda edizione del primo e sulla princeps del secondo). Ma nel ’52 lo scenario era tutt’altro: il rapporto con Ruscelli, che fino a qualche mese prima era stato cordiale nei toni e di collaborazione nei fatti, era diventato conflittuale e da una parte e dall’altra sfociò in scritti finalizzati alla delegittimazione reciproca. Quella dei libri di rime divenne una materia di confronto, e al tempo stesso uno dei terreni di scontro. Per Dolce, che si muoveva nell’alveo della tradizione giolitina, un terreno solido; per Ruscelli invece, tra l’altro all’inizio della sua carriera di autore e di editore, una scommessa rischiosa. La prima manche fu appannaggio del veneziano, che vinse sul tempo (il tempo sarebbe stato sempre un tallone d’Achille per il viterbese, facile a promettere e lentissimo a mantenere) e si guadagnò il diritto a intitolare Quinto il libro lasciando al rivale il Sesto. In realtà il Quinto era una mezza sconfitta per chi, si è già detto, inizialmente aveva voluto affermare i diritti connessi alla primogenitura giolitina e chiamato il libro Terzo, ma i dati di fatto avevano comportato quella che in casa Giolito sarà stata vissuta come una piccola capitolazione e rassegnarsi a rimettere mano al frontespizio. Il risultato fu che il 9 dicembre 1551 Dolce dedicava a Ferrante Carafa il Terzo libro che il 13 maggio successivo sarebbe diventato il Quinto libro e avrebbe aperto la nuova dedica con questa precisazione:

Quantunque, Illustre Signore, le presenti rime, tra le quali quelle di V.S. Illustre come carbonchi tra molte lucidissime gemme risplendono, dovessero per la loro eccellenza sé medesime distinguer dalle altre publicate da altri impressori, nondimeno, perché molti, leggendo il titolo di questo libro, che è il terzo di quegli che furono per adietro messi nel publico dalla accurata diligenza del nobile M. Gabriello Giolito, restavano sospesi se esso fosse nuovo volume, o il medesimo già dato in luce da altri, acciò che così fatto dubbio sia da ciascuno levato, seguitando il numero de’ libri pur da altri impressi, di nuovo il medesimo s’è ristampato, e purgato da molte ortiche, indegne di esser poste nel giardino di così nobili e felici piante.5

Non importa insomma se l’antologizzato ha vestito i panni del poeta solo occasionalmente o se invece è un poeta vero, i testi devono essere editi nella veste autorizzata. Poi, e questo vale tanto per i grandi letterati quanto per i protagonisti della vita pubblica, diventa di rilievo anche la collocazione. Le posizioni di maggiore prestigio sono quella d’apertura e quella di chiusura, col risultato che se registriamo la serie dei nomi che occupano quelle collocazioni avremo un canone affidabile della lirica del tempo. Le Rime diverse del ’45 per esempio si aprono nel nome di Bembo e si chiudono in quello di Aretino, i nomi che nella Venezia degli anni Quaranta rappresentavano i vertici della letteratura volgare. La silloge epistolare manuziana del 1542, la prima delle raccolte di vari, si apriva con una lettera di Lorenzo de’ Medici e si chiudeva con una di Aretino.

Non bastassero i fatti, si aggiungano i detti. Le parole che seguono sono di una figura di primo piano come Claudio Tolomei, che il 28 maggio 1547, era allora a Piacenza, scriveva a Fabio Benvoglienti e lo ringraziava dell’invio della seconda raccolta giolitina:

Vi ringratio del volume secondo, che m’havete mandato di que’ Poeti, ove m’è piaciuto vedere apparirvi una schiera di nuovi cigni, di cui io non havevo mai udito pur il nome. Duolmi solo che quelle poche mie ciancie siano poste (come si dice) in capo di lista.6 Io o non havrei voluto ch’elle vi fusseno, o che fusseno almeno in luogo men chiaro, perché ancor manco sarebben lette, e manco biasimate. Ma poi che la lor disgrazia l’ha fatte capo di squadra, havrei almeno desiderato che vi fusseno co’ vestimenti e con l’armi ch’elle solevan portare. Percioché (per dirvi il vero, e per uscir di metafore) ci sono alcune scorrezzioni d’importanza.7

La raccolta è, né più né meno, una rassegna. Corrisponde a cerimoniali collaudati e importantissimi della vita pubblica. L’importante era esserci, meglio se si figurava in una posizione non banale. E dato che questa “conta” aveva un regista, è naturale che fosse un’occasione ghiotta per dimostrare o per acquisire potere. Dove il curatore appariva parato alla Minosse; un Minosse che magari non ringhiava ma di certo “giudicava e mandava”.

La convocazione degli autori e l’ordine della loro distribuzione all’interno del volume era insomma questione tutta di pertinenza del letterato che allestiva materialmente la silloge e dell’editore/stampatore che la promuoveva. Era una questione delicata, che comportava scelte strategiche di rilievo nella prospettiva di chi metteva mano all’iniziativa; ovviamente era prevista dall’inizio e è facile supporre che orientasse e informasse ogni momento dell’allestimento, dalle richieste iniziali alla confezione della tavola finale.

Questo naturalmente non escludeva gesti come quello di cui rendono testimonianza le Lettere aretiniane quando nel sesto libro propongono una pagina diretta al Ruscelli. È una lettera del gennaio 1554 e vede i due corrispondere a proposito del Tempio alla divina Signora Donna Giovanna d’Aragona, una delle più complesse operazioni editoriali messe in cantiere in materia di rimeria volgare e che nei suoi stessi esiti materiali reca le tracce evidenti delle tensioni che l’hanno attraversata.8 Da una parte c’era Ruscelli, rimasto unico regista di un’operazione nata all’interno di un contesto accademico – l’Accademia dei Dubbiosi – che come curatore e editore era occupato nell’allestimento di quell’opera tanto impegnativa, dall’altra Aretino, richiesto di un componimento. La risposta del secondo è positiva, ma il sonetto prodotto nell’occasione («Per esser Donna in dolce affetto altera») era accompagnato dal bigliettino che segue:

Eccovi, Signor Girolamo, a me fratello come caro onorato, eccovi dico di propria mano, il Sonetto che i vostri prieghi dolcissimi mi hanno commandato che in laude de la diva Giovanna di Aragona Colonna io componga, il quale se nel fine vedrassi de i cotanti che in gloria di lei sono impressi, lo reputarò per beneficio non che per grazia. Imperò che se altri lo affermarà di spirito arguto, dirà Parnaso che l’ultimo tra i laudati è il primo; se di senso insipido, Apollo canonizarà l’auttore per modesto; e se anche il fuoco è sua esca, abbruscisi. Di Genaio in Venezia. MDLIIII.9

Come era facile prevedere la richiesta venne accolta. Nella stampa 1555 il sonetto aretiniano si legge a p. 368 e, come già nella silloge del ’45, è l’ultimo della serie dei componimenti volgari. A rigore non è l’ultimo del libro, ma quelle che seguono sono sezioni aggiuntive di un libro dichiaratamente modulare. In quell’edificio infatti si distingueva un corpo centrale, quello appunto della «provincia» volgare che si chiudeva con i versi aretiniani, e a corredo di esso una serie di addizioni potenzialmente infinita («che tutto un mondo si potrà ben dir tosto», così nella dedica al Madruzzo, a c. [foglia] 8r) aperta dai sonetti di corrispondenza indirizzati allo stesso Ruscelli e destinata a registrare omaggi espressi in ogni lingua. Il che tra l’altro ci dice che l’operazione Tempio sarà pure nata in un contesto corale ma che poi a tradurla in progetto e a condurla in porto, e quindi a assumerne la titolarità, fu solo Ruscelli. Che nel momento in cui dichiarava la dialettica «suggetto»-«autori» poteva sottolineare il valore prioritario della quantità e della qualità delle voci («numero et valor») e rivendicare il ruolo giocato nell’allestimento del «bellissimo libro»:

Questo bellissimo libro, al quale né in degnità di suggetto, né in numero, et valor d’Autori, tutti volti ad un segno, non è d’anteporsi alcuno da che le lettere si son trovate, convenendosi mandar fuori sotto nome di persona, che fosse di tanto merito, et di tanto splendore, quanto a sì gloriosa donna, et a schiera sì gloriosa si convenisse, non ha dato a me (a chi, per carico impostomi da tutti loro, si spettava farlo) molta noia in pensare, et in risolvermi di ritrovarlo.

La quantità degli autori e la pluralità delle lingue10 era componente fondamentale di un progetto effettivamente unico. E rivendicato orgogliosamente come tale: «da che s’ha notitia che sia stato il mondo, non s’ha notitia che ne sia già mai veduto alcun altro, ove tutti i dotti, et honorati d’una età scrivano concordevolmente in lode d’una persona stessa» (p. 103). Esibita con altrettanto orgoglio la genesi dilettantesca della maggior parte dei testi, che non a caso non è presentata come opera di poeti ma come espressione «di tanti chiarissimi, et dottissimi spiriti, di tanti gran gentil’huomini, et gentildonne, di tanti Prelati, di tanti titolati Signori, et di tanti filosofi, che sono Autori di questo libro» (p. 104).

Le altre raccolte non avevano la stessa ambizione all’universalità geografica e linguistica ma condividevano la logica – una logica evidentemente quantitativa – della rappresentanza.

Per il controllo dei testi la questione era più delicata. Qui non si trattava di fare una scelta e risponderne alla platea degli autori e a quella dei lettori. Qui in ballo c’era il merito specifico del dettato e la tenuta del dialogo col singolo autore. Come per le lettere anche per i versi bisogna prendere atto dell’ingordigia degli stampatori. A sua volta espressione di una richiesta che era insieme causa e portato della proliferazione di quei libri.

Per esemplificare nel merito delle dinamiche che si potevano attivare richiamo due passi relativi a scambi epistolari intrattenuti da Ruscelli con Remigio Nannini, con Petronio Barbati e con il Caro. Si tratta di invii poetici relativi alle Imprese illustri e al Tempio, opere che in quanto alle operazioni di richiesta/raccolta e di trattamento dei testi rispondevano alla stessa logica delle altre raccolte di rime.

Comincio dal più tardo, quello del Nannini, che tra l’altro mi dà la possibilità di recuperare il testo alla raccolta delle lettere di Ruscelli, e lo richiamo per indicare una prima tipologia di dialogo autore-curatore, quella nel quale è l’autore a proporre al curatore una redazione rivista del testo edito:

Quando V.S. mi ricercò ch’io dovessi far qualche cosa in morte del sempre immortale e glorioso Carlo Quinto Imperatore, io mi persuasi, che tal mia fatica havesse a servire per farla veder per trattenimento di molti Gentilhuomini che vengono a trattenersi in casa vostra, come in un virtuoso et honorato ridotto, e non perché s’havesse a mettere in stampa nel bellissimo libro vostro delle imprese, tra tante honorate composizioni, che vi sono in questa materia istessa. Ma poi che il vostro giudicio ha fatto sentenza sopra il mio Sonetto, e giudicatolo degno della compagnia di tante rarissime compositioni, io non debbo almeno lasciarlo andar cosi sconcio, come egli m’uscì di mano, senza darli qualche poco di pulitezza di più, di quel che portò con seco quando nacque: perche se bene ei nacque in mare mentre tornavo di Ancona a Venezia l’anno MDLXI. Io però non hebbi avvertenza di lavarlo tanto bene, che non gli restasse qualche macchietta da levar via, ancor che voi per vostra cortesia l’habbiate giudicato tale, che non occorresse toccarlo. Per tanto quando voi l’habbiate piu a ristampare farete ch’ei dica così [segue la nuova versione del sonetto].11

Il 4 giugno ’52, e quindi due anni prima della stampa del Tempio, Ruscelli scriveva a Petronio Barbati informandolo dei criteri con cui era allestita la silloge e dell’adesione generosa e pronta di quanti erano stati invitati a collaborare: «ciascuno l’ha fatto volentieri, e con ringraziamento d’essere invitati tra sì bella schiera, et a sì bell’opera. Il libro non sarà più d’uno, che d’un altro, ma di tutti ugualmente, come V.S. vede nel titolo». Tutti avevano aderito ma non i letterati romani, e corrispondendo con Caro si farà il nome di Tolomei. Ruscelli fece buon viso, ricostruì la vicenda perché il corrispondente fosse a giorno del punto di vista veneziano e lo invitò a inviare suoi versi, cosa che il folignate effettivamente fece:

Ne fu già data notizia per lettera a non so chi in Roma, ma per dirla, Sig. mio, alla larga: cotesto aere non par che sappia coprire se non invidia, e malignità. Fu risposto con certa magra grandezza, che faria stomacar non so chi. Si debber forse pensare, che per farsi il libro qui, noi altri avessimo a parteciparne qualche più di gloria, che gli altri. Talchè principalmente per mio consiglio, si risolverono questi Signori [gli Accademici Dubbiosi] di non ne far più motto da coteste bande, perché avendo scritto tutti i famosi d’Italia, il libro sarà libro, e se tre o sei non vi saranno, sarà danno loro, e non del libro; perché o non si saprà se essi sieno o materia, o forma, o si crederà, che non abbiano saputo scrivere, che non ne sieno stati richiesti, o che non sieno stati ammessi, o ricevuti, e cose tali.12

Alla fine, questa è l’opinione di Ruscelli, «il libro sarà libro» e imporrà da sé le sue ragioni. Nel ’52, a pochissimi anni dalla sua prima apparizione, la raccolta di rime si era affermata come prodotto e aveva acquisito una sua propria autorevolezza al di là dei nomi coinvolti e degli argomenti. Non si trattava dell’alzata di spalle stizzita di un Ruscelli infastidito dai silenzi romani; i fatti avrebbero confermato che le parole indirizzate a Barbati erano espressione di una visione lucida delle dinamiche connesse a iniziative che erano tali da convogliare su Venezia e sui suoi editori l’attenzione dei settori più vivi della società italiana. Quel pubblico di lettori che era ansioso di affidare alle raccolte la propria voce e di riconoscersi in esse.

Non erano solo le schiere sterminate di gentiluomini e gentildonne, anche molti letterati dei più raffinati presero parte al gioco o comunque non si sottrassero alle sue lusinghe. E per dare un’idea degli interventi cui i testi potevano essere sottoposti e dei dialoghi che li potevano accompagnare o cui potevano dare luogo mi sembra particolarmente significativo quanto testimoniato da una lettera del Caro a Ruscelli scritta il 30 giugno ’58 da Parma13 a proposito di correzioni che Ruscelli aveva apportato a un sonetto con cui il marchigiano aveva risposto all’invito a collaborare al Tempio. La lettera è troppo lunga per essere trascritta o anche solo riassunta, e pertanto rimando direttamente a essa, ma è anche troppo importante perché si possa prescindere anche solo dal semplice richiamo degli argomenti svolti in quel «poco di querela» (sia pure, si precisa subito, di una querela «di quelle amorevoli che corrono fra gli amici»). La prima lamentela, però fondamentale, riguarda il fatto di non essere stato messo al corrente degli interventi; le parole di Caro saranno state pure amorevoli ma ne discendeva una messa in guardia che non si poteva ignorare facilmente e il cui senso era: ciascuno stia al suo posto e nel trattamento dei testi il curatore non si arroghi altro ruolo che quello di custode geloso della parola dell’autore. Suoi suggerimenti saranno naturalmente graditi, fa capire Caro, ma l’ultima parola deve spettare sempre all’autore. Segue una lunga ricostruzione dell’alternarsi di due lezioni (si tratta di «duoi»/«doi») e dell’eliminazione di un doppio (un «Voi» replicato). Nel secondo caso le ragioni dell’autore e del revisore si intrecciano e il primo approva e fa suo l’esito promosso a testo dal secondo: «in vero m’è carissimo, e non solo m’acqueto volentieri al suo parere, ma le dico che l’ho molto obligo del modo che ha trovato di salvare la replica di Voi, la quale era cagione che mi dispiacesse, avvertendomi che non è posta ne l’un luogo e ne l’altro col medesimo significato, e stando prima per una persona e di poi per due. A che io le prometto che non avea mai pensato». Sembrerebbe un’apertura di credito completa («se V. S. vi vedesse altro che non le satisfacesse, io la prego a farmene avvertito, perché mi terrò sempre a favore d’esser corretto da un suo pari, e, per Dio, da ogn’altro che dal Castelvetro, il qual non lo fa né d’amico né da letterato né da gentiluomo»), ma non si dimentichi che si tratta di buona creanza. Nessun dubbio che dopo quelle rampogne Ruscelli si sarebbe ben guardato dal mettere mano nei versi dell’amico. Sempre ammesso che ne avesse avuti di nuovo; sul momento la risposta del Caro non era incoraggiante: alla richiesta di rime e lettere precisò che di versi ne aveva pochi e che in ogni caso erano già destinati a Paolo Manuzio, senza tener conto del fatto che dopo aver visto quelli a stampa «dispersi e lacerati» (!!) non era certo incoraggiato a diffonderne altri; in materia di lettere ai signori credeva di poter inviare qualcosa, ma solo lettere famigliari e non di negozi, che erano nella disponibilità dei padroni in nome dei quali le aveva scritte e non sua.

Non mancò chi prese la parola sull’argomento in apparenza per conto terzi, in realtà per regolare pendenze aperte. Lo fece per esempio Doni, che in uno degli Inferni dei Mondi si fece paladino in generale dei poeti «pessimamente» conciati «da molti stampatori e correttori», e in particolare del nome e della poesia di un Guidiccioni, a suo dire «assassinato» dalle stampe, si intenda dal Domenichi editore delle raccolte giolitine all’interno delle quali figuravano i versi del lucchese editi fino a quel momento.14

Ruscelli contro Dolce, Doni contro Domenichi: sembrerebbero baruffe di correttori, gelosie di figuranti del mondo editoriale, ma quanto appena visto dice il contrario. Frontespizi e paratesti rivelano che gli anni dei libri di rime e delle prime sillogi epistolari sono stati anni che hanno visto i nostri curatori conquistare non solo uno spazio ma anche un ruolo inedito. Un ruolo che li ha portati a attivare con il lettore un dialogo nuovo che si è affiancato a quello che il lettore conduceva da sempre con gli autori. Erano, è vero, un ruolo e un dialogo in qualche modo a tempo, che nel giro di pochi decenni sarebbero stati riassorbiti nelle dinamiche editoriali della consuetudine, ma ciò non toglie che per quella stagione siano stati tali da consegnare ai libri di rime una centralità e una portata militante che pochissime altre stagioni possono rivendicare.

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1 In particolare interrogandosi sulla sezione “Libri in programma”: http://lyra.unil.ch/schedule?type=MISC (data ultima consultazione 2 luglio 2021).

2 Bongi ipotizzò che potesse essere identificato nel De le rime di diversi eccellentissimi autori nuovamente raccolte libro primo, Lucca, Vincenzo Busdrago, 1556 (Salvatore Bongi, Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari da Trino di Monferrato stampatore in Venezia, Roma, Presso i principali librai, vol. I, 1890, pp. 487-488); ricordo che prima del 1560 vennero editi anche I fiori delle rime de’ poeti illustri, nuouamente raccolti et ordinati da Girolamo Ruscelli. Con alcune annotationi del medesimo, sopra i luoghi, che le ricercano per l’intendimento delle sentenze, o per le regole et precetti della lingua, et dell’ornamento, Venezia, Sessa, 1558, e le Rime diverse d’alcune nobilissime donne curate da Domenichi (Lucca, V. Busdrago, 1559).

3 Quelli sui quali riflette Franco Tomasi, Strategie paratestuali nel commento alla lirica del XVI secolo (1530-1570), in Id., Studi sulla lirica rinascimentale (1540-1570), Roma-Padova, Antenore, 2012, pp. 95-147.

4 Amedeo Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Modena, Panini, 1991, pp. 136-140.

5 In Rime di diversi illustri signori napoletani, e d’altri nobiliss. ingegni. Nuovamente raccolte, et con nuova additione ristampate. Libro Quinto, Venezia, Giolito, 1552, c. *A2r-v; il testo si legge ora in Lodovico Dolce, Dediche e avvisi ai lettori, a cura di Donatella Donzelli, Manziana, Vecchiarelli, 2017, p. 131, ded. 39.

6 Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti nella lingua thoscana. Libro secondo, Venezia, Gabriele Giolito, 1547, cc. 1r-2v.

7 De le lettere di M. Claudio Tolomei libri VII, Venezia, Gabriele Giolito, 1547, c. 187r. Sulla lettera e sull’argomento si vedano le considerazioni di Alessio Cotugno, Filosofia e letteratura in volgare tra Siena e Bologna: un anonimo Discorso dell’intelletto e nove stanze di Claudio Tolomei in un codice di metà del XVI sec. “Medioevo e Rinascimento”, 33, 2019, pp. 246-283.

8 Ne hanno illustrato le logiche Franco Tomasi e Paolo Marini in due interventi discussi in un non lontano convegno viterbese, e rispettivamente in Distinguere i «dotti da gl’indotti»: Ruscelli e le antologie di rime e «A Vostra Signoria, o più tosto al mondo sotto il suo nome». La pratica prefatoria di Ruscelli, in Paolo Marini e Paolo Procaccioli (a cura di), Girolamo Ruscelli. Dall’accademia alla corte alla tipografia, Atti del Convegno internazionale di studi (Viterbo, 6-8 ottobre 2011), Manziana, Vecchiarelli, 2012, to. II, pp. 571-604 e 803-840.

9 Pietro Aretino, Lettere. Libro VI, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno Editrice, 2002, lett. 335, p. 305.

10 Ricordo che nell’avviso ai lettori Ruscelli preciserà – probabilmente più sulla base degli auspici che dei fatti – che «di continuo ci vengono da ogni parte componimenti in ogni lingua, et già di Tedeschi, Fiaminghi, Francesi, Schiavoni, Moreschi, o Arabi, Inglesi, Ungheri, Polacchi, Caldei, o Indiani, Ebrei, et d’altre lingue n’habbiamo tanti in mano, che per sé stessi sarebbono honesto volume» (Girolamo Ruscelli, Dediche e avvisi ai lettori, a cura di Antonella Iacono e Paolo Marini, Manziana, Vecchiarelli, 2011, pp. 112-113).

11 La lettera, datata 4 maggio 1567, è compresa in Remigio Fiorentino, Considerationi civili sopra l’Historie di Francesco Guicciardini e d’altri Historici, Venezia, Damiano Zenaro, 1582, cc. 188v-189r; devo la segnalazione della lettera a Marcello Simonetta, cui sono grato. Va detto che la datazione è problematica dal momento che Ruscelli era morto il 9 maggio ’66 e che le Imprese illustri uscirono pochi giorni dopo la morte dell’autore. Nella princeps dell’opera (Venezia, Zenaro, 1566) il sonetto del Nannini si legge a p. 117.

12 Girolamo Ruscelli, Lettere, a cura di Chiara Gizzi e Paolo Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 2010, p. 43.

13 Si legge in Annibal Caro, Lettere familiari. Edizione critica con introduzione e note a cura di Aulo Greco, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1959, pp. 292-295, num. 528, e in G. Ruscelli, Lettere, cit., pp. 123-128, al num. 37.

14 Anton Francesco Doni, I Mondi e gli Inferni, a cura di Patrizia Pellizzari, introduzione di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1994, p. 339.