Revue Italique

Il libro di rime tra secondo Cinquecento e primo Seicento

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Cantanti, strumentisti e improvvisatori: la poesia in musica e l’«esecuzione integrata» fra Cinque e Seicento

Livio Ticli

Lo stretto legame parentale fra poesia e musica, spesso declinato con ordine inverso a seconda della direttrice che i singoli studiosi percorrono, tende a disciogliersi allorquando si dimentichi, semplificando, un fenomeno complesso quale l’aspetto performativo che fonda, coinvolge e vivifica entrambe le arti. Il loro legame, invece, rifulge fra i testi della lirica rinascimentale – per limitarci a quest’ambito –, nelle musiche, nei cartigli che intrecciano le vite di figure diverse, nelle descrizioni di feste, cerimonie ed eventi pubblici e privati, nei diari segreti e nelle immagini che testimoniano la luce di un passato lontano.

Il Cinquecento è sicuramente un esempio ammirevole di questo antichissimo rapporto fra poesia e musica e, in un certo senso, ne è anche la clavis aurea poiché permette, ancora oggi, di affrontare non solamente dal punto di vista storico, ma anche sul versante della prassi esecutiva, casi di studio tanto interessanti quanto negletti alla musicologia moderna. Il presente contributo vuole problematizzare il fenomeno della performance poetico-musicale attraverso la rivalutazione di alcune fonti, personae e contesti utili ad illustrare le competenze necessarie ad esprimere tale legame. Si intende quindi evidenziare le abilità che connotavano queste figure, a torto classificate come eclettiche e, infine, proporre un nuovo paradigma per analizzare la sinergia artistica che sottende e definisce il concetto di virtuoso nel tardo Rinascimento.1

Le prassi veneziane

Vent’anni dopo che Pietro Aaron stilò il suo famoso elenco di cantori e donne al liuto,2 si trovano ancora moltissimi esempi di esecutrici ed esecutori versati nella pratica vocale-strumentale. Nelle rime raccolte da Dionigi Atanagi nel 15653 notiamo la presenza di alcune figure in grado di cantare e suonare allo stesso tempo.

Chi non sa, come AmoreMentre Virginia il plettro
Ne furi l’alme, et per se le ritegnaMove, et accorda seco le parole
A veder, et udir Virginia vegna.Chiare, soavi, amorosette, et sole,
Dolci, soavi, cari alti concenti,I pargoletti Amori,
Quanto a grado mi fora,Ch’al suo bel viso adorno
Mentre fermate il ciel, frenate i ventiVolan sempre dintorno,
Al suon di sì dolce ôra,Prendon mill’alme, et ardon mille cori:
Lasciar la spoglia vile,Che la dolce harmonia
Ch’immortale, et gentileSì l’interno ne svia,
Solo puo farsi, et girne in paradiso,Ch’a se trahendo i nostri frali sensi
Mentre v’ascolta, et mira il vostro viso.4Preda, et foco allhor sei, che meno il pensi.5
 
[Argomento][Argomento]
Loda una Madonna Virginia, la quale sonava di Loda il suono, & il canto de la medesima donna,
liuto, e cantava eccellentissimamente.che ha lodato sopra

I due madrigali Chi non sa, come Amore e Mentre Virginia il plettro di Benedetto Guidi sono dedicati ad una Madonna Virginia lodata per la sua voce e per la sua abilità nel suonare lo strumento (un liuto e/o probabilmente una citthara dal momento che viene menzionato un plettro).6 Lo storico Francesco Saverio Quadrio la identificherebbe con Virginia Agazzari dal momento che si trova annoverata fra «quelli, che per cantar l’Italiane Cantate furono celebri».7

Nel sonetto Nè’l bianco augel, che’n grembo a Leda giacque di Domenico Venier troviamo un’altra figura, una certa Franceschina Bellamano, ancora elogiata per la sua abilità nel cantare e nel suonare.

Nè’l bianco augel, che’n grembo a Leda giacque,
Nè chi trarsi già dietro al suon solia
Qualunque fera è più selvaggia, et ria;
Nè la
cetra del Dio, che’n Delo nacque,
cantar di Sirene in mezzo l’acque,
Nè degli angioli in ciel fu mai, nè sia,
Dolce sì, che s’agguagli a
l’harmonia
C’hoggi a voi farmi udir per gratia piacque.
Con
varie voci hor questa, hor quella corda
Tocca da bella man sul cavo legno,
Mirabilmente il canto al suon s’accorda.
Deh, s’io non son d’udirvi anchora indegno,
Ch’io
v’oda, prego, un’altra volta: et sorda
Sia poi
l’orecchia a canto altro men degno.8
[Argomento]
Ad una virtuosa donna, che
cantava, & sonava
eccellentemente di liuto
, detta Franceschina Bellamano:
al qual cognome allude nel primo Terzetto.

Tale Franceschina, presente altresì nell’elenco di Pietro Aaron già menzionato,9 si ritrova in diversi altri sonetti di Venier con senhal posto in posizione incipitale o a inizio di verso.10 Viene ricordata dal Quadrio11 e, certamente, è amica di Pietro Aretino, il quale in una lettera a lei rivolta fa riferimento alle sue straordinarie competenze attoriali e musicali (lodando le sonorità di accenti12 e cetera13) nonché alla «melodia dei suoi versi», giudicandola degna di esibirsi suonando e cantando al cospetto di un duca o una duchessa.14

Vi è una grande abbondanza di simili esempi: artisti, in questo caso cortigiane, in grado di cantare, suonare e spesso di scrivere (o improvvisare) i propri componimenti poetici. Tali abilità erano alquanto diffuse ad esempio nei circoli veneziani, che superando barriere di classe, annoveravano artisti, cortigiani, prostitute di alto bordo15 così come figure appartenenti all’aristocrazia16 e talvolta finanche sovrani.17 Oltre alle ricordate Virginia e Franceschina, altre ne potremmo aggiungere alla nostra lista che rispondono ai nomi di Irene di Spilimbergo, Gaspara Stampa, Veronica Franco, Tullia D’Aragona, Elena Barozza, Lucia Trevixan, Bellina Ebrea musica, Zanetta musica.18 Con il consueto tono irriverente, nella Talanta (atto II, scena II) l’Aretino associa al genere femminile l’esercizio di tali abilità:19

[...] sappi che le ribalde si danno a grattar l’arpicordo, a cicalar del mondo,20 ed a cantar la solfa, per assassinar meglio altrui, e guai per chi vuole udire come elleno san bene sonare, ben favellare, e bene ismusicare.

Con i termini sonare, favellare, ismusicare ritroviamo quindi ben riassunto il tipo di fenomeno che stiamo investigando e che comprende abilità così diversificate: il suonare uno strumento (il clavicembalo), il cantare (da notare il termine tecnico «la solfa» che allude al metodo di lettura e intonazione cantata dei cantores tramite la solmisazione21), il discorrere, nonché il saper comporre (o improvvisare, anche musicalmente) un ragionamento o un testo poetico.

La figura dell’artista eclettico ieri e oggi

Tali figure che definiremmo, quantomeno, eclettiche sono in effetti una vera rarità nel panorama odierno della cosiddetta ‘musica antica’ (anche all’interno della corrente più sensibile a queste tematiche come la Historically Informed Performance Practice),22 eppure decisamente comuni nell’Italia del Rinascimento:23 oggigiorno è infatti più facile imbattersi in un bravo esecutore alla tastiera, in una eccellente violinista, in una cantante incredibile o magari in un bravissimo attore. Tuttavia, come ho rilevato ripetutamente in alcuni miei interventi dedicati alla prassi esecutiva,24 è piuttosto raro trovare attualmente una figura che intersechi o abbracci tutte le citate abilità a meno di non sconfinare in generi diversi dalla ‘musica classica’.25 Eppure, essere un virtuoso rinascimentale significava possedere una serie di competenze – che oggi definiremmo trasversali – ed essere riconosciuto quale perfetto cortigiano. L’ideale era già stato descritto ne Il Cortegiano da Baldassar Castiglione decenni prima, uno dei primi trattati che illustra in dettaglio le abilità necessarie e più appropriate da ricercarsi nella figura del principe e in coloro che frequentavano la sua corte. Questa Weltanschauung si intrecciava da vicino con i valori umanistici che, attraverso la riscoperta, lo studio e spesso anche la traduzione in volgare e latino dei testi classici, erano baluardo delle arti liberali e dell’unità filosofica ad esse sottesa. Paralleli con la mitologia classica divennero parte integrante della cultura cortigiana, come ad esempio fu riscoperta – in specie nella musica e nel teatro – l’idea dell’artista completo attraverso la figura di Orfeo che, cantando rime e suonando, poteva incantare dèi, persone, animali e perfino piante e rocce. Una tale attenzione per la ripresa più fedele della pratica teatrale dell’antica Grecia è ben documentata anche grazie a lavori di lessicologia musicale26 che mettono in evidenza come, dalla fine del XV secolo, il volgarizzamento dagli originali musicali greci e latini e lo studio di tali opere si facciano sempre più frequenti. Attorno alla seconda metà del Cinquecento, specialmente grazie all’attività di circoli quali la Camerata de’ Bardi, una figura come quella di Orfeo era stata ormai completamente assimilata e resa paradigmatica, fino a risultare una vera pietra di paragone sia per gli esecutori sia per il pubblico che assisteva alle performance.27

Al giorno d’oggi, se da una parte gli esecutori di musica antica sembrano perdere interesse per il bagaglio di conoscenze e abilità sottese al virtuoso rinascimentale, dall’altra, le testimonianze storiche mostrano invece uno scenario molto più vario, facendo emergere al contempo una pletora di figure che padroneggiavano molte abilità contemporaneamente, come il saper suonare più di uno strumento, il saper cantare, l’improvvisare stanze e altri componimenti poetici,28 danzare e così via. Fino al primo Cinquecento sappiamo che, in Italia, l’esecuzione musicale si avvaleva di una massiccia trasmissione del repertorio in una forma non scritta e parallela a quella veicolata dalla notazione musicale; ancora nel primo Seicento gli esecutori erano pratici di contrappunto alla mente e in generale possiamo affermare che esecuzioni complesse senza l’ausilio della notazione fossero molto apprezzate.29 I meccanismi di apprendimento, in contesti ove vigeva una forte componente affidata all’oralità, erano essenzialmente basati sul canto e sull’ascolto in quanto mimesis,30 processo in cui l’imitazione e la memorizzazione attraverso la ripetizione giocava un ruolo essenziale. Musica era sinonimo di canto per tutto il secolo XVI, e il suo apprendimento veniva integrato anche dallo studio del contrappunto (improvvisato), della diminuzione, dell’accompagnamento strumentale, della composizione, ecc. Sebbene a livello musicologico si sia recentemente rivalutato il peso dell’oralità sia nella composizione e nella trasmissione della musica, sia nei processi di acquisizione di abilità e conoscenze, fino ad ora un percorso formativo completo e ben strutturato comprendente questi aspetti non risulta ancora molto diffuso e gli stereotipi sulla concezione moderna del virtuoso sono difficili da abbattere. Sono del resto pochi i programmi di formazione che oggi fanno eccezione come quelli, ormai storici, offerti dalla Schola Cantorum Basiliensis ed altri di più recente costituzione come i corsi e i master tenuti da Palma Choralis · Research Group & Early Music Ensemble presso il Dipartimento di Musica Antica «Città di Brescia».

Le abilità vocali e strumentali di Tarquinia Molza

Per estrapolare nel dettaglio quali fossero alcune delle competenze del background tecnico di questi virtuosi di corte, è utile esaminare uno degli esempi più noti. Tarquinia Molza era una singolare intellettuale, musicista e poetessa che apparteneva al milieu culturale della corte di Alfonso II d’Este. Nell’Oratione di Carlo Sigonio leggiamo che ella aveva abilità straordinarie anche per il suo tempo, eccellendo in molte di esse tanto che nessuno poteva aspirare ad eguagliarla.31 Alcune di queste abilità erano musicali: la Molza era infatti una musicista completa e raffinata, in grado di leggere anche i passi di musica più difficili ed aveva una profonda conoscenza del contrappunto e delle tecniche improvvisative. In quanto cantante e strumentista, sapeva cantare al liuto32 ed era capace di intonare la parte di soprano mentre suonava il basso sulla viola da gamba.

Ne [possa essere donna che] haverà voce così soave e rotonda al canto; o non dispositione così felice ad ogni maniera di trillo, di moto e di diminutione, o non così sicura ad ogni difficile compositione, o non canterà a liuto angelicamente, o non sonerà il basso della viuola et canterà il soprano ad un tempo medesimo, o non intenderà contrapunto, nè così interamente tutta l’arte.33

La lode della Molza continua esaltando anche la sua perizia nello scrivere poesia, dal momento che i suoi madrigali e sonetti erano tenuti in altissima stima:

Et quando tutte queste cose possegga, non iscriverà carattere cosí bello che stia al pari de’ bellissimi de’ migliori scrittori; o non scriverà lettere al pari de’ migliori secretari; o non poeteggiarà in madrigali et in sonetti al pari de’ migliori poeti de’ dì nostri.34

L’estro poetico della Molza si può apprezzare anche dalla vestizione musicale che compositori del calibro di Pietro Vinci e Giovanni Leonardo Primavera fecero delle sue liriche.35 L’encomio di Sigonio rivela inoltre una conoscenza profonda e una estrema fluidità della Molza nell’eloquio latino: oltre ad aver imparato rapidissimamente la lingua greca, ella dimostrava una acuta comprensione di questioni filosofiche e teologiche.36 Il ritratto già così lusinghiero è poi completato con il ricordo di un interesse spiccato per lo studio degli astri37, come si evince dal madrigale Mentre l’ardenti stelle contenuto in una raccolta del compositore ferrarese Luzzasco Luzzaschi del 1571.38

In un contesto di finzione letteraria, tratto invece dal dialogo La Molza overo de l’Amore (1585) di Torquato Tasso, rintracciamo uno dei possibili contesti di interazione fra musica e poesia a cavallo tra composizione ed esecuzione estemporanea.

Allora la signora donna Marfisa, levandosi, fu cagione ch’io sorgessi per onorarla; e dapoi di nuovo tornò a sedere e, fattomi dare una sedia appresso un istromento di musica, mi disse ch’io scrivessi alcuna cosa d’amore. E io, prendendo la penna, feci alcuni versi, ne’ quali non compiacqui a me stesso; laonde io le dissi: Eccellentissima signora, io son poco felice poeta, né posso comporre se non tardi e con molta difficoltà.39

Possiamo immaginare un possibile momento ricreativo e di intrattenimento a corte, atto al ragionamento di varie materie e questioni filosofiche, durante il quale, prima (o dopo) qualche esecuzione musicale della Molza, venisse richiesto a Tasso di comporre all’impronta qualche verso poetico seduto nei pressi di uno strumento musicale,40 che potremmo verosimilmente identificare come uno fra i molteplici a tastiera – non dotati ancora di gambe – che figurano negli inventari estensi post-devoluzione (è impressionante il numero di organi, clavicembali, spinette o claviorgani elencati).41 Occorreva che lo strumento in questione42 posasse, dunque, su tavolini43 o su piedi separati,44 spesso riccamente ornati.

Il Concerto segreto e Laura Peperara

Rimanendo in ambiente ferrarese, un altro esempio utile alle nostre considerazioni è quello del Concerto segreto, modello indiscusso per l’esecuzione madrigalistica presso le camere nobiliari di tutta Europa che vediamo rievocato nella favola tassiana dell’Aminta con una descrizione sonora e visiva.

[...] e, come volse il Ciel benigno, a caso
passai per là dov’è il felice albergo.
Quivi uscian fuor
voci canore e dolci
e di cigni e di ninfe e di sirene,
di sirene celesti; e n’uscian
suoni
soavi e chiari
e tant’altro diletto,
ch’attonito godendo et ammirando
mi fermai buona pezza. Era su l’uscio,
quasi per guardia de le cose belle,
huom d’aspetto magnanimo e robusto,
di cui, per quanto intesi, in dubio stassi
s’egli sia miglior duce o cavagliero,
che, con fronte benigna insieme e grave,
con regal cortesia m’invitò dentro,
ei grande e ’n pregio, me negletto e basso.
O che sentii, che vidi allhora! Io vidi
celesti dee, ninfe leggiadre e belle,
nuovi Lini et Orfei
[...].45

Le famose tre dame, per potersi unire ad un tale prestigioso ensemble, dovettero sottoporsi ad un training speciale: Livia d’Arco, cantante e suonatrice di viola da gamba, fu decantata da poeti come Angelo Grillo e dallo stesso Tasso; Anna, cantante e liutista figlia di Giovanni Battista Guarini, si unì al gruppo qualche anno più tardi; e, infine, Laura Peperara che fu certamente la più celebrata delle tre. Quest’ultima, oltre ad una solida cultura letteraria e allo studio del latino, ricevette fin da piccolissima, presso la corte mantovana e insieme a Margherita Gonzaga, un’istruzione musicale e canora direttamente da Jacques de Wert. Inoltre, ella poté beneficiare contemporaneamente degli insegnamenti sia di Abramo dell’Arpa, musicista amato dai Gonzaga che la iniziò al peculiare strumento a pizzico, sia di Isacchino Ebreo, soprano, liutista e danzatore, da cui apprese l’arte coreutica.46

Ben presto Laura divenne celebre per le sue esibizioni in cui univa il proprio canto al suono dell’arpa: nei discorsi di Annibale Romei leggiamo infatti che «fu chiamata la signora Peverara, la quale con sommo diletto delli ascoltanti recitò un capitolo amoroso nell’arpa».47 Possiamo immaginare, in una sorta di “recital” ante litteram, che Laura eseguisse ogni sera versioni diverse, con improvvisazioni sempre differenti, di madrigali e di brani preferiti dal duca e dai suoi ospiti. Insieme alle abilità strumentali e vocali, un’altra delle competenze che la Melpomene o l’Orfeo rinascimentale (come figura dell’artista completo) padroneggiava era la recitazione: grazie a molteplici cronache, sappiamo quanto Laura fosse apprezzata per l’utilizzo esteso (durante le sue esecuzioni) di una dosata gestualità, di particolari espressioni del viso e movenze del corpo – quella che potremmo definire ‘presenza scenica’.48

[...] la Reina, fece cenno alla Signora Laura Peverara [...] nata in Mantova [...], così colle sue honeste maniere [...]. Venuta dunque inanzi alla Reina colla sua arpa, ella cantò cosi soavemente che al suono di quella dolce armonia parea che l’anima rapita se n’uscisse volando nel cuore a chiunque l’udia; finita la musica, sopravvenne il Nano della Signora Duchessa [...]. Dopo cena si fecero alcuni balletti, li quali, si levò sua Altezza e cadauno si ritirò alla sua stanza.49

Improvvisazione e intavolatura strumentale

A proposito del rapporto fra chi intonava testi poetici e il supporto scritto, notiamo come la pratica italiana più apprezzata (e al contempo fra le più antiche) fosse quella di eseguire il repertorio composto e trasmesso polifonicamente non con uno o più cantanti per ogni singola parte del tessuto polifonico, bensì a voce sola e quindi, dal punto di vista della res facta, sopperendo alla mancanza delle ‘parti non cantanti’ con il suono dello strumento.50 Si trovano del resto diverse tracce di queste pratiche nell’iconografia coeva e in diversi tipi di notazioni strumentali conosciuti con il nome di intavolature, sia in forma manoscritta sia nel repertorio a stampa. Alla luce di quell’ideale, propugnato fra gli altri da Vincenzo Galilei, di riappropriarsi delle «arie degli antichi», vediamo il diffondersi di testimoni come il manoscritto di liuto di Raffaello Cavalcanti51 che, diversamente da fonti anteriori più legate alla pratica strumentale, come il manoscritto di Siena52 o l’opera a stampa di Giulio Cesare Barbetta,53 diventa uno dei manoscritti per liuto più importanti del tardo XVI secolo.54 In esso troviamo meno composizioni strumentali (come recercate o fantasie del repertorio più antico) mentre appaiono più chiare le connessioni con il repertorio vocale e la pratica dell’intonazione poetica al liuto.

Fig. 1. Ms. Cavalcanti: analisi del contenuto.

Brani

Strumentali57
Vocali90
Danze5587 (89)
Incerti4

Sono presenti dunque moltissimi brani intavolati secondo la pratica prima descritta: sia chansons francesi, sia madrigali dal complesso tessuto contrappuntistico a quattro voci come Ancor che co’l partire di Cipriano De Rore su testo di Alfonso d’Avalos (n. 135). Come si può osservare dall’incipit del brano in figura, il testo viene sottoposto al rigo dell’intavolatura.

Fig. 2. Ms. Cavalcanti: incipit di Ancor che co’l partire (n. 135).

È interessante osservare come fra i brani vocali vi siano numerose arie da cantarsi per improvvisare testi poetici e particolari metri,56 come stanze in terza od ottava rima su formule e moduli accordali, secondo la tradizione antichissima e ben consolidata dei cantori al liuto italiani.57 Diamo qui la ricostruzione di un Rugiero attribuito a Santino Garsi da Parma (n. 39) sull’incipit della Gerusalemme liberata.

Fig. 3. Ms. Cavalcanti: Rugiero attribuito a Santino Garsi da Parma (n. 39).

Fig. 4. Pietro Millioni, La Siciliana (1661).

Fig. 5. Pietro Millioni, Siciliana (1627).

Vi è testimonianza perfino di moduli utilizzati al contempo per ballare, suonare e cantare/improvvisare testi come i due brani adespoti nn. 43 e 50 i cui titoli recitano rispettivamente Gagliarda da balare e cantare in baso e Gagliarda da balare in terza rima. Proseguendo la tradizione del cantare testi all’improvviso che troviamo fissata per iscritto almeno dai primi anni del Cinquecento,58 il ms. Cavalcanti mostra in nuce code strumentali di diversa lunghezza aggiunte alle formule e ai moduli improvvisativi, restituendoci un’immagine plausibile di un’abitudine esecutiva tipica di questo repertorio. Proprio in intavolature più tarde, come quelle di Pietro Millioni per chitarra spagnola, troviamo indicazioni più chiare in proposito. Ad esempio, l’aria di Siciliana viene talvolta notata in modo semplice,59 altre volte in modo più articolato, prescrivendo una serie di interpunzioni strumentali rese esplicite da rubriche apposte sulla pagina:60 un vero e proprio preludio strumentale che introduce l’intonazione poetica, un modulo ritmico-accordale per accompagnare il testo, un ritornello strumentale da eseguirsi fra le diverse stanze ed una coda strumentale a mo’ di finale dopo l’ultima stanza.

Il rapporto poesia-musica-actio

Per completare questa breve disamina, è necessario fare alcune considerazioni sulle interazioni e lo stretto rapporto esistente tra testo poetico, musica e performance. La poesia per musica, così come alcune forme della lirica a cavallo fra Cinque e Seicento, conserva ancora infatti quella qualità di «pulçella nuda vergognosa» di dantesca memoria che attende di essere rivestita affinché «possa andar là ’vunqu’è disïosa».61 Al centro di tutto vi è ancora il poeta/oratore, se teniamo conto che la lettura esofasica62 e la fruizione pubblica di testi, quali ragionamenti e rime, erano ancora elementi culturali centrali all’interno dei circoli intellettuali del tempo: la musica, così, rappresenta senz’altro un diverso e più alto grado di amplificazione del testo.

Perfino una raccolta di laudi vestite musicalmente a tre voci come il Tempio Armonico di Giovenale Ancina presenta, a conclusione dell’opera, una serie di testi sprovvisti di musica nonostante la data di pubblicazione (1599).

Fig. 6. Tempio Armonico (1599): esempi di testo messo in musica (sinistra) e testo poetico senza notazione musicale (destra).

Leggiamo nella lettera dedicatoria dell’opera che si avrà «piena soddisfazione» dall’esecuzione di tali componimenti solo se cantati a voce sola (e non a tre voci) sulla lira da gamba o sull’arpa. Questa è la ragione addotta dallo stesso Ancina per cui i testi alla fine della raccolta non sono stati corredati da musica: virtuosi del calibro di Giovanni Leonardo Dall’Arpa erano in grado di cantare/improvvisare, cioè «accomodare diverse arie» più liberamente e con «maggior effetto» accompagnandosi al suono dell’«indorato stupendo Arpone».63

[...] puotrà ancho V.E., quando così le piaccia, o torni più commodo, per sua più semplice et più domestica ricreatione sentirle cantar [scil. le Laudi] a suon di Lira dolce e soave, toccata dal gentilissimo Signor Antonio Messia Musico eccellente, qual nuovo Orfeo de’ nostri tempi; o pur (quel che sarà di tutto ’l meglio) chiamarsi tal volta il Signor Giovan Lionardo dell’Arpa, il qual in tal sua professione rarissimo et singolare, et in questa parte (senza adulatione) simile al Regio Salmista David leggiadramente cantando et suonando, come suole tra Prencipi, le porgerà honesto et gratioso trattenimento inestimabile. E per tal cagione a bello studio si sono lasciate alcune laudi nel fine dell’Opra schiette con le parole sole senza Musica, per serbarle a lui proprio, che accomodandoli divers’arie a suo modo, forsi più vaghe et più leggiadre, liberamente scorrendo ’l campo Triangolare dell’indorato suo stupendo Arpone, possa farle sentire con maggior affetto di cuore, e gusto di spirito, et con più piena sodisfattione di V.E. [...].64

La musica, come la citazione ben illustra, costituisce un mezzo potenziato per trasmettere il significato del testo, il quale riceve dalla forza dell’atto musicale (come l’altezza sonora, il ritmo, il timbro e, non dimentichiamo, anche la possibile ripetizione di segmenti testuali) un ulteriore elemento interpretativo (di cui è responsabile l’interprete/ improvvisatore o il compositore) e talvolta finanche nuovo vigore e forza espressiva. Insieme a queste caratteristiche, giacché di performance appunto si tratta, diamo conto anche degli elementi che potremmo definire drammaturgici: come già menzionato a proposito di Laura Peperara, spesso il termine che viene impiegato è «recitare», anziché cantare o intonare. Tale verbo, non a caso, restituisce le due macro-aree semantiche appartenenti rispettivamente all’azione teatrale e alla declamazione (e quindi alla trasmissione orale di un testo).65

Fig. 7. Possibili gradi di amplificazione del testo poetico.

La gestualità, l’espressione del viso e il linguaggio non verbale, se combinati con l’esecuzione musicale, restituiscono un livello esegetico aggiuntivo di esclusiva pertinenza dell’interprete. Troviamo, dunque, musica e actio entrambe al servizio della retorica del testo, del significato e quindi degli affetti che proprio all’inizio del Seicento vengono ad essere oggetto di riflessione teorica.

Fig. 8. Triangolo virtuoso del rapporto Poesia-Musica-Actio.

Giulio Caccini e la retorica degli affetti

Parlando di affetti e retorica all’alba del secolo XVII, non possiamo non menzionare un altro cantore e strumentista, Giulio Caccini, il quale ci permette di esplorare alcuni aspetti di prassi esecutiva riguardante la poetica e la sua resa musicale. Subito dopo aver pubblicato L’Euridice – uno dei primissimi esempi di melodramma in senso moderno che anticipa di qualche anno l’opera ben più famosa di Claudio Monteverdi sullo stesso soggetto – Caccini dà alle stampe, a Firenze per i tipi di Marescotti, Le nuove musiche.66 Tale raccolta, che include una lunga prefazione su questioni di prassi esecutiva, rappresenta una sorta di manifesto programmatico di fine carriera riguardante il ‘nuovo’ stile monodico e contenente una serie di regole per l’esecutore, il virtuoso rinascimentale. Insieme alle molte considerazioni che oggi potremmo ricondurre alla sfera dell’autopromozione, Caccini elenca i diversi tipi di ornamenti vocali mostrando come un cantante dovesse eseguire all’impronta un passaggio (cioè un’ornamentazione estesa) a seconda dell’affetto che voleva esprimere. Tale scelta era operata chiaramente in funzione dei concetti espressi e degli affetti che si volevano suscitare, criticando al contempo quegli esecutori che, per mettersi in mostra, esageravano nelle ornamentazioni floride senza ricercare alcuna sintonia con il testo e la retorica che esso suggeriva. Molte altre fonti coeve mostrano le stesse raccomandazioni assieme ad una prospettiva e ad un’estetica simili:67 il testo musicale scritto è solo una intelaiatura suggerita dal compositore che necessita di essere realizzata, tradotta nella prassi. L’esecutore insomma aveva il compito di scegliere la sua maniera e la sua interpretazione di una data composizione (testo e musica) a seconda del significato della medesima, così come un oratore farebbe per un discorso. È chiaro che tali pratiche non erano meramente meccaniche e sembrano molto vicine a processi di vera e propria ricomposizione in sede estemporanea. Nel seguente esempio, ricavato dal celebre trattato di ornamentazione e prassi esecutiva di Giovanni Battista Bovicelli, si può notare come anche il testo sia coinvolto in questo processo: per amplificare la res facta presa a modello e osservabile nel rigo superiore (ossia ciò che Adriano Banchieri chiamerebbe «memoria» del passaggio),68 il cantante avrebbe potuto scegliere una ornamentazione (scil. amplificazione) più meccanica, come nel rigo sottostante, o invece una versione più consapevole e coerente con il testo, come nell’ultimo rigo, che tiene anche in considerazione l’accentuazione della parola. È chiaro che del modello scritto (ossia composto, vd. il rigo superiore) rimane ben poco, venendo meno anche la disposizione con cui il testo viene percepito dall’ascoltatore.

Fig. 9. Giovanni Battista Bovicelli, Regole (1594).69

Ne Le nuove musiche, Caccini descrive un altro concetto essenziale per contestualizzare le prassi oggetto di questo studio, ovverosia la sprezzatura, intesa come nonchalance applicata alla musica (e al recitar cantando): un testo sarebbe stato più dilettevole e fluido se cantato alla maniera di un oratore con piena padronanza degli strumenti retorici dell’actio.70 Com’è ampiamente noto, il concetto della sprezzatura era stato al centro del Cortegiano di Baldassare Castiglione ed era stata rapidamente assimilata dai circoli di aristocratici e intellettuali: la sprezzatura deve nascondere tutta l’arte come se ogni atto fosse intrapreso senza sforzo e quasi senza pensare, dal momento che la vera arte è quella che non si vede e che quindi non deve sconfinare nell’affettazione.71 È necessario ricordare infatti che, nell’orizzonte culturale rinascimentale, la Natura – per quanto fosse buona perché creata da Dio – necessitava dell’aiuto dell’Uomo per raggiungere il suo pieno potenziale. Così come una voce di buona qualità (cioè di buona dispositione) in un cantante non addestrato era considerata di scarso valore,72 così una Natura meravigliosa non valeva nulla senza artifizio.73 Non si tratta, quindi, di una semplice questione di talento: al centro dell’attenzione vi è la maestria, il padroneggiare l’arte. Eppure la sprezzatura, come studiata nonchalance, chiede al virtuoso di nascondere interamente i suoi sforzi per padroneggiare tutte queste competenze ed abilità.

L’«esecuzione integrata»

Le testimonianze fin qui presentate, provenienti da fonti eterogenee che spaziano dalla lirica alla cronaca, dai trattati teorici alle fonti che tramandano il repertorio musicale, ci hanno aiutato a definire le principali componenti espressive essenziali del virtuoso rinascimentale. Indugiando, infatti, sulle abilità coreutiche, improvvisatorie melico-poetiche, attoriali e oratorie che i casi presi in esame presentavano, abbiamo voluto delineare il bagaglio di abilità e competenze condiviso da cantanti e polistrumentisti, poeti e danzatori, ma anche da attori e buffones dell’epoca.74 Tuttavia, nel tentativo di avere una visione d’insieme di questo fenomeno complesso, anche in relazione al lessico utilizzato, abbiamo rilevato come i testi che descrivono le figure di cantanti-strumentisti, siano essi cortigiani/e o poeti/esse, non diano conto in modo completo delle loro abilità, ma offrono informazioni spesso parziali. Questo aspetto comporta un ulteriore elemento di difficoltà, da aggiungere alla natura composita dei documenti, che rende problematica una chiara mappatura del fenomeno della performance poetico-musicale-coreutica. È stato necessario, dunque, ripensare un nuovo paradigma con cui descrivere, analizzare, nominare e financo riattualizzare tale fenomeno. In ossequio alla natura delle artes e, al contempo, al fine di valorizzare la ricerca dei singoli elementi costituitivi della complessità dell’intreccio fra competenze maturate e abilità mostrate, – che, beninteso, si basa sull’effimera rivivificazione del dialogo fra costruzione ed espressione del virtuoso nell’hic et nunc performativo, in breve fra potenza e atto –, ho deciso di introdurre il termine «esecuzione integrata» (o integrated performance), riconcettualizzando precedenti lavori di Victor Coelho. Egli, infatti, ha sottolineato come le fonti musicali per voce e liuto che trasmettono il riflesso di moduli e formule fondate su una pratica improvvisatoria aurale, ove non vi era soluzione di continuità fra decorso testuale e gestualità strumentale, si basino su un addestramento multidisciplinare ma non segmentato – insomma, omnicomprensivo – specificamente rivolto al musicista rinascimentale.75

Questo tipo di addestramento, che forniva all’interprete l’accesso alle abilità necessarie per una esecuzione integrata attraverso un processo paragonabile all’information retrieval, incarna perfettamente un’assimilazione non gerarchica di competenze poetiche, musicali, coreutiche e oratorie. Ad una tale forma mentis non poteva che corrispondere, anche in termini musicali, una concezione polifonica e polilineare della composizione – termine che preferisco utilizzare nella sua accezione etimologica, che rinvia all’azione di porre insieme elementi diversi.

Ritengo, così, che categorie come monodia, pseudo-monodia, proto-monodia, canto auto-accompagnato76 implicanti una gerarchizzazione e una supremazia della voce sull’accompagnamento, non siano affatto efficaci per descrivere, almeno per tutto il corso del Cinquecento, l’esecuzione integrata fra recitazione e vestizione del testo.

In primo luogo, osserviamo come spesso tali prassi prevedessero la presenza contestuale di più di un esecutore: era abitudine delle dame ferraresi cantare e, allo stesso tempo, suonare sui loro strumenti (arpa, liuto e viola) in compagnia di altri cantanti, quali Giulio Cesare Brancaccio, e strumentisti, come Luzzasco Luzzaschi e Ippolito Fiorino (tastiera e liuto grosso), anch’essi potenzialmente coinvolti vocalmente nell’esecuzione. Alcune fonti, come il manoscritto Mus. F. 1358 della Biblioteca Estense, che presenta due/tre voci di soprano appaiate,77 oppure gli ultimi madrigali della raccolta di Luzzaschi del 1601 per due e tre soprani, mostrano esattamente il genere di organico di cui stiamo parlando: è chiaro come in nessuno di questi casi sia possibile semplificare tali esecuzioni dando loro l’appellativo di canto auto-accompagnato.

In secondo luogo, posto che si voglia attribuire una gradazione di importanza fra le diverse voci, non è affatto chiaro quale sia la parte da privilegiare in questa gerarchia: talvolta la parte di cantus, anche eseguita una ottava sotto, risulta composta con maggiore attenzione. In altri casi la situazione appare più incerta,78 dato che è noto come i cantori, anche all’inizio del Seicento, intonassero solo alcune parti di un tessuto polifonico più ampio – certamente optando per l’aderenza al proprio registro vocale e non per criteri compositivi – costringendo l’organista a suonare, intavolando, le parti non coperte dalle voci:

Fig. 10. Luzzasco Luzzaschi, incipit di Occhi del pianto mio per tre soprani.79

Molte sono state le cagioni (cortesi Lettori) che mi hanno indotto à comporre questa sorte di Concerti: fra le quali questa è stata una delle principali: il vedere cioè, che volendo alle volte qualche Cantore cantare in un Organo o con Tre voci, o con Due, o con una sola erano astretti [...] di appigliarsi ad Una o Due, o tre parti, di Motetti a Cinque, a Sei, a Sette, et anche a Otto. [...] le quali rendevano la maniera del canto, o imperfetta, o noiosa, od inetta, et poco grata [...] vi era anco incommodo grandissimo di cantori in cantarle.80

In altre parole, qualora si tratti di repertorio contrappuntistico o, più in generale, quando non sia possibile trovare una voce guida (ossia prevalente sul resto dell’esecuzione) risulta privo di senso parlare di voce accompagnata. Per una tale categoria sarà necessario attendere la maturazione del cosiddetto stile monodico, per poter osservare qualcosa di più simile (almeno per taluni aspetti) al concetto compositivo di una voce principale accompagnata da uno o più strumenti. Precorrono, tuttavia, queste tendenze seicentesche alcune composizioni in voga già a partire dagli anni Settanta del Cinquecento, caratterizzate da forme strofiche più semplici e testure polifoniche polarizzate, come ad esempio le canzonette e gli aeri: in questi brani prevale l’omoritmia e una maggiore contrapposizione fra melodia e linea di basso in cui le parti inferiori risultano di supporto alla voce.

Dopo aver analizzato la nascita di forme più definite di canto solistico, fortemente gerarchizzate in una voce cantante e un organico strumentale di sostegno, possiamo provare a fare alcune considerazioni conclusive. Innanzitutto è stato fondamentale riconsiderare le fonti note alla storiografia in chiave performativa: tale processo, come evidenziato in apertura, ci ha consentito di rinsaldare non solo il legame fra poesia e musica, ma anche di proiettare entrambe all’interno delle cosiddette arti del tempo, per osservare come la componente esecutiva risulti paritetica e informativa nei confronti della componente testuale. In questo modo, anche guardando ad analoghi casi di studio di ambienti circoscritti,81 abbiamo la possibilità, anche per il secondo Cinquecento, di valorizzare l’antitesi fra oralità e scrittura per comprendere sia gli elementi generativi del repertorio sia quelli formativi, quelli cioè delle competenze necessarie alla trasmissione e amplificazione retorica, incarnata in ciò che abbiamo definito come «esecuzione integrata». Tale novità concettuale, che ha una forte valenza sul piano storiografico, allo stesso tempo rappresenta una sfida per l’esecutore moderno e un invito a riappropriarsi delle tecniche improvvisative e delle competenze che abbiamo osservato nelle pagine precedenti, per recuperare e dare nuova vitalità al linguaggio retorico-espressivo della musica rinascimentale. Come è stato evidenziato a più riprese, lo studio della prassi esecutiva del repertorio poetico e musicale consente oggi di rimpossessarsi di una serie di meccanismi connaturati all’essenza del rapporto fra testo e musica.

Tuttavia, è possibile compiere questo passaggio solo grazie ad un rinnovato interesse pedagogico che contempli una sinergia fra le diverse arti, attraverso il superamento dello iato disciplinare che sta alla base dell’attuale sistema formativo: come già rilevato in altre sedi82 ove ho ridiscusso il concetto di prassi esecutiva storicamente informata (Historically Informed Performance Practice o «HIPP»), risulta evidente che in mancanza di una rivalutazione e un’acquisizione in termini operativi delle competenze che connotavano l’antico virtuoso, ossia senza una pedagogia musicale storicamente informata (Historically Informed Music Pedagogy o «HIMP»), non sarà possibile ricucire il legame interrotto fra poesia e musica, espresso nella loro intrinseca natura performativa. È altresì vero che il sistema produttivo artistico costituisce, oggi come allora, un tassello imprescindibile sia per la valutazione in chiave storica del fenomeno dell’esecuzione integrata sia per la sua riattualizzazione alla luce delle mutate committenze e dei contesti di fruizione del repertorio.

Quanto rilevato, seppure nello spazio concesso per questo intervento, ci consente di guardare con occhi nuovi non solo ai rapporti tra testo letterario, musica e performance, ma anche ai grandi cambiamenti della storia della musica, quali la ri-nascita della cosiddetta monodia, rendendo giustizia a processi e pratiche che si sono sedimentate anche in consuetudini scrittorie a partire dal Seicento.

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1 Per ascoltare alcune delle modalità esecutive qui esposte, si invitano i lettori a visitare la pagina https://www.PalmaCHoralis.org e il canale https://www.youtube.com/PalmaChoralisorg. Desidero qui ringraziare Franco Tomasi e Valeria Di Iasio per l’invito ad esporre queste mie ricerche in occasione del convegno Storia e forme del libro di rime tra secondo Cinquecento e primo Seicento tenutosi il 28 e 29 novembre 2019 presso l’Università di Padova; Marcello Mazzetti per aver ‘concertato’ con me i nostri due interventi e avermi accompagnato al liuto nelle esemplificazioni musicali che ho cantato durante la mia presentazione; Elisabetta Selmi e i colleghi presenti – Jacopo Galavotti, Alessandro Metlica, Federica Pich, Paolo Procaccioli, Emilio Russo, Paolo Zaja – per i proficui scambi e la stimolantissima discussione a chiusura dei lavori. Sono altresì grato a Laurie Stras, Emiliano Ricciardi ed Ester Pietrobon per le molteplici occasioni di confronto sul tema della performance fra poesia e musica nel contesto ferrarese e, più in generale, del tardo Cinquecento. Infine, ringrazio Franco Tomasi e i revisori per il prezioso aiuto con l’edizione dei testi poetici.

2 Lucidario in musica [...] composto dall’eccellente et consumato musico Pietro Aron [...], Venezia, Girolamo Scotto, 1545, libro quarto, cc. 32r-33r.

3 De le Rime di diversi nobili poeti toscani [...] libro secondo, a cura di Dionigi Atanagi, Venezia, Lodovico Avanzo, 1565.

4 De le Rime, cit., c. 154r: l’enfasi in tutti i testi riportati è mia.

5 Ivi, c. 154v.

6 È interessante notare come Benedetto Guidi e Paolo Virchi furono entrambi attivi a Brescia. Si veda almeno: Paolo Virchi, Il Primo Libro di Tabolatura di Citthara di Ricercati Madrigali Canzoni Napolitane et Saltarelli. Venezia, Girolamo Scotto, 1574; Dinko Fabris, “Il primo libro di Tabolatura di Citthara” di Paolo Virchi (1574) e la tradizione degli strumenti a corda a Brescia nel Cinquecento, in Rosa Cafiero e Maria Teresa Rosa Barezzani (a cura di), Liuteria e musica strumentale a Brescia tra Cinque e Seicento: Atti del Convegno (Sessione organologica: Salò, 5-6 ottobre 1990), Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, 1992, vol. 2, pp. 65-89.

7 «Una Madonna Virginia, la quale cantava eccellentissimamente, e sonava di liuto a perfezione, è lodata fra le Rime di Benedetto Guidi impresse nella Raccolta dell’Atanagi. Ella fu Virginia Agazzari», in Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Milano, Francesco Agnelli, 1742, vol. 2, p. 342.

8 De le Rime, cit., c. 11r.

9 «La Signora Franceschina Bellaman» in Lucidario in musica, cit., libro quarto, cc. 32r-33r.

10 Si veda, ad esempio, il sonetto Beltà divina in corpo uman possede («[...] la bella man di brame indegne») o il sonetto La bella man, che’n noi l’arco e la rete («[...] La bella man, ch’a gloriose mete», «[...] La bella man, che ago oprando vinse », «[...] La bella man, ch’a tutte il pregio tolse ») in Domenico Venier, Rime di Domenico Veniero senatore viniziano, Bergamo, Pietro Lancellotto, 1751, pp. 42 (n. 76), 46 (n. 83).

11 «Franceschina Bellamano fu virtuosa Donna, che cantava eccellentemente, e sonava di Liuto: onde fu a ragione celebrata nelle sue Rime da Domenico Veniero», in F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, cit., vol. 2, p. 342; vol. 5, p. 363.

12 Per «accento» in quanto termine tecnico che rinvia alla pratica di improvvisare ornamenti (in prima istanza vocali) si veda Regole, passaggi di musica, madrigali, e motetti passeggiati, di Gio. Battista Bovicelli [...], Venezia, Giacomo Vincenti, 1594; Prattica di Musica utile et necessaria si al compositore per comporre i canti suoi regolatamente, si anco al cantore per assicurarsi in tutte le cose cantabili [...] Composta Dal R.P.F. Lodovico Zacconi, Venezia, Girolamo Polo, 1592.

13 Cfr. le considerazioni a proposito del termine «citthara» in nota più sopra.

14 «A Franceschina. Divina, non che bella, è la mano vostra, Signora; [...] con cui ella dà lo spirito de l’armonia, a gli stromenti, e la voce de la musica al canto. Onde se Talia gareggiasse con voi ne la sonorità de gli accenti e de la cetera, si perderebbe in modo che saria depennata del registro de le muse. [...] Poco mancò, il dì che sonaste e cantaste a non so chi Duca e Duchessa; [...] nel sentirsi penetrare per l’orecchie al core, e per gli occhi a l’anima, la melodia de i vostri versi, e lo splendore del vostro viso», in Pietro Aretino, Lettere, Tomo IV, Libro IV, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno editrice, 2000, pp. 347-348 (Venezia, maggio, 1548).

15 Cfr. Abdelkader Salza, Madonna Gasparina Stampa e la società veneziana del suo tempo (nuove discussioni), «Giornale storico della letteratura italiana», 69 (1917), 1-2; Martha Feldman e Bonnie Gordon (a cura di), The Courtesan’s Arts: Cross-Cultural Perspectives, Oxford, Oxford University Press, 2006; Rosalind Kerr, The Rise of the Diva on the Sixteenth-Century Commedia Dell’Arte Stage, Toronto, Buffalo, London, University of Toronto Press, 2015. In particolare, si noti l’apparato di fonti iconografiche di quest’ultimo – dagli anni ’70 del Cinquecento fino agli anni ’10 del Seicento (pp. 25-28) – ritraenti attrici impegnate a suonare strumenti mentre cantano e recitano.

16 Per un caso di studio sull’aristocrazia nei domini di terraferma veneziani, cfr. Marcello Mazzetti e Livio Ticli, Per «il mantenimento d’una compitissima Musica». Il soundscape gambaresco fra diletto domestico, erudizione accademica e mecenatismo, in Barbara Bettoni (a cura di), I Gambara fra diplomazia, cultura materiale e mecenatismo, secoli XVI e XVII, Milano, FrancoAngeli, 2019, pp. 196-200.

17 Fra gli esempi più celebri ricordiamo Isabella d’Este e Margherita Gonzaga.

18 Catalogo di tutte le principal et più honorate cortigiane di Venetia, Venezia, 1565 (ristampa ed. Centro Internazionale della Grafica di Venezia, 1984).

19 «[...] i suoni, i canti e le lettre che sanno le femine, sono le chiavi che aprano le porte de la pudicizia loro» in Pietro Aretino, Lettere, Tomo I, Libro I, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno editrice, 1997, p. 204 (a Ambrogio De gli Eusebii, primo giugno 1538).

20 «Cicalar del mondo» è iperbole ironico-sarcastica che sta per scrivere ragionamenti e testi poetici.

21 Termine tecnico che rinvia ad un sistema di sei sillabe (ut, re, mi, fa, sol, la) utilizzate dai musicisti per l’intonazione degli intervalli melodici e, più in generale, per la lettura e l’esecuzione dei brani musicali.

22 Espressione resa con l’acronimo «HIPP» e tradotta come «prassi esecutiva storicamente informata». Come ormai rilevato dagli studi musicologici almeno degli ultimi trent’anni, la categoria ‘musica antica’ presenta varie problematicità: si vedano fra gli altri Richard Taruskin, Text and Act. Essays on Music and Performance, New York, Toronto, Oxford University Press, 1995; Bernard D. Sherman, Inside Early Music: Conversations with Perfomers, New York, Oxford University Press, 2010; Nick Wilson, The Art of Re-Enchantment: Making Early Music in the Modern Age, Oxford, Oxford University Press, 2014.

23 Per un inquadramento generale sulle abilità richieste alle varie figure professionali che si possono individuare nel tardo Rinascimento come esecutori (cantores, in un’accezione diversa dalla nostra), contrapontisti e compositori, cfr. Marcello Mazzetti e Livio Ticli, «Quando de quintis terzisque calabat in unam octavam». Per una storia della prassi esecutiva della musica sacra a Brescia nel tardo Cinquecento’, in Maria Teresa Rosa Barezzani e Mariella Sala (a cura di), Cultura musicale bresciana. Reperti e testimonianze di una civiltà, Annali di storia bresciana 5, Brescia, Morcelliana, 2017, pp. 223-293: 233, 244-245.

24 Fra i più recenti, ricordiamo: «Signor che di virtù raggi l’impero». Il ruolo dei Gambara fra mecenatismo, erudizione e diletto domestico a Brescia fra XVI e XVII secolo (con Marcello Mazzetti, Convegno annuale della Società Italiana di Musicologia, Matera, 2019); Verso l’«Integrated Performance»: Jacques Wert, Laura Peperara e il virtuoso rinascimentale (Colloquio di Musicologia del Saggiatore Musicale, Bologna, 2019); The Italian Virtuoso: Art Synergies and Music Skills in the Renaissance; Towards the “Integrated Performance”: The Thorny Relationship between Polyphony and Monody (Medieval and Renaissance Music Conference, Basel, 2019; Edinburgh, 2020).

25 È possibile fare le medesime considerazioni esposte più sopra in nota riguardo all’etichetta ‘musica antica’. Si vedano anche Philip Pickett, Hard-Sell, Scholarship and Silly Titles, in David Fallows e Tess Knighton (a cura di), Companion to Medieval and Renaissance Music, Oxford, Oxford University Press, 1992, pp. 48-59; Kenneth Kreitner, Bad News, or Not?: Thoughts on Renaissance Performance Practice, «Early Music», 26, no. 2 (1998), pp. 323-333; Bruce Haynes, The End of Early Music: A Performer’s History of Music for the Twenty-First Century, New York, Oxford University Press, 2007.

26 Anna Siekiera, Sulla terminologia musicale del Rinascimento. Le traduzioni dei testi antichi dal Quattrocento alla Camerata de’ Bardi, in Fiamma Nicolodi e Paolo Trovato (a cura di), Le parole della musica. Studi di lessicologia musicale, Firenze, Olschki, 2000, vol. 3, pp. 3-30.

27 Nino Pirrotta ed Elena Povoledo, Li due Orfei: da Poliziano a Monteverdi, Torino, Einaudi, 1975; Susanne Pollack, Il dolce potere delle corde: Orfeo, Apollo, Arione e Davide nella grafica tra Quattro e Cinquecento, Firenze, Olschki, 2012.

28 Cfr. Luca Degl’Innocenti, Brian Richardson e Chiara Sbordoni (a cura di), Interactions between Orality and Writing in Early Modern Italian Culture, London-New York, Taylor & Francis, 2016; Blake Wilson, Singing to the Lyre in Renaissance Italy: Memory, Performance, and Oral Poetry, Cambridge, Cambridge University Press, 2019.

29 Cfr. Pietro Della Valle, Della musica dell’età nostra che non è punto inferiore, anzi, è migliore di quella dall’età passata [1640]. Al Sig. Lelio Guidiccioni. Discorso di Pietro Della Valle, in Angelo Solerti (a cura di), Le origini del melodramma: testimonianze dei contemporanei, Torino, Fratelli Bocca, 1903, p. 171: «Oggi [...] amando più le genti di sentir cantare a mente con gli strumenti in mano con franchezza, che di vedere quattro o cinque compagni che cantino ad un tavolino col libro in mano, che ha troppo del scolaresco e dello studio: e che sia vero, noti V. S. che nelle chiese ed in altri luoghi, dove è necessario di cantare e sonare con le carte innanzi, i musici ne’ cori sempre si cuoprono con panni o con gelosie, acciocché non siano veduti».

30 Concetto legato alle teorie di Alfred Tomatis, Marie-Louise Aucher e Marco Galignano che estendono la semantica della mimesis grazie agli studi sull’audio-psico-fonologia in auge a partire dalla seconda metà del Novecento.

31 «Et questo è che secondo il giudicio mio non è mai stata, ne è ne possa essere per lo avenire già mai, donna che si possa in tutte le parti pareggiare alla signora Tarquinia nostra. Perciò che considerate le qualità et eccellenze sue, non se ne troverà niuna che le possa havere insieme tutte»: com’è noto tale Orazione si trova in Francesco Patrizi, L’Amorosa filosofia, a cura di John Charles Nelson, Firenze, Le Monnier, 1963, p. 12.

32 Per i termini “cantori al libro”, “cantori al liuto” e “donne a liuto et a libro” si veda Lucidario in musica, cit., libro quarto, cc. 32r-33r.

33 F. Patrizi, L’Amorosa filosofia, op. cit., p. 13.

34 Ibid.

35 Ne la dolce stagion di primavera («Rime de la Signora Tarquinia Molza Porrina») in Pietro Vinci, Terzo libro de madrigali a cinque voci, Venezia, Girolamo Scotto, 1571; La luce occhi miei lassi («Rime de la Signora Tarquinia Molsa da Modena») in I frutti di Giovan Leonardo Primavera [...]. A cinque voci con un dialogo a dieci nuovamente posti in luce. Libro quarto, Venezia, Girolamo Scotto, 1573. Per questa e la prossima identificazione si veda Elio Durante e Anna Martellotti, «Amorosa fenice». La vita, le rime e la fortuna in musica di Girolamo Casone Da Oderzo (c. 1528-1592), Firenze, Olschki, 2015, pp. 133-139.

36 «O non intenderà ogni maniera di autore latino e conoscerà et intenderà i luoghi più difficili di Catullo e di Tibullo e di Horatio; o non iscriverà epistole latine purissime et candidissime. O non haverà imparato la lingua greca da’ primi principi in meno di tre mesi tanto avanti che col havere udito solo un terzo del Fedro di Platone, ardisca di aprire a caso qualsivoglia luogo degli altri libri di Platone et intendere da sè sola et senza alcuno aiuto di molte righe; et di intendere tutto un capitolo della Etica di Aristotele, sicuramente. O non sarà così capace di qualsivoglia materia più dificile della filosofia peripatetica e platonica e pitagorica e egittia. O non sarà così intendente di tutti i misteri della teologia vera de’ christiani» in F. Patrizi, L’Amorosa filosofia, cit., pp. 13-14.

37 E. Durante e A. Martellotti, «Amorosa fenice», cit., pp. 136-137. L’interesse condiviso degli intellettuali dell’epoca verso gli astri e verso tanti altri campi del sapere fra cui la musica, è visibile nella descrizione dello studiolo data nel dialogo Malpiglio secondo: «[...] e altre palle di marmo di varî colori, e vari cristalli da ristorar la vista e vari instrumenti di musica; altri da osservar l’altezza del polo, altri per gli altri usi de l’astrologia e de la geometria: e tutte queste cose erano in guisa disposte ch’altrettanto meritava d’esser lodato l’ordine quanto la vaghezza», in Torquato Tasso, Dialoghi, a cura di Giovanni Baffetti, Milano, Rizzoli, 1998, vol. II, pp. 623-624.

38 «Mentre l’ardenti stelle | Con due più chiare e belle, | Tarquinia, contemplate | Il ciel esser vorrei [...]» in Primo libro de’ madrigali di Luzzasco de’ Luzzaschi [...]. A cinque voci, Ferrara, Francesco de’ Rossi, 1571. Cfr. anche Repertorio della Poesia Italiana in Musica, 1500-1700, a cura di Angelo Pompilio, n. 1584800, 10/01/2021, http://repim.muspe.unibo.it. Il testo, come ipotizzato in Anthony Newcomb, Complete unaccompanied madrigals part 4 : Il primo libro de’ madrigali a cinque voci (Ferrara, 1571); Secondo libro de madrigali a cinque voci (Venice, 1576), Middleton, Wis., A-R Editions, 2010, p. xv, mostra molte somiglianze con il madrigale tassiano Tarquinia se rimiri (Rime, n. 560); Tasso in music project, a cura di Emiliano Ricciardi, 10/01/2021, http://tassomusic.org/work/?id=Trm0560a.

39 Torquato Tasso, Dialoghi, a cura di Ezio Raimondi, Firenze, Sansoni, 1958, vol. II, tomo II, p. 757 (n. 47).

40 Circostanze di questo genere non erano certo estranee all’ambiente ferrarese come si può osservare in fonti come Discorsi del conte Annibale Romei gentil’huomo ferrarese, Verona, Girolamo Discepoli, 1586.

41 Elio Durante e Anna Martellotti, Cronistoria del concerto delle dame principalissime di Margherita Gonzaga d’Este, Firenze, SPES, 1989, pp. 205-219.

42 L’abbondante iconografia e gli studi organologici mostrano quanto fosse comune la pratica di appoggiare su tavoli e ripiani tali strumenti. I clavicembali italiani erano infatti composti di una cassa (interna) che costituiva il corpo dello strumento vero e proprio e, spesso, di un’altra cassa detta levatoia (esterna) separata fisicamente dall’altra: il corpo dello strumento veniva, dunque, posto all’interno della cassa levatoia con funzione protettiva dal momento che tali tipi di clavicembali – costruiti in legni pregiati – avevano fasce sottilissime: cfr. John Henry Van der Meer, Alla ricerca dei suoni perduti: arte e musica negli strumenti della collezione di Fernanda Giulini, Milano, Villa Medici Giulini, 2006, p. 27.

43 Si veda ad esempio «Una Tavolina, con piedi intagliati per un organo» o «Un tavolino d’asse ordinario co’ piedi intagliati» nei documenti nn. A226, A229 in E. Durante e A. Martellotti, Cronistoria, cit., pp. 217, 219.

44 «Il piede dell’organino di veluto, con piedi intagliati» nel documento n. A224 (10 marzo 1612): ivi, p. 215.

45 Torquato Tasso, Aminta, a cura di Davide Colussi e Paolo Trovato, Torino, Einaudi, 2021, at. I, sc. II, 610-627.

46 «E venuta da Mantova una Damisella à S.A. che canta et suona eccelentissimamente et è bella» (Leonardo Conosciuti a Luigi d’Este, 4 maggio 1580); «Le meraviglie della voce, del suono, e della maniera di quella Dama Mantovana chiamata la Peverara, da quale altra volta ho accennato à V.A.S.» (Urbani, 26 giugno 1581): Emilio Durante e Anna Martellotti, Giovinetta Peregrina. La vera storia di Laura Peperara e Torquato Tasso, Firenze, Olschki, 2010, p. 10, 188. Riguardo alla formazione di Laura, si veda in particolare ivi, pp. 61, 63, 65.

47 Discorsi del conte Annibale Romei, cit., p. 128.

48 Vi sono molte fonti iconografiche e trattati dell’epoca che mostranoe spiegano dettagliatamente come amplificare un testo poetico in modo retorico attraverso una serie di gesti altamente codificati. Ricordiamo, tra le fonti a stampa e manoscritte più importanti, Giovanni Bonifacio, L’arte de’ cenni con la quale formandosi favella visibile, si tratta della muta eloquenza, che non è altro che un facondo silentio, Vicenza, Francesco Grossi, 1616; Il corago o vero alcune osservazioni per mettere bene in scena le composizioni drammatiche, a cura di Paolo Fabbri e Angelo Pompilio, Firenze, Olschki, 1983; Cesare Ripa, Iconologia, a cura di Piero Buscaroli, Milano, TEA, 1992.

49 Discorsi del conte Annibale Romei, cit., p. 22.

50 Ci sono tracce nel repertorio già dalla fine degli anni Settanta del Cinquecento, che farebbero ipotizzare un processo generativo di segno inverso, ossia che dalla canzonetta a voce sola, i compositori abbiano reso più ‘convenzionale’ la scrittura dei brani attraverso un tessuto polifonico-contrappuntistico, come lascia intendere Laurie Stras, Women and Music in Sixteenth-Century Ferrara, Cambridge, Cambridge University Press, 2018, p. 205-208.

51 Brussels, Bibliotheque Royale Albert Ier, Ms II 275.

52 Victor Coelho, Reviewed Work: Tablature de luth italienne, dit Siena Manuscript (ca 1560-1570) by Arthur Ness, «Notes», 46, n. 4 (1990), pp. 1060-1063.

53 Benjamin W. Thomas, The Lute-Books of Giulio Cesare Barbetta: A Polyphonic Transcription of the Composer’s Complete Works and an Analysis of the Fourteen Fantasias, Tesi di dottorato, North Texas State University, 1973.

54 Cfr. Victor Coelho, The Reputation of Francesco da Milano (1497-1543) and the Ricercars in the “Cavalcanti Lute Book”, «Revue Belge de Musicologie», 50 (1996), p. 50: «[...] since Cavalcanti is an important point of reference in the history of Italian music that offers a bifocal perspective on the music of both past and future».

55 Per i brani ascrivibili sia al repertorio per danza sia a quello vocale vedi più sotto.

56 Si vedano ad esempio: Aria alla ciciliana (n. 42), Aria per istanze (n. 99), Aria (n.146).

57 Cfr. David Nutter, Ippolito Tromboncino, Cantore al Liuto, «I Tatti Studies in the Italian Renaissance», 3 (1989), pp. 127-74.

58 Cfr. L. Degl’Innocenti, B. Richardson e C. Sbordoni (a cura di), Interactions, op. cit.; Maurizio Agamennone (a cura di), Cantar ottave. Per una storia culturale dell’intonazione cantata in ottava rima, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2017.

59 Nuova corona d’intavolatura di chitarra spagnola novamente ristampata secondo il vero originale di Pietro Millioni. [...], Roma, Erede del Mancini, 1661.

60 Quarta impressione del primo, secondo, et terzo libro d’intavolatura. Di Pietro Millioni. Sopra il quale ciascuno da se medesimo puol’imparare a sonare di Chitarra Spagnola [...], Roma, Guglielmo Facciotti, 1627.

61 Dante Alighieri, Se Lippo amico [Rime, XLVIII]. Segnaliamo che tale topos è discusso anche da Brugnolo e Beltrami che lo riscontrano rispettivamente nel Tristano veneto e in Folchetto di Marsiglia: cfr. Pietro G. Beltrami, Osservazioni sulla metrica dei siciliani e dei siculo-toscani, in Dai Siciliani ai siculo-toscani: lingua, metro e stile per la definizione del canone. Atti del Convegno (Lecce, 21-23 aprile 1998), a cura di Rosario Coluccia e Riccardo Gualdo, Galatina, Congedo Editore, pp. 206-207 (Appendice I: La parola sonetto); Furio Brugnolo, Traduzioni poetiche nella Scuola siciliana, in Premio “Città di Monselice” per la traduzione letteraria e scientifica, vol. XVIII (31–32-33), a cura di Gianfelice Peron, Padova, Il Poligrafo, 2004, pp. 270-91. Inoltre, troviamo un parallelo anche in Bertran Carbone che paragona la cobla senza musica ad un mulino senz’acqua, come si evince dal commento al passo dantesco in Dante Alighieri, Opere minori, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Bruno Nardi, Arsenio Furgoni, Giorgio Brugnoli, Enzo Cecchini e Francesco Mazzoni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, vol. 5, tomo I, parte I, p. 313. Per l’utilizzo sinonimico dei verbi dire e cantare agli estremi dell’arco cronologico preso in oggetto da questa indagine si vedano Antonfrancesco Doni, Dialogo della musica [Venezia, Girolamo Scotto, 1544], a cura di G. Francesco Malipiero, Vienna-Londra-Milano, Universal edition 1965; L’Artusi overo delle imperfettioni della moderna musica ragionamenti dui. Ne’ quali si ragiona di molte cose utili, et necessarie alli moderni compositori. Del R.P.D. Gio. Maria Artusi da Bologna, Venezia, Giacomo Vincenti, 1600, c. 2v: rispettivamente «canteremo e novelleremo ad un tempo» e «Nel quinto luoco ci poneremo, che quelle persone che hanno da recitare, sia o con le voci, o con Instromenti; più recitino con le orecchie, che con la voce o con Instromenti». Si vedano inoltre i lavori di Elena Abramov-van Rijk, Parlar Cantando: The Practice of Reciting Verses in Italy from 1300 to 1600, Bern-New York, Peter Lang, 2009; Singing Dante: The Literary Origins of Cinquecento Monody, Farnham, Ashgate, 2014.

62 Per un inquadramento generale dei primi passi nella storia dell’emancipazione della lettura endofasica da quella esofasica si veda Alberto Manguel, A History of Reading, New York, Penguin Books, 2014, p. 12.

63 Non è certo un caso isolato all’interno del mondo aristocratico. Tale uso, che vedeva spesso l’inviare ai mecenati sia testi poetici (corredati o meno di musica), era giustificato dalle pratiche e tecniche di improvvisazione conosciute sia dai committenti sia dai musicisti (quest’ultimi spesso anche salariati come insegnanti all’interno delle case nobiliari). Cfr. Marcello Mazzetti e Livio Ticli, «I Raggi Della Chiarissima Casa Gambaresca». The Gambaras’ Music Patronage and the Performance Practice in 15th-17th-Century Brescia’, in Galliano Ciliberti (a cura di), Studies on Italian Music History 15, Turnhout, Brepols, 2021, 5§ Singers-Players and Performance Practice in The Maggi-Gambara Family (1570s-80s), pp. 283-293.

64 Dall’esemplare a stampa London, The British Library, D.38 [RISM B/I, 15996]: Tempio armonico della beatissima Vergine N. S. fabricatoli per opra del r. p. Giovenale A. P. [...] Prima parte a tre voci, a cura di Giovenale Ancina, Roma, Nicolo Mutij, 1599, p. [6].

65 Vd. Recitare, in Salvatore Battaglia e Giorgio Bàrberi-Squarotti (a cura di), GDLI, vol. 15, Torino, UTET, 1961-2002.

66 Le nuove musiche di Giulio Caccini, Firenze, Marescotti, 1601.

67 Cfr. almeno Vincenzo Giustiniani, Discorso sopra la musica de’ suoi tempi (1628), in A. Solerti, Le origini del melodramma, cit., p. 60 «[...] però che alla buona maniera di comporre e cantare in questo stile serve molto più l’intelligenza del concetto e delle parole, il gusto e l’imitazione di esso così nelle corde affettuose come nello esprimerlo con affetto cantando, che non serve il contrappunto».

68 Cfr. i «Cento variati passaggi accentuati alla moderna, Latini, & Volgari; dedotti in cellebri compositori de i nostri tempi, & con le note semplici à giovamento di chi conpone, aplicate in termine di memoria locale» in Cartella musicale nel canto figurato fermo, et contrapunto del P. D. Adriano Banchieri, Venezia, Giacomo Vincenti, 1614, p. 216.

69 Regole, passaggi di musica, op. cit., p. 7.

70 E. Abramov-van Rijk, Parlar Cantando, op. cit.

71 Cfr. Il libro del cortegiano del conte Baldasar Castiglione, Venezia, eredi di Aldo Manuzio, 1528, cap. XXVI: «Trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcun altra: e cioè fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia: perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dire quella essere vera arte, che non pare essere arte; né più in altro si ha da poner studio che nella nasconderla: perché, se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato».

72 Cfr. Giustiniani, op. cit., p. 108 («[le dame di Mantova e Ferrara] facevanoa gara, non solo quanto al metallo et alla disposizione delle voci, ma nell’ornamento di esquisiti passaggi tirati in opportuna congiuntura e non soverchi»); G. Caccini, op. cit., Ai lettori («più sonore le [vocali] aperte che le chiuse, come anco più proprie e più facili per esercitare la disposizione»).

73 Manifestazione visiva al di fuori dell’ambito musicale di questo genere di considerazioni è, ad esempio, la concezione della Natura nel giardino rinascimentale che spicca per la cura e la ricerca di simmetria geometrica a differenza di altre visioni paesaggistiche e naturalistiche: cfr. i giardini di Villa Lante (Bagnaia, Viterbo) e quelli di Ninfa (Cisterna di Latina).

74 Cfr. McDowell E. Kenley, Il Mattaccino: Music and dance of the Matachin and its role in Italian comedy, «Early Music», 40, n. 4 (2012), pp. 659-70; Camilla Cavicchi, Musici, cantori e “cantimbanchi” a corte al tempo dell’Orlando furioso, in Gianni Venturi (a cura di), L’uno e l’altro Ariosto in corte e nelle delizie, Firenze, Olschki, 2011, pp. 263-89.

75 Vd. V. Coelho, The Reputation; Victor Coelho, Raffaello Cavalcanti’s Lutebook (1590) and the Ideal of Singing and Playing, in Jean Michel Vaccaro (a cura di), Le Concert des voix et des instruments à la Renaissance. Actes du XXXIVe Colloque International d’Études Humanistes Tours, Centre d’Études Supérieures de la Renaissance, 1-11 juillet 1991, CNRS éditions, 1995, pp. 425, passim: « [...] towards reconstructing aspects of the unwritten tradition and to emphasize the integration of instrumental and vocal styles in the training of a sixteenth-century musician [...]. The Cavalcanti lute book [...] confirms that for Raffaello Cavalcanti, singing and playing was an activity that was integrated into his training as a competent lutenist».

76 Per una definizione della locuzione «self-accompanied singing» cfr. Robin Bier, The Ideal Orpheus: An Analysis of Virtuosic Self-Accompanied Singing as a Historical Vocal Performance Practice, Tesi di dottorato, University of York, 2013, p. 9: «[...] the act of performing vocal music while simultaneously playing one’s own accompaniment upon a separate instrument».

77 Modena, Biblioteca Estense, Mus. F. 1358, [ca. 1581-82]. Cfr. anche Stras, op. cit., p. 244.

78 Per una problematizzazione dell’esecuzione vocale del basso della composizione vedi anche Richard Wistreich, Warrior, Courtier, Singer. Giulio Cesare Brancaccio and the Performance of Identity in the Late Renaissance, Aldershot, Ashgate, 2007, pp. 129-217.

79 Madrigali di Luzzasco Luzzaschi per cantare et sonare a uno e doi e tre soprani fatti per la musica del già serenissimo duca Alfonso d’Este, Roma, Simone Verovio, 1601, pp. 38-41.

80 Lodovico Viadana, Cento concerti ecclesiastici a una, a due, a tre, et a quattro voci. Con il basso continuo per sonar nell’organo. Nova inventione commoda per ogni sorte de cantori, et per gli organisti, Venezia, Giacomo Vincenti, 1605, «A’ Benigni Lettori», p. [I].

81 Si vedano, fra gli altri, i lavori già citati di R. Wistreich, Warrior, Courtier, Singer, op. cit.; L. Degl’Innocenti, B. Richardson e C. Sbordoni (a cura di), Interactions, op. cit.; M. Agamennone (a cura di), Cantar ottave, op. cit.; B. Wilson, Singing to the Lyre, op. cit.

82 Questa problematica è stata sinteticamente evidenziata anche nella presentazione tenuta in occasione del recente convegno per il SagGEM (Gruppo per l’Educazione musicale del «Saggiatore musicale»): Marcello Mazzetti e Livio Ticli, Pedagogia storica e prassi storicamente informata: ali o simplegadi? Palma Choralis e la didattica al Dipartimento di Musica Antica “Città di Brescia”, Meeting di Pedagogia e Didattica della musica, Università di Bologna, 2019. In tale occasione ho potuto anche rilevare come l’attuale mercato influenzi negativamente l’integrazione di queste competenze all’interno del percorso formativo, relegando l’esecuzione integrata e collocando i contesti performativi che la favorirebbero ai margini del sistema produttivo.