Il libro di rime tra secondo Cinquecento e primo Seicento
OJ-italique-932
Note sparse su metrica e macrotesto
Introduzione
Nel secondo Cinquecento continua ad agire la spinta all’imitazione dei metri classici, già decisiva negli anni Trenta, che porta a sperimentare forme non petrarchesche, come odi saffiche, oraziane e pindariche, magari isolate in calce ai libri di rime, a segnalarne la distanza dal canone metrico petrarchesco e insieme a legittimarne la novità, come avviene con le Odi di Bernardo Tasso oppure con la serie di Inni di Gabriele Fiamma posta in fondo alle sue Rime spirituali. Recuperano inoltre una certa legittimità forme di notevole fortuna nella lirica cortigiana che il classicismo aveva marginalizzato, come il capitolo e l’ottava isolata (analoghi rispettivamente dell’elegia e dell’epigramma). Il secondo Cinquecento è anche un momento in cui la trattatistica si trova a inseguire un panorama di metri insieme limitato e fluido, in cui lo spazio per la sperimentazione e la novità convivono con la necessità di riconoscimento e di condivisione del codice formale del petrarchismo: tra i tanti indizi di queste pressioni concomitanti si può citare l’imitazione non rara degli schemi più anomali e provenzaleggianti di Petrarca, quelli di Verdi panni e S’il dissi mai,1 imitazione che sta proprio a indicare, nello sguardo sghembo verso l’anomalia, la convergenza tra fuga dalla ripetizione dell’identico e imprescindibilità di un modello decisivo.
Queste pagine, che intendono affrontare attraverso pochi esempi il nodo che stringe le scelte metriche e l’organizzazione dei libri di rime, sono organizzate lungo tre direttrici: la prima è la segnalazione di alcuni casi in cui la distribuzione delle forme metriche all’interno di una raccolta di rime d’autore sembra valere come indizio del loro particolare valore strutturale o propriamente macrotestuale; la seconda riguarda la messa in serie e l’intitolazione dei testi come indice della percezione di alcune forme metriche da parte dell’autore (o, altrettanto interessante, da parte dei curatori, nel caso di opere postume), e in particolare della canzonetta in quartine e della ballata; la terza infine è l’indicazione di un paio di casi notevoli di ibridazione tra forme metriche (cioè tra canzone e madrigale e tra canzone e ballata). A partire da questi casi particolari2 si propongono delle linee di metodo per incrociare lo studio dei fatti metrici (e quello spinoso della percezione delle forme metriche da parte degli autori) con quello della costruzione del libro di rime come macrotesto.
Il primo problema da affrontare è che fornire una definizione univoca di canzoniere, inteso come raccolta poetica d’autore internamente strutturata, che non sia genericissima è probabilmente impossibile. Pochissimi tra i raffinati e minuti meccanismi di seriazione petrarcheschi vengono realmente compresi dal petrarchismo cinquecentesco, e tra le molte possibilità di offrire un’impalcatura di qualche tipo alle raccolte ciascun autore ne privilegia di norma solo alcune: complessivo sviluppo di una vicenda autobiografica esemplare (eventualmente bipartita); coppie o terne di canzoni sullo stesso metro; piccole serie tematicamente omogenee (magari nella forma dei sonetti ‘fratelli’ sulle stesse rime);3 sonetto proemiale a sigillo di un percorso che culmina con una conclusiva sezione di tema spirituale. Qualche nuovo meccanismo viene in questa stagione ad aggiungersi al campionario, per esempio quello della corona di sonetti con ripresa del verso finale di un sonetto come primo verso del successivo.4 Per fare il punto, vale la pena di riprendere il dettagliato elenco di indicatori strutturali proposto da Simone Albonico:
Per osservare le raccolte di poesia cinquecentesche e tentare di riconoscerne gli eventuali schemi di aggregazione unitaria […] non ci si deve aspettare imitazioni rigide, ma piuttosto una varietà di soluzioni e una variabilità dei modelli e delle strategie attivi all’interno di una stessa raccolta. Si deve allora badare a diversi indicatori, che cerco di elencare: il numero complessivo dei testi in rapporto a eventuali modelli; il grado di coerenza/ incoerenza tonale e di continuità/discontinuità lessicale, stilistico-retorica e diegetica; i fatti metrici, tanto nella distribuzione delle forme che nei rapporti minuti di schemi rimici o singole parole rima tra testo e testo; i legami tra testi distanti e le eventuali simmetrie o specularità; la posizione dei testi, le distanze tra singoli testi e le proporzioni tra singole sequenze e raccolta; il profilarsi o meno di una vicenda personale collocata nel tempo (con rinvio esplicito a date, ricorrenze, occasioni annuali o stagionali), ed eventualmente nello spazio (con menzione di luoghi); la riconoscibilità o meno delle occasioni originarie dei testi; la posizione e la funzione dei singoli testi in redazioni precedenti o successive delle raccolte.5
A questo elenco, valido per la prima metà del secolo, si aggiungerà che, a fronte della complessiva perdita di solidità del modello petrarchesco nei decenni successivi, prendono piede forme di aggregazione su base metrica o tematica, accompagnate da una maggiore incidenza dei paratesti e dei decori tipografici (titoli e rubriche, iniziali decorate, frontespizi interni, fregi o grottesche). In generale, quando si vuole analizzare la struttura complessiva di un libro di rime, si deve riconoscere di trovarsi di fronte a una forma fluida, mai canonizzata in maniera assoluta, e proprio per questo aperta alla convergenza di più modelli e più principi strutturanti, la cui presenza simultanea ma variabile rende particolarmente efficace la formula, forse un po’ abusata, proposta nelle Ricerche filosofiche da Ludwig Wittgenstein per descrivere i giochi: tra i libri di rime si nota una «somiglianza di famiglia»,6 una condivisione variabile di caratteri di cui nessuno è di per sé indispensabile al riconoscimento.
Posizione e distribuzione
Il primo esempio che vorrei fare riguarda la possibilità di riconoscere un equilibrio distributivo delle forme, sia pure non retto da logiche di rigida esattezza numerica. Prendiamo le Rime di Orsatto Giustinian, pubblicate nel 1600 insieme a quelle del ben maggiore Celio Magno, suo amico fraterno. Nelle Rime, Simona Mammana ha riconosciuto una struttura tematica chiaramente scandita tramite i fregi che separano le diverse sezioni, mentre l’editore dell’unica edizione critica moderna non ha ritenuto di segnalarli, falsando così la percezione della struttura complessiva dell’opera.7 La più ampia sezione è, come prevedibile, quella amorosa, cui segue una coda di madrigali sempre amorosi, una sezione di sonetti coniugali (che ha avuto anche un’edizione moderna autonoma)8 e poi una sezione di funebri, una di varie, una di spirituali e infine una di corrispondenza. L’articolazione per temi non impedisce affatto che il libro funzioni anche come autobiografia idealizzata. L’intenzione è infatti, come d’uso nell’entourage di Venier, quella di disegnare, attraverso la disposizione dei temi, un percorso ascensionale e di redenzione:9 gli iniziali traviamenti amorosi che occupano la prima parte si giustificano nell’ottica della conclusiva sezione spirituale, alla quale segue quella delle rime di corrispondenza che riproduce all’interno del libro l’orizzonte comune in cui quella poesia era inizialmente prodotta e fruita. Restando sulla parte amorosa, noteremo che essa, prima della sezione madrigalistica e della sezione coniugale, si divide tra due successive figure femminili (la prima parte va dal sonetto II al XLI; la seconda dal XLII al LXX; escludo dal computo il sonetto proemiale). Anche se non siamo al livello di perfetta rispondenza tra sonetti e non sonetti che regola le parti degli Amorum libri di Boiardo, va notato che a entrambe le donne corrisponde una struttura che prevede per ciascuna solo sonetti (rispettivamente 39 e 28) e un unico componimento lungo di altra forma: per Cinzia, la prima amante, si tratta di una canzone (XXXV, Poi ch’al mio gran martire); si sceglie invece un’epistola in forma di capitolo (L, Pien di cocente ardor questa v’invio) per la seconda donna, nominata soltanto con il senhal passepartout di Sole, ma probabilmente da identificare con Olimpia Malipiero.10 Si deve poi osservare che la simmetria riguarda anche un altro aspetto: in ciascuna delle due parti, in cui comunque domina, come prevedibile, la tonalità disforica dell’amante solo e piangente per la distanza dell’amata, compare un sonetto su un episodio di soddisfazione erotica: l’io lirico stringe il seno a Cinzia in XXVII e invita la seconda donna a baciarlo in LIII, chiamandola col nome pastorale di Flora:
XXVII
Tra viva neve, in bel giardin d’amore, | |
la mano ardita avido amante io stesi | |
e, dolcemente ricercando, appresi | |
duo pomi acerbi e di soave odore; | 4 |
ond’ebro quasi e di me stesso fuore, | |
da soverchio piacer ch’al cor ne presi, | |
fatto ancor via più audace, in don gli chiesi | |
per refrigerio al mio cocente ardore, | 8 |
quando in atto cortese, a me rivolto, | |
il loro custode, Amor: «Son tuoi», mi disse, | |
«Ch’altri non v’ha ragion poco né molto, | 11 |
né so s’ad altro amante unqua s’aprisse | |
maggior tesoro, in breve spazio accolto, | |
o s’uom mai più di te beato visse».11 | 14 |
LIII
Godiamci amando, o mia diletta Flora, | |
or che largo e cortese Amor tra noi | |
così dolci consente i frutti suoi | |
nel più bel fior de l’età verde ancora. | 4 |
Baciami cento e mille volte a l’ora, | |
e più, se più baciarmi ancor tu puoi; | |
pareggino le stelle i baci tuoi | |
et il numero lor raddoppia ogni ora. | 8 |
Baciami sempre, a me bear rivolta, | |
e, se infiniti baci a me darai, | |
a te sembri baciarmi una sol volta; | 11 |
ma, quando di baciar stanca sarai, | |
giugni a la mia la bocca, et indi tolta, | |
fin che spirito avrem, non sia più mai.12 | 14 |
Un secondo caso, meno limpido, riguarda le Rime di Giacomo Zane, pubblicate nel 1562, appena dopo la sua morte prematura. Qui i trapassi biografici, che riguardano per due volte il passaggio dall’uno all’altro dei tre amori che si susseguono fino al sonetto CLI,13 sono in entrambi i casi marcati dalla presenza di sonetti dallo schema più raro (con quartine alternate, invece che incrociate).14 Va detto che la disponibilità di questi schemi è senz’altro motivata dal gusto arcaizzante e neostilnovistico15 di Zane, e che in ogni caso l’ipotesi di un loro valore strutturale non ha modo di venire confermata senza riserve, poiché il canzoniere è postumo e, se pure si sospetta, con l’editrice Giovanna Rabitti, una sistemazione d’autore,16 essa non potrà essere stata definitiva. In più tali schemi metrici non sono tutti e sempre in posizione liminare, ma questo non impedisce comunque di osservare una loro specializzazione preferenziale in questa funzione.
Un ultimo esempio sul rilievo conferito a una forma metrica dalla sua sede è la posizione conclusiva dell’unica ode saffica – metro che deve a Saffo il nome se non l’invenzione – di Gaspara Stampa. L’ultima edizione critica, pubblicata negli Stati Uniti per le cure di Jane Tylus e Troy Tower, ristabilisce provvidenzialmente l’ordine dell’editio princeps del 1554, che Abdelkader Salza aveva rimaneggiato nell’edizione laterziana del 1913. In quella riconfigurazione tematico-biografica dei testi si perdeva di vista il fatto che nella cinquecentina l’ode saffica volgare Di chi ti lagni, o mio diletto e fido (forse un componimento giovanile, un dialogo tra un amante, uomo, e Amore, di fatto estraneo alla vicenda sentimentale di Gaspara) concludeva la parte amorosa del canzoniere, prima che, separato da una grottesca e da una rubrica, il sonetto dedicato a Enrico II di Francia, Sacro re, che gli antichi e novi regi, inaugurasse una sezione di testi di vario argomento, spirituali e di corrispondenza.17 Difficile sottovalutare il legame stretto tra la presenza di una saffica volgare (12 quartine dialogate a schema AA(a5)Bb5) e l’identità di Gaspara Stampa come «Saffo de’ nostri giorni» o «de’ nostri dì Saffo novella»,18 legame che la posizione conclusiva della sezione amorosa e l’anomalia metrico-narrativa non possono che rinforzare: ancora una volta l’allestimento materiale del libro, compresi i testi di dedica e le decorazioni, si conferma elemento centrale, una guida da non smarrire in sede di edizione.
Serie e rubriche
La distribuzione delle forme metriche può fornire anche indicazioni su come venissero percepiti alcuni metri sia tradizionali che moderni: indicazioni ora indirette e ricavabili solo sulla base della loro messa in serie, ora dirette perché esplicitate da rubriche e didascalie. Un caso significativo è quello di Domenico Venier.19 Tra i testi poetici di Venier, mai raccolti a stampa in un’edizione complessiva, la grande maggioranza dei madrigali da lui composti è rimasta inedita, e nell’autografo (il Marciano Italiano IX 589 = 9765) i madrigali si presentano accostati in una piccola serie e una coppia: da 49 a 53 sono cinque prosopopee di Amore; 68 e 69 sono entrambi sulla fine di un amore.20 Questo è interessante non solo perché mostra come il poeta identificasse con chiarezza il metro e lo isolasse in riconoscibili sequenze metrico-tematiche, e non solo perché tale tendenza alla seriazione e all’isolamento dei madrigali sarà poi ripresa da altri poeti della sua cerchia (come Fenaroli, Giustinian e Magno, e prima ancora dalla stessa Stampa), ma anche perché in un’antologia pubblicata da Dionigi Atanagi nel 1565 il madrigale libero 185 (Per troppo ardente sete, a schema aBCcBbbdDeefF) precede immediatamente la ‘canzonetta’ 186 (Pien d’amoroso ardor mi struggo e sfaccio, tre quartine a schema AbbA).21 Purtroppo, nelle ricche note che accompagnano la Tavola degli argomenti in fondo al volume, Atanagi non si pronuncia sulla questione, ma il loro accostamento costituisce a mio avviso un indizio che tra le due tipologie metriche venisse percepita una stretta parentela, motivata dal fatto che i componimenti non canonici degli Asolani di Bembo, tra cui alcuni testi in quartine che di 186 sono il modello, potevano venir ricondotti alla forma del madrigale piuttosto che alla forma dell’ode d’ispirazione oraziana.22 A confortare l’ipotesi è il fatto che questa opinione è più tardi fatta propria anche da alcuni teorici; si legga, infatti, quanto dichiara su quei testi di Bembo Filippo Massini, nella sua lezione sul madrigale del 1588: «questi madrigali tutti di dodici versi formati sono, i quali sono ordinati di quattro in quattro a guisa di tre quartini, né altra ha differenza fra loro senonché alcuni d’essi hanno dei versi rotti mescolati, alcuni di versi interi tutti composti sono».23
Passiamo ora a osservare i titoli apposti dai curatori, Giovan Mario Verdizzotti e Celio Magno, alle sezioni metrico-tematiche delle Rime di Girolamo Molin, pubblicate postume nel 1573, dai quali si possono trarre alcune informazioni interessanti. Infatti, rispondendo forse solo in parte a una sistemazione d’autore, le sezioni in cui si dividono le Rime di Molin riflettono in maniera abbastanza trasparente un mutamento di sensibilità metrica, specie nei confronti di un genere progressivamente marginalizzato come la ballata.24 Molin compone diciassette ballate, otto ‘vestite’, pluristrofiche, e nove monostrofiche. Nelle sue Rime però, due di queste si trovano tra le «Canzoni amorose»; tredici si trovano tra le «Canzonette e madrigali amorosi»; una compone da sola una sezione intitolata «Madrigale in morte», mentre l’ultima è tra le «Canzoni spirituali». Insomma, il titolo «ballate» non compare mai: le ballate di una o due strofe sono affiancate a madrigali e ‘canzonette’ (ed è con questa denominazione che probabilmente Verdizzotti e Magno intendevano distinguere dai madrigali proprio i testi in quartine di cui dicevo, inclusi in questa sezione), mentre le ballate pluristrofiche sono incluse tra le canzoni. Per l’affiancamento delle ballate vestite alle canzoni si potrebbe tener conto di una definizione inclusiva che intende «canzone» genericamente come componimento in versi (così come capita di leggere in Bembo, Ruscelli, Minturno, nella Cavaletta di Tasso, ma già a partire dal Dante del De vulgari eloquentia), ma è invece notevole che quelle più brevi si trovino indicate come madrigali, ciò che denuncia una tendenza alla sovrapposizione dei metri brevi. Il caso più emblematico è proprio 180, Che giova il lagrimar? che giova il duolo, che forma da sola la sezione «Madrigale in morte», mentre si tratta evidentemente di una ballata mezzana di due stanze (del resto, già Girolamo Ruscelli, nel Modo di comporre del 1559 dubitava che occorresse distinguere tra madrigali e ballate).25 Insomma, le lenti di due poeti nati negli anni Trenta rileggono in maniera leggermente distorta il passato; una diversa gerarchia delle forme metriche e una maggiore libertà consentono di identificare senz’altro i componimenti brevi misti di endecasillabi e settenari come madrigali. Non è un caso isolato: sempre il già citato, e ben più giovane, Filippo Massini, per legittimare la possibilità di madrigali «regolati», interpreta, con un errore strategico, anche due antichi sonetti misti di endecasillabi e settenari di Cino da Pistoia come madrigali.26 Errore in cui invece non cade, parlando degli stessi testi, l’altro grande teorico del madrigale, Strozzi il Giovane, salvo poi non farsi scrupolo di ridurre la canzone 70 di Petrarca, Lasso me, a una somma di cinque madrigali.27
A riprova del fatto che l’identità metrica della ballata e le competenze circa i suoi principi costruttivi si andavano indebolendo, vale la pena di spostarsi avanti di pochi decenni per sfogliare il Lauro dell’urbinate Bernardino Baldi, pubblicato nel 1600.28 Nella tavola del volume vengono indicati come «Ballate» componimenti dalle forme più diverse, di cui è istruttivo riportare gli schemi metrici.29
Un dì ne ancor vestia | aAbBcCdD… (distici a rima baciata formati da un settenario e un endecasillabo) |
Era coperto il cielo | aabB cDDc eeff gGhH iilL mnNM ooPP (quartine a rima baciata e in due casi incrociata) |
Desio, ch’entro a me nasci | aabB… (quartine dialogate a rima baciata) |
Amor quelle catene | abbcddc eeffgghhi[l]limmnn (dialogo in due parti, 17° verso mutilo) |
Co’ rai de’ vostri lumi ivane altero | endecasillabi frottolati, chiusi da due endecasillabi a rima baciata |
Non chieder tu che leggi | abB cdD beE dfF egG fhH giI (terzine in cui il primo verso è in rima col verso centrale e finale di due strofe prima) |
Nel mio cor nubiloso | aBB cCdDeEfF gghH |
Quel Lauro che vedete | aAbBcCdDeEFFGgHH |
Non mi curo, Pittore | abB acC adD aeE afF agG ahH |
O d’impudica Dea | abB ccddeEfFgGhiiHllMmNnoopP qrrQ |
Veggiovi con gran cura | aBbAcdcDEEFFggHHIiLL (quartine a rima baciata e in un caso incrociata) |
La sferza de lo sdegno | Abbaccddeeffgg |
Si tratta principalmente di testi in distici, in terzetti o in quartine, oppure di madrigali con isolamento grafico e sintattico di uno spezzone di testo iniziale ed eventualmente anche di uno finale. Ma non finisce qui, perché Il Lauro è diviso a metà, e la seconda parte è occupata da una sezione deliberatamente imitativa della lirica duecentesca intitolata «Rime secondo l’uso de’ siciliani antichi». Anche qui però la fisionomia delle ballate, pur più vicina a quella medievale, ignora sistematicamente ogni simmetria tra le mutazioni, dimostrando che solo il ritorno di una rima della ripresa nella volta era sentito come necessario. Proprio dove cerca di riattingere alla fisionomia antica della forma (istituendo implicitamente una differenza tra ballate antiche e moderne), Baldi ne travisa uno dei principi strutturali. Anche di questa seconda serie di ballate riporto per comodità gli schemi.30
Far vollio demonstranza | xyyX + abBAaBccAddE effX |
Un vago, giovinetto ed aloroso | XyY + AbbAccDeE DyY |
Tutte le intelligenze de lo Celo | XyY + abaBcdde EyY |
Chero lodar l’Alloro | xxyY + abbadD eeyY (7 stanze) |
Da la dollia d’Amore | xyxY + abbacddC xyxY |
Sole lo Pellegrino | xxyY + aabBcddc yY |
Combattuta è mea nave | xyY + aBBaccddeEfFgG hyY |
Sì cara è la liama | xyxY + aabBcc dydY |
Per concludere questo discorso, torno velocemente a Orsatto Giustinian, per sfogliarne le rime manoscritte dell’autografo fiorentino (N. A. 470 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze), che consentono di ricostruire un caso di riduzione della ballata al madrigale. Qui troviamo infatti una prima versione del madrigale LXXIV, poi incluso in serie con altri otto nella seconda sezione delle Rime. La sua prima stesura (nell’edizione critica è l’estravagante 31) è proprio in forma di ballata irregolare: lo schema presenta una stanza eventualmente divisibile in due mutazioni, ma di ben sette versi e con in comune tra loro soltanto una rima in posizioni diverse (-aro, vv. 6, 14 e 16). Non sarà difficile notare l’identità dei primi tre versi, ma mentre nella prima versione i passaggi dell’argomentazione, in cui l’esempio di Narciso viene rivolto contro l’atteggiamento altero della donna, sono perfettamente integrati nelle partizioni metriche e l’inizio della stanza è marcato dall’anafora di «questo», la riscrittura è invece molto alleggerita, allo scopo di mettere in risalto la conclusione («e ’n vece d’un bel fior ti cangi in fera»). Se per entrare nelle Rime la ballata subisce un restyling, passando a una libera alternanza di endecasillabi e settenari, per adattarsi al gusto moderatamente concettoso che Giustinian predilige, pare di poter dire che per lui le due forme fossero ancora distinte. Tuttavia, non si può fare a meno di notare che già nel primitivo disegno la forma della ballata era avviata verso la liberazione, essendo notevolmente allentata da vistose irregolarità.
Questo vago narciso, | Questo vago narciso, |
di bellezza e d’odore, | di bellezza e d’odore, |
sembra, Cinzia leggiadra, il tuo bel viso. | sembra, Cinzia leggiadra, il tuo bel viso, |
e fu non meno a te simil di core. | |
Questo fanciul fu già d’alta bellezza, | Or tu guarda ch’Amore, |
ma di tanta alterezza | con via più crudo scempio, |
che spreggiò mille ninfe che l’amaro; | non rinovelli in te l’antico essempio, |
poi specchiandosi a caso un dì ne l’acque, | vedendoti sì altera, |
per sua fera ventura, | e’n vece d’un bel fior ti cangi in fera. |
tanto a se stesso piacque | |
che pose in se medesmo ogni sua cura; | |
e, giovandoli poco | |
il dimandar a sé di sé mercede, | |
in tanto duol si diede | |
che venne, lasso, come cera al foco | |
e, al fin, con pianto amaro, | |
chiuse gli occhi dolenti, | |
per essere troppo a se medesmo caro; | |
onde, perché l’essempio or ti spaventi, | |
a te l’indriccia Amore, | |
che di sua man lo colse in paradiso. | |
xyX + AaBCdcD eFfEbgB GyX | abABbcCdD |
Sovrapposizione e ibridazione
Tornando a quanto dicevo poco fa, se stanza di canzone e madrigale possono essere percepiti come una sola cosa, come dichiarato esplicitamente da Filippo Massini (che polemizza con Antonio Minturno, che aveva proposto nell’Arte poetica del 1563 una tipologia del madrigale limitata alle forme in soli endecasillabi), è anche perché nella produzione degli anni precedenti si riscontrano episodi in cui di fatto il madrigale moderno è utilizzato come stanza. Solo un esempio, di Girolamo Fenaroli, rimatore e musicista di origine bresciana, ma attivo a Venezia, morto nel 1569, le cui Rime escono postume nel 1574, con una lettera dedicatoria di Marc’Antonio Silvio a Domenico Venier:31
Questo ridente acanto, | Tanto è ’l piacer ch’io sento |
questo amoroso croco | di piacervi almen morto, |
secchi e sepolti si giaceano intanto, | che m’apporta ogni duol novo conforto; |
e vaghi in ogni loco, | e vo lieto e contento |
tocchi dal piè gentile, | pregando il mio martire, |
sorsero al novo aprile; | che m’affretti al morire; |
che più? questo narciso | anzi mi tocchi in sorte |
fiorì, credendo rivedersi in viso. | in una vita haver più d’una morte. |
abAbccdD | abBaccdD |
I due testi messi a fronte32 sono la quarta stanza di una canzone-ode33 e un madrigale, ma le due forme sono quasi indistinguibili: gli schemi metrici sono infatti identici se non fosse per l’inversione delle rime A e B all’altezza del terzo e quarto verso. Entrambi i testi condividono inoltre una stessa riapertura sintattica all’altezza del quarto verso, che inizia con una frase coordinata con la congiunzione copulativa (e vaghi in ogni loco […] sorsero; e vo lieto e contento). Convergono su questa forma, dunque, diverse ragioni metriche: il principio dell’isostrofismo proprio della canzone viene applicato alla ripetizione della forma più libera del madrigale, mentre la ballata lascia in eredità non più il gioco delle rime, ma l’isolamento dei primi tre versi, sintatticamente autonomi come è di norma la ripresa.
Questa nota sulla sovrapponibilità di canzone e madrigale in Fenaroli è solo una premessa per ritornare a parlare, in conclusione, di Girolamo Molin e dell’interferenza dei meccanismi costituitivi di ballata e canzone nella sua produzione. Uno studio complessivo della configurazione sintattica delle sue Rime, condotto secondo i parametri stabiliti da Arnaldo Soldani per il sonetto petrarchesco e adattati alla canzone primocinquecentesca da Gaia Guidolin, ha infatti consentito di comprendere la tendenziale preferenza di Molin, nel caso della canzone, per l’isolamento del primo piede e per il legamento sintattico tra il secondo piede e l’inizio della sirma.34 In questo senso egli si distingue dalla prassi più comune nel Cinquecento, che – come risulta dallo studio di Guidolin, che prende in considerazione l’opera di Trissino, Bembo, Sannazaro, Bernardo Tasso, Alamanni, Ariosto, Bandello, Britonio, Guidiccioni e Molza – resta quella di prediligere i legami tra i due piedi, piuttosto che quelli tra il secondo piede e la sirma.35 Nel caso di Molin, invece, le frequenze percentuali dei legami nelle due posizioni significative dello schema, cioè a cavaliere tra piede e piede e tra fronte e sirma, si equivalgono. Il confronto tra questi dati e quelli emersi dall’analoga analisi condotta sul trattamento sintattico delle ballate, fa ipotizzare la pressione di una forma metrica sull’altra. In particolare, si nota che la ripresa della ballata è sempre sintatticamente autonoma, mentre nel resto della stanza mutazioni e volta si legano tra loro in maniera molto più libera. Nella ballata questa configurazione è comune e asseconda la metrica,36 mentre non lo è affatto nel caso della canzone, dove il primo piede non gode di un particolare status di autonomia. L’influenza della ballata sulla canzone in Molin ci fornisce anche delle indicazioni utili, oltre che per apprezzare il suo cauto ma costante sperimentalismo formale, per comprendere il principio strutturale secondo cui è composta una canzone di difficile interpretazione. Riporto allora la prima stanza di «A l’armi! A l’armi! A l’armi!», canzone politica di incitamento alla guerra contro i Turchi, databile al 1566, la stanza settima della spirituale Salve de l’universo alta regina e la ballata Quand’io talor mi doglio. Testo e numerazione sono – con minimi accorgimenti grafici – quelli proposti da Rocco Bianchi per l’Archivio della Tradizione Lirica.37 I rientri di paragrafo indicano i confini tra le partizioni metriche.
«A l’armi! A l’armi! A l’armi!»
Muse, gridate «A l’armi! A guerra! A guerra!»
che ’l mar nostro e la terra
Marte minaccia e vol pugne e contese!
Qui formar mi convien più vivi carmi
e le genti destar, da viltà prese
a l’umane difese;
ché già veder da l’oriente parmi
tutto confuso il ciel di nebbie e lampi
e piover sovra noi tempeste e sangue,
indi levarsi un angue
sì grande e fier ch’alcun da lui non scampi.
Però, scosso il terror che l’alme afferra,
gridate «A l’armi! A l’armi! A guerra! A guerra!»
(154, vv. 1-14)
aBbC ACcA DEeDXX
Vergine santa, al mio stato pensando,
a le mie colpe adietro,
tutto d’orror m’impetro
e perdo di salvarmi ogni speranza;
poi, qual raggio di sol che scenda in vetro,
mentr’io vo sospirando,
luce del ciel passando
m’alluma in Dio per te d’alta fidanza,
con dolce rimembranza
che per giovarne pur madre li sei,
e ben pregar lo dei.
O dunque, madre de la gloria nostra,
prega, soccorri e mostra
che come indarno mai non preghi Lui,
così pregata ancor non manchi altrui!
(195, vv. 91-105)
AbbC BaaC cDdEeFF
Quand’io talor mi doglio
Amor riprende la mia lingua audace,
poi col suo dir m’acqueta e rende pace.
Egli di voi mi parla, ed argomenta
da la vostra bellezza
il guiderdon ch’al mio gioir s’avanza,
e me ne dà di ciò ferma speranza,
ond’io prendo vaghezza
e fo come fanciul che si lamenta;
ma, s’altri gli appresenta
bel frutto o fior perché non pianga, tace,
e tempro il duol che sospirar mi face.
(107)
xYY + AbC CbA aYY
Come si può vedere, tra il secondo verso e i due conclusivi della prima stanza di 154 ritornano la stessa rima -erra e il rimante guerra: questi due ultimi versi sono un vero e proprio ritornello, che viene ripreso alla fine di ogni stanza, anche se la circolarità tra inizio e fine è solo della prima. Alla luce di quanto detto, si comprenderà che la canzone 154 non rappresenta un episodio isolato, bensì il culmine di un processo di ibridazione tra le ragioni minime della canzone (identità tra le stanze, piedi di uno stesso numero di versi se non identici, sirma libera senza rima di concatenatio ma con combinatio baciata finale) e le ragioni minime della ballata (ripresa sintatticamente autonoma, recupero di una delle rime della ripresa nella volta, mutazioni di identica misura se non uguali). Conoscendo la prassi compositiva preferenziale della canzone moliniana, cioè la propensione all’isolamento sintattico del primo piede, siamo in grado, anche trovandoci di fronte a uno schema metrico anomalo come questo, di identificarne in modo plausibile le componenti strutturali, cioè i due piedi di quattro versi. A questo livello però, il fattore dirimente non è più il canzoniere inteso in senso sintagmatico come macrotesto, ma il trattamento delle forme così come emerge dall’opera complessiva sul piano paradigmatico, cioè l’idea di forma che si ottiene dallo studio dettagliato dell’intera produzione dell’autore e che consente di illuminare anche le zone meno chiare, partendo dal riconoscimento dei principi elementari e delle matrici da cui si sono sviluppate eventuali variazioni o deviazioni.
Note conclusive
Ricapitolando quanto detto sin qui in modo forse un po’ dispersivo, e fatta salva l’esigenza di cercare conferme in spogli ed esemplificazioni a più ampio raggio, per studiare i rapporti tra la metrica e l’assetto complessivo dei libri di rime e il modo in cui essi si illuminano a vicenda, si possono indicare almeno quattro strade (indicazione che si somma alla raccomandazione sempre valida di fornire le edizioni moderne di affidabili tavole metriche). Due che vanno dalla metrica al libro: 1) riconoscere la presenza di equilibri e simmetrie distributive, anche imperfette ma evidenti, nel disegno complessivo dei libri; 2) individuare la presenza di particolari forme o anche particolari e inusitati schemi in posizioni rilevate, specialmente, ma non solo, come punti di snodo diegetico. Due strade procedono invece dal libro alla metrica: 3) comprendere meglio la percezione di alcune forme partendo dalla distribuzione di metri simili in serie ravvicinate e dalle indicazioni paratestuali; 4) studiare nel dettaglio l’idea della forma propria degli autori attraverso l’analisi della gestione complessiva della sintassi rispetto al metro, con potenziali ricadute sull’identificazione delle ragioni metriche e delle componenti di forme ibride e sperimentali.
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1 Consultando i principali strumenti, cioè il volume di Guglielmo Gorni, Repertorio metrico della canzone italiana dalle origini al Cinquecento (REMCI), censimento a cura di Guglielmo Gorni, edito per cura sua e di Massimo Malinverni, Firenze, Cesati, 2001, e i repertori online Lyra – http://lyra.unil.ch (data ultima consultazione 2 luglio 2021) e Repertorio della canzone italiana – https://www.rdci.it (data ultima consultazione 2 luglio 2021), ritrovo esempi di imitazione metrica della canzone Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi, n. 29 dei Fragmenta, oltre che nell’aragonese Giuliano Perleoni e in Pietro Bembo, in Antonio Minturno, Lodovico Dolce, Giacomo Zane, Luigi Groto e Bernardino Baldi; imitazioni di S’i ’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella, n. 206 dei Fragmenta, in Pietro Barignano, Giacomo Zane, Gabriele Fiamma, Luigi Groto, Menon (Agostino Rava) e Giulio Poggio. Cfr. anche Monica Bianco, Fortuna metrica del Petrarca nel Cinquecento: la canzone CCVI, «Atti e Memorie dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti», CXIV (2002), pp. 185-213 e il volume citato nella nota seguente.
2 Alcuni dei rilievi qui presentati sono strettamente legati a un volume dedicato alla sintassi e alla metrica dei rimatori di area veneziana accomunati dalla frequentazione del salotto di Domenico Venier. Da quel lavoro (Jacopo Galavotti, «Spento era il gran Bembo». Metrica e sintassi nei lirici veneziani del secondo Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2021) derivano molti degli esempi, qui però orientati in una direzione in parte diversa.
3 Sui sonetti ‘fratelli’ cfr. Agostino Casu, Sonetti “fratelli”. Caro, Venier, Tasso, «Italique», III (2000), pp. 45-87.
4 Esempi di questa figura, a partire da Annibale Caro, si riscontrano in Gabriele Fiamma, Luigi Groto, Giacomo Zane, Antonio Beffa Negrini, Felice Gualtieri, Mario Colonna e Torquato Tasso (cfr. J. Galavotti, «Spento era il gran Bembo», cit., pp. 30-31 e la bibliografia lì allegata).
5 Simone Albonico, Sulla struttura dei ‘canzonieri’ nel Cinquecento, in Id., Ordine e numero. Studi sul libro di poesia e le raccolte poetiche nel Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006, pp. 29-46: p. 34.
6 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967, p. 41.
7 Simona Mammana, Giustinian, Orsatto, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 57, 2001, pp. 271-74. L’edizione critica è Orsatto Giustinian, Rime, a cura di Ranieri Mercatanti, Firenze, Olschki, 1998.
8 Orsatto Giustinian, Sonetti alla moglie, a cura di Simona Mammana, Firenze, Le Càriti, 2001.
9 Su alcuni canzonieri sorti intorno al circolo di Venier vedi M. Bianco, Il canzoniere postumo come vita filosofica: modelli pitagorici nella Venezia del Cinquecento, in Massimo Danzi e Robero Leporatti (a cura di), Il poeta e il suo pubblico, Atti del convegno internazionale di studi (Ginevra, 15-17 maggio 2008), Genève, Droz, 2012, pp. 207-243.
10 Rimando a J. Galavotti, «Spento era il gran Bembo», cit., p. 205.
11 O. Giustinian, Rime, cit., p. 45. Qui e nel resto dell’articolo, nel riportare i testi poetici mi permetto pochi taciti aggiustamenti della punteggiatura.
12 Ivi, p. 80. Probabile che qui agisca il ricordo di Catull., Carm., V.
13 Su questo aspetto cfr. J. Galavotti, Interpretatio nominis e giochi onomastici nei lirici veneziani del secondo Cinquecento, in Maria Pia Arpioni, Arianna Ceschin e Gaia Tomazzoli (a cura di), Nomina sunt...? L’onomastica tra ermeneutica, storia della lingua e comparastica, Atti delle giornate di studio (Venezia, 3-4 marzo 2016), Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2016, pp. 131-45: p. 140n.
14 Si tratta dei sonetti XXVII (ABAB ABAB CDC DCD) e CXLII (ABAB BABA CDC DCD).
15 Il primo ad accennare alla presenza di una vena neostilinovistica in Venier e sodali è Edoardo Taddeo, Il manierismo letterario e i lirici veneziani del tardo Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1974.
16 Cfr. Giovanna Rabitti, Introduzione, in Giacomo Zane, Rime, edizione criticaa cura e con introduzione di G. Rabitti, Padova, Antenore, 1997, pp. 9-56.
17 Le edizioni a cui mi riferisco sono Rime di Madonna Gaspara Stampa, Venezia, Plinio Pietrasanta, 1554; Gaspara Stampa, Veronica Franco, Rime, a cura di Abdelkader Salza, Bari, Laterza, 1913; Gaspara Stampa, The complete poems, edited by Troy Tower and Jane Tylus, with an Introduction and Translation by J. Tylus, Chicago, The University of Chicago Press, 2010. L’ode è numerata 297 da Salza e 220 da Tower e Tylus (cito sempre da quest’ultima edizione, ammodernando però il conservativo sistema di interpunzione).
18 Così si riferiscono a lei, in due sonetti che aprono la princeps, rispettivamente Benedetto Varchi (Benzon, se ’l vero qui la fama narra, c. †4r) e Giulio Stufa (Ben è ragion, Varchi gentil, s’avampa, c. †5r). Approfitto per ricordare che manca ad oggi un repertorio dell’ode saffica nel Cinquecento italiano, e che gli studi che se ne occupano tendono a saltare direttamente dalle sporadiche apparizioni quattrocentesche e primocinquecentesche all’esplosione sei-settecentesca. Lo stesso Varchi utilizza uno schema saffico non rimato per l’ode Ser Benedetto, che per cortesia (se ne veda l’edizione in Franco Tomasi, «Mie rime nuove non viste ancor già mai ne’ toschi lidi». Odi ed elegie volgari di Benedetto Varchi, in Salvatore Lo Re e Franco Tomasi (a cura di), Varchi e altro Rinascimento. Studi offerti a Vanni Bramanti, Roma, Vecchiarelli, 2013, pp. 173-214: pp. 209-10), tuttavia la forma usata da Stampa è molto vicina, sia per il metro, sia per la natura dialogica, a quella usata da Galeotto dal Carretto ai vv. 5336-5375 (Donne che dite? Che novelle avete) e 6689-6724 (Vive giocondo o placido Phileno) del Tempio d’Amore e ai vv. 261-284 del I atto (Patre almo, caro e tu, pia genetrice), 347-370 del I atto (Triste, meschine, ohimè de noi che fia?), 423-446 del IV atto (Giove che intende quel che vòl Amore) e 127-142 del V atto (Siano noi quelle ch’eravamo avanti) delle Noze de Psiche e Cupidine, il cui schema è (x5)A(x5)A(a5) Bb5. Si vedano le edizioni Galeotto dal Carretto, Tempio d’Amore, introduzione di Franca Magnani, edizione critica a cura di Cristina Carameschi, Roma, La Fenice, 1997 (e la nota metrica alle pp. LVIII-LXIV) e Galeotto dal Carretto, Comedia de Timon greco e Noze de Psiche e Cupidine, in Antonia Tissoni Benvenuti e Maria Pia Mussini Sacchi (a cura di), Teatro del Quattrocento. Le corti padane, Torino, UTET, 1983, pp. 557-725.
19 Leggo le rime da Monica Bianco, Le «Rime» di Domenico Venier (edizione critica), tesi di dottorato, Università di Padova, 2000.
20 Questi gli incipit: Donna leggiadra et bella (49), Poiché nasceste, donna (50), Donna, qual sia maggiore (51), Dal sol de’ bei vostr’occhi (52), Ecco l’arco mio rotto et rintuzzati (53), cc. 14r-15r; Già perdut’ha de gli occhi in tutto il lume (68), Scuoti dal giuogo il collo (69), c. 21r.
21 De le rime di diversi nobili poeti toscani, raccolte da M. Dionigi Atanagi, libro primo, Venezia, Lodovico Avanzo, 1565. I testi sono alla c. 9r.
22 Si tratta dei testi Io vissi pargoletta in festa e ’n gioco e Io vissi pargoletta in doglia e ’n pianto (I, III, tre quartine ciascuno a schema ABBA), Quand’io penso al martire (I, XIV, tre quartine a schema aBbA), e, tra le rime presenti nella prima redazione manoscritta poi espunte, Amor, perché m’insegni andare al foco (Rifiutate VII, tre quartine AbbA) e Amor, d’ogni mia pena io ti ringrazio (Rifiutate VIII, tre quartine AbbA). Cito da Pietro Bembo, Prose e rime, a cura di Carlo Dionisotti, Torino, UTET, 19662, ma vedi anche Pietro Bembo, Gli Asolani, edizione critica a cura di Giorgio Dilemmi, Firenze, Accademia della Crusca, 1991 e Gino Belloni, Asolo, Bembo e due canzonette asolane, in Bianca Maria Da Rif e Claudio Griggio (a cura di), Miscellanea di studi in onore di Marco Pecoraro, I, Da Dante al Manzoni, Firenze, Olschki, 1991, pp. 131-152). Quartine di questo tipo sono però ovviamente anche analoghi dell’ode oraziana, p. es. nelle odi manoscritte di Trivulzio (cfr. Simone Albonico, Le odi di Renato Trivulzio, in Id., Ordine e numero, cit., pp. 73-94), in Trissino, Bartolomeo Del Bene (cfr. Wilhelm Theodor Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Le Monnier, 1973, pp. 154-155) e, come metro traduttivo dei Salmi, in Gabriele Fiamma e Laura Battiferri. Il database Lyra dell’Université de Lausanne – http://lyra.unil.ch (data ultima consultazione 2 luglio 2021) riporta esempi di testi in quartine anche da Pietro Gradenigo, Domenico Mantova e Giuseppe Leggiadro Galani.
23 Filippo Massini, Il madrigale, a cura di Giuseppe Fanelli, Urbino, Argalia, 1986, p. 58.
24 Questo non significa che la ballata scompaia: ne troviamo infatti ancorain Torquato Tasso. Anche per la forma e la fortuna di questo metro nel Cinquecento non disponiamo ancora di studi esaustivi.
25 Cfr. Del modo di comporre in versi nella lingua italiana, trattato di Girolamo Ruscelli, Venezia, Giovanni Battista e Melchiorre Sessa, 1559, p. CXXI: «se (come più altri che io ha parere) s’ha da far differenza da i Madriali alle Ballate».
26 F. Massini, Il madrigale, cit., pp. 58-59.
27 Lettione sopra i madrigali [1574] in Orazioni et altre prose del signor Giovambatista di Lorenzo Strozzi, Roma, Lodovico Grignani, 1635, pp. 168-169 sui sonetti Deh, piacciavi donare al mio cor vita e Io prego, donna mia di Cino e p. 175 sulla canzone 70 dei Fragmenta.
28 Va tenuto comunque in considerazione che si tratta di un problema più articolato e di lunga data. Massimo Castoldi sottolinea che «già nei primi vent’anni del Cinquecento [...] sia la ballata sia soprattutto il madrigale, ormai lontani discendenti dei loro progenitori trecenteschi, permettevano, rispetto al sonetto, […] la possibilità di sperimentare schemi metrici più aperti, più duttili e, nella loro libera alternanza di endecasillabi e settenari, forse anche meglio adattabili alle esigenze melodiche della musica polifonica cinquecentesca», e che non mancano sovrapposizioni e interferenze tra i due metri (Un caso di interferenza tra madrigale e ballata. Da «Quando viveva in pene» di Niccolò Amanio al coro finale del «Re Torrismondo» di Torquato Tasso, «Lettere italiane», XLV (1993), pp. 252-269: p. 252). Tuttavia, la varietà delle forme che le rubriche di Baldi associano esplicitamente al genere della ballata mi pare sintomo di un avvenuto passaggio in lui a un’idea affatto nuova di questo metro, quasi si trattasse ormai solo di un madrigale con un “di più” di regolarità, non di una «interferenza» tra le due forme.
29 Il lauro. Scherzo giovenile del sig. Bernardino Baldi da Urbino, Pavia, Bartoli, 1600. Le «Ballate» occupano le pp. 81-90, la loro «Tavola» è alla c. H7r.
30 Le ballate siciliane sono alle pp. 133-139.
31 Su Girolamo Fenaroli vedi almeno Melanie L. Marshall, Grateful Friends, True Friends: Gifts of Music and Poetry Associated with Girolamo Fenaruolo, in Uno gentile et subtile ingenio. Studies in Renaissance Music in Honour of Bonnie J. Blackburn, edited by M. Jennifer Bloxam, Gioia Filocamo, and Leofranc Holford-Strevens, [Tours], Centre d’Études Supérieures de la Renaissance – Brepols, 2009, pp. 709-718.
32 Cito da Rime di mons. Girolamo Fenaruolo, Venezia, Giorgio Angelieri, 1574. I due testi alle cc. 15r e 6v.
33 Anche il discrimine tra le variazioni sulla canzone petrarchesca e le odi è spesso tutt’altro che netto a quest’altezza.
34 Cfr. Arnaldo Soldani, La sintassi del sonetto. Petrarca e il Trecento minore, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2009 e Gaia Guidolin, La canzone nel primo Cinquecento. Metrica, sintassi e formule tematiche nella rifondazione del modello petrarchesco, Lucca, Pacini Fazzi, 2010. In estrema sintesi, si considerano legate le partizioni metriche attraversate dallo stesso periodo sintattico, escludendo (con poche eccezioni) i casi di semplice coordinazione tra due frasi principali. I dati su canzoni e ballate di Molin sono riportati in J. Galavotti, «Spento era il gran Bembo», cit.
35 Sulla canzone cinquecentesca si possono vedere almeno Armando Balduino, Appunti sul petrarchismo metrico nella lirica del Quattrocento e primo Cinquecento, in Id., Periferie del petrarchismo, a cura di Beatrice Bartolomeo e Attilio Motta, presentazione di Manlio Pastore Stocchi, Roma-Padova, Antenore, 2008, pp. 31-90; Guglielmo Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 11-134: pp. 15-62, e Id., Repertorio metrico…, cit. Utile anche il quadro di sintesi offerto dal recente Andrea Afribo, Metrica e petrarchismo. Qualche considerazione, in I versi e le regole. Esperienze metriche nel Rinascimento italiano, a cura di Martina Dal Cengio e Nicolò Magnani, Ravenna, Longo, 2020, pp. 11-28: pp. 17-19. Quello di Guidolin resta lo studio più sistematico e ampio per quanto riguarda il trattamento della sintassi e dell’argomentazione, ma sono fondamentali le indicazioni metodologiche fornite da Marco Praloran, Metro e ritmo nella poesia italiana. Guida anomala ai fondamenti della versificazione, Firenze, sismel-Edizioni del Galluzzo, 2011, pp. 73-84 (con esempi da Dante, Petrarca e Sannazaro), e Id., La canzone di Petrarca. Orchestrazione formale e percorsi argomentativi, a cura di Arnaldo Soldani, Roma-Padova, Antenore, 2013.
36 Per la ballata stilnovistica Guido Capovilla ha parlato della ripresa come di «una sorta di frontespizio tematico», cioè di un’autonoma e indipendente presentazione dell’argomento del testo («Sì vario stile». Studi sul Canzoniere del Petrarca, Modena, Mucchi, 1998, p. 28).
37 Archivio della tradizione lirica. Da Petrarca a Marino, cd-rom a cura di Amedeo Quondam, Lexis, Roma, 1997. Non ho fatto purtroppo in tempo a servirmi del lavoro di Martina Dal Cengio, Le Rime di Girolamo Molin (1500-1569) e la poesia veneziana del Cinquecento. Edizione critica e commento, tesi di perfezionamento, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2020.