Il libro di rime tra secondo Cinquecento e primo Seicento
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«Essere interprete de’ miei sonetti» Appunti su tre libri di rime con autocommento del secondo Cinquecento
Premessa
Prima degli anni ’70 del Cinquecento la tradizione dell’autocommento alla lirica, inteso come autoesegesi d’autore estesa e tendenzialmente organica e sistematica, è di fatto esilissima in Italia, praticamente inesistente.1 Nel 1500 fu pubblicato a Firenze il Commento sopra a più sue canzone et sonetti dello amore et della bellezza di Girolamo Benivieni.2 Nel 1554, a Venezia, Paolo Manuzio diede per la prima volta alle stampe il Comento di Lorenzo de’ Medici. Due opere importanti, che appartengono però a una stagione culturale che già agli inizi del XVI secolo appariva a molti superata e che non sembrano in effetti avere avuto un impatto decisivo sulla produzione lirica del primo e medio Cinquecento.3 Non stupisce, quindi, che nel 1582, in una lettera scritta all’amica Gasparina Pittoni, Luigi Groto, il Cieco d’Adria, trovandosi obbligato a spiegare il significato di un paio di versi di una sua poesia mal compresi dalla destinataria della lirica, la nobildonna veneziana Paolina Grimani, e in particolare dovendo chiarire il significato dell’aggettivo aspra («Venere di concorrenza, et d’acre sdegno / contra la bella aspra Grimana accesa»), scriva queste parole: «Duolmi ben che quella gentildonna non habbia intesa quella parola aspra, e che aspra le sia stata cotal voce. Duolmi anchora ch’io debba essere interprete de’ miei sonetti, cosa che non ha fatto fin qui (ch’io sappia) niuno, se non Dante nel suo Convito, il Goselino, e il Fiamma».4 Groto, evidentemente, non conosceva l’autocommento di Benivieni, e nemmeno quello di Lorenzo, ed effettivamente non c’era niente più di questo da ricordare, almeno riferendosi ad autocommenti veri e propri, quelli di cui qui ci occupiamo. I due nomi citati da Groto, Fiamma e Goselini, sono quindi davvero importanti perché segnano, nei primi anni ’70, un punto di svolta nella storia dell’autocommento. Da questi, dunque, partiamo, per passare poi a un terzo significativo campione del “genere”, le Rime platoniche di Celso Cittadini.
Le Rime spirituali di Gabriele Fiamma (1570): la rifunzionalizzazione del linguaggio lirico petrarchista
La poderosa espositione di Gabriele Fiamma alle sue Rime spirituali, pubblicata nel 1570 e poi altre due volte nel 1573 e nel 1575, può essere considerata una sorta di spartiacque per quanto riguarda la storia dell’autoesegesi alla lirica nel Cinquecento. Apparsa in pieno clima controriformistico, è la prova di come la pressione delle istituzioni di controllo su tutto ciò che giungeva alle stampe comportò «un’interiorizzazione della norma»5 che produsse inevitabilmente strategie preventive di elusione e aggiramento dei potenziali rischi di censura e condanna. Ma è anche il frutto di una tendenza generale a ripensare la scrittura lirica in una chiave diversa, quella spirituale, nell’ambito di un più generale processo – peculiare della seconda metà del secolo – di valorizzazione della poesia come espressione di “verità”, di sensi profondi, di contenuti degni di essere commentati, esposti, dichiarati, per rivelarne lo spessore semantico che si vuole tutt’altro che superficiale e scontato, e soprattutto non appiattito su un discorso amoroso svuotato di pregnanza esistenziale o “filosofica”. Una strategia di valorizzazione del testo lirico che nelle Rime spirituali del frate veneziano si manifesta anche attraverso la concreta facies tipografica dell’edizione, che evoca immediatamente al lettore il ricordo della glossa disposta a cornice intorno alle poesie commentate tipica di alcuni dei più celebri commenti petrarcheschi del Cinquecento (oltre che, ovviamente, di molte edizioni di commenti umanistici ai classici antichi).
Nel libro di Fiamma, per la verità, non è solo l’espositione dei testi lirici, ma piuttosto tutto l’articolato insieme di elementi paratestuali (lettera dedicatoria, avviso e postfazione A’ lettori, componimenti di terzi in lode dell’autore, tavole e indici) a definire pienamente l’ideale di poesia lirica perseguito dall’autore.6 Limitandoci tuttavia all’autocommento, va detto innanzitutto che Fiamma ha piena consapevolezza delle ragioni che lo hanno spinto a elaborare un materiale così ampio, ricco e ambizioso per esporre le sue liriche. Nell’avviso A’ lettori egli chiarisce bene le motivazioni dell’autocommento (che per molti testi si può ritenere con sicurezza contemporaneo alle liriche oggetto dell’esegesi): in primo luogo, il «sacro e santo soggetto» delle poesie, che deve essere colto nella sua piena rispondenza alla dottrina della Chiesa; in secondo luogo, la tendenza dei commentatori a far dire a un testo ciò che il suo autore non pensò mai (e qui l’allusione alla prassi esegetica contemporanea è evidente).7 Entrambe le ragioni addotte denunciano la natura difensiva dell’operazione, attuata in prima istanza per proteggere il testo, e di conseguenza il suo autore, da possibili fraintendimenti del lettore, tanto più gravi e pericolosi quanto più alto e delicato è il soggetto sacro della sua poesia (e Fiamma ne sapeva qualcosa, considerate le sue precedenti vicissitudini con il Sant’Uffizio).8 La difficoltà che ogni interprete incontra nell’«indovinare la mente degli auttori»9 spinge dunque Fiamma a esporsi in prima persona, a mettere nero su bianco il vero significato dei suoi versi, in modo da evitare distorsioni interpretative, soprattutto sul piano dottrinale. Eppure non è tutto qui: addentrandosi nelle pagine di quest’opera ci si accorge che non si tratta solo di un elefantiaco discorso apologetico. Sono molti infatti gli spunti disseminati nel libro che ci consentono di affermare che alla sua base c’è anche la volontà di proporre un nuovo, ambizioso e ben meditato modello di lirica, riconducibile nel suo complesso alla finalità principale del libro, esplicitata sempre nell’avviso A’ lettori, e cioè la volontà di ricondurre la poesia alle sue origini di discorso sacro, soprattutto sulla base del modello davidico.10
Questo ritorno alle origini, tuttavia, non è affatto ingenuo sul piano letterario, nel senso che Fiamma iscrive la sua ricerca poetica nella tradizione petrarchista, legittimando attraverso l’autocommento l’assunzione del codice lirico dominante come strumento espressivo adeguato ai contenuti sacri della sua poesia. Petrarca, in primo luogo, ma anche autori e testi più vicini a lui (Bernardo Tasso, Annibal Caro, Domenico Venier, Celio Magno ed altri) sono i suoi punti di riferimento per quanto riguarda la veste poetica da dare ai contenuti sacri dei testi poetici. Non si tratta però di un’operazione di banale maquillage: agisce invece in lui la convinzione che per ridare vita alla poesia sacra delle origini, di cui David è ai suoi occhi il campione assoluto, i poeti moderni non possano esimersi dal ricorso allo splendido linguaggio lirico inaugurato da Petrarca e affinato dai suoi imitatori cinquecenteschi. Lo dice espicitamente nell’espositione al sonetto 106 (Ov’è la fronte più che ’l ciel serena), ricalcato sul petrarchesco Ov’è la fronte, che con picciol segno (Rvf 299): «Ma piaccia a DIO nostro Signore, che possa l’auttor pigliar quanto è di vago, e di bello ne’ Poeti lascivi, e profani, e porlo tutto in servitio di DIO in queste Christiane poesie».11 Non solo Petrarca, quindi, ma tutti i «Poeti lascivi, e profani», anche moderni, possono rappresentare un modello di lingua e stile capace di nutrire il dettato sacro delle Rime spirituali. E così, ad esempio, due sonetti di Domenico Venier letti nella celebre antologia di lirica di Dionigi Atanagi apparsa a Venezia nel 1565 suggeriscono a Fiamma l’adozione di una testura metrica particolarmente artificiosa (rime al mezzo in ogni verso) per il suo Al vivo Sole, a quei celesti ardori (son. 83);12 oppure le scelte metriche di Bernardo Tasso, e in particolare quelle relative alle sue odi, influenzano il frate nella scelta dello schema di stanza adottato nel primo dei suoi inni alle virtù cristiane (Cara e gentile amica), l’Inno, overo Oda alla Temperantia, che riproduce lo schema della celebre ode tassiana Ecco che ’n Orïente, come l’autore si preoccupa di segnalare, giustificando la scelta, nella relativa espositione;13 e ancora, la ripresa del celebre sonetto alla gelosia di Della casa (Cura, che di timor ti nutri e cresci), parodiato, in senso tecnico, nel sonetto Cura, che d’oro ti nutrisci, e vivi (son. 35), che condanna il peccato dell’avarizia, anche se in questo caso l’espositione non segnala la fonte.14 Esiste dunque una significativa circolarità tra edizioni di lirica contemporanea, diffusione dei testi attraverso le antologie (strumento nuovo e perfettamente adatto alla poesia dei moderni), paratesti esegetici e autoesegetici, circolarità ancor più rilevante in questo caso perché agisce in un autore non “profano”, a conferma di quanto il libro di rime e la pratica della scrittura lirica si stiano modificando e arricchendo di forme, modi e mezzi di penetrazione nel mercato che arricchiscono il panorama lirico del secondo Cinquecento e che dimostrano la pluralità di esperienze e soluzioni registrabili in questo periodo nei territori della lirica, con significative ricadute anche su strutture e forme del libro di rime.
L’autocommento di Fiamma, tuttavia, non risponde soltanto alle motivazioni fin qui illustrate, ma si pone anche altri obiettivi di natura più generale, che riguardano soprattutto la struttura complessiva dell’opera e le sue finalità ultime. In particolare, semplificando molto, l’autore affida all’espositione almeno altre due funzioni fondamentali: indicare al lettore l’ordinamento complessivo che soggiace ai singoli testi, e soprattutto gli snodi fondamentali di una sequenza che si struttura anche come una sorta di itinerarium mentis in Deum, e suggerire la più adeguata modalità di ricezione dei testi stessi, per cui l’insieme delle liriche e dell’autocommento, da questo punto di vista davvero inscindibili, dà vita a una sorta di guida e stimolo alla meditazione spirituale dei lettori/fedeli ai quali Fiamma pensa come pubblico di riferimento ideale.15 Si può parlare, dunque, di una vera e propria simbiosi tra testo e autocommento, in cui la sproporzione tra il secondo e il primo elemento della relazione dimostra il rilievo che il paratesto esegetico assume per una piena e corretta interpretazione dell’intenzione autoriale.
La Dichiaratione di alcuni componimenti di Giuliano Goselini (1573): commentare «per via di discorso»
Qualcosa di analogo, ma fuori dallo spazio della lirica spirituale, ritroviamo nella seconda opera alla quale Luigi Groto fa riferimento nella lettera ricordata all’inizio, vale a dire la Dichiaratione di alcuni componimenti di Giuliano Goselini edita a Milano nel 1573. Il volume esce quando la carriera pubblica dell’autore al servizio dei governatori di Milano è ormai nella sua fase discendente. Dai primi anni ’70, in effetti, Goselini si defila sempre più dalla scena politica, pur mantendo molti e importanti rapporti con personalità politiche e intellettuali di rilievo, non solo di area lombarda (il già ricordato Domenico Venier, ad esempio), e intensifica invece il proprio impegno letterario. La cura particolare con cui in questi anni si occupa delle cinque edizioni delle sue rime risponde forse anche a ragioni di autopromozione sociale, magari come tentativo di compensare in campo letterario le perdite subite in campo politico (e anche personale, per la morte prematura del figlio).16 A questa strategia è riconducibile probabilmente anche la scelta di pubblicare – a un solo anno dalla prima edizione delle sue Rime, apparsa nel 1572 senza apparato di commento – una selezione delle liriche presenti in quel volume accompagnate da una “dichiarazione” d’autore.
Una prima considerazione va fatta a proposito del motto che Goselini fa stampare, isolato e a caratteri maiuscoli, giusto al centro della pagina che precede il primo sonetto del libro: LIBER LIBRUM APERIT. Si tratta, com’è noto, di una sentenza proverbiale di matrice alchemica: nella sostanza, indica la necessità di servirsi di un libro per comprenderne un altro, quindi si adatta perfettamente a introdurre l’opera, composta appunto di liriche e spiegazioni d’autore. Ma la scelta di un motto alchemico (per quanto ridotto a proverbio e ricorrente anche in altri contesti discorsivi) consente a Goselini di alludere in filigrana a un altro aspetto del libro, che l’autore vuole subito indicare come chiave di lettura fondamentale, vale a dire la natura “sapienziale” dell’opera, intrisa di filosofia platonica e neoplatonica, malgrado la chiusura più scopertamente “religiosa” affidata agli ultimi due testi, quasi a risarcire lo spazio generosamente concesso per buona parte del volume a temi, questioni e argomentazioni spesso al centro dell’attenzione censoria delle autorità ecclesiastiche in pieno clima post-tridentino.17
Non c’è modo in queste pagine di procedere a un’analisi puntuale ed esaustiva dell’opera; mi limito quindi a indicare un paio di peculiarità che ci possono aiutare a cogliere alcune delle linee di sviluppo più generali del libro di rime del secondo Cinquecento. Innanzitutto, va sottolineata la sproporzione tra discorso autoesegetico e testi lirici, da associare alla constatazione che nella nuova compagine testuale la dichiaratione assume un valore quasi preponderante rispetto alle poesie commentate. In secondo luogo, va evidenziata la natura dell’autoesegesi proposta, che ha il compito di dimostrare al lettore la densità semantica delle liriche attraverso il ricorso a un repertorio di auctoritates filosofico-sapienziali spesso debordante, ma indicativo di una prospettiva culturale precisa e di una regia compositiva del tutto consapevole. Per entrambe queste caratteristiche il modello esegetico di riferimento sembra essere soprattutto quello della lettura accademica.18 Lo si coglie osservando l’aspetto materiale del libro, che non ricorda affatto quello consueto del commento umanistico-rinascimentale: le prose esegetiche che corredano i testi lirici seguono infatti il testo poetico come trattazioni più o meno estese che tendono a sviluppare un’illustrazione erudita, spesso di natura filosofico-sapienziale, sul tema centrale del testo o su specifiche immagini o particolari concetti. Il termine concetto è probabilmente la parola-chiave per cogliere il senso dell’operazione: è inteso infatti da Goselini come il nucleo tematico-informativo su cui si fonda il testo e da cui derivano le scelte sul piano del linguaggio figurato (con frequentissimo ricorso al repertorio mitologico),19 il punto vero di unione tra inventio ed elocutio. È questo nucleo che va sviscerato attraverso l’autoesegesi, con un’operazione che di volta in volta assegnerà maggiore o minore spazio alla spiegazione del testo, alla parafrasi o alle digressioni filosofico-sapienziali.20 Goselini chiarisce nella lettera di dedica a Vespasiano Gonzaga il «modo et methodo» da lui seguito, che dichiara di aver condiviso con alcuni «amici giudiciosi» (il che avvenne realmente, come vedremo fra breve):
Così, havendo io scelti fra tutti, quei componimenti, dove altri più dubitava, cominciai, non ogni parola pesando, né sopra ogni cosa dicendo tutto quello, che si sarebbe potuto dire, né d’insegnar presumendo, ma solo de i concetti trattando; a spiegarli, et farli più, ch’io poteva chiari, et men tediosi a l’altrui intelligenza.21
Come in molte letture accademiche, l’esegesi di Goselini è più attenta al contenuto dei testi commentati, alla “materia”, che ad aspetti formali (lingua, stile, metrica).22 Attenzione: Goselini è perfettamente in grado di sviluppare un’esegesi del testo poetico sensibile anche agli aspetti formali. Anzi, a volte sa essere puntigliosamente “tecnico”. Lo dimostrano alcuni passaggi delle sue lettere, in particolare quelle all’amico Annibal Guasco, che affrontano appunto specifiche questioni metriche e linguistiche con grande precisione e acutezza.23 La decisione di non servirsi di questo registro esegetico nella sua Dichiaratione è pertanto da considerare come una consapevole scelta in favore di un altro genere di interpretazione, quella di tipo simbolico-allegorico che punta alla esposizione dei concetti24 e che meglio risponde alla volontà di presentare la propria produzione poetica come dotata di sensi riposti e oscuri da rivelare attraverso una complessa lettura sapienziale. Con il rischio, certo, di sovraccaricare le liriche commentate di un apparato interpretativo troppo ambizioso, sproporzionato, potenzialmente divergente rispetto alla sostanza dei testi di partenza.
Un rischio che, peraltro, sembra essere avvertito dallo stesso Goselini, o almeno così viene da sospettare leggendo una delle lettere con le quali egli invia a Giovan Battista Amalteo tre delle sue dichiarationi (poi tutte incluse nel libro) per averne un parere dal prestigioso amico; il quale, da quanto si capisce, lo sollecita a continuare nell’impresa (queste lettere tra l’altro dimostrano che il riferimento al confronto dell’autore con alcuni «amici giudiciosi» incluso nella dedicatoria non risponde esclusivamente alla retorica di genere).25 La missiva che ci interessa è quella in cui Goselini include il suo commento al sonetto Simulachri divini, ardenti stelle. L’esposizione d’autore s’incarica di chiarire tutti i significati “profondi” di un testo che sfrutta un topos davvero inflazionato della lirica petrarchesca e petrarchista come la “bellezza degli occhi della donna amata”, allegando alla bisogna Aristotele, Alberto Magno, i Teosofi, l’incipit del libro della Genesi e il Cantico dei cantici. Ma a colpire sono soprattutto le parole con cui Goselini si congeda dall’amico prima di trascrivere il testo del sonetto: «Tutto questo discorso ho fatto per espositione del seguente Sonetto. V. Sig. mi faccia gratia di vedere con la finezza del suo giuditio se quadra bene la chiosa col testo: avisandomi poi quando haverà più otio, del suo savio parere».26 Forse lo stesso Goselini dubita che l’ampiezza e la natura dottrinale della glossa possano allentare troppo i nessi col testo commentato, al punto da disorientare il lettore invece di aiutarlo a comprendere meglio. In ogni caso, la chiusa della lettera ci dice molto del modo di concepire la pratica dell’autocommento da parte di Goselini e chiarisce il senso di quella sproporzione tra versi e commento di cui si diceva prima.
La dichiaratione al sonetto Simulachri divini, ardenti stelle è anche un buon esempio di come con l’autocommento Goselini voglia rivitalizzare il repertorio topico del petrarchismo attraverso lo svelamento di reali o presunte profondità di senso che solo la chiosa d’autore può esplicitare al lettore. Qui è il tema degli occhi; altrove, più in generale, quello della bellezza del corpo della donna, come nel sonetto S’a gli aurei crini i guardo, i dico a loro, che è davvero emblematico da questo punto di vista. È in sostanza un tipico esempio di lirica incentrata sulla descriptio puellae, così come codificato da una lunga e autorevole tradizione: partendo dall’alto (i capelli), prosegue descrivendo le bellezze del volto (la fronte, gli occhi, le guance, la bocca, i denti), passando poi al seno e alle mani, per giungere infine al mirabile modo di «parlar», di «tacer» e d’«andar» della sua donna.27 Ma ciò che conta è come Goselini vuole nobilitare questa composizione, davvero scontata sul piano dell’inventio, attraverso un discorso esegetico che per tutta la prima parte si incarica di dimostrare che il corpo umano è dotato di una bellezza certamente inferiore a quella spirituale, e tuttavia degnissima, proponendo un’articolata argomentazione in cui si ricorre anche a Galeno, Cicerone e Lattanzio (in antitesi a Platone, in questo caso).28 Ora, la domanda da porsi è questa: perché nella dedicatoria che apre il volume l’autore sostiene di aver scritto la sua dichiaratione spinto dall’accusa di “oscurità” mossa ad alcuni dei suoi testi pubblicati nel 1572 quando in realtà molti dei pezzi inclusi in quest’opera non sono affatto oscuri? Evidentemente, come ha osservato Armando Maggi, non è questo il vero movente di Goselini.29 La vera ragione dell’autocommento – forse non l’unica, ma comunque quella decisiva – è un’altra: la volontà di allestire, attraverso una ben calibrata scelta di testi da interpretare, disposti secondo un ordinamento diverso da quello delle Rime e funzionale a un diverso progetto complessivo, una sorta di “trattato d’amore” di natura platonizzante che, a differenza delle forme più in voga della trattatistica sull’amore, si sviluppa attraverso il discorso esegetico, dimostrando peraltro al lettore come la scrittura lirica (in particolare quella amorosa) non sia per nulla priva di valore conoscitivo, morale e spirituale. Il discorso, in altre parole, ha pari dignità rispetto al verso, o se non altro è avvertito come indispensabile per dare senso alla scrittura lirica.
Le Rime platonichedi Celso Cittadini (1585): la sacralizzazione del profano
Una decina di anni più tardi, nel 1585, viene pubblicato un altro interessante libro di liriche corredate da ampia autoesegesi: sono le Rime platoniche di Celso Cittadini,30 allora giovane letterato cortigiano non ancora esclusivamente dedito agli studi storici, linguistici e filologici che lo assorbiranno dopo il suo trasferimento a Siena a fine secolo. In quest’opera l’autocommento si presenta nel complesso meno equilibrato che nei libri di Fiamma e Goselini, per quanto tendenzialmente sistematico: si registra anche qui una netta sproporzione tra lo sparuto manipolo di testi inclusi (in tutto 15) e l’ampia esposizione in prosa (che peraltro si assottiglia molto verso la fine). Sul piano della disposizione tipografica dei materiali si può parlare di una soluzione ibrida, ma non applicata sistematicamente all’intero volume: in genere il commento al testo poetico è introdotto da una breve sintesi del soggetto (che in qualche caso precede la lirica, come un argomento, in altri costituisce la prima parte della glossa che segue la poesia), per passare poi a una esposizione più puntuale ai versi oppure a sintagmi e a lemmi, evidenziati tipograficamente perché posti tra parentesi tonde e stampati in carattere maiuscolo (ma anche per questo aspetto in modo davvero non rigoroso). All’interno di queste sezioni di annotazione più puntuale si inseriscono peraltro lunghe digressioni dottrinali alle quali l’autore assegna un ruolo fondamentale nell’economia complessiva dell’opera.
Il libro di Cittadini, infatti, è informato a un preciso progetto di «sacralizzazione del profano»,31 secondo l’efficace formula utilizzata da Vincenzo De Caprio, attuato proprio grazie al materiale autoesegetico, ma non solo. La natura dell’operazione traspare chiaramente fin dal frontespizio:
rime | platoniche | del sig. celso | cittadini | dell’angiolieri, | alla virtuosiss. e grazioss. | Gentildonna, Madonna hippolita | Sopranominata la fiamma. | Con alcune brevi sposizioni dello stesso Auttore sopra le | medesime sue Rime; Nelle quali egli succintamente | tratta della scala Theologica, e della Platonica di salire | al Cielo per le cose create; Et alcuni segreti misterij del | nome d’Amore per via della cabalah
Insomma, è subito chiaro al lettore che in questo volume le liriche sono una componente, forse neppure la più rilevante, di un discorso complessivo di natura insieme religiosa e filosofica centrato sull’amore: lo evidenzia bene, nel frontespizio, il riferimento al topos della «scala a Dio», presentato prima in chiave teologica e solo in seconda battuta in chiave platonica. Con il contorno, si noti, del riferimento alla sapienza cabalistica, esplicito rinvio a una linea consistente e importante del pensiero rinascimentale che sembra giungere a Cittadini soprattutto attraverso l’asse Pico della Mirandola-Giulio Camillo.
Non v’è dubbio, quindi, che tutto ruoti intorno a un’interpretazione dell’esperienza d’amore (e della poesia che la esalta) che punta decisamente alla sua piena legittimazione: la bellezza – si insiste a dire fin dalla lettera all’amata Fiamma (pseudonimo di Ippolita Calcagni) che precede le poesie e si ribadisce più volte nel commento – è un dono divino; attraverso di essa Dio attrae a sé l’animo dell’amante. Per questo alla «scala theologica» e alla «scala platonica» Cittadini dedica sezioni molto ampie del commento. La prima «scala», detta anche «scala della Divinità», è illustrata da un’ampia esposizione dedicata al v. 4 del secondo sonetto della silloge (Fiamma, splendor de la divina luce), che così legge: «et lor mostri la via, ch’al ciel conduce». Per dimostrare che l’amata Fiamma è «una fidatissima scorta a gli animi gentili amanti la bellezza a caminare per la via dritta, che va al Cielo»,32 l’autore si produce in un’argomentazione che parte da alcuni celebri luoghi petrarcheschi e inanella poi una serie di fonti bibliche, teologiche e filosofiche. La lunga trattazione si conclude però – a sorpresa, ma fino a un certo punto – con un riferimento al celebre Manuale dei confessori del domenicano Martin de Azpliqueta Navarro (più volte ristampato anche in Italia), e in particolare al capitolo dedicato al sesto comandamento, intitolato Non adulterare, né fornicare, a conferma che non di un amore terreno e profano si sta parlando, ma di un amore divino e spirituale:
Et questa è la scala della divinità, per la quale altri può salire al Cielo a vedere dio, et fruire della sua beatitudine, pure che egli metta in operazione questo tal salimento in tal modo, et in tal luogo, et tempo, che egli non si ponga a pericolo d’incorrere (in considerando la bellezza delle creature) in qualche errore verso il Creatore: sì come largamente, et santamente insegna il gran Dottore Navarro nel suo Manuale de’ Confessori, sopra il Sesto comandamento del Decalogo, a capi sedici. Onde perché Davit, et Salomone, et altri non osservarono le predette debite circostanze (le quali sono a chi vuole, facili ad essere osservate) caddero in quegli errori, che ognuno sa.33
L’amore di Cittadini per la sua donna è casto, puro, spirituale, divino, insomma platonico, proprio perché veramente alieno da qualsiasi cedimento carnale. Ma non è (o almeno non ci viene presentato come) un’invenzione poetica, un mero simbolo: nasce infatti dalla realtà, dalla vita, da un’esperienza esistenziale vissuta, in cui la tentazione carnale è presente, ma respinta. Allegando l’opera del Navarro, l’autore vuole rimarcare un aspetto su cui si è già significativamente soffermato in apertura di volume, vale a dire la “verità biografica” dell’amore di cui egli parla in queste poesie. Nella lettera alla sua Fiamma, infatti, troviamo l’esplicito ed esibito riferimento al tempo e al luogo dell’innamoramento («Vi dico adunque, che egli è vero, che io fin dall’anno mille cinquecento settantaquattro in qua, et in Roma e fuori, v’ho sempre amata ed honorata con tutto il cuore e con tutte le forze dell’anima mia»),34 che sembra voler dare spessore cronachistico, quasi di “diario d’amore”, a un libro di rime che invece non presenta sostanzialmente alcuna traccia di struttura narrativa. A dare all’opera un rilievo biografico-esistenziale, evidentemente importante per l’autore, è anche il modo in cui Cittadini ne giustifica la composizione. Queste sono le parole con cui sostiene, in una sorta di excusatio non petita, la “purezza” del suo desiderio per Fiamma, che si è sempre e solo appagato, dice lui, di vedere e udire la sua donna, senza ambire (peccaminosamente) a null’altro:
Voi vi dovrete esser più volte, e non senza ragione, maravigliata, che io non me n’havendo voi mai data materia alcuna, m’habbia perseverato tanto tempo (che pur sono già nove anni finiti) in dimostrarvi continuo mille apparenti segni, et un maggior, che l’altro, che io mi ritrovi preso dell’amor vostro; con havervi portata sempre tutta quella devuta e maggior reverenza, e quell’honore, che è stato possibile: senza mostrar di curarmi tanto, o quanto d’havere altro da Voi, se non grazia di possere alcuna volta co’ sentimenti corporali vedervi et udirvi ragionare. Perlaqual cosa voi me n’havrete senza fallo riputato per huomo leggiere, o che so io; o veramente vi sarete indutta a credere, che io mi sia fatto sempre beffe di Voi, et uccellandovi; toltomi piacer de’ fatti vostri: il che non fu, ne piaccia a dio, che sia mai vero.35
Cittadini assume qui il punto di vista di Fiamma. Immagina il modo in cui la donna può aver interpretato, nei nove anni passati dal momento dell’innamoramento, l’apparente ma necessario distacco che lui, pur corteggiandola, le ha dimostrato, limitandosi a essere presente là dove lei si trovava e accontentandosi di vederla e ascoltarla: lo avrà giudicato un uomo superficiale, intento solo a prenderla in giro ingannandola, o forse (e qui Cittadini rasenta il comico) lo avrà reputato un pettegolo («toltomi piacer de’ fatti vostri»)! Per liberarsi da questo dubbio egli ha deciso di dimostrare la vera natura del suo amore offrendole le sue Rime platoniche, per chiarire a lei e a tutti che la sua devozione nasce dall’effetto salvifico esercitato su di lui dalla divina bellezza della donna. Questa puntualizzazione sulla “cronaca” amorosa non sembra un elemento secondario, dato che un’analoga indicazione temporale è posta da Cittadini all’inizio del Discorso dell’auttore intorno al nobilissimo sopranome di Fiamma con cui si chiude il libro.36 Insomma, un vero amore, quello del poeta, per una vera donna, ma un amore che viene presentato come tuttaltro che terreno, nel senso che il suo valore risiede nella sua purezza spirituale. La “materia” biografica, dietro alla quale si intravede il contesto cortigiano che fece da sfondo reale alla vicenda (testimoniato anche da alcune lettere oggi conservate a Siena),37 viene pertanto filtrata attraverso categorie religiose e filosofiche che sarebbe riduttivo liquidare come mero travestimento letterario. Più prudente, e probabilmente più corretto, è considerare questa operazione come emblematica di un modo di concepire il vissuto esistenziale e psicologico all’interno di un orizzonte culturale e religioso ben preciso, tendenzialmente ostile al discorso d’amore, se non in quanto ricondotto a quella che Cittadini stesso chiama, lo abbiamo visto prima, «la via dritta, che va al Cielo».38
In questo libro di rime, dunque, come in quello di Gabriele Fiamma, è l’insieme dei materiali paratestuali a definire il messaggio globale che l’autore intende trasmettere, non solo l’autocommento. In effetti, anche la dedicatoria a Fabio Cicala offre spunti interessanti in tal senso: vi si leggono in particolare due passaggi che aiutano a cogliere un’altra componente piuttosto rilevante dell’opera, quello che potremmo definire il suo dantismo, molto coerente con le altre peculiarità fin qui evidenziate, tutte funzionali alla nobilitazione ideologica dell’esperienza d’amore cantata. Cittadini afferma infatti che le poesie gli sono state «quasi dettate nella mente sua dalla chiarissima luce di quella divina FIAMMA», con ovvio, per quanto indiretto, richiamo ai celebri versi di Purg. XXIV (vv. 52-54 «[…] i’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando»); inoltre, sul finire della lettera, ricorrendo alla canonica affettazione di modestia, per esortare il suo signore a non considerare tanto il valore oggettivo dell’opera, ma la «pura et ottima» volontà con cui egli la dona, si avvale di un’esplicita citazione del «nostro gran Poeta» (Par. VII, 106-108: «Ma perché l’ovra tanto è più gradita / de l’operante, quanto più appresenta / de la bontà del core ond’ella è uscita»).39 Dante, quindi, quello della Commedia, è la prima auctoritas proposta da Cittadini, non Petrarca (poi, com’è ovvio, ampiamente e inevitabilmente citato). Non stupisce, così, trovare nella sposizione d’autore molte citazioni della Commedia, soprattutto da Purgatorio e Paradiso, e soprattutto a commento di passaggi importanti sul piano religioso e filosofico. È un Dante letto, ovviamente, come poeta-teologo e poeta-filosofo, al quale ispirarsi addirittura per le composizioni che ricorrono al genere metrico più “leggiadro” e tendenzialmente disimpegnato, il madrigale. Vediamo un caso esemplare, il primo madrigale del libro:
Dal Sole almo sereno
de’ be’ vostri occhi tal mi spande Amore
divin lume soave ogn’hor su ’l core,
ch’ogni noia ne sgombra; e ’l rende pieno
d’alta dolcezza, che per dritta via
di grado in grado l’Alma a Dio m’invia:
che le porge quel cibo, ed ella il prende,
ch’altrui pascendo, a pien beato rende.
La sposizione si apre con un’ampia introduzione che illustra i “fondamenti” filosofici del testo (in questo caso aristotelici) connettendoli a passi danteschi che servono a legittimare inventio ed elocutio del suo madrigale:
Egli è sentenza d’Aristotile, che Iddio sommo Amore produca gli effetti della virtù sua infinita a conservatione di tutte le cose create da lui, dicendo esso Filosofo nel 12. della Metafisica, che da Dio dipende il Cielo, et tutta la Natura; et ciò opera esso Iddio per mezzo et con lo strumento delle cagioni inferiori a lui, cioè, delle Intelligenze moventi i Cieli. Onde Dante nel fine del secondo Canto del Paradiso disse: Lo moto, e la virtù de’ santi giri, / Come dal fabro l’arte del martello, / Da’ beati Motor convien che spiri. /E ’Ciel, cui tanti lumi fanno bello, / De la mente profonda, che lui vuole, / Prende l’image, e fassene suggello. Et esso Cielo influisce in questo mondo la virtù infusa in lui dalla sua intelligenza per mezzo del lume, dicendo il medesimo Poeta: Questi organi del mondo così vanno, / come tu vedi homai, di grado in grado, /che di su prendono, e di sotto fanno. Il che disse anchora nel Canto ottavo della medesima Cantica: La circolar natura, ch’è suggello / a la cera mortal, fa ben su’ arte. Percioché tal virtù altro non è, che ’l lume, il quale risplende per mezzo del corpo della Stella, come prova lo stesso Dante, quando dice: Per la natura lieta, onde deriva, / la virtù mista per lo corpo luce, / come letizia per pupilla viva. Ma perché il lume, che è in tutto ’l corpo celeste, è quasi come in una oscura potenza, la qual vien ravvivata et ridotta all’operazion sua co ’l mezzo del Sole; il qual essendo quasi il cuore del Cielo, ha però partecipato tanto di tal virtù, che non solamente egli è sempre in atto, come dice il Filosofo, nell’operazion sue; ma eziandio è sufficiente a fare, et fa operare anchora ciascuno altro operante. Quinci è, che la maggior parte de gli effetti del Cielo sono attribuiti ad esso Sole. Et però Dante lo chiamò nel decimo Canto del Paradiso, e disse di lui: Lo ministro maggior de la Natura, / che del valor del Cielo il mondo imprenta. Hora così dico io, che Amore a guisa del Cielo, opera nel mio picciolo mondo, cioè, in me, gli effetti della virtù sua per mezzo del Sole della luce divina de’ bellissimi occhi della graziosissima Donna del cuor mio […].40
Come si vede, soltanto dopo molte righe Cittadini esplicita il nesso fra quanto precede e il suo testo («Hora così dico io…»): evidentemente ritiene che senza l’ampia premessa dottrinale non sarebbe in grado di dimostrare lo spessore filosofico da attribuire all’immagine della sua donna, esaltata qui come “Sole che dà beatitudine”. Il ricorso a Dante risulta per certi versi coerente con questo modo di interpretare la scrittura poetica ed è senza dubbio funzionale al progetto complessivo dell’autore. Il passaggio appena analizzato, del resto, non è solo uno specimen molto istruttivo delle modalità esegetiche adottate da Cittadini; è interessante anche perché chiarisce come egli legge tutte le fonti volgari delle origini (Guinizzelli, Dante “stilnovista”, il Boccaccio della Fiammetta, dell’Amorosa visione e del Corbaccio) che in modo piuttosto originale rispetto ad altri documenti autoesegetici coevi mette a frutto nella sua sposizione, al di là di Petrarca e Commedia. Prevale sempre, infatti, una lettura filosofica. Vediamo un esempio: i vv. 1-4 e 11-14 della canzone guinizzelliana Al cor gentil rempaira sempre amore sono proposti da Cittadini a commento del verso 3 del primo sonetto: «e le degne Alme in bei desiri incendi». Il poeta del Duecento serve per attestare che Amore «non opera niente in un cuore villano, mentre che è villano, là dove in un gentile […] egli accenderà ardentissimo desiderio di bellezza, come ci mostrano i Platonici tutti, et anchora alcuni de’ nostri Poeti, et in spezialità fra gli altri Guido Guinicelli in una sua canzone»:41 a colpire è soprattutto l’accostamento della dottrina platonizzante ai versi guinizzelliani, con effetto che Cittadini estende anche ai primi quattro versi del sonetto dantesco Amor e ’l cor gentil sono una cosa allegato immediamente dopo, chiudendo poi la sequenza di auctoritates poetiche sul tema con una citazione petrarchesca (Rvf 165, 5-6: «Amor che solo i cor’ leggiadri invesca / né degna di provar sua forza altrove»). Ma il caso più eclatante di indebita sovrapposizione interpretativa si legge a proposito della ballata Poi che saziar non posso gli occhi miei, da Cittadini considerata di Dante, sulla base della Giuntina di rime antiche, ma in realtà attribuibile a Cino da Pistoia.42 La ballata è allegata in chiusura di un’ampia nota di commento dedicata all’ultimo verso del madrigale Dal Sole almo sereno citato sopra. Il verso («ch’altrui pascendo, a pien beato rende») allude al nutrimento spirituale che la bellezza di Fiamma offre a chi la ama, in quanto, scrive l’autore, contemplando la sua bellezza si può godere per partecipazione, secondo la dottrina platonica, della visione di Dio. Per Cittadini, di questo parlerebbe anche la ballata antica, che è quindi ai suoi occhi un’ottima conferma di quanto egli sostiene nella lunga glossa dottrinale. Scrive infatti: «Sopra le quali cose non voglio restar d’addurre una leggiadrissima Ballata del nostro divino Dante; nella quale è in suo intendimento di mostrare quel, che habbiamo pur hora detto noi, o che potremmo dir mai di più sopra ciò».43 Ecco quindi che il cerchio in qualche modo si chiude: dal proprio testo poetico l’autore va al fondamento religioso e filosofico che lo sorregge e da questo passa poi ai modelli letterari (antichi e volgari) cui il testo poetico moderno si ispira, letti però anacronisticamente attraverso le stesse categorie ideologiche che agiscono sull’autore. In qualche modo, anche questa componente dell’opera contribuisce a definire l’autorappresentazione dell’autore affidata ai paratesti: si presenta pubblicamente, infatti, come un poeta amante “platonico”, cultore della filosofia e della tradizione sapienziale, ma anche attento studioso della tradizione classica e volgare, che in questa fase della sua vita egli fa reagire proprio con la componente filosofica della sua formazione (solo più avanti prenderà il sopravvento il Cittadini linguista e filologo). Il ritratto che ne risulta conferma quindi quel rapporto stretto e decisivo tra opera e vita – certo non in senso di mero rispecchiamento, quanto piuttosto di complesso ripensamento del vissuto individuale – che sta probabilmente all’origine della decisione di allestire una silloge poetica arricchita da un autocommento.
Per concludere
Fiamma, Goselini, Cittadini: tre autori molto diversi (un frate-predicatore-poeta, un letterato-funzionario politico, un cortigiano-antiquario-filologo/linguista) e tre libri di rime altrettanto diversi, anche sul piano delle soluzioni tipografiche adottate. Tuttavia, alcuni elementi comuni si possono rintracciare: la volontà di dare al pubblico una precisa autorappresentazione di sé; l’investimento in un ben definito progetto poetico che valorizzi la scrittura lirica; il dialogo costante con la cultura religiosa e filosofica; un personale attraversamento della tradizione letteraria, classica e volgare. Con risultati di valore diseguale e con diverso impatto nel panorama poetico coevo e successivo, questi tre poeti decisero di dare al loro libro di rime una struttura “forte”. Per farlo, sentirono l’esigenza di servirsi massicciamente di materiale non poetico. Forse non è un caso: se è vero, come ha osservato Riccardo Bruscagli, che per il petrarchismo cinquecentesco il canzoniere d’autore costituisce «l’eccezione, e non la regola»,44 il ricorso all’autocommento, o comunque a materiale paratestuale di varia natura, si configura come uno strumento che può rendere più evidente al lettore il disegno e il significato complessivi dell’opera, del liber lirico, e più in generale può dare sostanza a un’idea di lirica che entra in concorrenza con una pratica della scrittura poetica di solito frammentaria e occasionale, legata più alla performance sociale che alle necessità espressive individuali.
In effetti, se si dà uno sguardo ai libri di rime curati dall’autore o comunque pubblicati sotto il suo controllo dopo gli anni ’70 si coglie facilmente una tendenza comune: il paratesto, e in specie quello di natura esegetica, diviene una componente essenziale di queste opere, anche quando non si distende nella forma sistematica e ampia dell’autocommento vero e proprio. Il caso più importante è ovviamente la Parte prima delle Rime tassiane, quella riservata alla lirica di soggetto amoroso, pubblicata nel 1591 da Osanna, in cui l’autocommento assolve un’importantissima funzione nell’orchestrazione complessiva dell’opera. Non vanno dimenticati però altri libri apparsi negli ultimi decenni del secolo, certo di diversa e spesso molto minore importanza, ma tutti significativi nella prospettiva qui assunta. La tipologia più comune adottata da autori o curatori autorizzati è quella degli argomenti, tuttavia non mancano casi di esegesi più estesa. Ne ricordo in chiusura alcuni, che mi sembrano più direttamente connessi agli autocommenti di cui abbiamo parlato in queste pagine. Innanzitutto, le Rime di Ottaviano Favagrossa (Milano, 1576) con la dichiaratione d’alcune di esse, volume in cui si avverte chiaramente l’influsso della Dichiaratione di Goselini pubblicata solo tre anni prima e sempre a Milano. Altro libro emblematico di questa tendenza è la stampa del primo e secondo volume delle Rime di Annibal Guasco (Pavia, 1581), in cui le liriche sono corredate di una breve dichiaratione de i concetti loro seguita da due prose accademiche (una orazione sulla felicità e un discorso sulla bellezza) e da un Discorso per difesa, et dichiaratione d’un suo Sonetto sopra la nuova Cometa. Come pure molto importanti sono le Rime morali di Pietro Massolo pubblicate a Venezia nel 1583 accompagnate da un corposissimo commento dell’amico Francesco Sansovino, certamente autorizzato dal poeta, e per questo incluso in questa carrellata; un volume che è anche campione emblematico della frequente e stretta collaborazione tra poeti e curatori editoriali che caratterizza questa fase della storia del libro di rime. E ancora, interessanti sono le molte edizioni di liriche di Lucillo Martinengo pubblicate con esposizione d’autore nei primi anni ’90 (Sestina con la ispositione, Brescia, 1590; Quattro canzoni con la ispositione, Brescia, 1592; Lettera apologetica sopra il sonetto, in lode del sereniss. duca Alessandro Farnese, Brescia, 1594), tutte riconducibili a un più ampio progetto apologetico e di autorappresentazione sociale che, oltre alla scrittura lirica, comprende anche opere agiografiche. Infine, le Rime amorose del brindisino Antonio Monetta (Venezia, 1593) con i discorsi, et con le dichiarationi del medesimo, ampio paratesto autoesegetico che rappresenta davvero la finale degenerazione della tendenza a travolgere il testo poetico con una glossa debordante. Si tratta infatti di un’ottantina di sonetti ognuno seguito da un discorso che, prendendo di volta in volta spunto da alcuni aspetti contenutistici del testo, si distende per pagine e pagine con l’intento evidente di dimostrare tutta la dottrina dell’autore, per giungere solo alla fine, e molto sinteticamente, a chiarire il nesso tra quanto esposto e il sonetto commentato. Degenerazione, quindi, di una prassi esegetica. Eppure non si può negare che la frequenza con cui i poeti ricorrono, direttamente o indirettamente, a paratesti di questa natura sia di per sé significativa di un’esigenza avvertita da molti: dare alle proprie liriche un peso nuovo, diverso, rilevante, giustificando e legittimando a sé stessi e al pubblico il proprio fare poesia, il proprio essere poeti.
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1 Diversa la situazione per altre forme di autoesegesi, anche brevi, affidate alla sempre più articolata e duttile componente paratestuale del libro a stampa (per questo aspetto, davvero molto importante, si rinvia al contributo di Federica Pich in questo stesso volume). Per un quadro generale sull’autocommento alla poesia nella tradizione italiana medievale e umanistico-rinascimentale cfr. Sherry Roush, Herme’s Lyre: Italian Poetic Self-Commentary from Dante to Tommaso Campanella, Toronto, Buffalo and London, Toronto University Press, 2002 (che tuttavia, pur spingendosi fino agli inizi del xvii secolo, non si occupa di nessuno degli autocommenti sui quali mi soffermerò in queste pagine) e il volume Self-Commentary in Early Modern European Literature, 1400-1700, a cura di Francesco Venturi, Boston, Brill, 2019 (in partic. i contributi di Federica Pich e Brian Richardson, pp. 99-164).
2 Sul Commento di Benivieni cfr. Roberto Leporatti, Girolamo Benivieni tra commento e autocommento, in Massimo Danzi e Roberto Leporatti (a cura di), Il poeta e il suo pubblico. Lettura e commento dei testi lirici nel Cinquecento, Atti del Convegno internazionale di studi (Ginevra, 15-17 maggio 2008), Genève, Droz, 2012, pp. 373-397 (anche per la bibliografia precedente) e Sergio Di Benedetto, «Depurare le tenebre delli amorosi miei versi». La lirica di Girolamo Benivieni, Firenze, Olschki, 2020.
3 Più influente fu il volume delle Opere di Benivieni stampate a Firenze da Giunti nel 1519 (poi riedite a Venezia nel 1522 e nel 1524), soprattutto perché includeva il celebre commento di Pico della Mirandola a una canzone d’amore di Benivieni, testo chiave per la diffusione del platonismo fiorentino in Italia nel Cinquecento. Per quanto riguarda il Comento di Lorenzo de’ Medici, sono poche, mi sembra, le tracce lasciate nei testi autoesegetici del secondo Cinquecento (lo cita ad esempio, ma una sola volta, Torquato Tasso nell’autocommento al sonetto lviii della Parte prima delle sue Rime pubblicata da Osanna nel 1591).
4 Cfr. Lettere famigliari di Luigi Groto […], Venetia, Giovachino Brugnolo, 1601, c. 131r. Del sonetto cui l’autore si riferisce nella lettera si conoscono di fatto solo i primi due versi qui citati. Non risulta essere stato incluso in alcuna delle edizioni di rime di Groto e non lo si ritrova infatti nella recente edizione critica: Id., Le rime, edizione critica a cura di Barbara Spaggiari, Adria, Apogeo, 2014.
5 Cfr. Emilio Russo, La cultura davanti alla crisi, in Giancarlo Alfano, Claudio Gigante, Emilio Russo, Il Rinascimento. Un’introduzione al Cinquecento letterario italiano, Roma, Salerno, 2016, pp. 17-46: 45.
6 Per un’analisi complessiva dell’apparato paratestuale delle Rime spirituali cfr. Paolo Zaja, Natura e funzione del paratesto nelle Rime spirituali di Gabriele Fiamma (1570), in Philiep Bossier e Rolien Scheffer (a cura di), Le soglie testuali: apparenze e funzioni del paratesto nel secondo Cinquecento // Textual Thresholds: appearances and functions of paratext in the sixteenth century, Atti della giornata internazionale di studi, Groningen 13 dicembre 2007, Manziana, Vecchiarelli, 2011, pp. 61-101.
7 Cfr. Rime spirituali del r. d. Gabriele Fiamma […], Venezia, Francesco de’ Franceschi Senese, 1570, c. a6v. Per specifiche osservazioni su questo passaggio dell’avviso A’ lettori, cfr. P. Zaja, Natura e funzione del paratesto, cit., pp. 72-77 e Id., «Perch’arda meco del tuo amore il mondo». Lettura delle Rime spirituali di Gabriele Fiamma, in Erminia Ardissino e Elisabetta Selmi (a cura di), Poesia e retorica del sacro tra Cinque e Seicento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2009, pp. 235-292: 245-246. Sulle tendenze dominanti dell’esegesi alla poesia nel Cinquecento cfr. Giancarlo Alfano, Il ciò è e il percioche. Lettera e Spirito nell’esegesi poetica del Cinquecento italiano, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie 5, 11/2 (2019), pp. 387404.
8 Per il processo subito da Fiamma tra il 1562 e il 1564 cfr. Elena Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 228-30.
9 Cfr. Rime spirituali del r. d. Gabriele Fiamma, cit., c. a6v.
10 Scrive infatti Fiamma: «[…] io torno la Poesia (parlando in questa lingua) al suo principio. Percioché quest’arte non fu trovata anticamente, a fin che fossero honorati, o più tosto adulati i Prencipi con la vaghezza sua; o perché fossero cantati gli amori lascivi di questo, e di quell’altro errante intelletto; ma accioché a Dio creatore, e conservator nostro si rendessero le devute gratie, chiamando con l’armonia del dir Poetico il popolo rozo a fargli honore, et ad imparare il vero culto di sua Maestà»; ivi, cc. a5v-a6r.
11 Ivi, p. 364. Sull’espositione a questo sonetto cfr. P. Zaja, «Perch’arda meco del tuo amore il mondo», cit., pp. 279-82.
12 Cfr. De le rime di diversi nobili poeti toscani, raccolte da M. Dionigi Atanagi, libro primo, Venezia, Lodovico Avanzo, 1565, cc. Hh4v-5r. Va sottolineato che Fiamma è sicuramente stato colpito dalle parole di commento ai sonetti di Venier che Atanagi inserisce, come fa per altri testi dell’antologia, nella tavola finale degli incipit dei testi, in questo caso per illustrare la singolarità metrica delle due liriche (ricondotta addirittura a testi di Dante da Maiano leggibili nella Giuntina di rime antiche del 1527) con parole per le quali Agostino Casu, giustamente, sospetta una sostanziale sovrapposizione tra la mano dell’autore e quella del curatore (quindi, significativamente, un possibile autocommento minimale di Venier); cfr. Agostino Casu, Sonetti «fratelli». Caro, Venier, Tasso, «Italique», iii (2000), pp. 45-87: pp. 52-58. Sulla ripresa di Venier da parte di Fiamma si veda anche Maiko Favaro, Su alcune scelte metriche di Campanella, «Rivista di letteratura italiana», 35/1 (2006), pp. 53-66: pp. 59-60. Sull’importanza dei materiali esegetici inseriti nel paratesto del primo e secondo volume delle Rime di diversi nobili poeti toscani curati da Atanagi cfr. Paolo Zaja, Intorno alle antologie. Testi e paratesti in alcune raccolte di lirica cinquecentesche, in Monica Bianco ed Elena Strada (a cura di), «I più vaghi e i più soavi fiori». Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, pp. 113-45 (pp. 132-34 per i contatti tra l’antologia di Atanagi e l’espositione di Fiamma).
13 Cfr. Rime spirituali del r. d. Gabriele Fiamma, cit., p. 405.
14 Ivi, p. 124.
15 Per un’ampia discussione di questi aspetti dell’autocommento cfr. P. Zaja, «Perch’arda meco del tuo amore il mondo», cit.
16 Come ha scritto Simone Albonico, le edizioni delle rime di Goselini «costituiscono un caso vistoso di dedizione alla propria opera e di continuo ritocco e ampliamento da parte di un autore che, dopo una veglia d’armi iniziata a metà secolo, e forse in relazione alla crisi politica e personale attraversata nella seconda metà degli anni Sessanta, occupò uno spazio editoriale rilevante»; cfr. Descrizione delle «Rime» di Giuliano Goselini, in Ordine e numero. Studi sul libro di poesia e le raccolte poetiche nel Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006, pp. 135-181: 135. Cfr. inoltre la recente edizione critica delle rime: Giuliano Goselini, Rime, a cura di Luca Piantoni, prefazione di Elisabetta Selmi, Padova, Cleup, 2014.
17 Si rinvia alle osservazioni in merito di Armando Maggi, che forse insiste un po’ troppo sul peso della suddivisione in due «parti» della Dichiaratione, a suo avviso ricalcata sulla bipartizione delle Rime apparse nel 1572 in due sezioni, la prima dedicata all’amore profano, la seconda «ai temi della morte e della ricerca di assoluto»; nella Dichiaratione, secondo Maggi, la brevissima sezione finale costituisce un esito religiosamente impeccabile che fa del libro di Goselini un esempio emblematico di un «sapere diviso tra due epoche che risulteranno drammaticamente opposte e della cui temporanea compresenza la Dichiarazione è specimen di raro valore»; cfr. A. Maggi, Il commento al “sé oscuro”: la «Dichiarazione» di Giuliano Goselini e la fine del sapere rinascimentale, «Italianistica», 32/1 (2003), pp. 11-28: 28.
18 Va ricordato che a questo tipo di cultura rimanda il commento di Luca Contile a un sonetto di Goselini che si legge in un volume apparso nel 1552 a Milano: Discorso del Contile academico fenicio sopra li cinque sensi del corpo nel comento d’un sonetto del signor Giuliano Goselini, al cavalier Leone scutore cesareo. Siamo nell’ambiente dell’Accademia dei Fenici, cui appartiene lo stesso Goselini, e che include anche Bernardo Spina, che nel 1547, sempre a Milano, aveva pubblicato un volume di liriche intitolato Il bel laureto la cui prima ampia sezione è interamente occupata dall’autocommento “dottrinale” a un suo Sonetto della Santa Penitenza (incipit: Chi contra Cristo, et gl’altrui danni attese). Per quanto non vi sia alcun rapporto diretto tra la Dichiaratione e queste opere, è indubbio che Goselini si muove all’interno di un ben definito orizzonte per quanto riguarda la prassi esegetica. Sull’Accademia dei Fenici e su queste opere cfr. Simone Albonico, Il rugiadoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 235-272. Per la lettura di Contile cfr. Pietro Petterutti Pellegrino, Alla ricerca di «infiniti sensi». Il Discorso di Contile su un sonetto di Goselini, in Roberto Gigliucci (a cura di), Luca Contile da Cetona all’Europa, Atti del Seminario di Studi, Cetona 20-21 ottobre 2007, Manziana, Vecchiarelli, 2009, pp. 69-140.
19 Secondo Maggi, due peculiarità della lirica di Goselini sono «la densità della ipotassi e le protratte e giustapposte allusioni mitologiche»; cfr. A. Maggi, Il commento al “sé oscuro”, cit., p. 15. È interessante che alla prima di queste due caratteristiche la Dichiaratione non dedichi sostanzialmente alcuna attenzione, mentre le digressioni fondate sugli spunti mitologici sono frequentissime.
20 La natura ibrida del suo discorso esegetico è colta da Goselini stesso, come si comprende da questo passaggio della dedica a Vespasiano Gonzaga: «A V. Ecc. adunque, come a lei da l’idea loro devute, dedico, et sacro queste mie dechiarationi, espositioni, o paraphrasi, che dir le vogliamo, sin qui da persone intendenti commendate»; cfr. Dichiaratione di alcuni componimenti del s. Giuliano Goselini, Milano, Per Paolo Gottardo Pontio, 1572, c. *3r.
21 Ivi, c. *2v.
22 Sul concetto di “materia” della poesia e sulla sua importanza nella valutazione della lirica cinquecentesca cfr. S. Albonico, Appunti su “forma” e “materia” nella poesia di Pietro Bembo e del suo tempo, in Uberto Motta e Giacomo Vagni (a cura di), Lirica in Italia 1494-1530. Esperienze ecdotiche e profili storiografici, Atti del Convegno (Friburgo, 8-9 giugno 2016), Bologna, I libri di Emil, 2017, pp. 73-100. Per l’applicazione di questa modalità di lettura a Petrarca cfr. F. Pich, Vie alla «materia» della poesia nell’esegesi rinascimentale di Petrarca, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie 5, 11/2 (2019), pp. 405-438.
23 Le lettere in questione si leggono in Lettere di Giuliano Goselini […], Venezia, Paolo Megietti, 1592. Particolarmente interessanti le osservazioni critiche di Goselini in merito a una canzone che Guasco dichiara di aver composto sul modello della petrarchesca Verdi panni, sanguigni, oscuri, o persi (Rvf 29), ma secondo Goselini con insufficiente fedeltà al modello; ivi, cc. 73v-80r.
24 È interessante osservare che anche Annibal Guasco, ristampando nel 1581 a Pavia, per i tipi di Giovanni Andrea Viano, il primo volume delle sue Rime con l’aggiunta di un secondo volume, espliciti nel frontespizio che l’edizione è corredata da «una breve dichiaratione de i concetti loro», con terminologia significativamente affine a quella utilizzata da Goselini per il suo autocommento.
25 Le lettere all’Amalteo si leggono in Lettere di Giuliano Goselini, cit., cc. 13v-23v. Le dichiarationi inviate all’Amalteo sono quelle relative ai sonetti Non aperse tanti occhi Argo per Io, Se ’l pastor fortunato in Ida eletto e Simulachri divini, ardenti stelle.
26 Ivi, cc. 23r-v.
27 Cfr. Giovanni Pozzi, Il ritratto della donna nella poesia d’inizio Cinquecento e la pittura di Giorgione, «Lettere italiane», 1 (1979), pp. 309-341 e Maria de las Nieves Muñiz Muñiz, La descriptio puellae dans la poésie italienne de la Renaissance: quelques notes pour une nouvelle approche, «Italique», xviii (2015), pp. 187-218.
28 Questo è l’avvio della dichiaratione al sonetto: «Quantunque la bellezza de’ corpi, rispetto a la spiritale, sia di manco pregio; nondimeno ella anchora non manca de le sue lodi: spetialmente quella del corpo humano in rispetto de gli altri corpi. Et è cosa certissima, che la più bella creatura, che habbia fatto Dio in questo mondo sublunare, è l’huomo: et che parte essentiale de l’huomo è il corpo, et non instrumento solo, come disse Platone. Et così essendo, segue per conclusion necessaria, che egli nel suo grado sia bello»; cfr. Dichiaratione di alcuni componimenti, cit., c. 83v.
29 Cfr. A. Maggi, Il commento al “sé oscuro”, cit., p. 14: «[…] si incontreranno sonetti selezionati meno per la loro ipotetica oscurità, spesso pressoché assente, che per le nozioni digressive, sebbene necessarie nell’economia dell’opera nel suo complesso, che questi testi si prestano ad offrire».
30 Se ne conoscono due varianti (A e B), studiate da Manuela Martellini in I canzonieri di Celso Cittadini tra edizione a stampa e materiali autografi, in Beatrice Alfonzetti, Guido Baldassarri e Franco Tomasi (a cura di), I cantieri dell’Italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del XVII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma Sapienza, 18-21 settembre 2013), Roma, Adi editore, 2014, pp. 1-8. Sull’autocommento di Cittadini cfr. inoltre Vincenzo De Caprio, «Philosophica facere quae sunt amatoria». Sulla lirica di Celso Cittadini, in Mauro De Nichilo, Grazia Distasio, Antonio Iurilli (a cura di), Confini dell’umanesimo letterario. Studi in onore di Francesco Tateo, vol. 1, Roma, Roma nel Rinascimento, 2003, pp. 421-435; Armando Maggi, L’autocommento di Celso Cittadini alle “Rime platoniche” (1585), «Bruniana & Campanelliana», 11/1 (2005), pp. 111-115; Manuela Martellini, Tragici e comici antichi nelle Rime platoniche di Celso Cittadini: per una poesia filosofica, in Luisa Secchi Tarugi (a cura di), Comico e tragico nel Rinascimento. Atti del XXVI Convegno Internazionale (Chianciano Terme-Pienza, 17-19 luglio 2014), Firenze, Franco Cesati Editore, 2016, pp. 393-400.
31 Cfr. V. De Caprio, «Philosophica facere quae sunt amatoria», cit., p. 421.
32 Cfr. Rime platoniche del sign. Celso Cittadini […], Venezia, Presso Cornelio Arrivabene, 1585, c. 16r.
33 Ivi, cc. 18v-19r.
34 Ivi, c. a6r.
35 Ivi, c. a5v.
36 La Lettera e il Discorso non sono contigui nella stampa del 1585, ma si tratta evidentemente di un errore, dato che la prima è introdotta da questa titolazione: Lettera mandata dal medesimo auttore alla predetta gentildonna col precedente Discorso. Per questo problema, e per importanti osservazioni sulle diverse date relative al suo amore per Fiamma fornite da Cittadini sia nell’edizione sia in un esemplare delle Rime platoniche fittamente postillato da Cittadini ora alla Biblioteca Casanatense di Roma, cfr. M. Martellini, I canzonieri di Celso Cittadini, cit.
37 Per questa e altre informazioni sulla vita di Cittadini si rinvia alla voce Cittadini, Celso di Gianfranco Formichetti nel Dizionario Biografico degli Italiani, 26 (1982).
38 L’investimento di Cittadini in questo “cantiere” poetico, che possiamo presupporre non meramente letterario, è ampiamente certificato dall’impegno con cui egli torna sull’opera con l’intento di allestire, con tutta probabilità, una nuova edizione: lo documenta ampiamente il postillato della Biblioteca Casanatense. Del resto, già prima del 1585 Cittadini aveva allestito un libro di rime con autocommento per Fiamma (Gli Ardori dell’Infiammato accademico Acceso) rimasto in redazione manoscritta nel codice M v 100 del Fondo Chigi ora alla Biblioteca Apostolica Vaticana; su questi materiali autografi cfr. M. Martellini, I canzonieri di Celso Cittadini, cit.
39 Cfr. Rime platoniche del sign. Celso Cittadini, cit., cc. a4r-v.
40 Ivi, cc. 49r-50r.
41 Ivi, c. 15v.
42 Cfr. Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, Firenze, Eredi di Filippo di Giunta, 1527, c. 15r-v.
43 Cfr. Rime platoniche del sign. Celso Cittadini, cit., c. 57r.
44 Cfr. Riccardo Bruscagli, Paratesti del petrarchismo lirico cinquecentesco, in Beatrice Alfonzetti et al. (a cura di), Per civil conversazione. Con Amedeo Quondam, vol. 1, Roma, Bulzoni, 2014, pp. 273-90: 277.