Revue Italique

La poesia dialettale del Rinascimento nell’Italia del Nord

OJ-italique-695

La poesia dialettale del Rinascimento nell’Italia del Nord

Luca D’Onghia

Massimo Danzi

Nel corso dell’ultimo secolo la letteratura scritta in dialetto dal Quattrocento in avanti si è guadagnata le attenzioni di critici, filologi e storici della lingua, tanto da far parere remota la famosa constatazione di Leopardi che i dialetti italiani non sarebbero «stati ridotti a forma, nè applicati [...] alla letteratura» se non «poco e insufficientemente» (riflessione consegnata allo Zibaldone, per ironia della sorte, pochi mesi dopo la morte di Carlo Porta).1

Se Ferrari, Biondelli, Guerrini, Imbriani e molti altri misero poi in rilievo la ricchezza della nostra tradizione dialettale già nel corso dell’Ottocento, dovette passare altro tempo prima che la riflessione sul tema decollasse anche in sede critica: ciò che accadde di fatto col saggio di Benedetto Croce La letteratura dialettale riflessa. La sua origine nel Seicento e il suo uicio storico, apparso nel 1926.2 Merito di quelle pagine è anzitutto la distinzione poi passata in giudicato tra una letteratura dialettale ‘spontanea’, scritta in assenza di modelli linguistici riconosciuti, e una letteratura dialettale ‘riflessa’, concepita in consapevole antitesi rispetto al canone e alla media linguistica nazionali. Non meno rilevante la confutazione della vecchia tesi di Giuseppe Ferrari, che quasi un secolo prima aveva letto il fenomeno in chiave ribellistica, offrendo l’immagine di un drappello di dialetti in rivolta (se non in guerra) contro l’italiano e la sua letteratura.3 Per Croce, al contrario, l’uso letterario dei dialetti non è affatto mosso da intenti conflittuali, bensì presuppone riconoscendone il prestigio la letteratura scritta in italiano, contribuendo così per la sua parte al processo di unificazione nazionale.

Poco importa che il saggio fissasse l’avvio della letteratura dialettale riflessa nel Seicento e non, come sarebbe stato più opportuno, nel secolo precedente:4 al ripensamento e alla «necessaria continua retrodatazione» della tesi crociana provvide Gianfranco Contini, che al problema dedicò una lunga meditazione, sparsa in lavori talvolta epocali, e decisiva per le sorti dell’intera critica novecentesca.5 È noto quale impulso Contini abbia dato come maestro di più generazioni di studiosi alla riscoperta e alla filologia dei testi letterari dialettali in senso più o meno lato (Jacopone, la Cronica di Anonimo Romano, Ruzante, Maggi, Porta, etc.). È noto il suo tentativo di estendere la validità della distinzione crociana all’intero arco della nostra tradizione, che conoscerebbe fin dalle origini una letteratura dialettale riflessa propriamente detta, teorizzata da Dante nel De vulgari eloquentia.6 È nota infine la sua progressiva elaborazione di una categoria critica poi divenuta celebre, quella di espressionismo, in grado di inglobare negli scritti più tardi una lunghissima serie di autori, che da Auliver e Dante arriva a Gadda (passando per Folengo, Porta e molti altri). L’etichetta è stata spesso passivamente riutilizzata da una folla di settatori e orecchiatori (il ‘‘giardino dei finti Contini’’ di una celebre battuta di Roncaglia), e altrettanto spesso animosamente messa in discussione da una truppa, via via più nutrita, di anticontinisti per vocazione, non sempre inclini a considerare le cose «sine ira et studio».7

Ma non è questa la sede per discutere le tesi di Contini: qui basterà ricordare che espressionismo e letteratura dialettale non coincidono, anche se si toccano e si intersecano in vari punti di grande rilievo; della categoria continiana andrà fatto in ogni caso un uso ponderato, anche per non indulgere a sovraestensioni che non sarebbero d’aiuto alla comprensione di un fatto complesso e intimamente differenziato come la letteratura scritta in dialetto. Sarà piuttosto da tenere ben presente un’altra generalizzazione continiana, che cade nel cuore del famoso saggio premesso nel 1963 alla Cognizione del dolore: «l’italiana è sostanzialmente l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio».8

Pienamente convinti di quest’assunto, e consapevoli che l’intreccio di lingua, dialetto e letteratura è un elemento peculiare della tradizione italiana,9 i curatori hanno deciso di dedicare il presente dossier monografico alla poesia in dialetto prodotta nell’Italia settentrionale tra Quattro- e Seicento (l’augurio è di poter mettere presto in cantiere un dossier gemello per l’Italia centro-meridionale). Quanto si è richiamato fin qui serve a fornire un sommario inquadramento ai lavori presentati di seguito, che esaminano alcune delle principali manifestazioni della letteratura dialettale in un’area particolarmente vivace e in un periodo decisivo dal punto di vista storico-linguistico: in due contributi importanti anche per il nostro discorso, Cesare Segre ha opportunamente ricordato che «il Cinquecento è secolo climaterico nella vita della lingua italiana», e che appunto «è in quest’epoca di unificazione che si fondano, nei principali centri politici, le letterature dialettali».10 Il che significa tenere costantemente sullo sfondo la cosidetta questione della lingua, e con essa la lenta costruzione di un’identità nazionale cui i dialetti ‘rispondono’ assumendo una postura localistica e talvolta persino rivendicativa.

L’articolazione geografico-politica è quella privilegiata anche nel nostro quaderno dialettale, sul cui disegno vanno fatte a questo punto alcune osservazioni preliminari: prima, che rispetto alla poesia per solito al centro delle indagini di ‘‘Italique’’ quella propriamente lirica il diagramma terrà in conto anche la poesia narrativa, politica, satirica, parodica e così via; seconda, che il Rinascimento abbraccia qui un periodo ampio, che inizia con alcuni esperimenti secondoquattrocenteschi e arriva a comprendere le opere di Giulio Cesare Croce, morto nel 1609; terza, che la storia si adegua agli addensamenti della geografia, e che aree come il Veneto e la Lombardia hanno dunque una parte preponderante nel nostro tentativo di ricostruzione.

L’intento del dossier è quello di presentare una serie di episodi, autori e testi talvolta di prim’ordine anche sul piano qualitativo ed espressivo senza i quali l’immagine letteraria del Rinascimento italiano riuscirebbe monca; e se l’esigenza di una considerazione a tutto tondo è ormai chiara per il binomio inscindibile di italiano e latino, l’integrazione del polo del dialetto nel nostro panorama sembra ancora vivanda iperspecialistica, soprattutto quando si pensi alla mancanza di affidabili edizioni per tanti dei testi rammentati anche qui. Dell’efficacia del nostro quadro giudicheranno i lettori, ma va detto che in molti casi le pagine del dossier accompagnano la necessaria informazione panoramica a materiali nuovi o malnoti, offrendo primizie o edizioni commentate per testi fin qui ignorati o trascurati.

Si diceva del pericolo insito nell’uso disinvolto di una categoria come espressionismo, ma il caveat vale anche per altre ‘parole magiche’ come parodia o plurilinguismo:11 lo sguardo ravvicinato ai contributi raccolti qui non fa che dimostrare una volta di più la varietà delle sfumature e delle situazioni cui si associa l’uso letterario del dialetto, spesso praticato da poeti che scrivono anche in italiano (si pensi tra gli altri a Cavassico, Croce e Bressani, che adopera pure il latino). Così, se in alcuni casi si potrà parlare senz’altro di un uso manieristico o persino squisito (così per i pavani post-ruzantiani, per Foglietta, Venier e la congrega accademica animata da Lomazzo), altrove ci si troverà piuttosto dinanzi a un aggraziato, inedito ‘realismo’ (Bressani o certi altri pezzi di Venier). Per uno solo dei nostri addendi, il mirabile Alfabeto pavano, sarà forse lecito discorrere di espressionismo; mentre al plurilinguismo propriamente detto potranno essere ricondotti, in modo del resto tanto diverso, soltanto alcune delle Farse di Alione o le acrobatiche sonettesse di Giulio Cesare Croce. Luoghi diversi, tempi diversi, usi e tonalità da precisare volta per volta, all’insegna del distingue frequenter.

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Dopo aver riflettuto sulla possibilità di offrire un panorama che potesse render conto sia pure per scorcio dell’intera esperienza poetica dialettale tra fine Quattrocento e inizio Seicento, i curatori hanno dovuto desistere: troppi sarebbero stati i sacrifici, troppe e troppo sostanziose le assenze. Si è deciso così di iniziare dall’Italia del nord, che ha avuto nella vicenda della letteratura dialettale riflessa una posizione di spicco: basterebbe pensare in tal senso ai nomi dei due sommi ‘irregolari’ a forte o fortissima vocazione dialettale, il benedettino mantovano Teofilo Folengo alias Merlin Cocai, che ha nel dialetto un addendo irrinunciabile del proprio macaronico, e il padovano Angelo Beolco detto Ruzante, che adopera il pavano rustico in una serie di capolavori teatrali composti tra anni Venti e Trenta del Cinquecento. La mappa del nostro dossier abbraccia dunque l’intera Italia settentrionale, muovendosi per convenzione grosso modo da ovest a est: sfilano davanti al lettore Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Della poesia ligure dell’ultimo quarto del secolo Matteo Navone offre un quadro ricco e articolato, facendo centro su una delle prime antologie dialettali a stampa, e prima in assoluto per quel dialetto (le Rime diverse in lengua zeneise del 1575, che conoscono almeno 5 ristampe nell’arco di un quarantennio). Navone si concentra in particolare sul curatore delle Rime, Cristoforo Zabata («uno dei principali responsabili del risveglio letterario della Genova tardo-cinquecentesca») e sulla figura di Paolo Foglietta (1520 ca.-1596), il più notevole poeta di questa stagione. Ne escono rivisti i duri giudizi emessi sul genovese da Dante e Varchi, ed è evidente la dimensione rivendicativa, «a emendamento di quanti sostengono che nella nostra lingua non sia possibile esprimere il proprio pensiero» (così Zabata, in genovese, nell’introduzione alle Rime). La tradizione vantava precedenti importanti l’Anonimo genovese su tutti ma Foglietta figura come un vero capostipite, cultore di una duplice raffinata produzione politico-civile e amorosa. Al registro civile appartengono i sonetti degli anni 1550-1555 sul riarmo della flotta genovese e in difesa delle antiche tradizioni commerciali cittadine dismesse a favore dei traffici finanziari, mentre l’ampia sezione amorosa declina elementi petrarcheschi e culti in direzione faceta: Genova sembra guardare a Venezia attraverso gli esempi di Andrea Calmo e di Maffio Venier.

Mikaël Romanato illustra il ruolo dell’attuale Piemonte, già zona orientale della Lombardia nella sua antica accezione estensiva, evidenziandone il carattere di «carrefour» culturale tra Italia e Francia attraverso la figura prominente, se pur un po’ attardata, di Giovan Giorgio Alione (1460 ca.-1521 ca.). Stampata nel 1521 lo stesso anno dell’edizione toscolanense delle macaronee di Folengo e del secondo Furioso – la sua Opera jocunda presenta un poeta trilingue (il frontespizio precisa in «metro macaronico materno [‘dialettale’] e gallico») che i temi e i generi poetici mostrano «piuttosto rivolto verso la Francia che verso l’Italia». Romanato si concentra sulle farse, che in nove casi su dieci sfruttano il dialetto astigiano (e in tre testi presentano, su uno sfondo di burla, un vivace plurilinguismo di volgare, lombardo, latino e astigiano), indagandone i registri legati ai personaggi, i giochi e le anfibologie (spesso a carattere osceno), e insistendo in particolare sul tema del cibo (per es. nella Farsa de Zohan zavatino) nonché sui tipici intrecci novellistici di ascendenza boccaccesca.

Milano è toccata solo di striscio: non Lancino Curti o Fabio Varese, ma un testo difficile e per certi versi iniziatico come i Rabisch (lett. ‘arabeschi’) di Lomazzo, di cui si occupa Enea Pezzini. Frutto sofisticato e bizzarro della cultura milanese postridentina e della Lombardia stravagante mirabilmente studiata da Dante Isella,12 i Rabisch dra Academiglia dor compà Zavargna, nabad dra Vall d’Bregn (1589) sono un organismo a più mani opera del poeta e pittore Gian Paolo Lomazzo e di altri quattordici sodali e membri dell’Accademia della Val di Blenio (spiccano artisti come Maderno, Procaccini e Annibale Fontana). La raccolta è un notevolissimo prodotto del «manierismo tardo cinquecentesco lombardo delle ‘invenzioni’ e dei ‘capricci’»: in filigrana s’indovina il profilo del nobile Pirro Visconti Borromeo, forse protettore della congrega, tanto che in uno dei componimenti par di «riconoscere un preciso riferimento all’emiciclo a grotte naturali» della sua splendida residenza a Lainate (oggi Villa Visconti Borromeo Litta). L’Accademia bleniese è un’Arcadia prealpina, e il milanese con tocchi di «lombardo rustico» utilizzato dai suoi adepti i cosiddetti facchini della Valle di Blenio va messo in rapporto anche con quella ‘scapigliatura’ toscana che da Burchiello arriva al Doni e oltre. Pezzini fornisce una descrizione completa della raccolta (che presenta testi in spagnolo, italiano, «rengua d’ Bregn», latino, neogreco, latino maccheronico, genovese, lingua graziana, fidenziano, francese e così via) e dei suoi principali temi, concentrandosi tra l’altro sul ‘bleniese’ che affiora anche negli straducc (‘statuti’) della Valle.

Gli altri due contributi lombardi insistono sull’area bergamasca, proverbialmente legata alla figura del facchino e al suo ispido idioma, destinato a eccezionali fasti teatrali in tutta Europa grazie alla maschera di Zanni-Arlecchino. Ma in bergamasco sono scritti con intenzione inequivocabilmente riflessa anche molti testi in versi, che tra Quattro e Seicento nutrono una lunga tradizione ancora bisognosa di indagini puntuali e di approfondimenti. A questo filone, cui appartengono pezzi della più varia ispirazione (amorosa, burlesca, parodica, carnevalesca etc.), è dedicata la rassegna di Luca D’Onghia, che dopo aver fatto tappa su alcuni significativi episodi quattrocenteschi riflette sull’effettiva consistenza della produzione ‘alla bergamasca’ e sul suo significato storico, anche in rapporto alla nascente censura libraria. Viene offerto in particolare un primo regesto sistematico di stampati in tutto o in parte bergamaschi, rastrellati sulla base dei principali cataloghi in linea: ne risulta un catalogo di più di centotrenta pezzi, che smentisce l’idea corrente di una tradizione filiforme e definitivamente sepolta, e documenta anzi la ricchezza di un comparto senza dubbio meritevole di ricerche ulteriori.

Un caso notevole di uso ‘cittadino’ e nient’affatto caricaturale del bergamasco è studiato invece da Massimo Danzi e Rodolfo Vittori, che si concentrano sulla figura di Giovanni Bressani (1516-1560). Poeta di buona educazione umanistica (ebbe maestri il grammatico Giovita Rapicio da Chiari e il rimatore Guidotto Prestinari), Bressani scrive in latino, italiano e bergamasco, ma solo in dialetto perviene a una certa grazia. Nei Tumuli, stampati a Brescia nel 1574, si cimenta in un genere recente di fortuna soprattutto meridionale, da Pontano a Fiamma coltivando ossessivamente l’omaggio funebre. In dialetto l’autore trova una sua misura e fornisce le migliori poesie, che inclinano al registro comico-giocoso e sono dotate di un «naturale» che lo avvicina ai grandi dialettali veneti (di cui può, per esempio, condividere temi come il «mariazo») ma che al contempo, e forse pour cause, restarono in gran parte inedite. All’opposto di molta rimeria bergamasca, spesso parodica, quello di Bressani è un dialetto ‘genuino’ capace di narrare con tratti di vivace realismo.

Al Veneto guardano ben cinque contributi del nostro quaderno: è un’attenzione più che giustificata dalla precocità, qualità e varietà della produzione in dialetto di quella regione, al cui centro non solo geografico sta Padova, cioè «l’Alma Mater [...] della nostra poesia dialettale», nonché «la capitale incontrastabile del plurilinguismo italiano».13 Alla campagna padovana si ispira per lingua e per temi il più geniale uomo di teatro del nostro Rinascimento, Ruzante, che resta fuori da queste pagine (poco rimane della sua attività di poeta), ma il cui precedente va tuttavia costantemente presupposto se si vuol capire qualcosa della ricchissima rimeria fiorita nei circoli dei suoi ammiratori, soprattutto a Vicenza nella seconda metà del Cinquecento. Andrea Comboni offre un esame approfondito del frutto più precoce di questa lunga ondata ruzantiana, La prima parte de le rime di Magagnò, Menon e Begotto, stampata a Padova nel 1558. Dietro quei tre noms de plume rustici in pavano lomenagie ‘soprannomi’ si nascondono rispettivamente il pittore Giovan Battista Maganza, il canonico Agostino Rava e il patrizio Marco Thiene (che era morto nel 1552). La silloge si apre con 21 componimenti di Magagnò (seguono poi 21 pezzi di Menon e 20 di Begotto), che in sede liminare giustifica la propria scelta linguistica alla luce della categoria ben ruzantiana della snaturalitè (‘naturalità’). Si tratta però, in questo e negli altri due esponenti della triade, di una naturalezza tutt’altro che ingenua: lo dimostrano le raffinate traduzioni dai classici antichi e moderni che costellano la raccolta (Catullo e Petrarca rifatti da Magagnò, e poi Petrarca, Venier, Camillo, Sannazaro, Ariosto e altri ancora riscritti da Begotto); e lo dimostra l’arditezza di certe scelte metriche di Menon, che nella sua sezione, in bilico tra oscenità e crudelà, arriva a imitare l’inaudito schema della canzone petrarchesca S’i’ ’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella (costruita in modo martellante su tre sole rime).

Un testo emblematico di questa stessa stagione berico-vicentina viene studiato nel contributo di Ivano Paccagnella, che offre l’edizione critica commentata di una delle prove più rappresentative di Magagnò, la Zonchià (lett. ‘giuncata’), apparsa nella Seconda parte de le rime rustiche, a stampa nel 1562. Si tratta di un organismo metricamente complesso un lungo sonetto caudato ingloba un’ancor più lunga ercolana, per un totale di oltre quattrocento versi la cui struttura e il cui tema resterebbero tuttavia incomprensibili se non fossero guardati alla luce di uno squisito processo di classicizzazione del dialetto, ben ricostruito nei suoi chiaroscuri da Paccagnella. Chi guardi con attenzione le quattro parti delle Rime (pubblicate nel 1558, 1562, 1569 e 1583) si rende conto infatti che la costante evocazione del modello di Ruzante si accompagna alla messa in opera delle idee ellenizzanti di Trissino (primo teorizzatore esplicito di un uso letterario del dialetto) e alla concomitante volontà di costituire una vera e propria brigata accademica. Così l’intenso manierismo di Magagnò finisce per ‘spolpare’ dall’interno il realismo a tratti corrosivo del teatro del Beolco, sancendo la fuga verso un’Arcadia rustica acquiescente all’ideologia del patriziato latifondista.

La sezione pavana del dossier è completata dal lavoro di Micaela Esposto, monograficamente dedicato a uno dei testi più straordinari di questa tradizione, l’anonimo Alfabeto dei villani. Composto in terzine probabilmente negli anni Venti, coevo ai primi capolavori di Ruzante e tramandato (come alcuni di quelli) anche dal manoscritto Marciano Italiano XI 66, testimone capitale della letteratura dialettale veneta di primo Cinquecento, l’Alfabeto si presenta a tutta prima come un sistematico collage di motivi risalenti all’antica e spietata satira del villano. Ma l’uso del dialetto, la precisione del lessico e l’amarezza davvero ‘espressionistica’ del dettato a prender la parola è la moltitudine dei villani, attraverso una prima persona plurale indistinta ne fanno una testimonianza potente delle condizioni di vita contadine, richiamate con crudele esattezza all’insegna di una atavica e cupa rassegnazione. Del testo sono offerti qui una edizione riveduta sui due testimoni manoscritti (con vari progressi rispetto alla vulgata fissata da Marisa Milani nel 1997) e un’annotazione capillare che ne fa risaltare l’alta qualità letteraria.

Il quadro dedicato al Veneto è ulteriormente arricchito da due contributi che guardano, in maniera complementare, alla estrema periferia e alla capitale politico-economica della regione: Belluno e Venezia. Matteo Comerio esamina da vicino le rime dialettali del notaio bellunese Bartolomeo Cavassico (1480-1555): autore di circa settanta pezzi in dialetto, risalenti per buona parte al lustro 1508-1512, Cavassico predilige le forme della zingaresca e della barzelletta, e dà il meglio di sé quando si allontana dalla prevalente e a tratti monocorde vena erotica per avvicinarsi ai modi (e alla moda) della poesia pastorale dialogata e dei contrasti matrimoniali pavani. È quel che succede per esempio nel Villanesco contrasto intra Borthol, Tuoni, Menech et Salvador, e soprattutto nel suo piccolo gioiello drammaturgico, la notevolissima Favola pastorale in lingua villanesca, risalente al 1513 e accostabile per vari versi al teatro di Ruzante. Non meno interessanti sono i componimenti tributari dell’osservazione diretta della realtà, o ispirati alla tragica esperienza della guerra di Cambrai: càpita così di sorprendere accenti non remoti da quello dell’Alfabeto dei villani («Al sango del schantis, / n’aom mai ben» ‘al sangue del cancro, / non abbiamo mai un po’ di bene’), o addirittura di imbattersi in un componimento Contra Cancellarium Magnifici Domini Potestatis, che dà voce ai contadini vessati da «un sistema giudiziario avido e corrotto, che insieme ai disagi arrecati dalla guerra [...] e alle interminabili tassazioni [...] affligge gli strati sociali più deboli».

A epoca e contesto affatto diversi conduce l’articolo di Jacopo Galavotti, dedicato al più grande lirico veneziano del Cinquecento, Maffio Venier (1550-1586): la situazione editoriale molto insoddisfacente in cui versa la sua produzione inibisce a tutt’oggi una messa a fuoco completamente fondata della sua figura di poeta, per lo più legato nelle ricostruzioni correnti alla chiave osceno-burlesca e alla memorabile crudeltà di prove come la sonettessa Verona ver unica puttana diretta a (ma dovremmo dire: scagliata contro) Verona Franco. Testo questo emblematico anche dal punto di vista retorico, per via dell’ampio ricorso all’anafora e ai paragoni iperbolici, ma segnato da un atteggiamento repressivo e quasi esorcistico nei confronti delle cortigiane e del loro desiderio di indipendenza intellettuale ed economica. Galavotti insiste a ragion veduta sull’esistenza e l’importanza di un Venier «amoroso non scopertamente burlesco», magari incline a un realismo incantato come succede nella celebre canzone Amor, vivemo tra la gatta e i stizzi, di cui è dimostrata qui per la prima volta la meditatissima fattura, esemplata sul modulo dello schema additivo caratteristico di tanta poesia manierista. Ne esce rivalutata, attraverso un’istruttiva schedatura, anche la forte varietà figurale della poesia venieresca (similitudini di sapore quotidiano, similitudini continuate, citazioni petrarchesche etc.); non meno rilevanti gli affondi metrici, messi a frutto per provare ad affrontare questioni attributive ancora aperte. All’Emilia-Romagna è dedicato l’ultimo articolo del nostro dossier, quello di Federico Baricci, che si concentra su un aspetto malnoto della produzione del prolifico ‘cantastorie’ bolognese Giulio Cesare Croce (1550-1609). Celebre per il dittico in prosa di Bertoldo e Bertoldino, Croce è anche autore di parecchi testi poetici dialettali, nei quali il bolognese cittadino e il bolognese rustico si accompagnano alle varietà messe in voga dalla Commedia dell’Arte (anzitutto il bergamasco). Al versante espressivamente più ‘pirotecnico’ di questa produzione si volge Baricci, esaminando le sonettesse crocesche costruite sull’esibizione plurilinguistica (in certi casi sono costretti in un unico pezzo fino a sedici, diciassette o addirittura diciannove tra lingue e dialetti). Si tratta di testi accomunati da una precisa regola strutturale, perché in essi «ciascun protagonista (vale a dire ogni singolo linguaggio [...]) ha diritto a un’unica performance, limitata a pochi versi, dopo i quali passa la staffetta a quello successivo». Diverse sono invece le cornici o i pretesti tematici: si svaria dalla sfilata di prodotti tipici dei vari paesi all’occasione matrimoniale (come nell’emblematico Maridazzo della bella Brunettina), fino allo schema babelico della rissa, durante la quale i litiganti intervengono ciascuno con una battuta nella propria lingua (così per esempio nella Questione di varii linguaggi). Nell’appendice al suo articolo Baricci offre un regesto ragionato delle sonettesse plurilingui, utilissimo anche per le importanti precisazioni bibliografiche e le nuove acquisizioni.

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Fuori dal perimetro dialettale cadono i contributi di Barbara Tanzi Imbri sul ligure Chiabrera e quello di Valeria Di Iasio sul Tasso. Barbara Tanzi Imbri, borsista della Fondazione nel 2019, abborda il tema bacchico in Chiabrera, partendo dal corpus di 53 testi («il più ampio corpo di testi enoici della letteratura italiana»), riunito postumo dal Paolucci nel 1718. Pur con l’avvertenza che la raccolta non è d’autore, essa costituisce un’ottima occasione per illustrare la tradizione in cui Chiabrera s’inserisce senza eccessi e le varie modalità con cui declina il tema. Da un lato, la tradizione classica di Alcmane, Anacreonte, Orazio, Tibullo soprattutto, dall’altro quella volgare di Poliziano, Ariosto e Tansillo, e poi i poeti della Pléiade con Ronsard in testa. Un modo, da parte del Chiabrera, anche per liberarsi di forma e materia petrarchesca rinnovando la tradizione dall’interno. Valeria Di Iasio affronta il tema del ‘dialogo’ che Tasso instaura tra le rime d’amore e la Liberata, mettendo a frutto le recenti edizioni critiche del Chigiano L VIII 302 (a cura di Gavazzeni e Martignone, 2004) e della stampa Osanna (a cura di V. De Maldè, 2016). Il cantiere lirico del Tasso, con la stampa degli Eterei (1567), il ms. Chigiano (anni 1583-85) e la stampa Osanna (1591), è in buona parte parallelo al grande cantiere epico. Da qui l’interesse per una verifica delle interferenze che si misurano in territorio lirico su temi specifici, come quello dello specchio, della lontananza, del carnevale e del ballo, e che la Di Iasio verifica anche attraverso il lavoro correttorio del Tasso alle rime.

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1 Giacomo Leopardi, Zibaldone, premessa di Emanuele Trevi, indici filologici di Marco Dondero, indice tematico di Marco Dondero e Wanda Marra, Roma, Newton & Compton, 1997, p. 238 (8 maggio 1821).

2 Benedetto Croce, La letteratura dialettale riflessa. La sua origine nel Seicento e il suo uicio storico, «La critica», 24 (1926), pp. 334-343, poi in Id., Uomini e cose della vecchia Italia. Serie prima, Bari, Laterza, 1927, pp. 222-234, e da ultimo in Id., Filosofia. Poesia. Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore, Milano, Adelphi, 1996 (ed. or. 1951), pp. 469-482.

3 Giuseppe Ferrari, De la littérature populaire en Italie, «Revue des deux Mondes», 1° giugno 1839, pp. 690-720 e 15 gennaio 1840, pp. 505-531, quindi in italiano e con aggiunte significative sotto il titolo di Saggio sulla poesia popolare in Italia, in Id., Opuscoli politici e letterari, Capolago, Tipografia Elvetica, 1852, pp. 429-545. Vedi da ultimo Giuseppe Ferrari, Saggio sulla poesia popolare in Italia, introduzione di Elisabetta Di Giovanni, Milano, FrancoAngeli, 2005, dov’è offerta una rivalutazione complessiva del lavoro.

4 Sulla genesi del saggio crociano e sulle ragioni dell’accento posto su Napoli e sul diciassettesimo secolo è da vedere Alfredo Stussi, Lingua e dialetto nella tradizione letteraria italiana: teoria e storia (1996), in Id., Tra filologia e storia. Studi e testimonianze, Firenze, Olschki, 1999, pp. 81-104: pp. 92-93.

5 La citazione tra virgolette viene da Gianfranco Contini, La poesia rusticale come caso di biliguismo (1969), ora in Id., Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), Torino, Einaudi, 1988, pp. 5-21: p. 13.

6 Ivi, pp. 14-15.

7 Vedi soprattutto la densissima sintesi rappresentata da Gianfranco Contini, Espressionismo letterario (1977), in Id., Ultimi esercizî ed elzeviri, cit., pp. 41-105. Sulla categoria di espressionismo cfr. Stussi, Lingua e dialetto nella tradizione letteraria italiana, cit., pp. 97-104 e Luca D’Onghia, Per l’espressionismo di Contini, in Studi di filologia oerti dagli allievi a Claudio Ciociola, Pisa, ETS, in corso di stampa (con bibliografia pregressa).

8 Gianfranco Contini, Introduzione alla «Cognizione del dolore» (1963), in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 601-619, a p. 613.

9 Facciamo ovviamente riferimento al saggio di Alfredo Stussi, Lingua, dialetto e letteratura (1972), ora in Id., Lingua, dialetto e letteratura, Torino, Einaudi, 1993, pp. 3-63.

10 Cesare Segre, Edonismo linguistico nel Cinquecento (1953) e Polemica linguistica ed espressionismo dialettale nella letteratura italiana (1963), in Id., Lingua, stile e società. Studi sulla storia della prosa italiana, Milano, Feltrinelli, 1974 (ed. or. 1963), pp. 369-396 e 397-426: pp. 391 e 413.

11 A proposito delle ultime due etichette uno studioso presente anche in questo dossier ha molto opportunamente osservato che «la parodia non riesce a rendere ragione di tutta la letteratura dialettale riflessa e, se il plurilinguismo può essere pertinente alla parodia, non necessariamente tutte le forme pluringui sono parodiche» (Ivano Paccagnella, Il fasto delle lingue. Plurilinguismo letterario nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1984, p. 21).

12 Cfr. Dante Isella, Lombardia stravagante. Testi e studi dal Quattrocento al Settecento tra lettere e arti, Torino, Einaudi, 2005.

13 G. Contini, La poesia rusticale, cit., pp. 19 e 9.