Revue Italique

La poesia dialettale del Rinascimento nell’Italia del Nord

OJ-italique-695

Significato storico e lettura dei Rabisch di Giovanni Paolo Lomazzo

Enea Pezzini

Nei 338 endecasillabi del Cheribizo, un poemetto anonimo stampato a Milano nel 1624 e scritto in un sapido «lombardo artificiale, solo intenzionalmente bergamasco», un oscuro poeta (identificato da Dante Isella con Bernardo Rainoldi) porge in dono alla sua amata, la Togna, un catino di cristallo di rocca (vv. 1-7):1

Togna polida, honesta, s’al ve pias
cetam per vost marit, a voi donaf
ol più garbat present che sia stat
donat a qual se voia fomna mai.
Quest don ì da savì che l’è un baslot
de crestal montagnul, tut intaiat
per man del Nibalin, che no gh’à par.2

L’intaglio eseguito dal Nibalin, che non è altro che il celebre scultore Annibale Fontana che operò all’interno di una folta schiera di artisti rinomati in tutte le corti europee, rappresenta la città di Milano, con i suoi fiumi, le sue nove porte, i suoi corsi d’acqua, le magistrature, le arti, le botteghe, le fabbriche, ma soprattutto con le cinquantotto osterie di cui la città andava tanto fiera (vv. 95-98):

cinquantot ostarie sì famos
che dent ghe vedarì tut ben fornit;
vedarì i trì Re, el gras Falcon,
Ul Capel, la Fontana, ol Poz, la Bala3

Una volta descritte le popolose vie della città, con le botteghe piene di cibo e mercanzie, l’anonimo poeta offre un gustoso quadro degli ambulanti (persino con le loro colorate grida! «e chi va po cridand ‘‘gh’ì crusch, o donn?’’» ‘e chi va in giro gridando: ‘‘Avete crusca, o donne?’’’) e racconta dei facchini, suoi fedeli compagni, che popolano l’urbe meneghina (vv. 326-31):

Vedarì po’ i fachin de l’Oltolina,
e quei de Val Intragna e Palanzasc,
e da Macagn e dalla Val Travaia,
da Bierenzona, Vegiez e Morbegnasch,
gaiardissem e furt tug de s’cena,
c’hin tug mè fedelissem compagnon!4

Il paesaggio alpino appena tracciato, con le sue città e le sue valli, è quello da cui, da oltre un secolo, erano soliti scendere a Milano forti leve d’uomini di fatica: «facchini, ma anche spazzacamini, spaccalegna, brentatori, castagnai, osti, ecc.; uomini spinti dalla povertà dei loro luoghi verso l’industre pianura e i commerci della grande città. Gente umile e laboriosa, dalle parlate aspre (tutte, benché diverse, di un unico ceppo) che nella grande metropoli suonavano come forme straniate, barbariche e divertenti, dello stesso dialetto milanese, tanto da essere prese, non senza una base di umana simpatia, a facile, frequente motivo di mimesi caricaturale».5

In ragione di quest’umana simpatia verso gli umili e laboriosi facchini della Valle di Blenio,6 nella Milano postridentina del 1589, dove gli appassionati di letteratura «aumentano di numero e diminuiscono di peso»,7 è data alle stampe una raccolta plurilingue, intitolata Rabisch dra Academiglia dor compà Zavargna, nabad dra Vall d’Bregn, ed tucch i su fidigl soghit, con ra ricenciglia dra Valada (‘Arabeschi dell’Accademia del Compare Zavargna, Abate della Valle di Blenio, e di tutti i suoi fedeli soggetti, con licenza della Vallata’). Si tratta di un’opera a più mani del trattatista, pittore e poeta milanese Giovanni Paolo Lomazzo8 e di quattordici suoi sodali che si definiscono membri dell’Accademia della Valle di Blenio.9

Per una coincidenza che sembra sempre meno fortuita, come ha suggerito Alessandro Morandotti, mentre il ninfeo della Villa di Lainate di Pirro Visconti Borromeo (uno dei personaggi più in vista della Milano del suo tempo, collezionista d’arte, mecenate, protettore di Lomazzo e non da ultimo destinatario dei Rabisch) si apre al pubblico, «escono dalla luce gli ‘‘arabeschi’’ di Lomazzo e dei facchini della Val di Blenio che della cultura figurativa del Ninfeo sono inequivocabilmente contrappunto letterario».10 L’incontro tra il Lomazzo e il Visconti Borromeo è particolarmente importante, in quanto permette di «rintracciare un episodio fondamentale della cultura profana nella Milano dei Borromeo; il nobile milanese, con le sue parentele, garantiva adeguata protezione e permetteva a Lomazzo e ai facchini della Val di Blenio di uscire allo scoperto, mentre lo scrittore offriva al mecenate e agli artisti del ninfeo di Lainate l’aggiornamento più completo sul repertorio dell’arte profana».11 I Rabisch e il Ninfeo si integrano a vicenda e i protagonisti sono gli stessi, basti pensare che in uno degli ultimi componimenti di Bernardo Rainoldi, la Canzogn in ròd dor Illust. Sig. Cont Pirr Moscont, par r’agliutt ch’or dè a cogl’ dònn ch’eran cascò in dor fòss, dor compà Slurigliagn dra Vall de Bregn II 52 (‘Canzone in lode dell’Illustre Signor Conte Pirro Visconti, per l’aiuto che diede a quelle Signore che erano cascate nel fosso, del Compare Giuliano della Valle di Blenio’), si può probabilmente «riconoscere un preciso riferimento all’emiciclo a grotte naturali ove Pirro Visconti Borromeo aveva esposto le tre Ninfe eseguite da Giulio Cesare Procaccini o forse da altri esecutori sui modelli di Francesco Brambilla»;12 e infatti queste donne cadute nel fontanile, ci informa il Rainoldi, «Ma o gh’era ugn che Ninf tugg tre ’gl ciamava» (‘c’era però uno che le chiamava Ninfe tutte e tre’).

Fino a tempi recenti i Rabisch non hanno goduto di grande fortuna e diffusione per una ragione «essenzialmente linguistica, connessa con la difficoltà di intenderne anche solo la lettera».13 Alla prima edizione commentata e filologicamente attendibile della raccolta si è arrivati, per merito di Dante Isella, solo nel 1993: «‘‘il propellente iniziale’’ per questo lavoro gli venne dall’interesse dimostrato dagli studenti del Politecnico di Zurigo per un corso da lui tenuto nei primi anni Ottanta su antichi testi lombardi».14 Da quest’importante edizione, come sottolinea Barbara Agosti, hanno poi tratto proficuo sviluppo soprattutto gli studî successivi dedicati alla tradizione artistica milanese del Tardo Cinquecento, in particolare la studiosa ricorda la mostra di Lugano del 1998 (Museo Cantonale di Lugano, 28 marzo - 21 giugno 1998), che «nata e condotta in serrato dialogo con le ricerche di Isella, si impegna a dar conto della rutilante ‘varietà’ delle opere prodotte, in generi diversi, da artisti e artefici legati appunto alla fronda lomazziana».15

Nonostante l’Accademia si definisca «dra Vall d’ Bregn» (‘della Valle di Blenio’), i legami tra gli accademici e questa valle dell’alta Lombardia sono in realtà alquanto esigui, come già suggeriva più di un secolo fa Brenno Bertoni, avvocato e libero pensatore bleniese, a cui lo scapigliato Ferdinando Fontana, intenzionato a inizio Novecento a ristampare i Rabisch, aveva chiesto notizie in merito alla raccolta:16 «la vallata di Blenio è puramente e semplicemente posta in luogo dell’Arcadia delle altre accademie del tempo, i facchini in luogo dei pastori [...]. Come gli altri accademici avevano un nome ellenico ‘‘tra gli arcadi’’ così questi hanno tra i bregnoni un soprannome appropriato: or compà Vinasc [...]. Come nelle altre accademie affettavasi di non parlare che greco e latino, in questa non è concessa che ra rengua d’ Bregn, ed in questa strana lingua cantano amore e vino gli strani accademici, i quali se non san tutti poetare, sanno però tutti bere con mano ferma».17 L’importante lavoro di Isella ha in séguito dimostrato che la «strana lingua» della raccolta non ha nulla che fare con il genuino dialetto della Valle di Blenio: essa infatti non è altro che il dialetto «milanese, ma con una forte placcatura rustica e con grafie che ne sono il connotato più manifesto»; grafie probabilmente create ai tavoli di una di quelle cinquantotto famose osterie di Milano di cui si parlava, un ambiente nel quale la gaudente Accademia era affatto di casa; e dunque «milanese si può dire, sostanzialmente, la lingua dei Rabisch, nonostante la forte sovrapposizione di tratti derivati in minima parte dal dialetto della Valle di Blenio, più largamente dal lombardo rustico».18 I Rabisch sono quasi l’unica testimonianza dell’attività, degli statuti, dei riti e dei costumi dell’Accademia della Valle di Blenio, che era la terza che vedeva la luce dopo le Accademie dei Trasformati e dei Fenici, fiorite a Milano verso la metà del secolo.19 Il fatto è sorprendente in quanto, com’è noto, «il fine primo di qualsiasi accademia è sempre stato quello di dare forma e nome a qualcosa per poterne affermare all’esterno l’esistenza».20 Gli unici altri riferimenti all’Accademia si hanno nelle rime italiane del Lomazzo uscite a stampa due anni prima dei Rabisch, e dette i Grotteschi;21 un primo accenno si ha in un sonetto di Ambrogio Brambilla (riproposto nei Rabisch, I 3, con aggiunta una coda di tre versi) che recita (vv. 9-11):

Dor compà Borgnin, gran scanscierè dra Val da Bregn
[...]
Te sé compà Zavargna che tra nugn
Pòm divisò senza simulatiogn:
Che valent più de tì no ghè nesugn.22

Il secondo nel Breve trattato della vita dell’auttore descritta da lui stesso in rime sciolte posposto alle rime, che menziona l’Accademia e la lingua che in essa si usava (vv. 33-37):

E all’or fu eretta ancor l’alta Academia
Di Bregno; et io di lei fui fatto Prence
Dove parlava ognun in lingua rozza
Et io vi feci già di stran caprizzi,
Che forsi in breve si daranno fora.23

Nonostante le scarse informazioni a noi disponibili, è però certo che l’Accademia sarebbe diventata, seppure per una durata effimera, il più importante centro d’elaborazione del gusto grottesco a Milano. Infatti al suo interno militavano, in contrasto con la rigida gerarchia fissata dal Vasari nell’edizione giuntina delle Vite, artisti, pittori, scultori, intagliatori, ricamatori, medaglisti appartenenti a quell’originalissimo manierismo tardo cinquecentesco lombardo delle ‘invenzioni’ e dei ‘capricci’, che partendo da Leonardo e passando per Lomazzo arrivano all’Arcimboldo.24

Da questa originale cultura figurativa prendeva avvio da un lato il genere delle grottesche e degli arabeschi che forzavano con libero estro il codice tradizionale; e Lomazzo dedicherà alle grottesche sia il cap. XLIX del libro VI del Trattato dell’arte de la pittura, scoltura et archittetura,25 sia le sue rime italiane, nelle quali a imitazione delle grottesche dipinte dai pittori, egli affresca con la penna una svariata umanità, composta da artisti, nobili e persone del popolo, mettendone in luce i loro capricci e le loro inclinazioni. L’ispirazione grottesca, racconta il poeta, gli sarebbe venuta dopo aver assistito «al sepolcro di Milan andando» a una zuffa carnevalesca, dove (vv. 97-165):

V’eran molti Signori atti a la guerra,
[...]
     V’eran calzanti, servi, fruttaiuoli,
Ruffian, ladri, furfanti, agricoltori,
Sin a quei ch’acconciando van paiuoli.
     Ivi tutti mostrar i lor valori,
Sì picciol come grandi, e d’ogni sorte;
E vi fu pesto il ceffo a due Dottori.
[...]
     L’humor fu questo ch’io vi pongo in carte:
Che come ne la pugna visto avea
Signori e gente d’ogni offizio et arte,
     M’allacciassi d’attorno la giornea,
     Et pigliassi il pennello, e dipingessi
     Alto, basso e mezzan come io volea;26

Alle ‘invenzioni’ e ai ‘capricci’ dell’ispirazione grottesca si allacciano le Profezie scritte da Leonardo e le sue enigmatiche teste grottesche che, se non erano «sparse per tutto il mondo» come avrebbe affermato Lomazzo nel cap. XVI dell’Idea del tempio della pittura,27 sicuramente circolavano nella Milano tardo cinquecentesca e soprattutto all’interno dell’Accademia.28 Questa curiosa arte figurativa del Lomazzo e dei suoi accademici si legava strettamente, secondo la riformulazione rinascimentale dell’oraziano ut pictura poësis, alla loro produzione scritta praticata all’insegna del dio Bacco: una scrittura irregolare, stravagante e plurilingue che aveva tra i tanti modelli il Burchiello, il Doni, il Bellincioni e il Folengo, ma anche la nascente Commedia dell’arte.29

La stampa dei Rabisch, ideata ma non controllata dal Lomazzo in quanto cieco dal 1572,30 si presenta bipartita, con tanto di frontespizio diverso per entrambe le parti, ma chiunque esamini da vicino il testo si accorge che i due frontespizi sono parte del medesimo libro, e che la prima sezione serve solo da introduzione alla seconda, la vera e propria raccolta poetica, la parte più gustosa e licenziosa.

La sezione iniziale (I 1) si apre con la dedica in terza rima del libro scritta dal Lomazzo (si tratta dell’unico testo sottoscritto dal compà Zavargna), al conte Pirro Visconti Borromeo, che ha superato in gloria persino gli antichi romani i cui trionfi furono così grandi da offuscare tutti coloro che vennero dopo di loro (vv. 1-14):

All’illustriss. Sign. il Signor Conte Pirro Visconte Borromeo
Fun sì grand i triglionf gl’arch i colòss
     Ch’o fugn drizzad a onó di vig Romagn,
     Che i sù virtù mostregn a più no pòss,3
Che gl’ òltr’ ed dré da lor hign pars babagn
     Nè da quòl temp in scià gh’è mai stà onzugn
     O pòch armanch ch’o siglian vars on pagn.6
Ma adess ra nòsta val n’ha crigliad vugn
     Ch’avanza in dra virtù tucc quanc costor,
     Dòtt e gagliard in lettr’ e in dor fà a i pugn,9
Nassud da cogl’ Moscont ch’in tant onor
     Fugn scià in Miragn, ma lù in ra patriglia nòsta
     R’è più onorad e de tucc quògl’ magior.12
Costù è on signó che in ra accadimiglia nòsta
     R’è dicc or Cont.31 […]

Dopo i primi due testi di dedica a «or Cont» (I 2 è un sonetto sempre rivolto allo stesso), distinti nella stampa da un corpo tipografico più grande, vi è allestito secondo il gusto sfarzoso dell’epoca un apparato scenico costituito da 24 componimenti elogiativi (quali si era soliti stamparne in apertura di opere anche di altro genere, e come se ne possono leggere davanti a ciascun libro dei Grotteschi) scritti dai cosiddetti dodici Difensori della Valle che sfilano celebrando le virtù di Lomazzo, il loro «Nabad» (‘abate’). Gli autori si succedono in un ordine analogo (nonostante l’inversione tra il Compà Tassogn e il Compà Fogliagn) a quello dell’ultimo capitoletto della Introduçigliogn dra Vallada dove sono elencati i «dodes defensó» (che in realtà sono tredici, vd. oltre). Questi componimenti, che si possono collocare con certezza quasi tutti a ridosso della pubblicazione della raccolta,32 sono redatti nei metri più vari e in numerose lingue e dialetti (spagnolo, italiano, «rengua d’ Bregn», latino, neogreco, latino maccheronico, genovese, lingua graziana, fidenziano, francese, ecc.), ma unicamente quattro testi, cioè quelli di Ambrogio Brambilla (I 3), di Girolamo Maderno (I 4), di Giovanni Battista Vegezio (I 25) tre dei «sett savigl» (‘setti saggi’) dell’Accademia , e di Francesco Gallarati (I 5) sono scritti in dialetto facchinesco. D’altronde la libertà linguistica era garantita per statuto a ciascun Accademico: «Che tucc pòssen scrivv in che lengua ghe pias» (‘che tutti possano scrivere in qualunque lingua piaccia loro’), ma «in Consegl’ no ’s parla se nò dra lengua de Bregn» (‘in Consiglio non si parla che la lingua di Blenio’).33 Dei testi di questa prima parte conta decisamente di più lo sperimentalismo linguistico che il risultato artistico, in sé piuttosto mediocre.

In I 3 Ambrogio Brambilla loda il Lomazzo in quanto (vv. 9-14):

Te sé compà Zavargna che tra nugn
     Pòm divisò senza simulaçiogn:
     Che varen più de tì ni ghè nissugn.
Da pû te vugl’ anch dì costa resogn,
     Ch’ in fà grotisch hign al par tò minciogn
     Tucc i poglita ed quâ ’s vûglia valogn.34

Segue Girolamo Maderno che in I 4 elogia Lomazzo che fu «quand or ghe vedeva» (‘quando ci vedeva’) un ottimo pittore, «e quand o r’ebb dra luss pers» (‘e quando ebbe perso il lume degli occhi’) un eccellente trattatista. Poi Francesco Gallarati in un lungo componimento I 5 esalta la Valle di Blenio, con i suoi facchini, Lomazzo e il dio Bacco; si trova qui il primo, di una lunga serie, di accenni ai detrattori della Valle (vv. 22-28):

Ar tò Compà Borgnin
Or gh’ha donad insciegn e facc astutt,
Par fà che contra a ra canaglia e gl’ giòtt,
Che ’d sassinò ’r valogn
Sciercan, la soa reson
O dsess par fina in có, faghendel degn
Dor gran scanscielerad dra vall de Bregn.35

Nel carme I 6, sempre del Gallarati, le Muse maccheroniche salutano e si congratulano con la musa di Blenio per la trovata fratellanza. In I 7 Bernardino Baldini, professore di medicina e matematica a Pavia e a Milano, elogia in italiano la Valle. A partire da I 8 si apre una serie di quattro testi di Lorenzo Toscano, il quale esalta lo Zavargna in varie lingue: I 8 è scritto in bolognese dal dottor Graziano, I 9 è definito «sonetto secondo siciliano», I 10 è redatto in lingua zerga, mentre I 11 in francese. Conclusa questa serie linguisticamente sperimentale, si hanno due componimenti I 12-13 scritti in italiano da Giovanni Antonio Buovi. Successivamente, uno sconociuto Albino Sadoco Nabateo entra in scena con tre testi, il primo in italiano I 14, il secondo I 15 «in uno strano e non sempre comprensibile neogreco»,36 il terzo I 16 in latino maccheronico. Seguono due sonetti caudati di Bernardo Rainoldi: nel primo I 17 il poeta, travestito da dottor Graziano da Francolino, loda, quasi certamente in lingua graziana, il Trattato del Lomazzo (vv. 33-38):

     Ma chi non ha imparad
E brama de quest art voler saver,
Vada alla stampa, oh vada dal librer
     Che trovaram el ver
Che’l Zavargna Lomaz, sì priv de lum,
Della Pintura ha fatt un gran volum.37

Nel secondo I 18 invece il Rainoldi, trasformato in Bussote genovese, nonostante si ritenga meno abile del poeta genovese «Poro Fogietta» (‘Paolo Foglietta’), prova a cantare le lodi di Lomazzo. In I 19 entra in scena Giovanni Battista Visconti con la Canzone in lode della Valle di Bregno e del suo Abate, evidente ripresa della petrarchesca Chiare, fresche e dolci acque (Rvf 126). Segue un esastico in latino I 20 di Sigismondo Foliani. Poi in I 21 Giacomo Tassano esalta, ancora in lingua graziana, Lomazzo e definisce i Rabisch come (vv. 2-4):

Nel liber qui present scrit e storiad,
Idest, cioè, ’l qual libr’ a l’è un tratad
De mandragol, soniet, viers e canzon38

Mentre in I 22 il Tassano descrive in fidenziano Lomazzo come «solerte olim pictore, or lepido poeta». Entra ora in scena Cosimo de Aldana con due testi I 23-24 in spagnolo nei quali Lomazzo è dichiarato l’unico degno Abate della Valle. Giovanni Battista Vegezio chiude la serie dei componimenti elogiativi con due pezzi I 25-26, il primo in «rengua d’ Bregn», il secondo in italiano, dedicati a Bacco e alla sua più grande creazione, l’Accademia.

A questa prima parte fa séguito, redatta in prosa facchinesca, l’Introduçiglion dra vallada (‘Introduzione della Valle’), che contiene i documenti archivistici dell’Accademia.

Il primo testo è l’Origen e fondament dra Vall de Bregn (‘Origine e fondamenti della Valle di Blenio’), un’introduzione teorica all’Accademia, nella quale è esposta la teoria delle nove sfere celesti presiedute dai nove Bacchi e dalle nove Muse, che oltre a richiamare da vicino il Della forma delle Muse (l’opera è pubblicata nel 1591, ma utilizzando materiale allestito in precedenza)39 presenta, come ha evidenziato Isella, una certa consonanza con la cosmologia neoplatonica elaborata da Pico della Mirandola: «con la teologia orfica il Lomazzo ha certamente inteso di fornire all’Accademia da lui presieduta un quadro di riferimento culturale in sostegno della concezione, sua e dei suoi compari, di un’arte intesa, non come sola ars, mestiere, ma come estro poetico, invenzione».40 E come hanno poi suggerito studî recenti, riflettendo sui complessi riferimenti culturali sottesi ai Rabisch e sulla particolare scelta espressiva di Lomazzo e dei suoi sodali, la suggestiva idea di considerare l’Accademia come un «movimento culturale di fronda» che si oppone alla «dittatura spirituale del controriformismo carliano»41 (da qui l’esigenza di scrivere in un trobar clus facchinesco con una finalità di difesa più che di gioco espressivo) pare non pienamente convincente; è più probabile che «tenemos que devolverle a las dos colecciones poéticas de Lomazzo un valor en esencial estilístico» (secondo la formulazione di Giuseppe Mazzocchi).42 L’Origen e fondament dra Vall de Bregn ci informa anche che «tocò la dignità d’Abbadiglia ar Compà Zavargna, che fu or 1568 or dì de ciappa Avost» (‘toccò la dignità della Badia al compare Zavargna, il che fu il 1568, il giorno di ferragosto’); Lomazzo andava così a sostituire il compare Baltresca (la cui identità non è nota; il Tanzi lo identificava senza ragioni convincenti con «Cristoforo Solaro, noto pittore milanese») che, in séguito a violenti contrasti, rinunciava alla carica.

Il secondo documento è il Pròlogh in onó de Bacch, inanz a r’incoronaçigliogn dor Zavargna, dicc dal compà Borgnign (‘Prologo in onore di Bacco, avanti l’incoronazione dello Zavargna, detto dal compare Borgnign’) che, recitato da Ambrogio Brambilla, è una lode del nume tutelare dell’Accademia, Bacco «ciamad gran signó ’d Bregn» (‘chiamato gran signore di Blenio’). L’elogio è costruito utilizzando i capitoli dedicati al dio nella Genealogia degli Dei Gentili (traduzione italiana di Giuseppe Betussi, Venezia 1554, pp. 91 sgg., della Genealogia Deorum Gentilium del Boccaccio) e ne Le Imagini degli Dei de li Antichi di Vincenzo Cartari (Venezia 1571, pp. 412 sgg.).

Il terzo testo riguarda le Çerimonigl e significaçigliogn di còss c’han da ornà or Nabad (‘Cerimonie e significato degli ornamenti che deve avere l’abate’), come per esempio «ra pell dor cavrett» (‘la pelle del capretto’), «or sacch» (‘il sacco’), «ra còrda e ra fusella» (‘la corda e la fusella’), ma il testo racconta anche «dra forma dor sigill de Bregn» (‘della forma del sigillo di Blenio’), ecc. Il documento è particolarmente prezioso, come ha mostrato Isella, per intendere il famoso autoritratto del Lomazzo, conservato dal 1821 alla Pinacoteca di Brera, nel quale l’artista, secondo i dettami dell’ut pictura poësis, si presenta sia come pittore che come abate dell’Accademia.43

Appaiono poi gli Straducc dra vall de Bregn (‘Statuti della Valle di Blenio’) e I còss ch’o’s denn osservò in Bregn (‘Le cose che si devono osservare in Blenio’), testi nei quali si descrive il potere dell’Abate e il ruolo del Consiglio.

Chiunque avesse voluto entrare nell’Accademia avrebbe dovuto dare prova del suo valore e rispondere a L’interogaçigliogn ch’o s’han da fà dar gran Scanscieré pos ra gneregada a col ch’o vûr intrò in dra Vall de Bregn (‘Le domande che devono essere fatte dal gran Cancelliere, dopo il convitto, a chi aspira ad entrare nella Valle di Blenio’). Queste vertevano sulla vita e il lavoro dei facchini e includevano per esempio la descrizione della brenta e del pagliolo che il facchino doveva portare «Com’ va ra brenta» (‘Come dev’essere la brenta’), Com’ va or pagliû» (‘Come dev’essere il pagliolo’) , ma anche un’attenta descrizione del buon vino rosso «Come besògna ch’o siglia or vign ross bogn» (‘Come bisogna che sia il vino rosso buono’) e una spiegazione su come scorticare i capretti «Com’ se scortega i cavritt» (‘Come si scorticano i capretti’) . Tramite l’ottavo e ultimo documento, I nòm dor Nabad de Bregn e di sett Savigl ch’o fugn facc da lù (‘I nomi dell’Abate di Blenio e dei sette savi che furono nominati da lui’), si viene a conoscenza della gerarchia interna all’Accademia e dei membri che ne facevano parte: oltre all’abate vi erano sette Saggi, undici Consiglieri Sapienti, «dodes Defensó» (‘dodici difensori’), che in realtà sono tredici poiché va aggiunto «el compà Ciòss ch’o’s ghe mett andré» (‘il compare Ciòss che si mette per ultimo’), e infine settantasei facchini senza cariche.

Conclusa questa prima parte, inizia la raccolta vera e propria, al cui interno si può riconoscere, come ha suggerito Simone Albonico, «una approssimativa gerarchia metrica che prevede, nelle singole sezioni, la successione discendente [di] terzine, ottave, sonetti, frottole, barzellette, cui fanno eccezione due testi di corrispondenza e, nella lunga sezione di Lomazzo, la posposizione dei metri lunghi alla serie compatta dei sonetti».44

È a questo punto della raccolta che il Lomazzo entra in scena occupandone gran parte (II 1-46, il II 42 in collaborazione col compà Napiogn e l’ultimo col compà Borgnign), prima con una serie ininterrotta di sonetti II 1-38, poi con un Trionfo d’Amore II 39, una Mattinata in terzine II 40, degli strambotti e delle barzellette in onore del galeone II 41, tre scritti in ottave II 42-44, un sonetto caudato II 45 e di nuovo un testo in ottave II 46. Tra questi componimenti si possono qui individuare, come proposto da Albonico, alcune sottosezioni.

Il primo gruppo di testi (II 1-6) è rivolto al Gran Cancelliere Ambrogio Brambilla, a un consigliere (Francesco Giussano), a due letterati (Giovanni Antonio Buovi e a Sigismondo Foliani) e a un personaggio illustre (Giuliano Gossellini). In II 1 Lomazzo si rivolge al Brambilla invitandolo ad abbandonare il lungo silenzio e a poetare di nuovo; anche II 2 è dedicato al Brambila, ed è la risposta a I 3, di cui riprende il tema e le parole-rima: Lomazzo dice di non meritare gli elogi precedentemente ricevuti. In II 3 si esalta il Giussano, abile schermidore, nominato capitano della Valle di Blenio in ragione dei suoi meriti. II 4 è una lode del digiuno rivolta al Buovi: il mangiare, secondo Lomazzo, fa entrare la febbre nelle ossa e il povero sventurato che non riesce a cacare è destinato a morire (vv. 12-14):

E se par quòst qualcugn no pò chigà
O r’è fòrza ch’or traga gl’ultem vess
O che s’cipad or vaga ar mond da là?45

Il tema è successivamente rovesciato in II 5 (che riprende le parole-rima del sonetto precedente), dedicato al Foliani: non vi è gioia più grande, afferma lo Zavargna, di poter cacare quando si ha la pancia piena (vv. 12-14):

Mò che dolceza è quella dor chigà,
Quand ch’o s’ha piegn ra bòglita, e trà di vess
E pû tornass a impì, descià ò de là!46

In II 6 con versi facchineschi e italiani, esattamente speculari, si acclama il famoso poeta Gossellini, la cui fama non è limitata alla sola Milano (il Gossellini era estraneao all’Accademia forse perché nel 1589 era morto da due anni, ciò che però non risulta dal sonetto).

Il secondo gruppo (II 7-13) richiama le vicende della Valle narrate da Lomazzo nella parte in prosa e si ricollega al «nucelo originario dell’Accademia, cui risultano estranei i difensori letterati».47 II 7 rappresenta, con domande e risposte, le apprensioni dello Zavargna in merito alle sorti dell’Accademia: la preoccupazione maggiore è data dal compà Baltresca (il precedente abate), che odiato ormai da quasi tutti (solo il compà Ciòss non sa ancora bene da che parte stare), dovrebbe andare a nascondersi (vv. 12-23):

O Gavargnon, Baltresca da gavargna
Cò’ fett quì? Va a strapò sù dra zuccoriglia.
[...]
Va a menà la tramòzza
Ombriglia de ligliam; oh vatt a scond
E no ’t lassa veghè magl’ più nel mond,
Senò che sciò ar profond
O ’t casciarà cogl’ pugn or compà Traver
A cantò col Ciappign e cord Digliaver.48

All’interno di questa lunga sfuriata si accenna a Girolamo Vicenza, «ch’ mostra a tutt or mond dor scié ra sbòzza» (‘che mostra a tutto il mondo un abbozzo di cielo’), al quale è poi dedicato interamente il testo successivo (II 8). In II 9 si esalta Girolamo Maderno, la cui virtù «casciad sòtt agl’ cavigl’ [...] ven fû dor gavasciogn» (‘cacciata sotto ai capelli, viene fuori dalla testa’), ma si tratta probabilmente di un elogio caricaturale in quanto l’Accademico non aveva grande dimestichezza con la poesia colta (uno dei suoi componimenti, il II 58, è infatti rivisto dal Lomazzo). In II 10 è presentato l’apparecchiamento di Giovan Angelo Azzio, che è pronto a partire con nove Sorelle (forse le nove Muse di cui si è parlato) e a comporre versi, che sono detti spessi come lenticchie. Dedicato alla comare Musa è invece il testo successivo (II 11): lo Zavargna vuole che la sua Bettòra gli addolcisca il cuore; altrimenti, avverte l’osceno e criptico finale del componimento (vv. 13-17):

Deh, abbem piglietà, vût che m’appica?
Bettòra dolza pù ca’r marzapagn.
     Ar còrp ch’o ’n digh d’on cagn,
S’o ’t squitt adòss o’ t fasc fà crigliatur
Ch’in mez’ora faran trenta portur.49

In II 12 si ha un elogio di Giovan Battista Calderini, nuovo dirozzatore dei costumi degli uomini; mentre II 13 è rivolto a Giovanni Battista Vegezio, ed è la dimostrazione che il poeta ha superato persino l’abilissimo Orfeo.

Il terzo gruppo (II 14-37) contiene 24 sonetti (situazione simile alla prima parte della raccolta dopo i due sonetti di dedica) rivolti o dedicati ai sette Difensori non ancora nominati nella seconda parte, a letterati comuni (Ludovico Gandini), ad artisti e collezionisti (II 24-27 e II 31-37, cui forse va aggiunto anche II 21), tra cui due Consiglieri (Annibale Fontana e Ottavio Semini) e un semplice compare (Paolo Camillo Landriani). In II 14 Giacomo Tassano viene elogiato alla pari di grandi poeti quali il Petrarca e l’Ariosto, analogamente in II 15 si tessono le lodi di Giovan Battista Visconti e si critica la gente ignorante che non apprezza il poeta. II 16 racconta che la fama di Vespasiano Marini vola dal paese di Zoroastro fino al fiume Tile, facendo stupire persino quelli di Blenio, ma d’altronde non ci si può aspettare altro da un poeta più grande persino dell’Ariosto. In II 17 si richiedono al Gallarati alcuni versi. Rivolto a Simone da Bologna alias Zan Panza de Pegora, uno dei più celebri zanni della Commedia dell’arte e membro della Compagnia dei Gelosi, II 18 racconta delle diffamazioni dell’Accademia fatte dallo zanni, che nonostante il suo riprovevole comportamento è però perdonato (vv. 1-4):50

S’o ’m credess, ò Svanign, che ’d quògl’ resogn,
No ’t d’siss pentitt t’o d’siss con ra Bettòra,
O sarev òm per despensò ra dura,
S’o ra fuss negra, in fatt parì on babiogn.51

In II 19 si esalta Ludovico Gandini in quanto degno poeta, mentre II 20 ne piange la morte e, con la paura di dover stare tutto il giorno ad ammazzare pidocchi, si criticano i «taròcch ignorantogn» (‘tangheri ignorantacci’). II 21 esalta Giacomo Rosignolo da Livorno, «decoratore e specialista in grottesche»,52 ora al servizio di Carlo Emanuele Duca di Savoia. Rivolto a Bernardino Baldini, II 22 è una critica a quei poeti milanesi che abbandonano la loro lingua nativa per poetare in toscano; esemplare è invece la fedeltà al milanese dimostrata da Gian Giacomo de’ Medici (già esaltato nel cap. XXV del libro VII del Trattato).53 In II 23 si elogia la penna di Lorenzo Toscani e si critica chi non apprezza la sua produzione poetica: questi meritano d’essere battuti a scopate come i ladroni condotti sopra gli asinelli! A questo punto in II 24 la Pittura moderna, rivolgendosi a Camillo Procaccini, si lamenta della propria decadenza, attribuita all’ignoranza dei nuovi poeti e alla mancaza di facoltosi mecenati. Segue II 25 che esalta il pittor Marco Senese e lo descrive mentre dipinge a Napoli, mentre II 26 loda la pittura antinaturalistica e artificiosa del Rosso fiorentino. In II 27 si piange la morte dello scultore Annibale Fontana, mentre in II 28 si loda il dottore Pietro Cantone. Poiché di recente Bernardo Rainoldi si è fatto facchino, II 29 è l’elogio della sua capacità di comporre testi in mille lingue (rubrica):

Ar signó Bernard Raglinòld, dicc in Bregn or Slurigliagn, in dra soa rengua or Graçigliagn, in genovese Busotte, in Bregamasch Pedraz, in quella da Vares Bosign.54

Il bolognese Graziano è il dottore della Commedia dell’arte, così come Busote, Pedraz e Bosign designano i loro rispettivi dialetti. Il testo successivo II 30 è dedicato a Cosimo de Aldana, ed è tutto giocato su rime equivoche tra mond (‘mondo’) e Edmondo, e tra Còsm (‘Cosimo’) e cosm (‘cosmo, universo’, o alla greca ‘ornamento’). In II 31 si racconta che Guido Mazzenta aveva un dipinto di Perin del Vaga, uno di Cesare da Sesto e parecchie sculture del defunto Annibale Fontana. Invece II 32 elogia una mirabile invenzione idraulica di Arnoldo Borgognone e di Alessandro Pagliarini (vv. 9-10):

Quest o r’è on òrghen che par fòrza sòna
de r’acqua cont i cann tutt quòl ch’o’s vûr55

Rivolto al pittore Ottavio Semini, II 33 ne tesse le lodi e giustifica il nome accademico del facchino; invece Paolo Camillo Landriani è, come chiarisce II 34, «or più pratich penció dor nòst paglis» (‘il pittore più pratico del nostro paese’), ma anche «[...] spert o r’è | In lengua ed Bregn» (‘è esperto nella lingua di Blenio’). II 35 esalta, in italiano, il compare Aurelio Luini, mentre II 36 descrive, sempre in italiano la «pinciura faccia dar Simogn Petrezan» (‘la pittura fatta da Simone Peterzano’) Lomazzo sembra aver visto direttamente il quadro, il testo va dunque situato prima del 1572 , intitolata Angelica e Medoro; chiude questa serie II 37, ancora in italiano e dedicato al pittore Federico Barocci d’Urbino.

Il quarto gruppo (II 38-46) è apparentemente un po’ meno compatto, tuttavia se da un lato il sonetto II 38, indirizzato a Prospero Visconti, si lega ai precedenti componimenti in ragione della forma metrica, dall’altro apre a tutti gli effetti la nuova sottosezione, come dimostrano nella stampa il corpo tipografico maggiore, il fregio e la rubrica evidenziata. Segue un Trionfo d’Amore (II 39), indirizzato «Ar medesim Signó» (‘al medesimo Signore’): al tempo in cui Amore aveva sfiancato Lomazzo, egli assiste a un parodico trionfo petrarchesco, che gli ricorda quei romani condotti su di un carro in Campidoglio e decide di farsene cronista (vv. 28-30):

Gh’era fachign, Bettòr intorn’ar carr,
Chi s’ rompè or có, chi or còll, chi i brasc, chi i còss
E ’d cogl’ ch’o ’gh miss r’amor in dor cù on par.56

Tra le vittime d’Amore sfilano numerosi facchini, il compà Ballòss, il compà Slurigliagn, lo scanna Vassell, il compà Rossogn, ecc. innamorati di varie donne, la Marigliòta, la Tògna, la Betta, la Codeghetta, ecc. Segue una Mattinata oscena dello Zavargna rivolta alla sua amata Rosetta (II 40). Strambotti e barzellette in lode del «galogliogn» (‘galeone’), il recipiente per il vino in uso nell’Accademia, si possono leggere in II 41, testo che non dinega di rivolgere critiche ai pedanti (vv. 98-99 e 109-110):

Che i fachign e i cortesagn
Magl’ insema no stagn begn
[...]
Con sta scient fastidigliosa
Più ca ’gl mosch al temp di figh57

Invece, rivolto al giurisperito Federico Quinzio, II 42 ci descrive il compà Napiogn in veste di aspirante facchino chiedere in italiano allo Zavargna (che risponde in «rengua d’ Bregn») di poter entrare nell’Accademia, nella quale (vv. 15-16):

[...] o ’n ’s pòrta respett, cogl’ gliust in magn,
Più ar Prinçep ch’ar fachign o a l’artesagn.58

Anche qui non mancano né le critiche al vecchio abate (vv. 59-62):

E con mì ar fign, digand che sto poltron,
Antigament Nabad facc dar Borgnign,
Da resc sì gran consegl’ n’era ma bogn
No avend più letter comè on sciavatign59

né ai pedanti «che non san tre vocaboli tegnosi» (vv. 105-109):

Oh, scerchen lor, sti svergognad tangòzz,
Gavas da gavasciogn, có da falò,
Gor da soghitt e strappenad tribòzz,
Da fass con or sò scriv òmegn d’onó,
Ma ’s fagn degn d’ess casciò viv in di pozz60

L’accenno all’elezione di Lomazzo alla carica di abate suggerisce per questo testo una data non lontana dall’agosto 1568. In II 43 lo Zavargna, disperatissimo, vuole vendicarsi contro la sua signora; se la vendetta però non dovesse riuscire si augura d’essere condannato a indicibili sofferenze. I testi II 44-46 descrivono la cosiddetta ‘morte dell’Orso’ dell’Osteria del Falcone di Milano. Il primo (II 44), rivolto «a quigl’ che sagn» (‘coloro che sanno’), è la pietosa protesta dell’Orso (vv. 38-40):

Ch’in premigl’ dor guadagn ch’o dava ar banch
Dor vign or fu, se begn l’era inocent,
Mazzad dar Scanavagh a tradiment?61

Anche l’epitaffio dell’Orso (II 45) è destinato «a cogl’ che intenderagn» (‘coloro che intenderanno’); chiude il trittico II 46, «or caragnos lament de l’Ors dor Falcogn [...] facc a r’ostariglia dor Calmogn in Miragn» (‘il lamentoso pianto dell’Orso del Falcone [...] fatto all’Osteria del Calmogn a Milano’), scritto dal Lomazzo assieme al compà Borgnign. L’Orso, più che un vero animale (come sostenuto da Isella),62 è probabilmente una metafora per Lomazzo,63 e dunque, suggerisce Elena Tamburini, «la morte dell’orso potrebbe allora significare insieme la fine dell’Accademia e di questo teatro improntato all’eccesso e alla dismisura».64

Uscito di scena il Lomazzo, seguono i componimenti di Ambrogio Brambilla e dei suoi corrispondenti (II 47-51). Le budella del Brambilla prendono la parola in II 47 e si lamentano della tremenda fame. Poi in II 48 si trova la risposta al sonetto II 1 del Lomazzo: il Brambilla mentre era in prigione ha ingiuriato la Valle, poiché questa non gli aveva più dato notizie, ma lo scritto inviatogli dallo Zavargna, con l’esortazione a poetare di nuovo, lo ha confortato. II 49 è dedicato al Signor Sposo degli Spiciani (uno Spiciano era già stato menzionato nel testo precedente II 48, v. 37 e nel primo sonetto del Lomazzo II 1, v. 9): l’iniziale complimento nuziale rivoltogli muta però incomprensibilmente nelle terzine in un oscuro rimprovero. Indirizzato a Girolamo Vicenza, II 50 ne tesse le lodi e accenna alla pubblicazione dei Rabisch, possibile unicamente una volta che tutti gli stolti se ne saranno definitivamente andati (vv. 15-17):

E fû ’d sta scient orlucca
Impirem on librasc di nòst scriciur
Ch’o faran stà i minciogn ascos ar scur65

In II 51 il compà Ciòss si rivolge al compà Borgnign illustrando le virtù terapeutiche dell’amico.

Seguono i componimenti di Bernardo Rainoldi e dei suoi corrispondenti (II 52-57), che nonostante siano scritti perlopiù in «rengua d’ Bregn», «non possiedono la compattezza e la genuinità linguistica dei testi del Lomazzo» e presentano invece «forme proprie di dialetti della Lombardia orientale o veneti».66 II 52 è una canzone in lode di Pirro Visconti Borromeo per l’aiuto che diede alle tre donne cascate dentro il fosso (vd. supra). In II 53 si legge una serie di sei testi (una canzone, un componimento di due ottave e quattro sonetti) dedicati al tema dell’amore per una ninfa rustica, la Tognûra; un sentimento acceso da forti desideri sessuali e svolto con toni parodistici dell’amore cortese e del convenzionale codice petrarchesco. Di nuovo il compà Ciòss prende la parola (anzi, la penna) e si rivolge al compà Slurigliagn congratulandosi per la sua entrata nella Valle. Il Rainoldi in II 55 veste i panni del contadino bergamasco Pedraz e regala alla sua amata un catino per mungere le vacche con un prezioso intaglio (una scena di un banchetto di nozze con vari blasoni culturali e culinari), ideato dal Lomazzo e da un immaginario Zan Sbroiat della Val Brembana: nel lungo elenco dei convitati a cena i nomi degli zanni della Commedia dell’arte (Zan Tasca, Tripon, Ganassa, Massela, Burattin, Francatrip, ecc.) si alternano a quelli dei facchini dell’Accademia. A questo punto Giacomo Tassano indirizza due sonetti, il primo (II 56), «ar Pedraz sora dicc» (‘al Pedrazzo sopraddetto’), rimproverandolo di essere sparito e d’aver abbandonato l’Accademia, il secondo (II 57), scritto almeno nelle intenzioni in bergamasco, «al cough ch’ha facc el sora dicc convit» (‘al cuoco che ha fatto il sopraddetto convitto’), ovvero Domenico Bergamasco.

Entra successivamente in scena Girolamo Maderno (II 58-63). In II 58 (testo, come già ricordato, rivisto dal Lomazzo) si elogia il conte Pirro Visconti Borromeo per il salvataggio delle tre donne (vd. supra), avvenuto «in d’ann 1589, or dì de sant’Anger», cioè il 3 aprile del 1589 (il lunedì dopo la Pasqua). Invece in II 59 il Maderno «cangiato in Baciòcch» richiede, in un licenzioso sonetto, un ambiguo servizio alla sua Tognûra (tutto il testo è giocato sulla parola-rima servis ‘servizio’ in varie accezioni), che lo stesso ribadisce anche in II 60 (un sonetto costruito su due sole parole-rima). A questo punto, complice anche l’impaginazione tipografica più piccola e il testo disposto su due colonne, appaiono tre testi del Maderno (e una frottola di Scipione Delfinoni) scritti in milanese popolare: questa presenza non deve stupire in quanto all’interno dei Rabisch convivono significativamente, come ha suggerito Isella, «le due linee portanti della tradizione letteraria milanese: quella colta, di letterati di mestiere più o meno rifinito, e quella popolare, il cui genere più largamente praticato è per l’appunto la frottola, ribattezzata in séguito ‘bosinata’».67 Rivolgendosi a un crocchio di ascoltatori («la mè bregada»), II 61 trae invece origine dai malumori sorti in anticipo sull’emanazione della prammatica o legge sontuaria, elaborata tra il 1581 e il 1584. Segue una barzelletta sul maritarsi (II 62), e in II 63 un dialogo comico nel quale Zan e Pedrett prima si contendono la bella Franceschina e quindi finiscono per insultarsi. A questa serie si lega anche II 64, la «frotola redicolosa» del Delfinoni rivolta ai «recaton», cioè a coloro che comperano la merce all’ingrosso per poi rivenderla al minuto.

Chiudono la seconda parte dei Rabisch sei Grotte del Toscano rivolte allo Zavargna (II 65); autore nelle rime italiane del Lomazzo di una Grotta sferica e di una Grotta de’ chiechi, il Toscano scrive ora una Grotta aperta, una Grotta Ieroglyphica, una Grotta Buia, una Grotta Fatifica, una Grotta Allegorica e una Grotta morale. Ma i Rabisch non sono ancora conclusi, in quanto in calce alla raccolta si trovano sia una Tavola della lingua di Bregno più oscura con la Toscana adietro per intenderla meglio, che non è altro che un glossarietto nel quale sono registrate in ordine alfabetico alcune voci in «rengua d’ Bregn» seguite dalla traduzione toscana, sia la Definiçione della tavola sopra detta nella quale lo Zavargna rivolgendosi direttamente al lettore (o all’ascoltatore se si ammette una dimensione performativa, alquanto probabile, attorno ai testi della raccolta)68 espone varie regole (di cui si riporta qui la prima) per scrivere in facchinesco:

al fine, per darti più chiaramente a intendere questa lingua, con la quale tu potrai dire tutto quello che ti verrà in pensiero, e per far questo, pigliarai li vocaboli, over parole, primamente che finiscono in queste cadenze cioè in an, en, in, on, un, a’ quali in questa nostra lingua gli farai all’ultimo un g et un n sì come per essempio, del primo si dirà mano va detto magn [...].

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1 Cfr. Dante Isella, Il Cheribizo. Sommario de tutte le professioni & arte milanese, in Id., Lombardia stravagante, Torino, Einaudi, 2005, pp. 127-54 (da cui si cita e si riprendono le traduzioni). Il testo è edito per la prima volta da Francesco Novati, Milano prima e dopo la peste del 1630 secondo nuove testimonianze, «Archivio Storico Lombardo», 18, 1912, pp. 5-54.

2 «Togna gentile e dabbene, se vi piace accettarmi per vostro marito, voglio donarvi il più garbato presente che mai sia stato donato a qualunque donna. Questo dono, avete da sapere, è un catino di cristallo montanino, tutto intagliato per mano del Nibalin che non ha un suo pari».

3 «Cinquantotto osterie tanto famose, che vi vedrete dentro, tutte ben fornite. Vedrete i Tre Re, il grasso Falcone, il Cappello, La Fontana, il Pozzo, la Balla».

4 «Vedrete poi i facchini della Valtellina e quelli di Valle Intragna, del Pallanzese e di Maccagno e della Val Travaglia, di Bellinzona, di Vigezzo e del Morbegnasco, tutti assai gagliardi e forti di schiena, tutti fedelissimi compagnoni».

5 D. Isella, Introduzione. Per una lettura dei «Rabisch», in Giovanni Paolo Lomazzo, Rabisch, a cura di D. Isella, Torino, Einaudi, 1993, p. X.

6 Una valle dell’alta Lombardia che a nord-est di Bellinzona sale verso il Lucomagno, il passo che fin dall’antichità era praticato da chi dall’Italia voleva andare verso il centro dell’Europa o viceversa. Sull’emigrazione bleniese in Lombardia cfr. Raffaello Ceschi, Bleniesi milanesi. Note sull’emigrazione di mestieri dalla Svizzera Italiana, in Col bastone e la bisaccia per le strade d’Europa. Migrazione stagionale di mestiere dall’arco alpino nei secoli XVI-XVIII, Atti del Convegno, Bellinzona, 8-9 settembre 1988, Bellinzona, Salvioni, 1991, pp. 49-72.

7 Simone Albonico, Appunti sulla cultura letteraria a Milano dalla prima dominazione francese al 1560, in Eraldo Bellini e Alessandro Rovetta (a cura di), Prima di Carlo Borromeo. Lettere e arti a Milano nel primo Cinquecento, Milano, Bulzoni, 2013, p. 57 che riprende un’idea già avanzata, in un fondamentale contributo, da Carlo Dionisotti, La letteratura italiana nell’età del Concilio di Trento, in Id. Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 227-54.

8 Su Giovanni Paolo Lomazzo-compà Zavargna cfr. almeno D. Isella, Introduzione..., cit., pp. VII-LXII; Marzia Giuliani e Rossana Sacchi, Per una lettura dei documenti su Giovan Paolo Lomazzo ‘‘istorico pittor fatto poeta’’, in Manuela Kahn-Rossi e Francesco Porzio (a cura di), Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento. L’Accademia della Val di Blenio, Lomazzo e l’ambiente milanese, Milano, Skira, 1998, pp. 323-35 e Roberto Paolo Ciardi, Giovanni Paolo Lomazzo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005, vol. 65, pp. 460-67.

9 Sugli accademici cfr. almeno D. Isella, Gli accademici della valle di Blenio. Schede, in G. P. Lomazzo, Rabisch, cit. pp. 329-71 e le Biografie degli artisti dell’Accademia della Val di Blenio in M. Kahn-Rossi e F. Porzio (a cura di), Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento, cit., pp. 337-41. Oltre a Lomazzo, scrivono Cosimo de Aldana-compà Còsm, Bernardino Baldini-compà Baldign, Ambrogio Brambilla-compà Borgnign, Giovanni Antonio Buovi-compà Bò, Scipione Delfinoni-compà Delfinogn, Sigismondo Foliani-compà Fogliagn, Francesco Gallarati-compà Lambrusca, Girolamo Maderno-compà Baciòcch o Ciabòcch, Albino Sadoco Nabateo-compà Albigl’ Sadocch Nabatell, Bernardo Rainoldi-compà Slurigliagn, Giacomo Tassano-compà Tassogn, Lorenzo Toscani-compà Toscagn, Giovanni Battista Vegezio-compà Ciòss e Giovanni Battista Visconte-compà Moscogn.

10 Alessandro Morandotti, Il ninfeo di Lainate, in M. Kahn-Rossi e F. Porzio (a cura di), Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento, cit., p. 92.

11 Ibid.

12 Ivi, p. 95, cfr. anche la bibliografia indicata a p. 100, n. 43. «Se poi si volesse andare ancora più in là nelle nostre considerazioni, ci accorgeremmo che la coraggiosa azione di ‘salvataggio’ da parte di Pirro Visconti Borromeo avvenne il giorno 3 aprile 1589; ce lo dice tra le righe un componimento [II 58] di Girolamo Maderno rivisto dallo stesso Lomazzo, al quale era molto caro quell’episodio della vita di Pirro Visconti Borromeo; credo infatti che questa data precisa ora indicata fosse il giorno della festa per l’inaugurazione del ninfeo» (ivi, p. 95).

13 D. Isella, Introduzione, cit., p. VII. Per una panoramica degli studi sui Rabisch dall’Ottocento a oggi, cfr. Enea Pezzini, Lomazzo e i «Rabisch». Status quaestionis e nuove prospettive, «Italianistica», 1 (2020), pp. 177-212.

14 Felice Milani, Dante Isella e la letteratura lombarda in dialetto, «Il Cantonetto», 1 (2018), p. 50.

15 Barbara Agosti, Draghi nella Milano di San Carlo, «Prospettiva», 113/114 (2005), p. 162. Cfr. oltre al catalogo Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento (di cui parla Agosti), almeno B. Agosti, Draghi nella Milano di San Carlo, cit., pp. 162-66; Id., Poesie di Gherardo Borgogni su due dimenticati artefici milanesi, in Cristina Acidini Luchinat et al. (a cura di), Scritti per l’Istituto Germanico di Storia dell’Arte, Firenze, Le Lettere, 1997, pp. 325-30; Barbara Agosti e Giovanni Agosti (a cura di), Le Tavole del Lomazzo (per i 70 anni di Paola Barocchi), Brescia, Edizioni l’Obliquo, 1997; Alessandro Morandotti, Milano profana nell’età dei Borromeo, Milano, Skira, 2005.

16 Sulle due ristampe dei Rabisch fatte dal Fontana (1900 e 1915) cfr. E. Pezzini, Lomazzo e i «Rabisch». Status quaestionis e nuove prospettive, cit., pp. 187-188.

17 Brenno Bertoni, Notizie sui Bleniesi a Milano e sui Rabisch, in Ferdinando Fontana (a cura di), Antologia meneghina, Bellinzona, Colombi & C. 1900, p. 58.

18 D. Isella, Introduzione, cit., pp. XXXVII-XLI. Sui dibattiti linguistici ottonovecenteschi sorti attorno ai Rabisch cfr. E. Pezzini, Lomazzo e i «Rabisch». Status quaestionis e nuove prospettive, cit., pp. 185-189.

19 D. Isella, Introduzione, cit., p. XVIII.

20 Simone Albonico, Profilo delle Accademie letterarie milanesi nel Cinquecento, in M. Kahn-Rossi e F. Porzio (a cura di), Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento, cit., a p. 108. Sulle Accademie a Milano nel Cinquecento cfr. ivi, pp. 101-110 e Id., Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 1990.

21 Cfr. Giovanni Paolo Lomazzo, Rime ad imitazione de i grotteschi, a cura di Alessandra Ruffino, Roma, Vecchiarelli editore, 2006.

22 «Tu sai, compare Zavargna, che tra noi possiamo sentenziare senza finzioni: che valga più di te non c’è nessuno». I 67 componimenti encomiastici dedicati a Lomazzo in apertura e chiusura d’ogni singolo libro dei Groteschi non sono pubblicati da Ruffino; si cita perciò dalla princeps stampata a Milano da Gottardo Ponzio nel 1587 (p. 408).

23 Vita dell’auttore in G. P. Lomazzo, Rime, cit., p. 629.

24 Cfr. almeno D. Isella, Introduzione, cit., pp. IX-XV e Francesco Porzio, Lomazzo e il realismo grottesco: un capitolo del primitivismo nel Cinquecento, in M. Kahn-Rossi e F. Porzio (a cura di), Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento, cit., pp. 23-36.

25 G. P. Lomazzo, Trattato dell’arte de la pittura, scoltura et archittetura, in Roberto Paolo Ciardi (a cura di), Scritti sulle arti, 2 voll., Firenze, Marchi & Bertolli, 1973-75, vol. 2, pp. 367-70. Sulle grottesche si vedano almeno Nicole Dacos, La découverte de la Domus Aurea et la formation des grotesques à la Renaissance, Londra, Warburg Institute, 1969; André Chastel, La grottesca, Torino, Einaudi, 1989; Philippe Morel, Les grotesques: les figures de l’imaginaire dans la peinture italienne de la fin de la Renaissance, Paris, Flammarion, 1997.

26 Capitolo dove si dimostra che cosa sia grottesco, e la sua origine, in G. P. Lomazzo, Rime, cit., pp. 15-18.

27 G. P. Lomazzo, Idea del tempio della pittura, in R. P. Ciardi (a cura di), Scritti sulle arti, cit., vol. 1, p. 290.

28 Per la notevole considerazione che Lomazzo aveva di Leonardo cfr. Almeno Trattato, cap. I, libro II (ed. R. P. Ciardi, vol. 2, pp. 96-97), cap. XXVI, libro VII (ed. R. P. Ciardi, vol. 2, p. 553), cap. XXXIII, libro VI (ed. R. P. Ciardi, vol. 2, p. 315); Idea, cap. IV (ed. R. P. Ciardi, vol. 1, p. 259), cap. XVI (ed. R. P. Ciardi, vol. 1, p. 290); ma anche il Primo ragionamento dei Sogni e raggionamenti (ed. R. P. Ciardi, vol. 1, pp. 6-23) che è un dialogo tra Pavolo Giovio istorico e Leonardo Vinci pittore.

29 Sulla necessità di indagare ancora a fondo questi e altri possibili modelli cfr. E. Pezzini, Lomazzo e i «Rabisch». Status quaestionis e nuove prospettive, cit., pp. 200-212.

30 Cfr. Vita dell’auttore, vv. 214-35 in G. P. Lomazzo, Rime, cit., p. 637.

31 Per il testo dei Rabisch e le traduzioni approntate da D. Isella si segue G. P. Lomazzo, Rabisch, cit.; «Sì grandi furono i trionfi, gli archi e i colossi innalzati in onore degli antichi Romani che mostrarono in massimo grado le loro virtù, che gli altri, venuti dopo di loro, sono parsi degli inetti, e da allora in poi non c’è mai stato nessuno, o pochi per lo meno, che siano valsi qualcosa. Ma ora la nostra Valle ne ha creato uno che supera in virtù tutti costoro, dotto e gagliardonelle lettere e nel fare a pugni, nato da quei Visconti che già furono in tanto onore a Milano; ma lui nelle nostra patria è più onorato e superiore a tutti loro. Costui è un signore che nella nostra Accademia è detto il Conte».

32 A ridosso della pubblicazione sono collocabili anche II 27, II 52, II 58 e II 61, altri testi invece prima (II 39, II 43, II 48 e II 55) e altri dopo (II 7, II 8, II 42) la nomina di Lomazzo ad Abate nel 1568 (cfr. Simone Albonico, Due schede lombarde, in Id., Ordine e numero: studi sul libro di poesia e le raccolte poetiche nel Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006, p. 128).

33 I còss ch’o’s denn osservò in Bregn, in G. P. Lomazzo, Rabisch, pp. 69-70.

34 «Tu sai, compare Zavargna, che tra noi possiamo sentenziare senza finzioni: che valga più di te non c’è nessuno. Inoltre voglio dirti anche questo: che nel far grotteschi, tutti i poeti di qual si voglia valle sono, al tuo confronto, minchioni».

35 «Al tuo compare Borgnin ha donato ingegno e astuzie, facendolo degno del gran cancellierato di Blenio, perché, contro la canaglia e i furfanti che cercano di assassinare la Valle, egli dicesse da cima a fondo la sua ragione».

36 Giorgio Bernardi-Perini, Macaronico e latino nei ‘‘Rabisch’’, «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», I (1998) [ora in Id., Scritti folenghiani, Padova, Imprimatur 2000, p. 241 da cui si cita].

37 «Ma chi di quest’arte non è istruito e brama di voler sapere, vada alla stampa, oh vada dal libraio, ché troveranno il vero: così privo di lumi lo Zavargna Lomazzo ha fatto, sulla Pittura, un grande volume».

38 «Nel qui presente libro scritto e istoriato, idest, cioè, il qual libro è un trattato di madrigali, sonetti, versi e canzoni».

39 Cfr. G. P. Lomazzo, Della forma delle Muse, in R. P. Ciardi (a cura di), Scritti sulle arti, cit., vol. 2, p. 622.

40 D. Isella, Introduzione, cit., p. XXVII.

41 Ivi, p. XX.

42 Giuseppe Mazzocchi, La poesía española en Milán alrededor de los «Rabisch», «Revista de Poética Medieval», 28 (2014), p. 300. Per questa nuova interpretazione della raccolta e le sue importanti ripercussioni cfr. E. Pezzini, Lomazzo e i «Rabisch». Status quaestionis e nuove prospettive, cit., pp. 208-212.

43 Cfr. D. Isella, Introduzione, cit., pp. XV-XXIV e Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento, cit., pp. 164, 179-80.

44 S. Albonico, Due schede lombarde, cit., pp. 129-130.

45 «E se, per esso, qualcuno non riesce a cacare, è forza che tiri le ultime loffeo che, scoppiato, vada al mondo di là?».

46 «Che dolcezza è quella del cacare, quando si ha piena la pancia, e trar loffe, e poi tornare a riempirsi, di qua e di là!».

47 S. Albonico, Due schede lombarde, cit., p. 130.

48 «O Gavargnone, Baltresca da gavargna, che fai qui? Vai a strappare la cicoria [...]. Vai a girare la tramoggia, ombra di letame; o vatti a nascondere non ti lasciare mai più vedere nel mondo, sennò il compare Traver ti caccierà con i pugni nel profondo a cantare con il Demonio e con il Diavolo». Al v. 18 sono possibili due letture: sia «Va a menà la tramòzza» (con «menà» infinito, che nei Rabisch può uscire sia in , come in milanese, che in ) sia, come suggeritomi da Luca D’Onghia, «Va a mena la tramòzza» (con un doppio imperativo).

49 «Deh, abbimi pietà! Vuoi che m’impicchi, Musa più dolce del marzapane? Al corpo (che non dico) di un cane, se ti schizzo adosso, ti faccio fare creature che in mezz’ora faranno trenta potature».

50 Per i rapporti tra l’Accademia e la nascente Commedia dell’arte, in particolare con i comici Gelosi cfr. Elena Tamburini, I comici Gelosi e l’Accademia della Val di Blenio, in Ead., Culture ermetiche e commedia dell’arte. Tra Giulio Camillo e Flaminio Scala, Ariccia, Aracne, 2016, pp. 123-50.

51 «Se mi credessi, Giovannino, che di quelle parole che dicesti con la Musa tu non dovessi pentirti, sarei uomo, diventasse brutta, da impartirti una dura lezione, facendoti apparire un babbeo».

52 R. P. Ciardi, Introduzione, in Id. (a cura di), Scritti sulle arti, vol. 1, p. XIX, n. 43.

53 Cfr. ivi, vol. 2, p. 551.

54 «Al Signor Bernardo Rainoldi, detto in Blenio lo Slurigliagn, il Graziano nella sua lingua, in genovese Busotte, in bergamasco Pedraz, in quella di Varese Bosign».

55 «Questo è un organo a canne che, in forza dell’acqua, suona tutto quello che si vuole».

56 «C’erano intorno al carro facchini, muse, chi si ruppe la testa, chi il collo, chi le braccia, chi le cosce, e alcuni cui amore mise un palo nel culo».

57 «Ché i facchini e i cortigiani non stanno mai bene insieme [...]; con questa gente più fastidiosa delle mosche alla stagione dei fichi».

58 «Con la gente giusta sottomano (avendo in mano gente perbene), non si porta maggiore rispetto al Prìncipe che al facchino e all’artigiano».

59 «E pure da ultimo, dicendo che questo poltrone fatto anticamente Abate dal Borgnign non era mica capace di reggere un sì gran consiglio, non avendo più lettere di un ciabattino».

60 «Oh sì, cercano bene questi svergognati tangheri, boccacce da mangioni, teste di cazzo, gole da forca e congrega di pezzenti, di farsi, con il loro scrivere, uomini d’onore, ma si rendono degni di essere cacciati vivi nei pozzi».

61 «che in premio del guadagno che dava al banco del vino, fu, sebbene innocente, ammazzato a tradimento dal Canevaghi».

62 Cfr. D. Isella, Introduzione, cit. p. XXVIII.

63 Cfr. Giovanna Rabitti, Un arabesco per nome: l’ecfrasi nei «Rabisch» di Giovan Paolo Lomazzo, in Gianni Venturi e Monica Farnetti (a cura di), Ecfrasi, Roma, Bulzoni, 2004, vol. 2, pp. 433-76.

64 Cfr. E. Tamburini, La morte dell’orso, in Ead., Culture ermetiche e commedia dell’arte, cit., p. 177.

65 «E che una volta usciti da questo mondo i goffi e i balordi, riempiremo un grosso libro dei nostri scritti che faranno stare i minchioni nascosti al buio». Si segue la lettura proposta da G. Mazzocchi, La poesía española, cit., pp. 297-300, che è da preferire a quella di Isella («E che una volta uscito da questo mondo il Luca [senhal per Carlo Borromeo], riempiremo...» ad locum); su questa lettura e le sue notevoli implicazioni cfr. E. Pezzini, Lomazzoei «Rabisch». Status quaestionis e nuove prospettive, cit., pp. 208-212.

66 D. Isella in G. P. Lomazzo, Rabisch, cit., p. 243.

67 Id., Introduzione, cit., p. XLVI; ma cfr. in generale pp. LVI-LXII.

68 «La ‘nota finale’ dei Rabisch, con le istruzioni sulla corretta pronuncia, evidenzia come i componimenti poetici fossero destinati innanzitutto alla pubblica lettura» (secondo la formulazione di E. Tamburini, I comici Gelosi e l’Accademia della Val di Blenio, in Ead., Culture ermetiche e commedia dell’arte, cit., p. 144).