Revue Italique

Varia

OJ-italique-798

Cenni sulla tradizione enoica nella poesia di Gabriello Chiabrera

Barbara Tanzi Imbri

La vasta produzione poetica di Gabriello Chiabrera annovera anche un cospicuo numero di componimenti di tema bacchico, riuniti per la prima volta da Giacomo Paolucci nel 1718, sotto il titolo Vendemmie di Parnaso.1 Il corpus, costituito di 53 poesie di vario metro, non fu mai considerato unitario dall’autore, che publicò i testi in momenti diversi, tra il 1599 e il 1627. L’esteso arco cronologico interessato dalla composizione di versi bacchici suggerisce che il motivo non rappresentò per Chiabrera soltanto un breve momento sperimentale, né un divertissement durato una stagione, ma appartenne al ventaglio tematico della sua produzione lirica fino all’ultima raccolta curata personalmente, pubblicata nel 1627-1628.2

Non tutti i testi bacchici editi da Paolucci comparvero in raccolte d’autore, e due di essi non furono mai stampati durante la vita del Chiabrera. L’operazione compiuta dal curatore settecentesco, dunque, fu arbitraria, sia nella scelta dei componimenti, sia nel loro ordinamento, ma ciò non toglie che essa riunisca forse il più ampio corpus di testi enoici della letteratura italiana.

Pubblicando le Vendemmie, Paolucci unì erroneamente cinque Sollazzi sotto il titolo Ditirambo ad uso dei greci, che invece sono separati nella redazione autografa del Chiabrera, tramandata dal codice Ferraioli 698 della Biblioteca Apostolica Vaticana.3 Il Ditirambo, presente come testo unico in tutte le edizioni successive delle Vendemmie, è un inno a Bacco costituito di immagini giustapposte, ed è privo di sviluppo narrativo. Per questa ragione, forse, almeno per tutto il Settecento, non è sorto il sospetto che si trattasse di un componimento derivante dall’unione di testi originariamente indipendenti; il passaggio da una scena all’altra, infatti, benché brusco, non risulta del tutto incoerente.

Tra le cinquantatré poesie che costituiscono le Vendemmie di Parnaso si contano trentadue ballate, sette madrigali, sette componimenti in distici di settenari in rima baciata, quattro canzonette, una canzone, un testo in metro asclepiadeo e il ditirambo. Dalla selezione rimangono esclusi due sonetti: Questa mia lingua, e queste labbra a pena, con cui il poeta ringraziava Jacopo Corsi per due fiaschi di vino, e Duo bei cristalli, ch’a ria sete ardente, inviato con la stessa funzione a Marzia Spinola, che aveva donato a Chiabrera due bicchieri.4 La scelta forse dipende dal metro e dalla natura occasionale dei due componimenti, che non trovano altri riscontri nelle Vendemmie. Il primo tocca tre topoi della poesia enoica, secondo i quali il vino solleva dagli affanni (vv. 1-4), invita all’amore (vv. 5-8) ed è fonte di ispirazione poetica (vv. 9-14); il secondo è interamente dedicato al «Furor soave di Leneo» (v. 11), invocato dal poeta, insieme al favore di Apollo, per cantare le lodi della donna.

Una prima definizione della poesia enoica del Chiabrera è data da Francesco Saverio Quadrio, nelle pagine Della storia e della ragione d’ogni Poesia dedicate al ditirambo:

Quasi piccioli germogli della Poesia Ditirambica furono presso gli Antichi le Parenie (παροινίαι) sì dette, perchè si cantavano presso al vino, e in sul bere: e il loro carattere era non molto dal Ditirambico dissomigliante, salvo che per avventura nel Modo, sul quale erano cantate. Perciocchè troviamo fatta menzione del Modo Parenio, che ne’ conviti si usava [...]. Di così fatte Poesie alcune fece Anacreonte; e tale per avventura si è quella, ove seco gli amici conforta a bere coronati di rose; [...]. Fra Latini qualche Componimento di questa natura par, che si trovi in Orazio. Ma chi questa spezie di Poesia vantar può più, che i Latini, d’avere secondo il vero suo essere, sono gl’Italiani; tra quali fu introdotta col nome di Brindisi. [...] Poco dissomiglianti dalle Parenie sono que’ Componimenti, che piacque ad alcuni Italiani di nominare Vendemmie: perciocchè queste pure altro non sono, che Madrigali, o Ballatelle, o Sonetti, o simili cose, che di vendemmia favellano [...]. Di questa fatta di poesie, e col detto titolo, alquante se ne leggono fralle Rime di Gabriello Chiabrera [...]. Tanto le Vendemmie, che le Parenie, e i Brindisi, non ostante, che alla Poesia Ditirambica aspettino, a ogni modo non tutta la smoderata licenza di quella ammettono; ma tanto nel metro, quanto in altro, sogliono dentro certi limiti contenersi, anche per riguardo della lor brevità: e quindi sogliono sempre a qualche metro legarsi, e per tutto serbare una tal qual moderazione [...].5

Non è infatti nel filone erotico-dionisiaco che si inseriscono i versi bacchici del Chiabrera, ma nel solco della tradizione lirica greca, cui il poeta probabilmente si avvicinò tramite il gruppo della Pléiade, e Ronsard in particolare.6 Il debito del Chiabrera con la lirica d’oltralpe, non solo quanto alla sperimentazione metrica, ma anche in merito alla scelta dei toni, è stato rilevato da Ferdinando Neri, che in un approfondito studio sul Chiabrera e la Pléiade francese così si esprimeva in merito al Ditirambo:

il Chiabrera volle il Ditirambo all’uso de’ Greci: come Ronsard e Baïf l’avevano intonato per la festa del capro, in onore di Jodelle. Addensò le voci doppie e celebrò il dio cuisse-, il quale «Binato sorse a sempiterna vita»; ma si avverta come al furore di Diòniso prevalga la dolcezza anacreontica, – poich’è il tratto che ci conferma, là dove parrebbe sviarsi, la sua dipendenza dal Ronsard».

E citando i seguenti versi del poeta francese:

A toy, gentil Anacreon,
Doit son plaisir le biberon,
Et Bacchus te doit ses bouteilles;
Amour son compagnon te doit
Venus, et Silène, qui boit
L’esté dessous l’ombre des treilles

affermava: «Chiabrera si attenne a questo nuovo colore, che domina fra le Vendemmie di Parnaso e traspare dal suo Ditirambo».7 Con queste parole, lo studioso sottolineava la vena leggera e conviviale dell’intero corpus enoico del Chiabrera, che, come si vedrà, spesso prese le distanze dalle tinte troppo accese, così come dalle implicazioni filosofiche, caratteristiche della tradizione classica.

Il Quadrio, del resto, aveva già notato come i toni delle Vendemmie di Parnaso siano assai lontani tanto dagli eccessi dell’ebbrezza e delle feste bacchiche, quanto dai sotto-significati erotici presenti, per esempio, nel coro dell’Orfeo di Poliziano e nel Vendemmiatore di Tansillo. Tra i rarissimi precedenti che «sogliono dentro certi limiti contenersi»,8 il caso più illustre è, probabilmente, quello di Ariosto, che toccò il tema in più di un’occasione, lasciando trasparire un giudizio sul vino sempre diverso. Nell’Orlando furioso, per esempio, il dono di Bacco ha una connotazione affatto negativa; è infatti causa di atti efferati, come l’uccisione di Isabella da parte di Rodomonte, che «in preda al furore bacchico, [...] può macchiarsi di qualunque colpa». Per di più, nel lungo avvicinamento al delitto (protratto per quasi quattro ottave, XXIX 22-25), in cui Ariosto insiste sullo stato di ebbrezza del personaggio, prende corpo l’idea che «Se l’uomo, in balia dell’alcool, non è più in sé, a compiere il delitto, ad uccidere Isabella è il vino, non il saraceno».9

Nelle liriche latine, invece, si trovano cenni che in parte ricordano i toni chiabrereschi, per esempio nell’ode De vita quieta ad Philiroen 29-36 «Philiroe, meum / si mutuum optas, ut mihi saepius / dixisti, amorem, fac corolla / purpureo variata flore / mero uda amantis tempora vinciat, / quam tu nitenti nexueris manu, / mecumque cespite hoc recumbens / ad citharam cane multicordem».10 In questo caso, il paesaggio bucolico e l’invito rivolto a Filiroe affinché intrecci ghirlande di fiori e accompagni con la cetra il canto del poeta tratteggiano una scena già anacreontica (Anacreonte, Odi, In seipsum, in Carminum poetarum, p. 145), di cui si avvertirà l’eco nella ballata Se tuoi begli occhi vaghi di Chiabrera (Delle Poesie, 1605-’06):11

Se tuoi begli occhi vaghi
     Filli han da celebrarsi,
     Miei labbri aridi, et arsi
     Tua bianca man d’almo licore appaghi.4
Qui dove spargono ombra, e viti, et olmi,
     Ove più col ruscel Zefiro fischia,
     
     Del vin, c’honora Posillipo, et Ischia;8
E se ti cal, che vaghi
     Per l’eliconie cime
     Il suon de le mie rime,
     Sieno i bei vasi pelaghetti, e laghi.12

Si tratta dell’unico caso, però, in cui si possono riconoscere tinte comuni. Nei due componimenti latini che Ariosto dedica a Bacco, infatti, dominano i modi dell’epigramma, assenti in Chiabrera, che invece predilige quelli proverbiali, in cui la vena sentenziosa è notevolmente smorzata. Si leggano per esempio gli ultimi tre versi della ballata Nobile cavallier vago d’alloro (Ballatelle, 1625), «In sè l’homo ritrova / Il suo ben, se per sè nol si contrasta, / Che son nostri desir nostro martoro» (vv. 14-16), che nulla hanno del tono aforistico di Ariosto, De Baccho «Qui non castus adis Bacchi penetralia, non te / flumine, sed multo prolue rite mero», né di Ad Bacchum:

Quod semper vino madidus, somnique benignus,
securus pendis nil, nisi quod placeat,
laetitia frueris nimirum, Bacche, perenni,
exarat et frontem nulla senecta tuam.
Sic quicumque pedem tua per vestigia ponet,
exiget in multa saecula longa rosa.

Nelle Satire, ancora, Ariosto tocca brevemente il motivo della vecchiaia come età che dovrebbe preferire il vino all’amore: «Quella età [la vecchiezza] più al servizio di Lieo / che di Vener conviensi: si dipinge / giovane fresco, e non vecchio, Imeneo» (Satire V 34-36), tema caro al Chiabrera, che in più occasioni si affida a Bacco per resistere agli assalti di Cupido: «Vuol ragion, ch’io sì men vada / Di bei fior le tempie adorno, / Hor che Bacco viemmi intorno / Con bel nembo di rugiada / A temprar la mia gran sete. // Questo Re devoto honoro / Hor, che ’l crin gelando imbianco, / Che s’Amor m’avventa al fianco / Strale alcun del suo fin oro / Rintuzzato il mirerete» (Belle Donne, che splendete 20-29, in Alcuni scherzi, 1603).12 Un altro esempio è offerto dalla ballata Per soverchio d’età sento agghiacciarmi (Ballatelle, 1625):

Per soverchio d’età sento agghiacciarmi,
E tutto l’anno intero un verno parmi;
Sole di due begli occhi io prendo a scherno,
Non si vanti con me viso leggiadro;
     Commetto al bon Dionigi il mio governo,
E grido; togli Amor, ch’a te le squadro,13
     Passata è la stagion, perdute hai l’armi.

Il motivo, comune a Chiabrera e ad Ariosto, propone una prospettiva antitetica rispetto a quella di Anacreonte, che così replicava alle giovani che lo schernivano: «Certo scio, decere / Senem, hoc magis vacare / Amoribus iocisque, / Quo mors magis propinquat» (Odi, De se ipso 9-12, in Carminum poetarum, pp. 130-131), mentre Chiabrera, per esempio nel componimento in distici di settenari Perchè mostrarmi a dito (Delle poesie 1827-’28), è costretto ad arrendersi agli anni che avanzano, a rinunciare ai corteggiamenti, e a cercare consolazione nel vino.14 Per Orazio, invece, tanto il vino, quanto l’amore sono inadatti alla vecchiaia: «te lanae prope nobilem / tonsae Luceriam, non citharae decent, / nec flos purpureus rosae / nec poti vetulam faece tenus cadi» (Orazio, Odi III 15, 13-16).

Il punto di vista di Chiabrera si allinea anche con quello di Ronsard, Ma douce jouvance est passeé 1-12:

Ma douce jouvance est passée,
Ma premiere force est cassée,
J’ay la dent noire et le chef blanc,
Mes nerfs sont dissous, et mes veines,
Tant j’ay le corps froid, ne sont pleines
Que d’une eau rousse en lieu de sang.6
     Adieu ma lyre, adieu fillettes
Jadis mes douces amourettes,
Adieu, je sens venir ma fin!
Nul passetemps de ma jeunesse
Ne m’accompagne en la vieillesse,
Que le feu, le lict et le vin.12

Versi dei quali si avverte il ricordo anche nel componimento in distici di settenari a rima baciata A l’hor, ch’in gioventute 13-28, edito per la prima volta nella raccolta Delle poesie del signor Gabriello Chiabrera del 1627-’28 (si noti, inoltre, l’identità del metro):

Hora tempo è venuto,
Che sotto il crin canuto
La vista mi s’invecchia;15
Et è sorda l’orecchia;
E tremo; e spesso caggio
S’io fo lungo viaggio;
Adunque il mio danzare
È starsi al focolare20
Carco di secco bosco,
E schermirsi dal fosco,
E gelido febbraio;
E se freme rovaio,
Comandare a Siringa,25
Che del migliore attinga,
Rosso, ma di rubino,
Dolce, ma cotognino.

Già questi primi echi paiono identificare Ronsard come precedente più probabile rispetto ad Ariosto, che toccò il tema enoico in rare occasioni e, per lo più, in chiave censoria. Per Chiabrera, invece, la materia bacchica si costituiva come una proposta di rinnovamento dei temi della lirica italiana, avanzata entro l’invito più ampio a sperimentare nuovi metri, abbandonando la fissità dei motivi e degli schemi petrarcheschi, che il poeta avvertiva come esausti. Lo dichiarava egli stesso nella lettera a Roberto Titi del 29 settembre 1604:

Io sempre ho stimato la poesia toscana essere chiusa in troppo stretti termini; perché quasi le materie sono amorose; et amorose d’un modo ciò è angelico, et sublime; e vi s’adopera quasi solamente il sonetto; et alcuna canzone, ma grande, e piena di maestà, la quale non vale quasi la passione d’amore, come egli la ci fa sentire. Quanto a’ versi che si pò dire? due maniere sole si adoperano; se questa è ricchezza di lingua e di poesia altri lo giudichi. Di qui io mossi a tentare diverse cose [...].15

E ancora nella dedica anteposta alla seconda silloge delle sue rime, pubblicata nel 1618-’19, affermava:

I Greci [...], poetando per le antiche stagioni, e per varie strade salendo al Parnaso, poche materie lasciarono, che da loro nobili versi non fossero illustrate. Anacreonte secondando i suoi costumi con soavità da non pareggiarsi assegnò il suo canto all’allegrezza dei conviti, et alle feste del bon Dionigi; Saffo mitigò le fiamme d’Amore, onde era accesa, cantando le sue passioni; ma Pindaro con grandezza di spirito incomparabile, celebrò i travagliosi essercitij de’ Cavallieri; all’incontra Simonide hebbe vaghezza di piangere le altrui morti; et Alceo esperto delle guerre compose canzoni intorno agli affari de i regni. Per sì fatta varietà di scritture non pò negarsi andarsene altiera infinitamente la greca poesia; ma la toscana fermatasi nelle delitie de gli amori, e quasi di nulla altro honorando sua lira, è fino oggi priva di quelle ricchezze, ch’ella merita largamente, et è ottimamente acconcia per acquistarle [...]. Hora io per lo spatio della mia gioventù dilettandomi nella piacevolezza delle muse, presi consiglio di comporre alcuni pochi versi, ne i quali si rinchiudessero tutte quelle sì fatte materie; non per altro veramente, che per eccitare in altrui vaghezza di ferire quel segno, il quale da me poteva solamente additarsi; questa fu la cagione, che io mettessi insieme le presenti compositioni; e l’istessa oggi mi costringe a sporle fra gli intelletti gentili della nostra Italia [...].16

In questa seconda occasione, Chiabrera non solo sottolineava più volte la varietà di temi di cui è ricca la tradizione greca, ma attraverso la rassegna degli antichi poeti, ognuno associato a un genere, esponeva anche il suo canone di autori, identificando Anacreonte come modello per la poesia conviviale e per i versi dedicati a Bacco.17 Alla luce di tali dichiarazioni, che manifestano la volontà di proporre una via di rinnovamento della tradizione poetica italiana, di fatto in chiave antipetrarchista, e di volerlo fare tornando all’esempio dei classici, non pare inopportuno prendere le mosse dalle parole di Paul Laumonier, che discutendo dei versi bacchici di Ronsard individuava

trois grands thèmes bachiques traités par les poètes anciens: 1° Buvons, le vin rend éloquent; ses fumées excitent la verve, échauffent l’imagination, si l’on ne dépasse pas la mesure [...]. 2° Buvons, le vin pris sans excès ébranle les nerfs, épanouit l’être, engendre la joie et dispose à l’amour [...]. 3° Buvons, le vin copieusement absorbé fait oublier les soucis, quels qu’ils soient, notamment ceux de l’amour-passion.18

Sono gli stessi motivi toccati dal Chiabrera, che tuttavia li spoglia del senso filosofico e morale, inserendoli, invece, in contesti conviviali dai toni affatto più leggeri, in cui l’elogio del vino, spesso, e dichiaratamente, si sostituisce a quello dell’amore, o della donna.

Ma procediamo con ordine; il primo dei temi bacchici enumerati da Laumonier, che attribuisce al vino la facoltà di innalzare lo spirito e liberare l’immaginazione, favorendo la poesia, ha un precedente già in Anacreonte, Odi, In seipsum (Carminum poetarum, pp. 170-173):

Ubi suave poto vinum,
Animo repente laeto
Celebro novem Camoenas.3
[...]
Ubi suave poto vinum,
Animum ut meum explicavi
Cyathi in modum repandi,
Thiaso frequente laetor.24
Ubi suave poto vinum,
Proprium hoc meum est lucellum,
Et id auferens abibo
Siquidem mori stat omnes.28

ed è frequente soprattutto in Orazio, per cui il vino stimola l’ingegno: ,«Tu [pia testa] lene tormentum ingenio admoves / plerumque duro» (Orazio, Odi III 21, 13-14), e ispira la poesia alta:

Quo me, Bacche, rapis tui
plenum? Quae nemora aut quos agor in specus
velox mente nova? Quibus
antris egregii Caesaris audiar
    aeternum meditans decus
stellis inserere et consilio Iovis?
Dicam insigne, recens, adhuc
indictum ore alio.
(Orazio, Odi III 25, 1-8)

Chiabrera riprenderà il topos secondo tre diverse sfumature. Nella ballata Scherzò lui, che dicea (Ballatelle, 1625), il vino è identificato come fonte di ispirazione dei grandi poemi epici, quasi una conditio sine qua non:

Scherzò lui, che dicea,
     Come di Pindo il monte
     S’ornava per un fonte,
     Che di freschissima acqua indi correa.4
Non era quel ruscello onda mortale
     Certo non era, era d’ambrosia fiume
     E nettare divino;
     E nettare, et ambrosia altro non vale
     In bon vulgar salvo, ch’etereo lume
     Di lampeggiante vino;10
Mal si cantava Enea,
     E d’Achille il furore,
     S’io qui prendessi errore;
     Spina dunque tre botti, o bella Eubea.14

Nella canzonetta Poi ch’al forte Cavagliero (Scherzi, 1599), invece, il dono di Bacco impiuma (‘innalza’) le parole del poeta affinché questi intoni canti al dio: «Su di tirsi arma la mano / Gran Tebano, / Sgombra il vulgo a me davanti; / Su, che ’l sangue hor ferve, e spuma / E m’impiuma / Le parole, ond’io ti canti» (vv. 73-78),19 mentre ispira versi celebrativi della bellezza della donna nelle ballate Se tuoi begli occhi vaghi (Delle poesie, 1605-’06), già citata in precedenza, e Tosto, che per le vene erra ondeggiando (Delle poesie, 1605-’06), vv. 7-16:

Et hor di quel [vino], che sì Firenze estima
     Versai ben largo ad irrigare il petto;
     Sì che dal lieto cor se n’esce in rima
     Per le labbra gioconde ogni mio detto.10
Filli con aurea cetra oggi t’aspetto;
     Deh vieni ad udir, come
     Lodar so de le chiome
     Il singolar tesoro;
     E gli occhi, onde io mi moro
     Mirando, e desiando.16

L’ispirazione poetica dettata dall’ebbrezza anima una festa bacchica nella ballata D’ederosi corimbi (Alcuni scherzi, 1603), l’unica che faccia cenno a una vera e propria esaltazione provocata dal vino:

D’ederosi corimbi ogn’huom verdeggi,
     E tra pompe vinose hor si festeggi;2
Deh chi farà cantando
     Al nome di Leneo l’aer giocondo?
     Io di me stesso in bando
     Raccolgo voce a rimbombar secondo;6
Su, ch’oggi per Amor sia muto il mondo,
     E sol di Bacco ogni spelonca echeggi.

Il componimento non è mai stato stampato in sillogi d’autore, e forse la ragione dell’esclusione sta proprio nel ritratto del poeta «di sé stesso in bando».20 Negli altri esempi citati, infatti, l’ispirazione poetica sopraggiunge sempre in seguito a un consumo cospicuo di vino, mai caratterizzato, però, come eccessivo.

Chiabrera considererà il connubio tra vino e poesia anche nel Geri, dialogo ambientato nella residenza di Jacopo Cicognini, dove i tre protagonisti (Cicognini stesso, Giuseppe Orzalesi e Francesco Geri) si riuniranno per discutere della tessitura delle canzoni.21 Alla conversazione, seguirà una cena accompagnata da «vermiglio di Chianti» e da «vernaccia di S. Gemignano»,22 due vini toscani, l’uno rosso, il secondo bianco, che i convitati scelgono di non aprire prima, né durante il dibattito, perché «Se per noi si dovesse, come in Firenze usasi, improvvisare, l’eccellenza di quei vini sarebbe opportuna; ma dovendosi di cose minute tenere ragionamento, non so come andrà la bisogna».23 Il padrone di casa, Cicognini, converrà con l’opinione di Orzalesi e proporrà di cenare dopo la discussione.

Alla fine del dialogo i tre amici si avvieranno a tavola dietro invito dello stesso Cicognini: «Sagliamo. Il vino già è nella neve», cui Orzalesi replicherà: «Mi ricordo leggere un Epigramma di Simonide; nel quale si divieta dare agli amici a bere il vino caldo».24 L’accenno trova riscontro nell’edizione Carminum poetarum, in cui l’epigramma in questione, che probabilmente suggestionò le esortazioni della canzonetta Su questa lira (Delle poesie, 1618-’19) 21 «Clori rechisi vin, rechisi neve», e della ballata Qual saggia frenesia (Ballatelle, 1625) 5 «Su, su, venga falerno, e venga neve», è riportato secondo la testimonianza di Ateneo (pp. 324-327).25

Il secondo motivo per cui si beve è il senso di gioia indotto dal vino, che scioglie le inibizioni e rende più disponibili ad amare. Si tratta forse della declinazione meno presente in Chiabrera, che sfiora appena il motivo nella ballata Tosto, che per le vene erra ondeggiando (Delle poesie, 1605-’06) 1-4 «Tosto, che per le vene erra ondeggiando / De le belle uve il sangue, / Mio cor, che per sè langue / Ringiovenisce, et ama», e nel sonetto Questa mia lingua, e queste labbra a pena 5-8 «Corsemi un caldo poi di vena in vena, / Qual ne’ freschi anni in gioventù provai, / Tal, che membrando d’un bel guardo i rai / Fui quasi pronto a l’amorosa pena», sempre in relazione a una sorta di ritorno allo spirito degli anni giovanili. Nel componimento in distici di settenari, S’al tuo bulin gentile (Delle poesie, 1627-’28), si trova invece il riferimento più esplicito: «Bacco fra numi avari / Non può soffrir suo nome; / [...] / Ei ne fa coraggiosi; / Ne gli assalti amorosi» (vv. 40-48).

Laumonier rileva il tema soprattutto in Ovidio, Ars amatoria I 237-238 «Vina parant animos faciuntque caloribus aptos: / cura fugit multo diluiturque mero» e III 761-762 «Aptius est deceatque magis potare puellas: / cum Veneris puero non male, Bacche, facis», e Remedia amoris 805-806 «vina parant animum Veneri, nisi plurima sumas, / ut stupeant multo corda sepulta mero»,26 ma se ne trovano cenni già nell’ode De vino di Anacreonte, in cui la disinvoltura indotta dal vino supera di gran lunga il limite della convenienza:

Simul hunc senes biberunt,
Tremulis choros celebrant15
Pedibus, vibrantque canos.
Speculatus at puellam
Iuvenis decens venustam,
Petit abditus sub umbra
Tenerum inlatus iacentem,20
Graviterque consopitam.
Ibi eam Cupido mulcens,
Suadet facem malignus
Violare nuptialem.
Iuvenem tamen repellit25
Mulier, nec audit illum.
At ubi nihil valere
Sua sentit ille verba,
Subigit pati misellam.
Siquidem ebrius Lyaeus30
Petulante cum iuventa
Ita ludit insolenter.
(Carminum poetarum, vv. 14-32: pp. 190-193)

Più in generale, il connubio tra Venere e Bacco, ritratto da Anacreonte, Odi, De poculo argenteo 14-18 «Caelato vero nobis / Prolem Iovis Lyaeum. / Dulcemque temperato / Mystis Venus liquorem, / Quae nuptis amica» (Carminum poetarum, pp. 138-141), che forse influenzò Orazio, Odi III 18, 5-8 «si tener pleno cadit haedus anno, / larga nec desunt Veneris sodali / vina craterae, vetus ara multo / fumat odore», non ricorre mai nelle Vendemmie di Parnaso, in cui, al contrario, il vino è spesso posto in antitesi all’amore. Ne offre un esempio la canzonetta Su questa lira (Delle poesie, 1618-’19), in cui il poeta, memore della vicenda di Venere e Adone, si risolve a “non toccare corda” per cantare il «Crudo tiranno, / E che non sparge seme / Salvo di doglie estreme» (vv. 10-12), e a consacrare i versi soltanto a Bacco (vv. 13-16).

Ancora, nella ballata già citata integralmente, D’ederosi corimbi (Alcuni scherzi, 1603), è l’esortazione: «Su, ch’oggi per Amor sia muto il mondo, / E sol di Bacco ogni spelonca echeggi» (vv. 7-8), mentre ne L’aria del volto mio (Ballatelle, 1625), il pensiero del vino si sostituisce a quello della donna: «Ma spargasi d’oblio / Crin d’oro, eburnea man, guancia di rose; / Mie vaghezze amorose / Sian puro vin di Scìo, / O quel, ch’Omero suol chiamar Prannìo» (vv. 9-13). Quest’ultimo esempio, in cui il poeta esorta sé stesso a dimenticare la donna in favore del vino, si costituisce come sottile variazione dell’ultimo topos identificato dal Laumonier, per cui il dono di Bacco offre ristoro dagli affanni della vita, «quels qu’ils soient, notamment ceux de l’amour-passion»,27 attraverso l’ebbrezza, che induce l’oblio.

Il tema, ricorrente nella tradizione classica, è presente in Tibullo, Elegie I 2, 1-4 «Adde merum vinoque novos conpesce dolores, / occupet ut fessi lumina victa sopor, / neu quisquam multo percussum tempora baccho / excitet, infelix dum requiescit amor»,28 e sarà ripreso più volte da Chiabrera. Nel madrigale Questa ambrosia del ciel, che ’n terra vino (Delle poesie, 1605-’06), per esempio, strutturato dall’enumerazione in climax degli effetti del vino secondo la quantità assunta, non sono meno di tre i bicchieri chiesti dal poeta per alleviare le proprie pene d’amore:

Questa ambrosia del ciel, che ’n terra vino
     Per hom s’appella, vien dal gran Vesevo,
     Caro, e da reverirsi peregrino;3
Col bicchier primo ogni tristezza oblio:29
     E s’a lui torno, et il secondo io bevo,
     Ratto, nè sa di che, ride il cor mio;
     E dove il terzo non tralascio adietro,
     Non ha, ch’io non le spezzi, arme il dolore;
     Deh chi tre volte dunque il nobil vetro
     Men reca pieno hor che m’afflige Amore?10

Anche nella ballata I sospir tanti confortar non ponno (Delle poesie, 1605-’06), l’eccesso non è esplicitamente menzionato, ma alluso attraverso il catalogo dei vini bevuti dal poeta, che fa le veci del numero di calici del madrigale precedente:

I sospir tanti confortar non ponno
     Mio cor, che si distempra
     Come a forza di fiamma arido zolfo;
     Moviti Clori, e tempra
     Un bicchier ampio di gentil Gandolfo.5
Clori che fia? non ha letitia seco;
     Non mi scema il martir; non mi ricrea;
     Temprane un di bon Corso, un di bon Greco,
     Et un d’amabilissima Verdea.9
Lasso mio duol più si commove, e bolle;
     O sconsigliato aviso;
     Ma se fra quattro nappi, onde io son molle
     Un non ce n’ha di riso,
     Bacco temprami il quinto, e sia di sonno.14

Notevole, inoltre, è il capovolgimento del motivo nella ballata Di questa greca vite il caldo orgoglio (Delle poesie, 1605-’06), in cui il poeta, tra tutti gli effetti del vino, teme soltanto l’oblio, perché non vuole dimenticare gli occhi della donna:

Di questa greca vite il caldo orgoglio
Bacco non pavento io, s’ei mi minaccia,
E se m’annebbia il guardo, arde la faccia,
E rigonfia le vene io non men doglio;4
Sol ne gli assalti suoi Bacco desio,
Che nel mio petto ei non rinversi oblio;
Bacco, di duo begli occhi io pensar voglio.

Oltre alle pene d’amore, si è detto, il vino lenisce anche gli affanni della vita, secondo un topos già di Alceo: «Non oportet malis animum dedere. / Nihil enim proficiemus si moerore nos affecerimus,/ O Bacchi sed remedium praestanissimum est, / Vinum afferentes inebriari» (Carminum poetarum, pp. 16-17), di Anacreonte, Odi, In seipsum 1-2 «Mihi bibendo vinum / Aerumna dormit omnis» (Carminum poetarum, pp. 148-149), e, tra i latini, più volte in Orazio, per esempio in Odi I 7, 17-21 «sic tu sapiens finire memento / tristitiam vitaeque labores / molli, Plance, mero, seu te fulgentia signis / castra tenent, seu densa tenebit / Tiburis umbra tui», I 18, 3-4 «Siccis omnia nam dura deus proposuit, neque / mordaces aliter diffugiunt sollicitudines» e II 11, 17-18 «Dissipat Euhius / curas edacis». Lo stesso motivo sarà ripreso più volte da Chiabrera, in chiave proverbiale nella canzonetta Su questa lira (Delle poesie, 1618-’19) 20 «Mal vive hom, che non beve», in cui il vino è identificato come rimedio alle preoccupazioni, in assenza del quale la vita si fa più difficile, e attraverso l’attributo «cacciaffanni» in Bella Filli, e bella Clori («Regni Bacco il cacciaffanni», v. 5; ms. Ferr. 698). Nei versi finali della ballata Le quercie pianti chi non teme orrore (Delle poesie, 1605-’06), invece, il poeta ricorderà Bacco come «Fondator di speranze; / Rallegrator di danze; / Disgombrator d’omei» (vv. 12-14), dunque come divinità che non solo allontana le sofferenze (omei), ma anche infonde speranza, come già in Orazio, Odi III 21, 17 «tu [anfora] spem reducis mentibus anxiis» e IV 12, 17-20 «Nardi parvus onyx eliciet cadum, / qui nunc Sulpiciis accubat horreis, / spes donare novas largus amaraque / curarum eluere efficax». Il motivo è ripreso da Chiabrera anche nella canzonetta Su questa lira (Delle poesie, 1618-’19): «Dunque gioioso/A te consacro i versi,/A te, che di trebbian nettare versi, / Re pampinoso, / Per cui lieta s’avanza / Ne i miseri speranza» (vv. 13-18). Sempre oraziano è il tema del vino che allevia le pene della povertà: «Quis post vina gravem militiam aut pauperiem crepat?» (Odi I 18, 5), che sarà anche di Chiabrera, Poi ch’al forte Cavagliero (Scherzi, 1599) 40-42 «E non son tutti felici / I mendici / Se son ricchi di questo oro?», in cui questo oro è riferito all’aureo vin citato al v. 13.30

Tra le preoccupazioni mitigate dal vino è altresì quella del futuro, che per sua natura è imperscrutabile. Il motivo, che ha un precedente in Anacreonte, Odi, De se ipso 9-15 «Hodierna curo tantum: / Quis cras futura novit? / Age ergo dum favet sors, / Ludo vaca et Lyaeo: / Ne si quis opprimat te / Morbus, repente dicat, / Ohe satis bibisti» (Carminum poetarum, pp. 134-137), sarà in Chiabrera, Vadano a volo i canti (Ballatelle, 1625) 3-8 «Amici ecco d’argento / Ben lucidi bicchieri, / Beviamo, e diansi al vento / I torbidi pensieri; // Voi vel sapete; la stagion futura / A tutti è scura». Di suggestione anacreontea, forse, è anche l’associazione tra vino e gioco, sulla quale si conclude il madrigale Mira, che i lidi tutti hor son nevosi (Alcuni scherzi, 1603) «Ma pur è Bacco via più nobil foco, / Perchè seco ha lo scherzo, e seco il Gioco» (vv. 7-8).

Nel cenno all’oscurità dell’indomani si scorge anche il topos del carpe diem, caro a Orazio, e poi a Ronsard,31 che il Chiabrera spoglia delle implicazioni filosofiche, ma che a sua volta associa al vino, simbolo del tempo trascorso serenamente, lontano dagli affanni. Un esempio dei significati ben più profondi assunti dal tema in Orazio, i cui versi sono velati di una malinconia affatto estranea al Chiabrera, è offerto dall’ode a Taliarco, in cui il poeta esorta l’amico ad allontanare le preoccupazioni e a lasciare il futuro in mano agli dèi: «Vides ut alta stet nive candidum / Soracte, nec iam sustineant onus / silvae laborantes, geluque / flumina constiterint acuto? // Dissolve frigus ligna super foco / large reponens atque benignius / deprome quadrimum Sabina, / o Thaliarche, merum diota. // Permitte divis cetera, [...] // Quid sit futurum cras, fuge quaerere et, / quem Fors dierum cumque dabit, lucro / appone» (Odi I 9, 1-15). Molto lontano da Orazio, anche in questo caso, il tono di Chiabrera si accosta ben di più alla leggerezza anacreontica, come mostra l’esempio già citato della ballata Vadano a volo i canti (Ballatelle, 1625), di cui ricordo i due versi finali: «Voi vel sapete; la stagion futura / A tutti è scura» (vv. 7-8).

L’ambientazione invernale dell’ode a Taliarco è altresì interessante perché riprende il tema del vino come sollievo dal freddo, già di Alceo e poi di Ronsard; motivo che dovette colpire Chiabrera, se nel terzo discorso tenuto all’Accademia degli Addormentati, Intorno alla intemperanza, il poeta ricordava che proprio Alceo «ad alta voce cantò: Che a disgombrare le pioggie, e le tempeste del verno, fa mestiere di mescere con larga mano».32 La stretta relazione tra le immagini presenti nei quattro autori è tra gli indizi più stringenti della tradizione cui Chiabrera guardò per i suoi versi enoici, dalla quale attinse temi, immagini e toni, che fece propri e restituì secondo il gusto e la morale del tempo. Si considerino, dunque, in ordine cronologico, Alceo: «Pluit Iupiter, et in caelo magna / Tempestas, concreveruntque aquarum fluxus. / Exturba hyemem, imponens / Ignem, infundensque vinum non parce, [...] / [...] Suave» (Carminum poetarum, pp. 12-13), la già citata ode di Orazio (in particolare i vv. 1-8), l’ode di Ronsard, Si l’oiseau qu’on voit amener, in cui il poeta invita un amico «à passer la mauvaise saison loin de la “tourbe envieuse”, en sa chambre “à recoy”, et d’y faire alterner le travail et le divertissement: il lira des poètes érotiques, Tibulle, Ovide, et composera des verses»,33 e infine lo esorta: «Apres l’estude, il faut qu’on lave / L’esprit ja morne et perissant / D’un vin de reserve».34 A fronte si leggano, quindi, l’ode tetrastica Hor che lunge da noi carreggia il Sole 1-16 «Hor che lunge da noi carreggia il Sole / Avaro di suo lume a’ giorni brevi, / Io schifo de le pioggie, e de le nevi / Torno d’Omero a le dilette scole; // [...] // Sì rinchiuso tra libri al corso humano / Passo passo avicino al porto eterno, / Già grave d’anni; et a temprare il verno / Bacco ho non lunge, e da vicin Vulcano»,35 e il madrigale Mira, che i lidi tutti hor son nevosi (Alcuni scherzi, 1603):

Mira, che i lidi tutti hor sono nevosi;
Ardi del bosco, e qui le fiamme accresci;
Il selvoso Appennin forse è lontano.
E tu fra mosti per vigor famosi
Reca il fumoso di Sicilia, e mesci;
È foco disiato il bon vulcano;6
Ma pur è Bacco via più nobil foco,
Perchè seco ha lo scherzo, e seco il Gioco.

Non passa inosservato il fatto che talune immagini sembrano richiamarsi tra loro, stringendo in relazione l’opera dei quattro poeti.36

Dalle considerazioni fin qui compiute, da cui Anacreonte e Orazio emergono come le fonti principali da cui Chiabrera attinse motivi, e talvolta immagini, per i suoi versi bacchici, è rimasto escluso il problema dell’eccesso, che importa considerare soprattutto alla luce di alcune soluzioni adottate dal poeta nelle Vendemmie. In primo luogo occorre sottolineare che il motivo della misura, caro a Orazio, e citato anche nei primi due temi individuati da Laumonier, è del tutto assente in Chiabrera, almeno in forma esplicita, così come assenti sono riferimenti patenti all’esagerazione, in particolare se essa implica la perdita del senno. Che l’esagerazione e la conseguente perdita di controllo fossero generalmente ritenute sconvenienti traspare dal motto in clausola della canzonetta Su questa lira (Delle poesie, 1618-’19) 22-24 «Io tutti invito; / Beviam, che non è ria / Una gentil follia», ripreso identico nella ballata Qual saggia frenesia (vv. 6-8; Ballatelle, 1625). L’attenuazione è sottintesa alla giuntura «gentil follia», che ricorda il «Furor soave» del sonetto Duo bei cristalli, ch’a ria sete ardente 11, e la «douce folie» di Ronsard (En quel bois le plus separé 4), riferita all’ispirazione poetica. L’esortazione sembra risentire di Orazio, Odi IV 12, 25-28 «Verum pone moras et studium lucri, / nigrorumque memor, dum licet, ignium / misce stultitiam consiliis brevem; / dulce est desipere in loco» di cui Chiabrera smorza la vena morale e sentenziosa. Lontano, invece, è l’accenno allo stesso motivo presente in Tibullo, Elegie II 1, 27-30 «Nunc mihi fumosos veteris proferte Falernos / consulis et Chio solvite vincla cado. / Vina diem celebrent: non festa luce madere / est rubor, errantes et male ferre pedes».

Chiabrera prende le distanze anche da Anacreonte, che in più di un’occasione esalta gli effetti dell’eccessivo consumo di vino, come nell’ode In seipsum 4-12 «Nec non aquam bibentes / Apollinis disertam / Ripis Clari, furore / Acti subinde clamant. / Ego simul Lyaei, / Nardi simul fragrantis / Satur, simul puellis, / Libens libens protervo / Praeceps agor furore» (Carminum poetarum, pp. 132-133).37 L’unica eccezione, si è visto, è il cenno nella ballata D’ederosi corimbi (Alcuni scherzi, 1603), che tuttavia, si ricorda, non entrò mai in sillogi d’autore.

Proprio i toni moderati dovettero dettare al Mannucci la seguente considerazione sui versi enoici del Chiabrera:

l’Anacreonte del Chiabrera somiglia ben poco all’antico; è un moderno gentiluomo, manieroso, galante, raffinato, che infiora le tazze, sceglie i vini migliori, celebra leggiadre fanciulle, ma tenendosi sempre nei confini del lecito, e spesso ridendo di Bacco e di Venere che ammiccano da lungi, tra i festoni d’una vigna o nelle sale splendidamente affrescate.38

L’attenuazione delle immagini più licenziose, caratteristiche delle liriche anacreontiche, trova ragione sia nel clima della Controriforma, in cui il vino, in quanto emblema dei piaceri della vita, costituiva già di per sé un tema sensibile, sia nello stile caratteristico tanto di Chiabrera che di Filicaia e di Guidi, i quali «perseguivano serietà morale e disciplina formale aliena dalla lussuria stilistica e dai contenuti sensuali».39

Alla luce del percorso tracciato, tuttavia, non sorprende troppo che Chiabrera avesse deciso di toccare comunque, benché ingentilita, la materia bacchica, poiché essa è caratteristica della tradizione alla quale egli si era rivolto per proporre un rinnovamento anche tematico della lirica italiana. Si è visto, infatti, che essa costituiva da sola un’importante novità, soprattutto nella sua declinazione conviviale, in cui insieme alle movenze della lirica classica risuonano echi della stagione della Pléiade, entrambi all’origine di quella spinta alla riforma metrica e formale che caratterizzò gran parte della produzione poetica del Chiabrera.

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1 Rime di Gabriello Chiabrera in questa nuova edizione unite, accresciute, e corrette, parte prima[-terza], in Roma, presso il Salvioni, 1718, parte seconda, pp. 307-356. L’edizione Paolucci fu ripubblicata da Angelo Geremia per la prima volta nel 1730 (Delle opere di Gabriello Chiabrera, in questa ultima impressione tutte in un corpo novellamente unite, tomo primo[-quarto], in Venezia, presso Angiolo Geremia, 1730-1731) con l’aggiunta di una quarta parte che contiene componimenti assenti dalla stampa romana (per i componimenti inclusi nel tomo IV, vd. Gabriello Chiabrera, Opera lirica, a cura di Andrea Donnini, Genova, RES, 2005, vol. V, pp. 126-127). Nel 1757 Geremia curerà una nuova edizione, esemplata sulla precedente e ampliata di un ulteriore volume (Delle opere di Gabriello Chiabrera, in questa ultima impressione tutte in un corpo novellamente unite, tomo primo[-quinto], in Venezia, presso Angiolo Geremia, 1757. Per i componimenti inclusi nel tomo V, vd. G. Chiabrera, Opera lirica, cit., vol. V, p. 129). La sezione delle Vendemmie di Parnaso non muterà rispetto all’edizione Paolucci, né per numero, né per disposizione dei testi, e identica verrà ripresa dai curatori successivi, fino all’edizione delle Canzonette, rime varie, dialoghi di Gabriello Chiabrera, a cura di Luigi Negri, Torino, Utet, 1952, l’ultima che raccolga tutti i testi bacchici pubblicati da Paolucci.

2 Delle poesie di Gabriello Chiabrera, volume primo[-quarto] in Firenze, per Zanobi Pignoni, [poi] appresso Simone Ciotti, 1627-1628. Un interessante excursus lungo i versi enoici di Chiabrera è condotto da Emilio Torchio nel saggio Vino, brindisi e convivio nella poesia carducciana (con cenni sulla storia del tema), «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», XI, 1-2 (2008), pp. 113-116.

3 Se ne avvide già Francesco Luigi Mannucci, che decretò: «Nessun dubbio che il famoso Ditirambo all’uso dei Greci sia una fatturazione del Paolucci» (cfr. F. L. Mannucci, La lirica di Gabriello Chiabrera. Storia e caratteri, Napoli-Genova-Città di Castello, Società anonima editrice Francesco Perrella, 1925, pp. 161-162).

4 Entrambi i sonetti si trovano già nella prima raccolta curata da G. Chiabrera, Delle poesie di Gabriello Chiabrera, parte prima, per lui medesimo ordinata, in Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1605, pp. 57-58, dalla quale si citano.

5 Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia volumi quattro di Francesco Saverio Quadrio della Compagnia di Gesù, in Bologna, per Ferdinando Pisarri, all’insegna di S. Antonio, poi in Milano, nelle stampe di Francesco Agnelli, 1739-1752, vol. II, tomo I, pp. 491-494.

6 Cfr. Giovanni Getto, Gabriello Chiabrera, poeta barocco, in Id., Il Barocco letterario in Italia, Milano, Mondadori, 2000, p. 101.

7 Ferdinando Neri, Il Chiabrera e la Pléiade francese, Torino, Bocca, 1920, pp. 132-134; lo studioso allude ai Dithyrambes chentés au bouc de E. Jodelle poète tragiq di Ronsard e ai Dithyrambes a la pompe du bouc d’Estienne Jodelle di Baïf, per cui cfr. ivi, p. 132 (in nota). Sul rapporto tra Chiabrera e la Pléiade si veda anche F. L. Mannucci, La lirica, cit., pp. 150-161, che allarga l’indagine alla tradizione classica, greca e latina, rilevando, seppure con qualche forzatura (cfr. G. Getto, Gabriello Chiabrera, cit., p. 103), interessanti riprese da parte del Chiabrera.

8 F. S. Quadrio, Della storia e della ragione, cit., vol. II, tomo I, p. 494.

9 Daniela De Liso, Letteratura di vino. Un viaggio enoico tra le pagine della letteratura d’Italia, Firenze, Cesati, 2014, p. 71. Nel settimo canto dell’Orlando furioso, ancora, il vino è strumento per ordire inganni e, offerto a Ruggiero dalla maga Alcina, «segna il passaggio dell’eroe da una condizione di rettitudine [...] ad una di corruzione». Ruggiero «tradirà, infatti, Bradamante», abdicando così dalla «condizione dell’eroe senza macchia» (ivi, p. 64).

10 Le opere latine di Ariosto si citano sempre da Ludovico Ariosto, Lirica Latina, in Id., Opere minori, a cura di Cesare Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 3-105.

11 Cfr. F. L. Mannucci, La lirica, cit., pp. 151-152. I versi del Chiabrera, se licenziati dall’autore, si citano sempre dalla prima edizione autorizzata, altrimenti, dalla prima che li pubblica. Per i testi inediti prima dell’edizione Paolucci si fa riferimento all’autografo già menzionato, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Ferr. 698. Si indica sempre tra parentesi l’edizione, o l’autografo, da cui sono tratti i testi. I lirici greci si citano sempre nella traduzione latina di Henri Estienne, dall’edizione Carminum poetarum novem, lyricae poeseos principium fragmenta, cum Latina interpretatione, partim soluta oratione, partim carmine, editio II, multis versibus ad calcem adjectis locupletata, s. l., Excudebat Henr. Stephanus, illustris viri Huldrichi Fuggeri typographus, 1566, della quale, stando allo studio di F. L. Mannucci, si avvalse lo stesso Chiabrera, che non conosceva il greco (cfr. F. L. Mannucci, La lirica, cit., pp. 61-65). Sulla questione si veda anche lo studio di Luigi Castagna, Pindaro, le origini del pindarismo e Gabriello Chiabrera, «Aevum», XXV, 3 (1991), in aperta polemica con F. L. Mannucci, con il quale tuttavia concorda nell’affermare che «senza il sostegno di un breve commento, o meglio di una traduzione, Pindaro non avrebbe detto molto a Chiabrera» (cfr. ivi, p. 528).

12 La raccolta Alcuni scherzi di Gabriello Chiabrera, in Mondovì, per Henrietto de Rossi, 1603 fu pubblicata senza l’autorizzazione dell’autore, che se ne lamentò con Roberto Titi nella lettera del 29 settembre 1604: «alcune ciancie feci per prova scherzando; le quali senza mio ordine sono state stampate, e mal corrette; mandole; ella riderà seco del mio vaneggiare. [...] con li scherzi che V. S. leggerà ho voluto toccare di quei concetti, che i Latini e Greci toccarono rallegrandosi con Bacco» (Gabriello Chiabrera, Lettere (1585-1638), a cura di Simona Morando, Firenze, Olschki, 2003, pp. 134-135).

13 Squadro qui vale ‘spezzo’, riferito alle armi di Amore. L’espressione riprende l’intimazione dantesca di Inferno XXV 3 «Togli, Dio, ch’a te le squadro!» (E. Torchio, cit., p. 114).

14 L’esordio del componimento, «Perchè mostrarmi a dito? / Son io forse schernito / Perchè Neera ammiro? / E sua beltà desiro / Già vecchio divenuto?» (Perché mostrarmi a dito, 1-5), ricorda, benché da lontano, i versi iniziali di Anacreonte, Odi, De se ipso 1-5 «Dicunt mihi puellae, / Anacreon senex es. / Speculum cape, intuere / Nullae ut comae supersint, / Tibique glabra sit frons» (Carminum poetarum, pp. 130-131). Torna, nello stesso testo, il motivo del vino assunto in grandi quantità, sempre restituito attraverso l’enumerazione dei vini bevuti e dei bicchieri vuotati: «Hor così vada; o Clori, / Via, via con le man tue / Non una coppa, o due, / Ma se discreta sei / Colmane cinque, o sei; / Riccia, Gandolfo, Albano, / Caprarola, Bracciano / Salderan mia ferita; / In sì spossata vita / Trattare amor non deggio; / S’io ne tratto io vaneggio» (Perchè mostrarmi a dito 32-42); cfr. Se tuoi begli occhi vaghi (Delle poesie, 1605-’06).

15 Lettera di Gabriello Chiabrera a Roberto Titi del 29 settembre 1604, in Gabriello Chiabrera, Lettere, cit. pp. 134-135.

16 Delle poesie di Gabriello Chiabrera, Parte Seconda, in Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1618, pp. [3]-5.

17 Sulla ripresa di Pindaro, al quale Chiabrera guardò soprattutto per le canzoni, cfr. L. Castagna, Pindaro, le origini del pindarismo e Gabriello Chiabrera, cit., passim.

18 Paul Laumonier, Ronsard poète lyrique, Genève, Slatkine reprints, 1972, pp. 621-622.

19 La locuzione impiumare le parole vale «renderle atte ad inalzarsi, a sollevarsi ad alti concetti», ed è lemmatizzata dal Gherardini sulla sola scorta di questo luogo; cfr. Giovanni Gherardini, Supplimento a’ vocabolarj italiani, proposto da Giovanni Gherardini, voll. 6, Milano, dalla stamperia di Gius. Bernardoni di Gio., 1852-1857, s.v. parola.

20 Nei versi della ballata si avverte forse la suggestione di Pierre de Ronsard, En quel bois le plus separé 1-15.

21 La data di composizione del Geri non è nota, così come quella di tutti e cinque i Dialoghi dell’arte poetica, a esclusione del Forzano, l’unico edito in vita del Chiabrera, con il titolo Discorso sopra il sonetto del Petrarca. Se lamentare augelli, o verdi fronde. Del sig. Gabriello Chiabrera (Alessandria, per Giovanni Soto, 1626).

22 Gabriello Chiabrera, Geri. Dialogo della tessitura delle canzoni, in Alcune prose inedite di Gabriello Chiabrera, Genova, Pagano, [1826], p. 65.

23 Ivi, p. 66. L’allusione «come in Firenze usasi» probabilmente si riferisce all’Accademia degli Alterati, cui apparteneva lo stesso Chiabrera e il cui motto era «Quid non designat», tratto da Orazio, Epistole I 5, 16 «Quid non ebrietas dissignat», cfr. Michele Maylender, Storia delle accademie d’Italia, Bologna, Forni, 1926-1930, vol. I, pp. 154-160.

24 Chiabrera, Geri, cit., p. 82.

25 Il testo dell’epigramma recita: «Quam Boreas circumlatus olim texit Olympi, / E Thraca cursu cocitus alipede, / Quae nudos anxit: sed vita relanguit illi / Pierio simulac est amicita solo: / Eius partem aliquis fundat mihi. Nanque sodali / Haudquaquam potu ferre decet calidum» (Carminum poetarum, pp. 324-327).

26 P. Laumonier, Ronsard poète lyrique, cit., p. 622.

27 Ibid.

28 Cfr. anche Properzio, Elegie III 17, che si configura come un inno a Bacco, invocato «affinché il poeta sia liberato dall’amore attraverso l’assopimento» (E. Torchio, Vino, brindisi e convivio nella poesia carducciana, cit., p. 111).

29 Si corregge la lezione dolcezza (Delle Poesie 1605-’06) in tristezza (Alcuni scherzi, 1603), in quanto incongrua rispetto al contesto, benché tramandata dall’unica raccolta d’autore che include il madrigale, assente dalle due sillogi successive: Delle poesie del 1618-’19 e Delle poesie 1627-’28.

30 Cfr. la nota di Giulia Raboni in Gabriello Chiabrera, Maniere, Scherzi e Canzonette morali, a cura di Giulia Raboni, Parma, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda Editore, 1998, a. l. Il motivo e presente anche in Orazio, Odi III, 21 17-18 « tu [anfora] spem reducis mentibus anxiis / virisque et addis cornua pauperi», già citato in merito al tema del vino che infonde speranza.

31 Sulla ripresa del tema in Ronsard, cfr. P. Laumonier, Ronsard poète lyrique, cit., pp. 566-568.

32 Delle opere di Gabriello Chiabrera, tomo quinto, in Venezia, presso Angiolo Geremia, 1757, p. 206.

33 P. Laumonier, Ronsard poète lyrique, cit., p. 568.

34 P. de Ronsard, Odi, Si l’oiseau qu’on voit amener 29-31, in Pierre de Ronsard, Œuvres complètes, texte établi et annoté par Gustave Cohen, 2 vol., [Parigi], Gallimard, 1950, da cui sono tratte tutte le citazioni di Ronsard.

35 L’ode tetrastica è assente dalle Vendemmie di Parnaso, segno che il tema bacchico e i riferimenti al vino non rimasero confinati soltanto alla produzione leggera, né ai componimenti strettamente enoici. Il testo si cita dall’edizione Delle poesie di Gabriello Chiabrera, Parte prima, in Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1618.

36 Sulla presenza del motivo invernale in Chiabrera, cfr. F. L. Mannucci, La lirica, cit., p. 153. Ai componimenti del Chiabrera che riprendono l’ambientazione invernale si aggiunge anche la canzonetta Gonfio le gote (Delle poesie, 1618-’19).

37 Il motivo si trova anche in De se ipso 10-12 (Carminum poetarum, pp. 148-151), e in De se ipso 1-4 (Carminum poetarum, pp. 158-161).

38 F. L. Mannucci, La lirica, cit., p. 151.

39 Andrea Battistini, La cultura del Barocco, in «Storia della letteratura italiana», diretta da Enrico Malato, 14 voll., Roma, Salerno, 1995-2004, vol. V, p. 470.