La poesia dialettale del Rinascimento nell’Italia del Nord
OJ-italique-695
Per un ritratto plausibile di Maffio Venier
Maffio Venier è prima di tutto una lacuna editoriale. Il grande numero di testimoni e la natura occasionale, oscena, privata di gran parte dei suoi testi ci consegnano una situazione filologicamente disperante e con molti punti destinati a restare nel cono d’ombra del dubbio.1 Venier nacque nel 1550, figlio di Lorenzo (amico di Aretino e autore della Puttana errante e della Zaffetta) e di Maria Michiel, e nipote di Domenico, celebre petrarchista. Visse per la maggior parte del tempo tra Venezia, Firenze (fu poeta di corte e informatore per i Medici) e Roma. Nel 1583 divenne arcivescovo di Corfù, ma morì a soli 36 anni nel 1586, a causa della sifilide contratta in un viaggio a Costantinopoli.2 Nella sua breve esistenza hanno convissuto un disciplinato, e a tratti originale, petrarchista in lingua – capace di ottenere anche un relativo successo come autore di canzoni spirituali – e un notevole esploratore, in veneziano, di un territorio posto costitutivamente oltre i limiti di un sistema lirico basato sull’imitazione. La sua conoscenza è però, fuori dalla cerchia degli specialisti, in genere limitata al risvolto burlesco e misogino della sua produzione e in particolare alla tenzone poetica con la ‘cortigiana onesta’ Veronica Franco: un episodio certo rilevante in sé, ma secondario rispetto al resto della sua produzione. Balduino ha una volta per tutte messo in guardia di fronte al rischio di inquadrare Venier entro la categoria spinosa di ‘antipetrarchismo’ e ha invitato a tenere d’occhio piuttosto le proficue sovrapposizioni tra il modello di Petrarca e dei petrarchisti (su tutti lo zio Domenico Venier) e le indubbiamente maggiori libertà espressive concesse dalla scelta di una lingua altra, un veneziano medio, flessibile e aperto, capace di sottrarsi in larga parte all’obbligo di crescere in modo parassitario solo sul risvolto burlesco del codice lirico.3 In queste pagine si offre un sintetico ritratto tematico, retorico e metrico del poeta dialettale, cercando di non dimenticare le consonanze con la poesia in lingua.4 In assenza di un’edizione critica, si rimanda all’Appendice per una breve guida al reperimento delle poesie attualmente attribuite a Venier e per alcuni ragguagli bibliografici circa la tradizione dei testi, che solleva problemi che non si possono discutere in questa sede, ma che occorre tenere presenti qualora si intenda compiere una ricognizione non preconcetta della sua opera, la cui plausibilità dipende dall’adeguata indicazione del corpus preso in esame.5
Rispetto al repertorio relativamente limitato della lirica alta, è più difficile ridurre a sistema i temi di una poesia per sua natura occasionale e inclusiva. Come anticipato, non tutto è riconducibile alla tradizione bernesca, anche se indubbiamente questo aspetto riveste un ruolo quantitativamente primario.6 Nel sonetto caudato 81,7 ad esempio, il poeta si rivolge direttamente all’amata cercando di convincerla a non cacciarlo a causa di un peto che gli è sfuggito mentre stava raccogliendo il fazzoletto della donna. Il metro denuncia già di per sé la natura burlesca del componimento, legato alla dimensione bassa e corporea e sviluppato come serrata accumulazione di ragioni che si vorrebbero persuasive ma spinte al paradosso, come ai vv. 31-35, punta comica di un costante riferimento ironico alla necessità di comporre la sciocca lite per via giudiziaria («se no ghe xe fettor, ma nome el tiro / no se puolo chiamar anca un sospiro? / [...] vorrìa che fosse eletti / zùdesi a sti accidenti, dei perfetti»).8 Ma oltre che rovesciata, la lirica è diciamo spalancata, attraverso la manipolazione libera dei suoi luoghi comuni e del suo lessico, e l’immissione di situazioni sconosciute ai canzonieri in lingua: una donna lo lascia in strada mentre si trova con un altro uomo (51) oppure lo nasconde al marito (116); il poeta si scusa se per rabbia e disperazione dice «alle volte quel che no vorrìa» (110).
Il problema della scelta consapevole di una lingua non «strania» e non stretta da nessun vincolo è messo a tema da Venier nel sonetto che la princeps indica come «Proemio»:9
No ve maravegié, sia chi se vògia,
che non usa una lingua pi pulìa
che se Domenedio m’ha dà la mia,
no vògio che una strania me la tògia
[...]
Questa è una lengua che è d’ogni savor,
dove che se vorò scriver toscan,
bisogna per il più parlar d’amor.
(83, 1-4 e 9-11)
Non vi meravigliate, chiunque sia, che non usi una lingua più raffinata, che se Dio mi ha dato la mia, non voglio che una straniera me la tolga // [...] Questa è una lingua che è di tutti i sapori, mentre, se vorrò scrivere toscano, bisogna per lo più parlare d’amore.
Salvo i casi in cui il motivo ha tutta l’apparenza di una posa (ad esempio «E per no starve a far tante parole, / per no starve mo a dir che un poco più / son quasi morto al gran martel c’ho habbù, / co fa sti innamorai che è da do siole // se me volé che sia vostro moroso, / son aponto per vu», 28, 5-10),10 la scelta del dialetto si configura dunque come risposta personale a un sentimento di asfissia verso le interpretazioni più ortodosse e stucchevoli del petrarchismo, avvertito nel secondo Cinquecento anche da altri e tra loro opposti lirici formatisi attorno a Domenico Venier, come Celio Magno e Luigi Groto, in fuga l’uno verso il lugubre e l’altro verso il ludico; un sentimento che si esprime in modi diversissimi anche nel Maffio toscano, che punta invece su un accentuato gusto del patetico e dell’orroroso.
Nonostante sia quasi impossibile ricostruire la diacronia dei testi, o una qualche ipotesi di canzoniere,11 possiamo comunque individuare alcune serie compattamente riferite a un medesimo tema, come la lode del vino di 2, 12 e 63, cui si associano il lamento per la carenza del vino a corte (101) e la lode della cantiniera (90), dove si dice ad Amore
che i lazzi, l’arco e i strali d’oro fin,
i to inganni, el poder la fiama e’l zelo,
i paro tutto co’l boccal del vin.
(90, 12-14)
che i lacci, l’arco e gli strali d’oro fino, i tuoi inganni, il potere, la fiamma e il gelo, li paro tutti col boccale del vino.
Altro nucleo interessante è quello che accomuna i sonetti 75, 106 e 128, dedicati al lamento dell’amante chiacchierone che perde la parola di fronte all’amata. Vediamo il primo, di cui notevole è la gestione concitata del discorso, caratterizzata da tratti di oralità come il tema sospeso e il che polivalente.
Mi, che la darìa marza a un zarattan, | |
che ho dà le romancine che se sa, | |
che m’ha sentìo non solo quei de ca’ | |
ma la zente d’attorno un mìo lontan, | 4 |
e che addesso non habbia per le man | |
do zanze, mi meschin desgratià, | |
che m’haverìa più presto immaginà | |
che me mancasse mille volte el pan. | 8 |
Questi xe dei miracoli d’Amor: | |
deventar muto innanzi del suo ben, | |
e parer da so posta un orator. | 11 |
Se no ho parole al mal, co se convien, | |
ve podé ben pensar co stà el mio cuor, | |
ben mio, se m’havé messo el fuogo in sen. | 14 |
Io che la farei vedere a un ciarlatano, che ho dato ramanzine memorabili, che mi han sentito non solo a casa, ma la gente nel raggio di un miglio, // e che adesso non abbia per le mani due chiacchiere, me meschino disgraziato, che mi sarei piuttosto immaginato che mi mancasse mille volte il pane. // Questi sono i miracoli d’Amore: diventar muto davanti al proprio bene e sembrare un oratore da sé solo. // Se non ho parole per il dolore, come si conviene, potete ben immaginare come sta il mio cuore, bene mio, se mi avete messo il fuoco nel petto.
Al centro della poesia di Venier è in ogni caso la figura femminile, nelle duplici e opposte vesti della donna lodata nelle sue bellezze e nelle sue virtù amatorie e della prostituta dileggiata, svilita e vituperata. Partiamo dal secondo caso: numerose sono le invettive contro le cortigiane, in particolare contro Veronica Franco e Livia Azzalina.12 I loro crudi ritratti si segnalano per l’inventiva metaforica e l’oltranza linguistica in direzione della mostruosa deformazione corporea, ma seguono un copione piuttosto ripetitivo, che parte dallo sconvolgimento del canone delle bellezze. Ad esempio nel famigerato sonetto caudato Veronica, ver unica puttana, sono descritti di seguito fronte, occhi, naso, mascelle, guance, orecchie, bocca, fiato, denti, ciglia, capelli e seno, quest’ultimo – che prendiamo ad esempio – in questi termini:
tette, che per la Terra ghe xe aviso | |
che siando in letto un dì co un a Treviso | 26 |
ghe ne cazze sul viso | |
una d’esse e ’l meschin puoco accorto | |
se soffeghette, e ti vedendol morto, | 29 |
no ’l fu sì presto smorto, | |
che ti te ’l sepelissi in te la potta, | |
azzò no se sapesse della botta. | 32 |
(139, 25-32) |
tette, che per il territorio gira voce che, stando a letto un giorno con uno a Treviso, // gliene cadde una sul viso e il meschino poco accorto si soffocò, e tu, vedendolo morto, // non fu così presto smorto che te lo seppellisti nella fica, affinché non si sapesse dell’accaduto.
Alla descrizione, condotta secondo la modalità dell’accumulo anaforico di similitudini iperboliche,13 si aggiungono immancabilmente i tratti della bassa estrazione sociale, dell’avarizia, della miseria, della sifilide e dei suoi effetti (le piaghe e la calvizie causata dal mercurio con cui veniva curata),14 ed essa si conclude immancabilmente con dichiarazioni metapoetiche che denunciano l’interminabilità del compito (per esempio 127, 175-78 «Ti xe sì marza e così sporca sotto, / che la mia musa, stomegà de ti, / volta co’l zeffo in suso, e altrove, il trotto, // e così lasso star de scriver pi»),15 e con la minaccia di una fine impietosa a far l’elemosina e a morire all’ospedale. Alcuni motivi, come l’avarizia, il trucco eccessivo e la lussuria insaziabile, sono nel solco della tradizione misogina che risale almeno a Giovenale, a Tertulliano e al Corbaccio:16 oggetto dell’invettiva non è la moglie, ma la prostituta; passaggio, questo, non certo nuovo, basti citare Aretino, Lorenzo Venier, e in veneziano almeno la Pescatoria IV di Andrea Calmo.17
La crudezza con cui i sintomi della sifilide sono descritti fa certo parte del gioco esorcistico di una società in cui la prostituzione femminile e i pericoli ad essa legati raggiungono proporzioni uniche in Europa. Ma prima di tutto, come è stato già messo in luce, si tratta dell’esercizio, attraverso una comicità sboccata e crudele, di un potere maschile e nobiliare che riconduce le cortigiane e le loro ambizioni di indipendenza e ascesa sociale alla semplice professione di prostitute (l’intercambiabilità dei termini puttana e cortigiana costituisce già di per sé un attacco), e la protezione di amanti potenti a un semplice rapporto venale.18 Non mancano infatti mai in queste invettive il riferimento all’origine umile (127, 25-27 «To mare, gravia de dusento e pi, / te fese e te coverse co una stiora / in t’un cesto de pàia»)19 e la condanna della venalità (40, 24 «ma el voler tropo soldi xe un gran vitio»):20 entrambi meccanismi volti a smontare ogni pretesa di distinzione. In più punti anzi la critica colpisce esclusivamente la venalità del rapporto, e se c’è a volte una componente autoironica nel rappresentarsi come amante squattrinato (77, 5-7 «E se per farme amar, amaramente / ghe ho da dar soldi, se ghe ho donà el cuor, / e ghe ne incago a chi me porta amor»),21 non è questo il caso del primo testo rivolto alla Franco, che usa la lode come pretesto per lanciarle l’accusa di essere esosa (56, 7-9 «quand’un ve vuol basar, / volé cinque o sei scudi, e con fadiga / con i cinquanta ve lassé chiavar»)22 senza alcuna reale motivazione, data una fondamentale intercambiabilità: «Gh’è forse carestia del vostro sesso, / xe perse o desfantà le cortesane, / da metter cusì i scrigni in compromesso? // No ghe xe casa che no habbia puttane» (56, 31-34).23 Sempre alla Franco scrive «Là xe la mia dolcezza e ’l mio piaser, / dove è virtù, dove è lascivitae»24 (56, 43-44): quasi che la virtù valesse solo insieme alla disponibilità sessuale. Se le cortigiane occupano il polo negativo, al polo positivo dei testi di argomento erotico si trovano infatti gli amori che garantiscono rapporti soddisfacenti senza dispendio né rischio di contagio. Particolarmente interessante in questo senso è la canzone Brama pur chi se vuol fra armeri d’or, tutta fondata sull’antitesi tra ricchezza e artificio opposti a povertà e naturalezza. Lo sporco esterno dell’ambiente dove si consuma l’amore con una cameriera (19, 14 «sporco e pien d’humidità») si contrappone allo sporco interno delle malattie veneree (53-54 «un mier [di pote] tutto il dì strussiae / con forfette, stropagni e aque stillae»;25 72-73 «Che tal moza è fra zogie, oro e veluo, / che xe tutta formaggio, mozzi e bruo»),26 malattie da cui è esente la masseretta (89-90 «[se fotte] seguri da pericoli e da intrighi, / da panocchie, caruoli e beccafichi»),27 che non deve essere corteggiata e sospirata, ma si concede con facilità. Qui Venier descrive anche, per criticarla, la situazione tipica dell’amante (73-74 «Che longhe servitù! Che spassizar / tutto il dì suspiroso e suspettoso!»),28 mostrandoci però subito come quel sacrificio non sia esattamente rivolto a una Laura: «Che buttar via danari / in ruffiane per farghe parlar»29 (79-80). A questo punto è chiaro che lo stesso obiettivo, così abbassato, si può raggiungere più agevolmente se si punta a un amore ancillare: «Se senza ste fatture e ste ruine / con quatro paroline / in s’un albuòl se fotte da signor»30 (84-86). In questo modo il rovesciamento è completo: il desiderio del sospiroso amante è ricondotto al solo obiettivo di soddisfare la sua brama carnale, e viene negata anche ogni possibile esaltazione della donna al di fuori della sua disponibilità: o è una cortigiana che vive in uno sfarzo precario e guadagnato a costo della sifilide, oppure è pulita e onesta, ma è anche una serva e dunque accetta la propria sottomissione; e così l’ironia colpisce un altro motivo, quello dell’ineffabilità, che sarà quella di una caratteristica erotica e giocosamente realistica: «Perché no sòngio bon da laudarte, / almanco in qualche parte, / la grazie, la maniera unica e rara / del to spòrzer de mona».31
L’io lirico del corpus poetico attribuito a Venier vanta però la capacità di parlare su registri diversi, fuori da questo sdoppiamento della donna che pertiene pur sempre al comico. È ad esempio un innamorato infelice, capace di recuperare i modi del petrarchismo mescolandoli con immagini concrete,32 come avviene nel capitolo di lontananza Ha pur vogiù sta sorte traditora, dove motivi come quello dell’amante che vive nell’amata (57, 1-6 «Ha pur vogiù sta sorte traditora, [...] / che me parta da vu prima che muora. // Anzi, son morto e no me son partìo, / perché a star senza vu son un retrato, / e in vu vive quel cuor che gera mio»)33 e le antitesi della sua condizione paradossale (25 «La salute m’è lonzi e’l danno apresso»,34 55-56 «E perché son lonzi dal mio fuogo, / me bruso pi che mai»),35 convivono con un immaginario realistico (il poeta è in viaggio su un «muletto», 67; tra i suoi incubi c’è quello di trovare vivo l’odiato padre; i suoi «sensi mal sani» invece dell’«armonia de i cieli» gli fanno sentire solo «gatte instizzàe»,36 34-48), e con vere e proprie imprecazioni come «che vegna la giandussa a i mie viazi»37 (18). L’alterità linguistica conferisce insomma una diversa consistenza anche ad usi figurati già topici: in un capitolo dedicato al disamoramento, tutti gli atteggiamenti di timidezza e reverenza nei confronti della donna tipici dell’amante vengono meno, e sono così catalogati per contrari (8, 16-19 «No fazzo pi descorsi sui segnali, / no fazzo pi comenti sora sguardi / no noto le mie pene e i vostri fali. // No me despiero se ve vedo tardi»,38 22 «No vago solo in luoghi retirai»,39 eccetera). Venier ci offre in questo testo anche molti spunti ironici, come l’incipit, incentrato sul riacquisto dell’appetito e del sonno (1-2 «Amor, sia laudà Dio, magno i mie pasti / dormo diese hore prima che me volta»),40 e poco dopo l’immagine della donna irrimediabilmente smitizzata tramite il riferimento alle sue funzioni fisiologiche (4-5 «Credo, signora, che caghé talvolta, / che innanzi no podea dàrmel da intènder»).41 Venier può anche riprendere il repertorio retorico della lirica amorosa senza intenzioni parodiche, riuscendo però nel contempo a introdurre senza strappi deliberate deviazioni dal codice: per esempio nella lode della mano (93) mi pare che stiano in fondo sullo stesso piano sia la pelle «de neve», sia le dita che sono «cinque rubbini», sia le fossette che con immagine ben diversa – «par che Amor sentando l’habbia fatte / con haverghe improntà su le cullatte»;42 cos`ı come funziona perfettamente in 64, 5-6, l’associazione tra l’immagine della donna scolpita nel cuore e il suo ben concreto figurante: «Ma perché vu sè in mi tutta scolpìa, / più fitta che no è un groppo in t’una tola».43
Esiste dunque un Venier amoroso non scopertamente burlesco e, anzi, Ferrari ne ha opportunamente parlato come di un autore di «lirica dialettale aperta a una possibile dimensione pubblica e non confinata a tematiche erotico-burlesche»,44 isolando infatti un Venier anche morale, capace di piegare lo strumento del dialetto a una pacata riflessione sulla condizione dell’uomo, e che già Agostini aveva accostato alla sensibilità di Celio Magno.45 Si tratta in particolare dei 16 sonetti che aprono il manoscritto Borghesiano 103 della Biblioteca Apostolica Vaticana,46 tra i quali non solo compaiono i testi sull’amante che rimane muto davanti all’amata (128, 75), la lode piena di vezzeggiativi e diminutivi di una bambina (14), il lamento del poeta vessato dal destino (144), ma anche testi come Eççetto l’omo ogn’altra bestia ha ben, sulla distinzione tra l’uomo e gli altri animali fondata sulla consapevolezza della morte, Dal nasser tutti ha il cancaro che i magna, sulle varie inclinazioni degli uomini e sul beneficio di appagarsi del poco, e O quante volte al dì sono un lion, sull’incostanza delle proprie attitudini e della fortuna. Va poi aggiunto il Venier in cui l’oscenità, che non scompare, passa in secondo piano entro il ritratto del mondo urbano di Venezia, delle sue bassezze, delle sue bellezze, delle grida nei campi e nelle calli: in Prima se troverà ogni potta netta, in particolare, per elencare gli adynata che dovrebbero realizzarsi prima che il poeta accetti di pagare (presumibilmente una prostituta), egli affastella un verso dopo l’altro altrettanti motivi propri del senso comune di un gentiluomo veneziano della sua epoca (103, 46 «todeschi abborrirà, la botte e ’l vin»; 53 «Se farà un monastier de Carampana»;47 55-56 «i Ebrei vedarà certo so Messìa / andar in su in zo per Marzarìa»;48 62 «sta terra in ogni rio havarà un molìn»,49 etc.) e le grida dei mercanti di Rialto, con importanti conseguenze sull’ampliamento del lessico (aspetto su cui ha insistito Cortelazzo)50 e sulla nostra capacità di partecipare di un mondo in cui finiscono per radicarsi profondamente anche le vicende liriche-liriche, rese non trascendenti, non astratte, non idealizzate. Si legga anche la prima stanza di 100, in cui per dire l’impossibilità di lodare la donna, il poeta cerca intorno a sé i propri comparanti iperbolici:
Più presto un orbo, favilla a favilla, | |
contarà tutto el fuogo cicilian, | |
dirà quant’herba stella o camamila | |
suol nascer sul mestrin, sul padovan, | 4 |
(e) strazzerà l’anguila a schilla a schilla, | |
sumerà quanto pesse pìa Buran, | |
che una lengua sia mai così possente | |
con dir quanto (che) val donna eccellente.51 | 8 |
Un orbo conterà tutto il fuoco siciliano scintilla a scintilla, dirà quanta piantaggine o camomilla nasce nel mestrino, nel padovano, straccerà l’anguilla scaglia a scaglia, conterà quanto pesce pesca Burano, prima che una lingua sia tanto potente da dir quanto vale una donna eccellente.
Abbiamo già individuato, tra i principali strumenti retorici e stilistici, il ricorso all’enumerazione anaforica come forma elementare di strutturazione del testo, spesso costruito modularmente sulla base di continui rilanci; ma l’enumerazione può anche assumere la funzione di sottolineare il grottesco delle figure e degli ambienti descritti. Basterà riportare l’inizio della celebre canzone dedicata alla Strazzosa, Amor, vivemo tra la gatta e i stizzi. Qui la bellezza della donna, «strazzosa riccamente» (12, 64), risalta proprio in quanto opposta all’ambiente misero e sporco in cui vive, al punto che le carni che traspaiono dei vestiti stracciati gettano «lampi che te tiol la vista»52 (113). Non mi pare sia stato notato che nelle prime due stanze l’accumulo parossistico di oggetti, persone e animali che occupano la modesta «casa a pepian» si organizza in modo niente affatto casuale, ma secondo il ricercato modulo dello schema additivo,53 figura retorica tipicamente manierista sfruttata ad esempio anche da Domenico Venier, Gabriele Fiamma e Luigi Groto (ho messo in corsivo gli elementi interessati dalla figura):
Amor, vivemo tra la gatta e i stizzi | |
d’una casa a pepian | 2 |
(e no vedo però che ti t’agrizzi), | |
dove e la lume e ’l pan | 4 |
sta tutto in t’un, la rocca, i drappi e ’l vin, | |
la vecchia e le fassine, | |
i putti e le galline, | |
e mezo ’l cavazal sotto ’l camin | 8 |
dove taccà a un anzin gh’è in muodo de trofeo | |
la fersora, una scuffia e la graella, | |
la zucca de l’axeo, | |
un cesto e la sportella, | |
e ’l letto fatto d’alega e de stoppa, | |
cussì avalio ch’i pulesi s’intoppa. | 15 |
In pè d’un papagà s’arlieva un’oca, | |
in pè d’un cagnoletto | 17 |
gh’è un porchetto zentil, che basa in boca, | |
lassivo animaletto. | |
Suave compagnia dolce concerto! | 20 |
L’oca, la gatta e tutti, | |
la vecchia, el porco e i putti, | |
le galline e ’l mio amor sotto un coverto | 23 |
ma in cento parte averto, | |
ove la luna e ’l sol | |
fa tanto più la casa alliegra e chiara, | |
come sotto un storuol | |
sconde fortuna avara | |
una zogia, una perla in le scoazze: | |
infinita bellezza in mille strazze! | 30 |
Amore, viviamo tra la gatta e i tizzoni, in una casa a pianterreno (e non vedo però che inorridisci) dove la lampada e il pane stan tutti insieme, la conocchia, gli abiti e il vino, la vecchia e le fascine, i bambini e le galline, e in mezzo al capezzale sotto il camino, dove a un gancio, appeso come un trofeo, c’è la padella, una cuffia e la graticola, la zucca dell’aceto, un cesto e la sporta, e il letto fatto d’alga e di stoppa, così liscio che le pulci incespicano. // Invece di un pappagallo si alleva un’oca, invece di un cane c’è un porcellino gentile che bacia in bocca, animaletto lascivo. Soave compagnia, dolce concerto! L’oca, la gatta e tutti, la vecchia, il maiale e i bambini, le galline e il mio amore sotto un tetto, dove la luna e il sole fanno tanto la casa più allegra e chiara, come sotto una stuoia la fortuna avara nasconde un gioiello, una perla nell’immondizia, infinita bellezza in mille stracci!
Tale figura, proprio per il suo principio, che è quello di richiamare una struttura anaforica mediante una successiva enumerazione asindetica, viene preferita all’altra figura-emblema della lirica manierista veneziana, quella geometrica e astratta della correlazione,54 che Venier infatti utilizza in un sonetto in lingua imitativo dello stile dello zio Domenico, ma poi elimina dalla redazione dello stesso in dialetto (64), probabilmente posteriore:55
La beltà, la virtù, la cortesia, donna, di voi mi punse, arse ed avvinse, e da me ’l colpo, il foco, e ’l nodo spinse l’alma, che non degno d’esser più mia | La beltà, la virtù la cortesia, ch’ho visto, vita mia, nome in vu sola, me tien piccà de muodo per la gola ch’ho l’anima int’el cuor tutta smarìa. |
La bellezza, la virtù, la cortesia, che ho visto, vita mia, solo in voi, mi tiene in tal modo appeso per la gola che ho l’anima nel cuore tutta smarrita. |
Altra funzione dell’anafora è quella di partecipare, insieme ad altre figure di ripetizione, all’espressione del pathos, e penso in particolare ai due componimenti in morte, per una donna (88) e per un cagnolino (135). Riporto il primo, in cui saranno da notare l’incipit risolutamente saranno petrarchesco, senza ironie (cfr. Rvf 84, Occhi piangete: accompagnate il core),56 la struttura anaforica dell’appello diretto agli occhi e alla bocca, il topos dell’inutilità della bellezza di fronte al destino inesorabile, la prima terzina, tutta costruita su anafore emistichiali e interiezioni dolorose, e infine la minaccia di suicidio, che chiude circolarmente il testo con l’appello alla mano ancora una volta in posizione iniziale di verso.
Occhi pianzé, che ghe ne havé cason, | |
accompagné sto cuor che è tutto pianto, | |
bocca sospira, zemi e pianzi tanto | |
che l’inferno se muova a compassion. | 4 |
No ghe ha valesto né pianti né ontion, | |
puoco ziova l’haver tra belle el vanto, | |
che né mai Cloto no, né Radamanto, | |
ha tiolto al mondo la so perfettion. | 8 |
Livia xe morta, Livia xe passà. | |
Ah, destin maledetto!, Ah, crudel mostro, | |
ti è pur contento, ti te ha pur satià! | 11 |
Ma perché tanto el vecchio e ’l niovo inchiostro | |
lauda chi in pe’ de pianzer se ha amazzà, | |
man, questo è ’l servo, fè l’officio vostro.57 | 14 |
Occhi, piangete, che ne avete motivo, accompagnate questo cuore che è tutto pianto, bocca, sospira, gemi e piangi tanto che l’inferno si muova a compassione. // Non le sono valsi né pianti né unguenti, a poco serve avere tra le belle il vanto, che mai Cloto né Radamanto han sottratto al mondo una perfezione come la sua. // Livia è morta, Livia è passata. Ah, destino maledetto! Ah, mostro crudele, sei pur contento, ti sei ben saziato! // Ma poiché sia le lettere antiche che le moderne lodano chi invece di piangere si è ucciso, mani, sono vostro schiavo, svolgete il vostro compito.
Non raro è che i componimenti siano costruiti attorno a un’opposizione concettuale che innerva l’intero svolgimento argomentativo del discorso, come ad esempio 62 e 122, fondati sul contrasto tra fame e amore. Nel primo l’io lirico si rivolge direttamente alla donna lamentando la sua condizione e l’incapacità di lei a soddisfarla: «In fatti la lusuria della golla / si manda a monte quella del cotal, / sì che, puttana, fa’ pur carnaval, / che quanto a mi ti puol sarrar la scuola»58 (1-4); nel secondo invece il poeta si rivolge ad Amore, invitato a indirizzare le sue frecce verso bersagli più appetibili: «Dove è pi le to frezze e le toe fiame / che me haveva sti dì sì mal condutto? / Va’ le afficca in t’un pan o in t’un persutto / s’ti vuol che torna sotto el to reame»59 (5-8). Ma questa spinta oppositiva trova la sua realizzazione anche nelle antitesi a contatto e di breve giro (un esempio tra i tanti dal lungo capitolo di lode 117: 31-33 «El mio pensier, che andava cussì in basso, / che ’l no s’alzava più de un polesin, / adesso el va in tel ciel de Giove a spasso»),60 che pure possono a loro volta accumularsi e rafforzarsi anaforicamente: 37, 3-4 «chi teme e chi desidera la morte, / chi ride del continuo e chi se lagna»;61 94, 1-4 «O quante volte al dì son un lion, / o quante volte al dì sono un agnel, / quante m’inalzo col pensier al çiel / e po’ me lasso andar zò a tombolon».62
Per quanto riguarda il linguaggio figurato, abbiamo sottolineato l’importanza della similitudine iperbolica nei ritratti grotteschi, ma possiamo ora concentrarci su alcune soluzioni preferenziali nella scelta dei figuranti.63 Prima di tutto riscontriamo elementi topici della lirica petrarchista: la donna come «aurora» (66, 55), gli occhi piangenti come «fonti»64 (31, 12-14), la scrittura come navigazione impervia (44, 137-40 «Musa, l’è tempo de tirarse in porto, / ti è in t’un mar infinito / co sto battel desfito, / governao da nocchier sì mal accorto»),65 la pelle come «neve» (66, 50; 93, 7) o come «latte» (93, 1), l’amore come «fuoco» che ossimoricamente agghiaccia (84, 11-12), la mano amante che «squarza [...] insanguina [...] liga» (93, 31-33). Figuranti canonici possono poi applicarsi a figurati non comuni, come l’«alabastro» delle «tettine» (131, 14-16), o lo splendore della luna, che brilla tra due camini come la donna tra gli stracci che la rivestono (12, 72-75 «Qual se fra do camini / s’imbavara la luna, / che lusa in mezzo, tal splende la faza / e i razzi de custia fra strazza e strazza»).66
C’è però una ben più vasta casistica di figuranti di forte concretezza, ad esempio azioni quotidiane (93, 6 «Man che zioga alla balla del mio cuore»; 14, 9-11 «Benedetti i sestini e le zanzette, / che a chi le sente le ghe cava el cuor,/o co se faa un melon, le el sparte in fette»),67 oppure oggetti di uso comune (3, 42-43 «Ti è ben cola ch’attaca, [riferito ad Amore] / ma i soldi è la recetta che destaca»;68 113, 9-11 «No posso far sì lucido concetto / che, appresso el sol [cioè la donna] che luse al mio pensier, / ogni altro no me para un feraletto»).69 Tra questi, una posizione di rilievo godono i figuranti di ambito genericamente naturale (93, 9-10 «è ’l viver pi breve / che un albero sbusà»;70 12, 65-70 «Ché con più strazze e manco drappi intorno / più se descovre i bianchi / e verzellai fianchi, / com’è più bel con manco niole ’l zorno»),71 o in particolare zoologico, specie con la funzione di rappresentare in modo proverbiale atteggiamenti o proprietà del carattere: 110, 8 «me fé deventar humil agnello»;72 17, 11 «ma qual lion no se farìa un cagnuol?»;73 122, 13-14 «Che per adesso son co xe quei gatti / che lassa el sorze per magnar el lardo»;74 73, 14 «son ustinà pi che no è un mulo»;75 e si veda per esteso il gustoso paragone di 123, 52-60, con specificazione dell’atteggiamento sia del veicolo che del tenore:
Simil alla gazzuola xe ’l poeta, | |
co no l’ha soppa in te la magnaora | |
la se mette a cantar la Gerometa. | 54 |
Così canta el poeta co vien l’ora | |
del disnar, che nol trova pan in tola: | |
che se dirà de questa mia Signora? | 57 |
E comenza a dolersi a ogni parola | |
d’haver el cuor in pena senza fin: | |
niente de manco el mal tutto è in la golla | 60 |
Simile alla gazza è il poeta, quando non ha zuppa nella mangiatoia si metta a cantare la girometta. // Così canta il poeta quando è ora di pranzo e non trova pane in tavola: “che dire di questa mia Signora?” // E comincia a dolersi con ogni parola di avere il cuore in una pena senza fine: tuttavia il male è tutto nella gola.
Come quest’ultima, anche altre comparazioni sono impostate sull’identità delle relazioni reciproche che intercorrono tra due entità, ad esempio 12, 57-60 «un letto pomposo / ch’ha dentro una Gabrina, / [...] fa in lu quell’effetto un viso d’orca, / che in bella chebba una gazzuola sporca»76 e 136, 9-11 «I meriti che havé va sora el cielo, / e se ghe molo drio, de rama in rama / somegio un calalin drio de un stornelo».77
L’analogia assume anche proporzioni ampie, come nella similitudine continuata che lega il poeta al «can da scoazzera» (9);78 oppure in 117, 34-39, dove la cerbottana è comparante del foro causato dal potere di irradiazione della bellezza della donna, e dunque la similitudine riguarda un tenore già metaforico («Un razo vu havé in vu che ha del divin, / che fa un buso in te l’àiere sì belo / che serena ciascun che v’è vesìn. // E chi se fissa pò, vede per quello, / come sa fa per la zarabotana, / un puoco del piaser dei dèi del cielo»);79 o ancora si veda come in 44, 38-43, il discorso figurato sulla perfezione della donna assuma dimensioni e consistenza di una vera e propria allegoria, che a suo modo parafrasa il celebre «grazie ch’a pochi il ciel largo destina»: «Per far un sforzo el cielo / tiosse el lambico e fè colar per ello / quante gratie l’havea e gran fatura / per man della natura, / e, lievà via le tare, / l’impì d’esse la panza a vostra mare».80 A parte stanno poi le espressioni platealmente disfemiche e quelle, figurate o eufemistiche, riferite alla sfera del sesso.81
Concludo questo rapido excursus retorico con un cenno sulla citazione, prendendo in esame l’uso che Venier fa di Petrarca. L’opera dell’aretino perde ogni funzione modellizzante per quanto riguarda la selezione metrica e tematica e la struttura narrativa della storia d’amore, ma sono ben attestate diverse modalità di riuso, talvolta serie, come abbiamo visto, ma spesso parodiche. Oltre agli incipit di due madrigali, Per far una leggiadra sua vendetta (che rimanda a Rvf 13) e Perché no spiero mai (che incrocia, mi pare, Rvf 53, 15, Non spero che già mai, e Cavalcanti, Perch’i’ no spero di tornar giammai), troviamo poi alcuni versi ripresi in modo ironico nel capitolo Son tra la fame e tra la poesia. Per mostrare il legame indissolubile tra povertà, fame e poesia, è proposto un catalogo, sul modello di Triumphus Fame III,82 di poeti che hanno sofferto la miseria. Il primo è Omero, che, pur essendo il «mior e pì perfetto / che Argo, Micena e Troia se ne sente»83 (95-96, il v. 96 è identico a TF III, 12), una volta cieco «non haveva / da tegnir pur un putto che ’l menasse»84 (103-4); segue Virgilio, grande, certo, «Tuttavia el verso sì la disse schieta: / El Mantovan che de par seco giostra, / cioè che Omero e lu la menò stretta»85 (109-11, il v. 110 è TF III, 17). Il terzo è proprio Petrarca, «che ne demostra / co’ fa le hore el razzo d’un relogio, / ogni eloquenza della lingua nostra»86 (112-14). Qui la ripresa è meno precisa – e suppongo che nella scelta del comparante (la lancetta dell’orologio) ci sia anche una sottile ironia sull’ossessione cronologico-calendariale dell’ar tino – ma l’eco della terzina dedicata a Cicerone è comunque chiara: TF III, 19-21 «questo è quel Marco Tullio, in cui si mostra / chiaro quanti eloquentia à frutti e fiori. / Questi son gli occhi de la lingua nostra». Pure, insiste Venier, con tutta la sua eloquenza, Petrarca dovette restar «prete». La rassegna si chiude poi su Plauto, di cui è detto che per vincere la fame «l’andò a star co un pistor»87 (121), riprendendo in modo un po’ distorto un episodio narrato da Aulo Gellio.88 Va ricordata poi, con Balduino, la forte presenza petrarchesca nella canzone-frottola No voio più cantar come che feva, dove oltre al modello metrico, pur rivisitato, molte sono le citazioni puntuali dalla canzone 105 dei Fragmenta.89 Ma Petrarca, è, come sempre, anche fonte di modelli sintattico-retorici, e cito solo il caso di Rvf 145, Ponmi ove ’l sole occide i fiori e l’erba, da cui discende la struttura di Metteme a rosto, a lesso, su la graella.90
Un tema poco studiato sono le preferenze metriche di Maffio. Il metro più utilizzato è il sonetto, per il quale egli sfrutta senza eccezioni lo schema più comune nel Cinquecento, cioè ABBA ABBA CDC DCD, quello che nella trattatistica e nell’uso era percepito come proprio di uno stile levis.91 Molti sono poi i sonetti caudati, che insieme al capitolo ternario rappresentano i metri burleschi per eccellenza, e sono proprio le forme adibite al vituperio, mentre più rare sono le ottave, isolate o in brevi serie. Occasionalmente Venier ricorre anche al madrigale, che si presta alla messa in rilievo della pointe finale, in genere meno concettosa che salace, per esempio 128, in cui si dice che il desiderio di una donna bella viene facilmente sostituito da quello per una donna più bella, «s’una me piase ancùo, l’altra, doman»;92 oppure 21, dove parla con una cagnolina invitandola a baciarlo sulla bocca dopo aver baciato la padrona, e di baciarlo invece «da drìo» quando avesse baciato suo marito.
Per quanto riguarda le canzoni, va notata se non altro la libertà dalla stretta imitazione di schemi correnti,93 e la predilezione per fronti con piedi asimmetrici (per gli schemi cfr. l’Appendice). In proposito vorrei fare qualche passo lungo una strada mai davvero percorsa: fondare sulla conoscenza dell’usus metrico qualche ipotesi attributiva in mancanza di prove documentarie risolutive. Sia il caso della canzone 24, Che fortuna? che fato? che destin?. Riportata solo dalle cc. 32r-33r del Marciano It. IX 217 (=7061), con l’indicazione del solo cognome dell’autore, la canzone è stata sinora ritenuta opera di Maffio.94 Prima di tutto, però, il tema del lamento contro ladri e malversatori e il tono che direi di indignazione civile costituiscono un caso unico nel corpus venieriano; in secondo luogo, i primi eventi che vengono menzionati risalgono ad anni in cui Maffio era bambino;95 infine, lo schema metrico è per lui piuttosto inconsueto, poiché è ricalcato sulla canzone 53 dei Fragmenta: identici lo schema, il numero delle stanze e il congedo. Maffio, invece, anche se riprende a suo modo Petrarca, nemmeno nella poesia in toscano adotta mai gli schemi del Canzoniere nelle sue canzoni.96 Vale la pena allora di notare che la predilezione per la fronte con piedi ABC BAC è invece tipica delle canzoni in lingua letteraria di Domenico Venier, che inoltre è solito recuperare in maniera precisa schemi petrarcheschi, anche se mai, va detto, 53.97 Simili ragionamenti (oltre a quelli legati alla struttura stessa del libro, su cui tornerò) si possono fare circa le canzonette testimoniate solo nella parte conclusiva della stampa del 1613: in due casi (5 e 22) si tratta di forme tipiche dell’ode secondo i moduli che erano stati resi popolari specialmente da Bernardo Tasso, e che hanno qualche somiglianza con la canzonetta O man de puro latte (ababCC), testimoniata da almeno 5 manoscritti. Per altri due casi invece si tratta di forme che direi popolareggianti (26, AAx5b5B, e 95, ababx5ccdD; x irrelate) che non hanno nessun termine di confronto con la restante produzione di Venier. Si tratta di dati in sé non risolutivi, certo, ma che non possono essere ignorati quando si tratta di riconsiderare queste attribuzioni.
Mi pare utile ribadire in chiusura che è riduttivo leggere nella scelta del dialetto in Venier solo un’alternativa frontale al petrarchismo, mentre occorre vedere in essa una delle risposte possibili per ampliare i confini della lirica volgare. Come sottolinea Belloni, egli lascia cadere i travestimenti piscatorii e bucolici e le scelte espressionistiche di Calmo, per appuntarsi su una lingua di tono medio.98 La componente oscena e francamente noiosa delle tirate contro le cortigiane non merita dunque di mettere in ombra un poeta capace di ben altri risultati e indubbiamente abile a piegare uno strumento linguistico in larga parte nuovo a rappresentare un mondo lirico e sentimentale di autentica modernità. Forse allora più che enfatizzare la separazione tra Venier burlesco e non burlesco, come pure si è tentati di fare, quasi a separare il bene dal male, si dovrebbe rimarcare come il dialetto assolva spesso proprio alla funzione di rendere inservibili i confini imposti dal decorum classicistico, e impossibile, salvo che agli estremi della forbice, situare esattamente i testi tra serio e faceto. Venier non è realistico perché il suo vocabolario accoglie scoazzere, cagaori, strazze, culi, potte e cazzi, ma perché nei casi migliori li porta fuori dal mondo rassicurante della parodia: la lingua cessa di essere uno schermo trascendente per dar voce a un io, a volte trascinato da una verve che lo fa un po’ teatralmente inciampare, capace di calare ossessioni, angustie e inquietudini tipicamente liriche (amore, miseria, insoddisfazione, sfortuna) in mondo solido, tangibile.
Annexe
Appendice. Incipitario dei componimenti (sinora) attribuiti a Maffio Venier
Scrive Belloni che «il compilatore della ricchissima antologia marciana (marciano ital. IX 173 = 6282) di rime dialettali, Giovanni di Vincenzo Quirini, a proposito delle poesie che aveva da scegliere poteva avvertire: “ghe n’ho forse un mier Che corre sotto el nome del Venier”».99 Venier fu subito imitato e riconosciuto come caposcuola, e se riconoscere la paternità dei suoi testi era già difficile all’inizio del XVII secolo, la situazione non può certo essere migliore oggi. Gli studi più recenti riportano ben 61100 testimoni (52 manoscritti e 9 a stampa) e nel redigere un regesto dei suoi componimenti, Tiziana Agostini indica come venieriani tutti quei testi che presentano attribuzioni in almeno un testimone non contraddette da altre più probabili. Ferrari ha obiettato che non tutte le attribuzioni sono parimenti attendibili, additando come particolarmente problematici i componimenti tramandati solo dai Versi alla venitiana, stampati a Vicenza nel 1613 per le cure di Angelo Ingegneri. Il volume è composto di una prima parte con le rime di Ingegneri e di una seconda con le rime di Venier, indicato con le sole iniziali M.V. Le sue rime sono intervallate da tre testi di altri autori, Soleva dir un certo bon compagno, di Alessandro Becher (pp. 113-20); Dottor in sestodecimo eccelente, di Z. B. L. (pp. 120-21); Se mai ve imbaterè, Dotor egregio, di L. B. (p. 121); a queste aggiungerei anche Chiareta bela mi no posso pi, la cui rubrica è «Alla Illustra Signora Chiareta da Mula | El so Moroso» (pp. 137-38), indicazione superflua se il “moroso” fosse lo stesso Venier. Credo si debba osservare inoltre che i testi esplicitamente attribuiti ad altri autori, pur comparendo nella sezione indicata come «Rime Venetiane del Clarissimo Sig. M. V.», si trovano tutti verso la fine, e che, sia nel frontespizio («Opera del signor Anzolo Inzegner, et d’altri bellissimi spiriti»), sia nella lettera dedicatoria («e sì ho scritte ste puoche cossette, parte composte da i primi Cittadini de sta nostra Cittae, & parte dal vostro povero servidor», p. 6), viene fatto esplicito riferimento a più autori. Mi pare dunque legittimo sospettare che tutta la parte conclusiva, a partire dalla «Satira contro la corte» di Becher, sia un’appendice di testi di vari autori non segnalata da un nuovo frontespizio. È stato poi notato che nella sezione di M. V. sono presenti anche due componimenti la paternità dei quali è da cedere a Domenico, dopo il ritrovamento di un manoscritto di rime dialettali di quest’ultimo.101 Il ms. Additional 12.197 della British Library di Londra ha portato qualche nuova attribuzione certa, ma ha anche reso problematica quella di testi rubricati come “del Venier”, senza il nome, che si ritenevano pacificamente del nipote (è il caso già citato della canzone 24). C’è poi il problema opposto: tra i molti componimenti adespoti, detti genericamente “veniereschi” e censiti ancora una volta da Agostini, è ben probabile che qualcuno appartenga proprio a Maffio. Infine va tenuto conto della difficile attribuzione delle varianti che occorrono nei diversi testimoni.102 Se in qualche caso si può supporre che si tratti di varianti d’autore, come hanno fatto Agostini nella sua edizione della Strazzosa e Ferrari nel lavoro sul Borghesiano 103, altre volte è probabile che siano da imputare ai copisti, specie nel caso dei testi erotici, i quali, nota Ferrari, «rappresentano la zona della tradizione più permeabile alla confusione tra componimenti dell’autore e di altri».103
Dopo aver elencato sommariamente i principali problemi sin qui affrontati dai filologi, propongo un incipitario dei componimenti attribuiti a Venier, con l’indicazione dell’edizione più autorevole (o al limite l’unica) o del manoscritto di cui mi sono servito qualora non esistessero edizioni moderne. Nel caso di testi reperibili solo in manoscritto mi sono di norma attenuto a un solo testimone, con un carotaggio della tradizione per ora solo parziale. Per facilitare il confronto riporto l’incipit normalizzato secondo il repertorio di Agostini, per quanto pertiene i testi lì inclusi, anche dove differisca dal testo da me utilizzato.
I testi preceduti da asterisco (*) sono quelli da assegnare ad altri autori, mentre su quelli preceduti da punto di domanda (?) sono stati sollevati dei dubbi, ma è ben probabile che a un esame attento della tradizione molti altri siano i testi la cui attribuzione risulterà discutibile.
Le sigle adottate nella tabella sono da intendersi come segue: Br = Versi alla venitiana [...] Opera del Signor Anzolo Inzegneri, Vicenza, Salvadori, 1617; C8 = Venezia, Biblioteca del Museo Correr, Cicogna 1085; M2 = Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, It. IX 173 (= 6282); M13 = Venezia, BNM, It. IX 248 (= 7071); M17 = Venezia, BNM, It. IX 460 (= 7034); Pa = Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Italien 563 (ex 7791); Vat1 = Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottoboniano 1960; V6= Città del Vaticano, BAV, Borghesiano 103; Agostini 1982 = T. Agostini, La Strazzosa, cit.; Agostini 1985 = Ead., Rime dialettali, cit.; Agostini 1987 = Ead., Per un catalogo, cit.; Agostini 1991 = Ead., Poesie dialettali, cit.; Agostini 1999 = Ead., Istinto e ragione, cit.; Carminati 1993 = M. Venier, Canzoni e sonetti, cit.; Carminati 2001 = M. Venier, Poesie diverse, cit.; Dazzi 1956 = M. Dazzi, Maffio Venier, cit.; Ferrari 2015 = M. Ferrari, Per l’edizione, cit.; Ferrari 2017 = Id., Italiano letterario, cit.; Milani 1994 = M. Milani, Contro le puttane, cit.; Padoan 1985 = Tre liriche, cit. Per la tavola metrica: T = Terza rima; S = Sonetto; Sc = Sonetto caudato; Sm = Sonetto minore; C = Canzone; Can = Canzonetta o canzone-ode; M = Madrigale; O = Ottave.
N | Incipit | Metro e schema | Fonte e note | |
1 | Adesso che le zanze xe compie | T | Carminati 2001, 166-72 | |
2 | Al mondo chi è soldao se fa chiattin / Chi ha visto tal soldao farse chiattin | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 161 | |
3 | Amor, e’ me contento che ti fazzi | C: ABBccDDEEeffFGG (3) + yyYZZ | Carminati 1993, 113-15 | |
4 | Amor, fa’ dei cavei la rede e ’l lazzo | C: ABBAccDDefEfgGHH (3) + xyYZZ | Ferrari 2017, 31-32 | |
5 | ? Amor, imparo adesso | Can: ababcc (9) | Carminati 2001, 77 (dubbia: solo alla fine di Br) | |
6 | Amor, mi te n’incago | M: abbAcCdD | Carminati 2001, 36 | |
7 | ? Amor, no impazzi | voio | M: abbbaACddC | V6, c. 70 r-v (dubbia: cfr. Ferrari 2015, 376) |
8 | Amor, sia laudà Dio: magno i miei pasti | T | Carminati 2001, 133-36 | |
9 | Amor, son co’ è un can da scoazzera | C: ABcdcD ABeefF (6) + VWXyyzZ | Padoan 1985, 21-24 | |
10 | * Amor, ti me puol far zò che ti vuol | C: AB bA aCdCDCcEE (9) + WXxWwYZYZZ104 | Carminati 2001, 56-62 (il riferimento a Benetto Corner ai vv. 117-18 fa propendere per un’attribuzione a Domenico Venier) | |
11 | Amor, va drio cussì: naviga e tien | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 148 | |
12 | Amor, vivemo tra la gatta e i stizzi (La Strazzosa) | C: AbAb CddC ceFefGG (10) + xYxyZZ | Agostini 1982, 113-23 (redazione vulgata), 124-31 (redazione riccardiana) | |
13 | An, fia, cuomodo? A che muodo zioghemo? | T | Carminati 2001, 204-12 | |
14 | Anzoletta del senza peccà | çiel | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 134 |
15 | Apollo, se ti sa de medesina | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 172 | |
16 | Aspettar uno che no vegna mai / Aver un pare che no crepa mai | Sc: ABBA ABBA DCD CDC dEE...xYY | Carminati 1993, 205-11 (manca un verso nella redazione di Pa, cc. 61v-64v, che ho confrontato col più corretto M17, cc. 197r-202r) | |
17 | Averia messo pegno mio fradel | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 150 | |
18 | Aveva el cuor tra l’alegrezza e ’l riso | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 230 | |
19 | Brama pur chi se vuol fra armeri d’oro | C: AbCDdB cAEfeGgFHhII (8) + XyyxZZ (I e III st. con varianti)105 | Carminati 1993, 88-95, che legge però erroneamente armezi | |
20 | Cagnoletta mia bella | M: abacbcDD | Carminati 2001, 42 | |
21 | ? Cape, besogna ben zogar lontan | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 2001, 99-101 (dubbia: solo in Br) | |
22 | ? Caro e dolçe tesoro | Can: abAbCC (12), ultima stanza abAbcC106 | Carminati 2001, 73-76 (dubbia: solo alla fine di Br) | |
23 | ? Certi cavei rizzotti inanellai | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE | Carminati 1993, 214 (dubbia: solo in Br) | |
24 | ? Che fortuna? Che fato? Che destin? | C: ABC BAC CDEEDdFF | Carminati 2001, 63-69 (il testo è isolato rispetto al corpus per motivi metrici e tematici) | |
25 | Che mi abbia da morir senza aver visto | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 233 | |
26 | *Chiaretta bella, mi no posso pì | Can: AAx5b5B (8), x irrelata | Carminati 2001, 80-82 (attribuita a «El so moroso» alla fine di Br) | |
27 | Chi maledisse Amor, chi la so sorte | O (4) | C8, c. 176r-v | |
28 | Colonna mia, per do o tre volte sole | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 154 | |
29 | ? Colù che per servir crede a custia | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 232 (dubbia: solo alla fine di Br) | |
30 | Come chi sente un pezzo una campana | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 163 | |
31 | Come d’una zigala e una gazuola | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 153 | |
32 | ? Corè, vu che sé gravii de tesoro | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 2001, 94 (dubbia: solo alla fine di Br) | |
33 | Co ti fa profession de no voler | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 131 | |
34 | Co ti ha qualche vestura strafozà | S: ABBA ABBA CDC [mutilo] | Carminati 1993, 120 | |
35 | Co’ un ha grazia e che ’l veste pulio | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 216 | |
36 | ? Custìa me mostra de portar amor | S: ABBA ABBA CDC DCD | V6, c. 51v (dubbia: cfr. Ferrari 2015, 375-76) | |
37 | Dal nasser tutti ha el cancaro che i magna | S: ABBA ABBA CDC DCD | Agostini 1999 | |
38 | ? Dapò che sì dolce, anima mia | T | Carminati 2001 154 (dubbia: solo in Br) | |
39 | *Daspuò che no volè che mi sia solo | S | Il testo è da attribuire a Benetto Corner (Agostini 1991) | |
40 | Daspuò che son intrà in pensier sì vario | T | Milani 1994, 61-67 | |
41 | Daspuò l’aver sette anni spasizao | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE | Carminati 1993, 184 | |
42 | ? Do donne me sé drio quasi ogni dì | O (1) | Padoan 1985, 20 (dubbia: cfr.Ferrari 2017, 29 e n.) | |
43 | ? Donca mi sarò el becco mal vardao107 | S: ABBA ABBA CDC DCD | V6, c. 75r-v (dubbia: cfr. Ferrari 2015, 376) | |
44 | Donna, pompa del ciel unica e sola | C: AbA cCB bdDEffEF- FGG (8) + WxxWYYZZ | Carminati 2001, 47-55 | |
45 | ? Donna, sé co’ sé ’l mal de maroele | S: ABBA ABBA CDC DCD | V6, c. 71r (dubbia: cfr. Ferrari 2015, 376) | |
46 | ? Donna, ti no me vuol | Sm: abba abba cdc dcd | Carminati 2001, 113 (in M2, 35r il testo è cassato con linee trasversali e separato dal precedente da una linea orizzontale. L’attribuzione a Venier sembrerebbe riguardare solo il testo che precede sulla stessa facciata, 138. Il testo è dato a Venier da Agostini 1982, 42, ma non più da Agostini 1985) | |
47 | Eccetto l’uomo, ogni altra bestia ha ben | S: ABBA ABBA CDC DCD | Agostini 1999 (ma cfr. Ferrari 2015, 386) | |
48 | ? El farme a mi favori infina al baso | S: ABBA ABBA CDC DCD | V6, c. 80r (dubbia: cfr. Ferrari 2015, 376) | |
49 | El far spese onorade in compagnia | S: ABBA ABBA CDC DCD | M2, c. 232r | |
50 | El retratto e l’impresa è buona e bella | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 141 | |
51 | El vostro dir tornè, caro ben mio | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF | Carminati 1993, 137 | |
52 | Fa’ el pezzo che ti puol, al mio despetto | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 132 | |
53 | Fa pur quanto ti sa | M: abaCCDDeE | Carminati 2001, 41 | |
54 | ? Fia mia, visetto bello inzucarao | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE | Carminati 1993, 220 (dubbia: solo in Br) | |
55 | Fin c’ho scritto de ti, Livia Verzotta | O (2 redazioni di diversa lunghezza) | V6, cc. 17r-27r e 62r-69r (per l’attribuzione cfr. Ferrari 2015, 374-76) | |
56 | Franca, credeme che per san Maffio | T | Carminati 2001, 196-202 | |
57 | Ha pur vogiù sta sorte traditora | T | Carminati 2001, 137-41 | |
58 | Haver mare cattiva e pare avaro | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 143 (per l’attribuzione cfr. Ferrari 2015, 375) | |
59 | Ho ditto, e digo, e dirò finchè viva | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE | Carminati 2001, 93 | |
60 | Ho quel serpente della zelosia | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 162 | |
61 | Ho reçevù la vostra, anima mia | T | Carminati 2001, 190-95 | |
62 | Infatti la lussuria della golla | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 164 | |
63 | In st’acqua de purissimo cristal | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 218 | |
64 | La beltà, la virtù, la cortesia | S: ABBA ABBA CDC DCD | Balduino 2008, 142-43; una precedente redazione in Ferrari 2017, 37 | |
65 | La notte che versè la porta al dì | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 128 (che però legge «serré» per «versè», con Dazzi 1956, 354) | |
66 | La terra e ’l ciel s’averse | C: abb caC dDefggFeHH (5) + wwXyZZ | Carminati 1993, 75-79 | |
67 | ? L’è tropo ogni tre mesi un quarto d’ora | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 1993, 226-29 (dubbia: solo in Br) | |
68 | *Madonna, alla natura che vu avè | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 139 (da attribuire a Benetto Corner) | |
69 | *Madonna, el se rasona assa’ de vu | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 1993, 198 (da attribuire a Domenico Venier) | |
70 | *Madonna, quandu vu gieri fuora | S | (da attribuire a Benetto Corner) | |
71 | ? Mai fiché marangon tante brochete | S: ABBA ABBA CDE CDE | Carminati 2001, 95 (dubbia: solo in Br) | |
72 | Me meto, co’ fe’ Orlando, anca mi in mar | S: ABAB ABAB CDC DCD | Carminati 2001, 114 | |
73 | Metteme a rosto, a lesso, su la graella | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 171 | |
74 | ? M’ho consumà aspetandote, ben mio | T | Padoan 1985, 25-29 (dubbia:cfr. Ferrari 2017, 29 e n.) | |
75 | Mi che la daria marza a un zaratan | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 151 | |
76 | Mi che son in Amor un paladin | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 217 | |
77 | Mo, se per far cognoser chiaramente | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 144 | |
78 | Mo, se se chiama Dio l’eterno Amor | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 136 | |
79 | Mo, se ti fussi un pochetin pì giotta | Sc: ABBA ABBA CDC DCDdEE | Carminati 1993, 186 | |
80 | ? No è stimà ’l Dio d’Amor | M: aBBaCc | Carminati 2001, 40 (dubbia: solo alla fine di Br) | |
81 | No me cassè, Madonna, per un peto | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 1993, 165-67 | |
82 | ? Non haver tropo voia d’imparar | S: ABBA ABBA CDC DCD | V6, c. 52r (dubbia secondo Ferrari 2015, p. 376, ma sembra piuttosto una diversa redazione di 30) | |
83 | No ve maravegié, sia chi ve vogia | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 145 (una redazione probabilmente precedente in Ferrari 2015, 384) | |
84 | No ve maravegiè, speranza mia | T | Carminati 2001, 173-79 | |
85 | No voio più cantar come che feva | C. frottola: A(a)B(b)C(c)D- (d)E(e)F(f)GG+(x)Y(x)ZZ | Carminati 2001, 124-30 cfr. con una versione più breve in Pa, 9v-10v | |
86 | O Amor, perché no songio alora stao | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 173 | |
87 | O bon tempo de Roma, o compagnia | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 1993, 168 | |
88 | Occhi, pianzè, chè ghe ne avè cason | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 129 | |
89 | *O che i me ha ditto el vero o che i se insùnia | T | (da attribuire a Domenico Venier) | |
90 | O Cielo e’ m’inzenocchio e mando fuora | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 126 | |
91 | Ohimè, com’è possibil che se faga | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 204 | |
92 | Ohimè, cuor mio, mi son pur partio via | Sc: ABBA ABBA CDC DCDdEE | Carminati 1993, 140 | |
93 | O man de puro latte | Can: ababCC108 (6) + yZZ | Carminati 1993, 80-82 | |
94 | O quante volte al dì son un lion | S: ABBA ABBA CDC DCD | Agostini 1999 | |
95 | ? O vu che stè la suso | Can: ababx5ccdD (16) × irrelato | Carminati 2001, 83-90 (dubbia: solo alla fine di Br) | |
96 | ? Passerà pur anca sti quattro dì | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 2001, 96-98 (dubbia: solo in Br) | |
97 | Perché no spiero mai | M: aABcBcDD | Carminati 2001, 43 | |
98 | Per far prova mecanica plebea | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 1993, 188-91 | |
99 | Per far una leggiadra sua vendetta | M: ABBaCDCDeFEFgG | Carminati 2001, 44 | |
100 | Più presto a un orbo, a favilla a favilla | O (6) | Carminati 2001, 118-21 (rispetto ad Agostini 1985, va segnalato che il testo è presente anche in Pa, 10v-11v) | |
101 | Potta, che in corte magno sempre a secco | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 159 | |
102 | Potta, chi l’avesse ditto che un par mio | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 122 | |
103 | Prima se trovarà ogni potta netta | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 1993, 174-78 | |
104 | *Quando ve digo che nissun ne passa | T | M13, cc. 36r-37v (la rubrica «Del Venier al Corner» suggerisce l’attribuzione a Domenico). | |
105 | Quanto tempo s’aspetta un’allegrezza | S: ABAB ABAB CDC DCD | Carminati 1993, 130 | |
106 | *Quel che para senza cassa un orinal | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE | Carminati 1993, 212. (da attribuire a Domenico Venier) | |
107 | Questa è la mior casa de sta terra | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 1993, 155-57 | |
108 | ? Questa è la quarta lettera che scrivo | T | Carminati 2001, 142-47(dubbia: solo alla fine di Br) | |
109 | Se ben ho in vuodo de no far mai pì | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 170 | |
110 | Se da rabbia, cuor mio, se da martelo | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 149 | |
111 | Segnor, se per pietà no ti soccorri | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 119 | |
112 | Se no volè che più | M: aaBbcC | Carminati 2001, 37 | |
113 | Se s’accordasse in ciel ciascuna stella | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 125 | |
114 | Se ti ha intention de darme da chiavar | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 179-81 | |
115 | *Se tutte quelle volte che ve vien | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF | Carminati 1993, 200 (da attribuire a Domenico Venier) | |
116 | Se vago mai pì in luoghi de respeto | T | Carminati 2001, 180-83 | |
117 | Se vegnisse un dì voia alla natura | T | Carminati 2001, 148-53 | |
118 | ? Signora mia, vu manizè per tutto | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 231 (dubbia: solo in Br) | |
119 | *Soleva dir un certo bon compagno | T | Carminati 2001, 224 (attribuito ad Alessandro Becher) | |
120 | Son amalà qua in letto, e se credesse | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 160 | |
121 | ? Son come xe talun ch’è roto in mar | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 234 (dubbia: solo alla fine di Br) | |
122 | Songio mi, Amor, quel servidor de dame? | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 127 | |
123 | Son tra la fame e tra la poesia | T | Carminati 2001, 157-65 | |
124 | *Sta note forsi un’ora inanzi dì | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 1993, 223 (da attribuire a Domenico Venier) | |
125 | T’ho cognossù sì gran vaca sfondrà | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 182 | |
126 | Tira, puttana, che no tia ha un cavello | O (4) | Carminati 2001, 122-23 | |
127 | Togo la penna in man, Livia Verzotta | T | Carminati 2001, 213-23 | |
128 | Toia el mio fronte, toia le mie zanze | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 152 | |
129 | *Tra dir, de quante donne ho mai sentue | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE | Carminati 1993, 202, che legge però erroneamente Fradei, de quante etc. (da attribuire a Domenico Venier) | |
130 | ? Tra la rabbia, la stizza e tra ’l martello | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 222 (dubbia: solo in Br) | |
131 | Tra quante frezze, cazzo, che ti ha tratto | C: AbC Abb CddEFfEe- gHhG (8) + UuVVwwxXY- yzZ | Carminati 1993, 96-103 | |
132 | Tutti i miei amori alfin conclude in berta | S: ABAB ABAB CDC DCD / nella redazione di Vat1 lo schema è ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 121, ma cfr. con Vat1, c. 20r. | |
133 | ? Un gobo fato a son de melon | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 2001, 109 (dubbio: solo alla fine di Br) | |
134 | Un mondo me xe drio quasi ogni dì | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 187 | |
135 | Un povero anemal, una bestiola | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 158 | |
136 | V’amo, fia mia, quanto posso; e si non v’amo | S: ABBA ABBA CDC DCD | Ferrari 2017, 35 | |
137 | Vedo una donna e come cosa bella | M: ABccABbdDeE | Carminati 2001, 39 | |
138 | Vegnerà mai quell’ora | Sm: abba abba cdc dcd | Carminati 2001,112 | |
139 | Veronica, ver unica puttana | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Milani 1994, 68-74 | |
140 | Vu m’avè vento el cuor | M: aAbBcddCeE | Carminati 2001, 35 | |
141 | ? Vu ridè, vu burlè | M: abABCCDD | Carminati 2001, 38 (dubbia: solo alla fine di Br) | |
142 | ? Vu savè pur se xe do mesi e più | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 219 (dubbia: solo in Br) | |
143 | Zà che a lezzer, pttana, l’altra mia | Sc: ABBA ABBA CDC DCD dEE...xYY | Carminati 1993, 192-97 | |
144 | Zonta alla natural mia impatientia | S: ABBA ABBA CDC DCD | Carminati 1993, 124, ma cfr. con V6, c. 8v |
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1 Sulla tradizione di Maffio Venier i punti di riferimento sono i seguenti: Armando Balduino, Petrarchismo veneto e tradizione manoscritta (1976), Appunti sul petrarchismo metrico nella lirica del Quattrocento e del Cinquecento (1995), Restauri e recuperi per Maffio Venier (1979), in Id., Periferie del petrarchismo, a cura di Beatrice Bartolomeo e Attilio Motta, Padova, Antenore, 2008, pp. 3-30, 31-90 e 141-76; Maffio Venier, Tre liriche, in Giorgio Padoan (a cura di), «Quaderni veneti», 1 (1985), pp. 7-30; Tiziana Agostini Nordio, «La Strazzosa», canzone di Maffio Venier. Edizione critica, in Ead. e Valerio Vianello, Contributi rinascimentali. Venezia e Firenze, Abano, Francisci, 1982, pp. 9-131; T. Agostini Nordio, Rime dialettali attribuite a Maffio Venier. Primo regesto, «Quaderni veneti», 2 (1985), pp. 7-23; Ead., Per un catalogo delle rime di Maffio Venier. Secondo e terzo regesto, «Quaderni veneti», 5 (1987), pp. 7-20; Ead., Poesie dialettali di Domenico Venier, «Quaderni veneti», 14 (1991), pp. 33-56; Ead., Introduzione, in M. Venier, Canzoni e sonetti, a cura di Attilio Carminati, Venezia, Corbo e Fiore, 1993, pp. 13-20; Ead., Istinto e ragione in Maffio Venieri – tre sonetti, nozze Cerasi Borsetto, Venezia, 1999. Più recentemente un considerevole allargamento della tradizione e indicazioni per una migliore definizione del corpus sono venuti da Mattia Ferrari, Per l’edizione delle rime in veneziano di Maffio Venier. Il ms. Borghesiano 103 della Biblioteca Apostolica Vaticana, «Studi di filologia italiana», 73 (2015), pp. 367-89 e Id., Italiano letterario e veneziano nelle rime di Maffio Venier, in Sergio Lubello (a cura di), In fieri. Ricerche di linguistica italiana, Atti della Ia giornata dell’ASLI per i dottorandi (26-27 novembre 2015, Firenze, Accademia della Crusca), Firenze, Cesati, 2017, pp. 27-39. La maggior parte dei componimenti di Venier si può leggere in M. Venier, Canzoni e sonetti, cit. e Id., Poesie diverse, a cura di A. Carminati, Venezia, Corbo e Fiore, 2001, iniziative editoriali lodevolissime, ma filologicamente non sempre affidabili. Strumenti lessicografici fond mentali sono Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Venezia, Cecchini, 1856; Manlio Cortelazzo, Dizionario veneziano della lingua e della cultura popolare nel XVI secolo, Limena, La Linea, 2007; Ivano Paccagnella, Vocabolario del pavano (XIV-XVII secolo), Padova, Esedra, 2012. Per un panorama complessivo della letteratura in dialetto in Veneto cfr. Alfredo Stussi, La letteratura in dialetto nel Veneto, in Id., Lingua, dialetto e letteratura, Torino, Einaudi, 1993, pp. 64-106.
2 Per la biografia si rimanda a Nicola Ruggieri, Maffio Venier (Arcivescovo e letterato veneziano del Cinquecento), Udine, Bonetti, 1909, da integrare con le informazioni riportate da Valnea Rudmann, Lettura della canzone per la peste di Venezia di Maffio Venier, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di scienze morali e lettere», CXXI, 1962-63, pp. 599-641: 604n.; Gino Belloni, Maffio Venier e la poesia dialettale veneziana, in Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, UTET, 1986, vol. IV, pp. 389-93; M. Ferrari, Per l’edizione delle rime in veneziano di Maffio Venier, cit., p. 367n.
3 A. Balduino, Periferie, cit., pp. 141-76.
4 Per le rime italiane di Venier si rimanda a M. Veniero, Alcune liriche poesie, in Rime di Domenico Veniero, raccolte dall’ab. Pierantonio Serassi, Bergamo, Lancellotto, 1751, pp. 147-81; N. Ruggieri, Maffio Venier, cit., pp. 141-47; V. Rudmann, Lettura della canzone per la peste di Venezia, cit., passim; A. Balduino, Periferie, cit., pp. 141-76; Id., Manuale di filologia italiana, Firenze, Sansoni, 1989, pp. 176-80; T. Agostini Nordio, Per un catalogo, cit., passim; M. Ferrari, Italiano letterario, cit. passim.
5 Alla luce degli studi più recenti non sono più affidabili le sezioni a lui dedicate nelle antologie dialettali a cura di Giacinto Spagnoletti e Cesare Vivaldi, Poesia dialettale dal Rinascimento a oggi, Milano, Garzanti, 1991, pp. 281-91, e Franco Brevini (a cura di), La poesia in dialetto: storia e testi dalle origini al Novecento, Milano, Mondadori, 1999, pp. 626-41, che dipendono dalla comunque meritoria scelta di Manlio Dazzi, Maffìo Venier, in Id. (a cura di), Il fiore della lirica veneziana. Dal Duecento al Cinquecento, Venezia, Neri Pozza, 1956, pp. 345-414.
6 Andrebbero indagati nel dettaglio i debiti con Berni – che cito da Rime, a cura di Danilo Romei, Milano, Mursia, 1985 – ma possiamo segnalare qui alcune consonanze tematiche, come la critica alle «puttane» malate, puzzolenti ed esose, specie nel Capitolo a suo compare e nel Sonetto delle puttane, dove troviamo anche la preferenza orgogliosamente accordata alla masturbazione: il v. 17, «son le cagioni ch’io mi meni il cazzo», risuona infatti nel verso finale della canzone 3 e del sonetto 50 di Venier. La stessa Strazzosa difficilmente è pensabile senza il precedente del Sonetto della casa del Bernia (vedi ad es. i vv. 39-41, «Faremo ad un piattello, / voi e mia madre et io, le fante e’ fanti; / poi staremo in un letto tutti quanti»).
7 Per numeri d’ordine e fonti dei testi, cfr. l’Appendice. Non riporto mai le maiuscole a inizio verso e intervengo talvolta sulla punteggiatura, specie nei testi trascritti da Carminati. Nelle traduzioni in nota e a testo ho cercato di conservare anche i pleonasmi e l’uso liberissimo del che propri dell’originale.
8 ‘Se non c’è fetore, ma solo il rumore, non si può anche dirlo un sospiro? [...] vorrei che fossero nominati dei giudici per questi accidenti, dei prefetti’.
9 È stato già notato che questo sonetto è uno dei pochi luoghi dove evidente è la lezione delle Rime pescatorie di Andrea Calmo, che si aprono proprio col sonetto No ve maravegié cari signori (cfr. Andrea Calmo, Le bizzarre, faconde et ingegnose rime pescatorie, testo critico e commento a cura di G. Belloni, Venezia, Marsilio, 2003, p. 51).
10 ‘E per non starvi a fare tante parole, per non starvi a dire che per poco non sono morto al gran tormento che ho avuto, come fanno questi innamorati da niente, // se volete che sia vostro amante, son proprio per voi’.
11 Ma vedi comunque le considerazioni in questo senso nei citati articoli di M. Ferrari.
12 Per lo scambio con la Franco cfr. almeno Il libro chiuso di Maffìo Venier (La tenzone con Veronica Franco), a cura di M. Dazzi, Venezia, Neri Pozza, 1956; Margaret F. Rosenthal, The honest courtesan. Veronica Franco citizen and writer in sixteenth-century Venice, Chicago, University of Chicago Press, 1992; Dolora Chapelle Wojciehowski, Veronica Franco vs. Maffio Venier: Sex, Death, and Poetry in Cinquecento Venice, «Italica», 3-4 (2006), pp. 637-90; Courtney Quaintance, Textual masculinity and the exchange of women in Renaissance Venice, Toronto, University of Toronto Press, 2015. Per i testi contro Livia Azzalina cfr. Fabien Coletti, Da «principessa di tutte le cortigiane» à «rezina de le bardasse»: Livia Azzalina dans les textes satiriques vénitiens, in Cécile Berger e F. Coletti (a cura di), Les figures du féminin «en rupture» à Venise: courtisanes, actrices, épouses, servantes et ‘putte’ du XVIe au XVIIIe siècle, Actes des Journées d’Étude (16-17 janvier 2015, Université Toulouse II-Jean Jaurès), Toulouse, Colléction de l’Ecrit, 2016, pp. 17-82.
13 Notevole che l’enumerazione sia non solo un fatto stilistico, ma venga in qualche modo ricondotta all’oggetto stesso dell’invettiva, definito ai vv. 102-3 «el summario d’ogni malattia, / e l’alfabetto della furberia». Un vero e proprio catalogo di prostitute è poi 40, Daspuò che son entrà in pensier sì vario.
14 Una panoramica sui rimedi dell’epoca contro la sifilide in Nicholas Terpstra, Ragazze perdute. Sesso e morte nella Firenze del Rinascimento, Roma, Carocci, 2010, pp. 187-212.
15 ‘Sei così marcia e così sporca sotto che la mia musa, nauseata di te, volta il muso in su e i passi altrove, e così smetto di scrivere’.
16 Un sintetico profilo della tradizione letteraria dell’invettiva misogina da Boccaccio a Ferrante Pallavicino è Paola Cosentino, L’invettiva misogina: dal Corbaccio agli scritti libertini del ’600, in Giuseppe Crimi e Cristiano Spila (a cura di), Le scritture dell’ira. Voci e modi dell’invettiva nella letteratura italiana, Atti di convegno (16 aprile 2015, Fondazione Marco Besso, Roma), Roma, Roma TrE-Press, 2016, pp. 29-49.
17 Si vedano poi i testi raccolti in Marisa Milani (a cura di), Contro le puttane. Rime venete del XVI secolo, Bassano del Grappa, Gherardi & Tassotti, 1994.
18 Cfr. G. Padoan, Il mondo delle cortigiane nella letteratura rinascimentale (e il caso di Maffio Venier), in Id., Rinascimento in controluce, Ravenna, Longo, 1994, pp. 179-206; Paolo Pucci, Decostruzione disgustosa e definizione di classe nella Tariffa delle puttane di Venegia, «Rivista di letteratura italiana» XXVIII (2010), n. 1, pp. 29-49; C. Quaintance, Textual masculinity and the exchange of women in Renaissance Venice, cit., passim; F. Coletti, Da «principessa di tutte le cortigiane» à «rezina de le bardasse»: Livia Azzalina dans les textes satiriques vénitiens, cit., passim.
19 ‘Tua madre, gravida di duecento e più, ti fece e ti coprì con una stuoia in un cesto di paglia’.
20 ‘Ma il volere troppi soldi è un gran vizio’.
21 ‘E se, per farmi amare, amaramente ho da darle dei soldi quando le ho donato il cuore, mi faccio beffe di chi mi porta amore’.
22 ‘Quando uno vi vuol baciare, volete cinque o sei scudi, e a fatica con cinquanta vi lasciate scopare’.
23 ‘C’è forse carestia del vostro sesso? Sono perse o svanite le cortigiane, per compromettere a tal punto gli scrigni? Non c’è casa che non abbia puttane’. Cfr. anche 114, rivolto sempre a una prostituta, dove pure il poeta pare disposto a pagare «do mocenighi», ma chiede ragione di un prezzo troppo alto: «Mo che estu, po far mi, più d’una donna?» (‘sei forse, perdio, più di una donna?’).
24 ‘La mia dolcezza e il mio piacere sono là dove c’è virtù, dove c’è lascivia’.
25 ‘Un migliaio [di fiche] strusciate tutto il giorno con forbicine, impacchi e distillati’.
26 ‘Che fra gioielli, oro e velluto è la fica che è tutta formaggio, mocci e brodo’.
27 ‘[Si fotte] sicuri da pericoli e da imbrogli, da ogni malattia venerea’. Alla massera (‘serva, governante’) sono dedicate le canzoni 19 e 131.
28 ‘Che lunghe servitù! che passeggiare tutto il giorno sospiroso e sospettoso!’.
29 ‘Che buttar via denari in ruffiane per convincerle’.
30 ‘Se senza questi inganni e queste disgrazie, con quattro parolette, su una madia si fotte da signori’.
31 ‘Perché non sono capace di lodare almeno in qualche parte le grazie, la maniera unica e rara del tuo porgere la fica’. Quello dell’inadeguatezza del poeta al compito della lode è comunque uno dei motivi più ricorrenti in Venier, e talora compare anche nella sua funzione topica, in componimenti d’occasione come la lode della contessa di Sala, Barbara Sanseverino (44), o di Francesco I de’ Medici (72).
32 Tra i motivi della lirica erotica rivisitati da Venier troviamo p. es. il sogno d’amore che diviene un sogno bagnato (65), l’amore che colpisce mentre la guardia è bassa, ma il colpo è la vista del seno (122), la forza della gelosia che lo fa tremare anche di un pulcino (76).
33 ‘Ha voluto questa sorte traditrice [...] che io mi separi da voi prima della morte. Anzi, sono morto e non sono partito, perché a stare senza di voi sono un’immagine, e in voi vive quel cuore che era mio’.
34 ‘La salute mi è lontana e il danno prossimo’.
35 ‘E poiché son lontano dal mio fuoco mi brucio più che mai’.
36 ‘Gatte stizzite’.
37 ‘Che venga la peste ai miei viaggi’.
38 ‘Non faccio più discorsi sui segnali, non faccio più commenti sugli sguardi, non annoto le mie pene e le vostre colpe. // Non mi dispero se vi vedo tardi’.
39 ‘Non vado solo in luoghi ritirati’.
40 ‘Amore, sia lodato Dio, mangio i miei pasti, dormo dieci ore prima di voltarmi’.
41 ‘Credo, signora, che cachiate talvolta, che prima non potevo darmelo a intendere’. Su questo motivo cfr. anche i ben più corrivi 86 e 91.
42 ‘Sembra che Amore le abbia fatte sedendosi, avendogli impresso sopra le chiappe’.
43 ‘Ma perché voi siete tutta scolpita in me, conficcata più a fondo di un nodo in una tavola di legno’.
44 M. Ferrari, Italiano letterario, cit., p. 34.
45 T. Agostini Nordio, Istinto e ragione, cit., passim. Il parallelo nasce in particolare dalla vicinanza tra i vv. 5-6 di 47, «L’omo d’ogni disgraçia è prima pien / che l’abia se puol dir preso figura», e i vv. 41-42 della canzone Deus di Celio Magno, «Apre nascendo l’uom pria quasi al pianto / ch’a l’aria gli occhi» (che a sua volta è probabile fonte di un famoso incipit di Marino, «Apre l’uomo infelice allor che nasce / in questa vita di miserie piena / pria ch’al Sol, gli occhi al pianto»).
46 Secondo il mio incipitario sono 83, 47, 76, 60, 135, 94, 14, 110, 128, 75, 17, 11, 78, 64, 136, 144. Vedi la tavola del codice in M. Ferrari, Per l’edizione delle rime in veneziano di Maffio Venier, cit., pp. 379-80.
47 Carampane era un quartiere all’epoca destinato alla prostituzione.
48 ‘Gli ebrei vedranno certamente il loro messia andar su e giù per Marzarìa’. Marzarìa (lett. ‘Merceria’) è una zona di mercato.
49 ‘Questa terra avrà un mulino in ogni canale’.
50 Sull’importanza di questi testi per la ricostruzione dell’ambiente urbano e del suo lessico cfr. M. Cortelazzo, Il dialetto di Maffio Venier, in M. Venier, Canzoni e sonetti, cit., pp. 7-11.
51 L’integrazione proposta da Carminati al v. 8, «quanto (che) val», non è necessaria, essendo possibile la dialefe tra «donna» e «eccellente». Al v. 5, che l’editore risolve «(e) strazzerà», è forse ipotizzabile un’erronea lettura dieretica d’autore di «anguila».
52 ‘Lampi che ti tolgono la vista’.
53 Cfr. almeno Giovanni Pozzi, Poesia per gioco, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 117-20. Venier ricorre alla figura anche nel sonetto 78 e in una delle stanze dell’inedito 55 (che trascrivo da V6, c. 22v): «Fra el mal franzoso che t’ha impiagà tutta, / che t’ha magnà la carne e levà el pelo, / fra l’esser de natura cusì brutta / quanto possa far l’arte col penelo / e fra la stracca età che t’ha destrutta, / fra l’altre gratie che ti ha habbù dal cielo, / el ciel, l’età, natura e ’l mal franzoso / t’ha redutta in t’un mostro spaventoso».
54 Cfr. G. Pozzi, Poesia per gioco, cit., pp. 121-28. Si vedano almeno anche Edoardo Taddeo, Il manierismo letterario e i lirici veneziani del tardo cinquecento, Roma, Bulzoni, 1974 e Francesco Erspamer, Petrarchismo e manierismo nella lirica del secondo Cinquecento, in Storia della cultura veneta, Vicenza, Neri Pozza, 1983, vol. IV, to. 1, pp. 189-222.
55 Su questa riscrittura cfr. A. Balduino, Periferie, cit., pp. 142-44, e M. Ferrari, Italiano letterario, cit., pp. 37-39. Al modello di Domenico (V’amo, donna, e di me, sol perch’io v’amo) è ispirato anche il sonetto 136. I due testi ivi, p. 35.
56 Cito sempre da Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 2004.
57 Rispetto all’interpretazione di A. Carminati, Presentazione, in M. Venier, Sonetti e canzoni, cit., pp. 23-71: p. 43, mi pare che il riferimento al suicidio nell’ultima terzina sia diretto non alla morte di Livia (che non può essere Livia Azzalina, poiché è morta dopo di lui), ma a quella del poeta, che cerca di spronarsi con l’esempio a compiere quel gesto. Ho dunque sostituito il punto interrogativo che nell’edizione chiude il v. 13 con la virgola. Il suicida lodato sia nella letteratura antica che in quella moderna potrebbe essere Catone Uticense, per come ne esce dalla Farsalia di Lucano e dal Purgatorio di Dante, sebbene si tratti di un suicidio per amore della libertà e non per dolore.
58 ‘Invero la lussuria della gola manda a monte quella del “coso”, sicché, puttana, datti pure alla pazza gioia, che per quanto mi riguarda puoi chiudere la scuola’.
59 ‘Dove sono le tue frecce e le tue fiamme, che mi avevano in questi giorni ridotto così male? Va’ a ficcarle in un pane o in un prosciutto se vuoi che torni sotto il tuo dominio’. «Va’ le afficca» non va separato da virgola, come nell’edizione di Carminati, poiché si tratta di un doppio imperativo, «quella particolare formula di comando formata con coordinazione giustappositiva di due distinti imperativi alla 2a pers. sing. o pl. di cui il primo sia un verbo di moto» (M. Milani, Snaturalité e deformazione nella lingua teatrale di Ruzante, in Ead., El pì bel favelare del mondo. Saggi ruzzantiani, a cura di I. Paccagnella, Padova, Esedra, 2000, pp. 45-129: p. 60). Per la bibliografia sul fenomeno si rimanda ad A. Calmo, Il Saltuzza, a cura di Luca D’Onghia, Padova, Esedra, 2006, p. 180.
60 ‘Il mio pensiero, che andava così in basso che non si alzava più di un pulcino, adesso va a spasso nel cielo di Giove’.
61 ‘Chi teme e chi desidera la morte, chi ride di continuo e chi si lamenta’.
62 ‘O quante volte al giorno sono un leone, o quante volte al giorno sono un agnello, quante m’innalzo col pensiero al cielo e poi mi lascio stramazzare’.
63 Lo scopo di questa rapida rassegna è di mettere a fuoco alcuni elementi ricorrenti dell’immaginario, e non posso dunque concentrarmi in maniera sistematica sulla varia forma superficiale che la metafora e ancora di più la similitudine assumono in Venier – dalle similitudini introdotte mediante interrogative retoriche (35, 9-11 «Che val la gratia senza un bel color? [...] Quel che val una ruosa senza odor»), a quelle introdotte da un verbo come sembrare/parere (99, 38 «te pari una vesiga desgionfà», ‘sembri una vescica sgonfia’), a quelle che hanno tutto l’aspetto di comparazioni senza modalizzatore al confine con la metafora (98, 10-11 «che ’l predicarte a ti la castità / xe a dir a un ugonotto va al Perdon»,‘predicare a te la castità è dire a ugonotto va’ al Perdono’) – che meriterebbe un apposito esame.
64 Non a caso sono figure che troviamo anche nel Venier italiano: Nei suoi graditi e solitari errori, 9 «Io vidi il suo bel viso farsi un fonte»; Questi colli d’intorno or non son quelli, 12 «Bianca aurora».
65 ‘Musa, è tempo di attraccare, sei in un mare infinito, con questo battello distrutto, governato da un nocchiero così poco avveduto’.
66 ‘Come la luna se riluce in mezzo a due camini come in un bavero, così splendono il viso e i raggi di costei fra straccio e straccio’.
67 ‘Benedetti i vezzi e le civetterie, che a chi le sente cavano il cuore, o, come si fa a un melone, lo fanno a fette’.
68 ‘Sei certo colla che attacca, ma i soldi sono il rimedio che stacca’.
69 ‘Non posso concepire un’idea così luminosa che, accosto al sole che riluce al mio pensiero, ogni altro non mi paia un lanternino’.
70 ‘La vita è più breve di quella di un albero forato’.
71 ‘Ché con più stracci e meno vestiti intorno, più scopre i fianchi bianchi e carnosi, così com’è più bello il giorno con meno nuvole’.
72 ‘Mi fate diventare umile agnello’.
73 ‘Ma quale leone non diverrebbe un cagnolino?’. Ancora dal Venier italiano cfr. Nei suoi graditi e solitari errori, 12 «Potea ferita intenerir un angue», e Questa misera fral vita mortale, 54-55 «qual cor di rio serpente / non de’ farsi clemente».
74 ‘Che per adesso sono come quei gatti che lasciano il topo per mangiare il lardo’.
75 ‘Sono più ostinato di un mulo’.
76 ‘un letto pomposo che ha dentro una Gabrina, [...] fa in esso un viso d’orca l’effetto che fa una gazza lurida in una bella gabbia’. Il passo funge anche da esempio dell’uso di personaggi del romanzo cavalleresco o della mitologia con valore antonomastico.
77 ‘I meriti che avete superano il cielo, e se li inseguo, di ramo in ramo, sembro una farfalla dietro a uno storno’.
78 ‘Cane da spazzatura’.
79 ‘Avete in voi un raggio che ha del divino, che fa un buco nell’aria così bello che rasserena chiunque vi sia vicino. E chi si concentra vede attraverso quello, come attraverso una cerbottana, un poco del piacere degli dei del cielo’.
80 ‘Per fare uno sforzo il cielo prese l’alambicco e vi fece colare attraverso per mano della natura quante grazie avesse e una pregiata composizione, poi, eliminati i difetti, riempì con esse la pancia di vostra madre’. Ma si tenga presente che nella tradizione l’intera stanza si presenta con diverse varianti.
81 98, 31-32 «ti retrazzi pi al curame / che no somegia la merda el ledame» (qui con tautologia: ‘ti accosti più al cuoio di quanto non assomigli la merda al letame’); 128, 5 «romper le mie lanze»; 79, 15-17 «Mo più tosto vorrave / romper la chiave e la to serradura / che spender tanto t’una chiavadura» (‘ma piuttosto vorrei romper la chiave e la tua serratura che spender tanto in una chiavata’); 131, 65 «un vecchio che ha el verzotto en pe’ de pinca» (‘un vecchio che ha una verza al posto del pene’; «verzotto fiapo» con allusione all’impotenza già in A. Calmo, Rodiana, a cura di Piermario Vescovo, Padova, Antenore, 1985, p. 159 e Glossario, p. 260); 131, 123-25 «co fa un saltamartin / sta dretto el mio puttin / co ’l viso insbuferlao, pianzotto e rosso» (‘come fa un fantoccio stra dritto il mio bambino, col viso rigonfio, lacrimoso e rosso’). E disfemico può essere piuttosto il tenore che il veicolo: 30, 1-4 «Come chi sente spesso una campana / che sbùsena dopo le recchie un’hora, / se mi vago in bordel cusì tall’hora, / ho tutto el dì in la vista una puttana» (‘come chi sente spesso una campana, che poi le orecchie ronzano per un’ora, così se io vado talvolta al bordello, ho tutto il giorno davanti agli occhi una puttana’).
82 Lo nota già M. Ferrari, Italiano letterario, cit., p. 33 e n. Le citazioni sono da F. Petrarca, Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di Vinicio Pacca e Laura Paolino, Milano, Mondadori, 1996.
83 ‘Il migliore e il più perfetto “ch’Argo e Micena e Troia se ne sente”’.
84 ‘Non aveva di che mantenere un ragazzo che lo conducesse’.
85 ‘Tuttavia la dice chiara il verso “il mantovan che di par seco giostra”, cioè che Omero e lui se la passavano male’.
86 ‘Che ci dimostra ogni eloquenza della nostra lingua, come le ore la lancetta di un orologio’.
87 ‘Andò a stare con un fornaio’
88 Gell., Noct. att., III 3.
89 Cfr. A. Balduino, Periferie, cit., 46-48 e 146-48. Lo schema, A(a)B(b)C(c)D(d)- E(e)F(f)GG + X(x)Y(x)ZZ, è molto diverso da quello di Petrarca, (x)A(a)B(b)C (x)A(a)B(b)C (c)D(d)E(e5)DdE(e)FGgF. Nel volume di Guglielmo Gorni, Repertorio metrico della canzone italiana dalle origini al Cinquecento (REMCI), Firenze, Cesati, 2008, il solo precedente è in Panfilo Sasso, che se non è il modello diretto lascia comunque sospettare una mediazione cortigiana.
90 A meno di non correggere in a la graella, il verso, così tramandato dall’unico testimone, è ipermetro.
91 Su queste questioni basti il rimando ad Andrea Afribo, Teoria e prassi della gravitas nel Cinquecento, Firenze, Cesati, 2001. Gli unici sonetti che non hanno questo schema sono 34, mutilo; 72, di dubbia attribuzione; e 133, di cui esistono comunque due redazioni, una con quartine ABAB ABAB, l’altra invece ABBA ABBA.
92 ‘Se una mi piace oggi, l’altra domani’.
93 Salvo la canzone frottolata, nessuno dei suoi schemi ha riscontro in G. Gorni, Repertorio metrico della canzone italiana, cit., passim.
94 La prima edizione risale ad Antonio Pilot, Canzoni inedite di Maffeo Venier, «Pagine Istriane», IV (1906), pp. 101-10, 155-62 e 225-30.
95 Ad esempio il Cordellina, come ricorda anche Carminati in M. Venier, Poesie diverse, cit., p. 69, fu giustiziato nel 1557.
96 Questi gli schemi delle canzoni italiane: Col cor pien di pietade, e di spavento (ABb cAC cDeDeFgGHFH, 7 st. + XyYZXZ); Laddove l’Ocean bagna e minaccia (ABb CAC cDEffEgDgHH, 7 st. + VwwVxYxZZ); Questa misera fral vita mortale (ABC ABC cDEDEfgfGHhII, 6 st. + wxwXYyZZ); Sacrati orrori, ove la folta chioma (ABb CAC cDeFeFdGG, 8 st. + wXwXyZZ).
97 All’analisi metrica e stilistica dei poeti del circolo di Domenico Venier ho dedicato la mia tesi di dottorato, ora in fase di revisione per la pubblicazione. Basti qui sottolineare che Domenico riprende gli schemi delle canzoni 23, 126 e 207 di Petrarca. Delle sue rime esiste un’edizione critica purtroppo inedita: Monica Bianco, Le «Rime» di Domenico Venier (edizione critica), tesi di dottorato, supervisore A. Balduino, Università di Padova, 2000.
98 G. Belloni, Maffio Venier e la poesia dialettale veneziana, cit., p. 391.
99 Ivi, p. 390.
100 Che diventano ora 62, aggiungendo il ms. Antinori 163 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, che alle cc. 19r-22v reca la Strazzosa.
101 T. Agostini Nordio, Rime dialettali, cit. passim.
102 Ancora una volta occorre rimandare a A. Balduino, Periferie, cit., pp. 3-30.
103 M. Ferrari, Per l’edizione, cit., p. 375n.
104 Il testo è mancante di alcuni versi, e in particolare del 7° v. del congedo: lo schema ricalca però la parte iniziale delle altre stanze e si può così ricostruire.
105 Nella prima c’è una rima siciliana in B séa (‘seta’): via, e una rima irrelata (E, cogion). Si potrebbe in questo secondo caso correggere il verso 11 «Cazzo, cosa è bontà» in «Cazzo, che cosa è bon», trasformando la rima f in e, e restaurandolo così lo schema. Nella terza stanza i vv. 7 e 8 presentano le rime aC, invertite rispetto allo schema cA delle altre stanze.
106 Carminati non distingue correttamente le stanze di canzonetta, riportandole a coppie.
107 Questo l’incipit riportato nei mss., ma la rima esigerebbe vardà.
108 Carminati riporta le stanze a coppie, ma la metrica e la sintassi suggeriscono di separarle.