Revue Italique

La poesia dialettale del Rinascimento nell’Italia del Nord

OJ-italique-695

Le rime dialettali di ser Bartolomeo Cavassico

Matteo Comerio

Sono grato al prof. Luca D’Onghia per avermi proposto questo lavoro e al prof. Vittorio Formentin per aver attentamente letto una prima redazione del testo. Alla cortesia di Andrea Menozzi devo un prezioso aiuto bibliografico.

La letteratura dialettale riflessa nel veneto e Bartolomeo Cavassico

Tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, in quell’area veneta che si era dimostrata così precocemente e profondamente aperta alla suggestione dei modelli poetici toscani,1 si assiste a un’esuberante fioritura di molteplici esperimenti letterari nei quali all’ambientazione generalmente villanesca corrisponde sul versante linguistico l’impiego non già del volgare ‘italiano’, bensì del dialetto, riprodotto e spesso anzi sovraccaricato a scopo comico-parodico ed espressivo.2 Questa vivace produzione, che si afferma in concomitanza con l’ascesa, nella Toscana medicea e nell’Italia del Nord, dei cosiddetti «ritmi nenciali» e dei componimenti «alla bergamasca»,3 interessa dapprima Padova («capitale incontrastabile del plurilinguismo italiano», secondo l’efficace definizione di Contini),4 Verona e l’area pavano-ferrarese, epicentri dai quali scaturiscono rispettivamente gli undici sonetti degli anonimi pavani, i venti sonetti in veronese rustico e in bergamasco del notabile Giorgio Sommariva, e una gustosa serie di trentadue sonetti satirico-politici.5 Quindi, pochi decenni più tardi, l’uso letterario del dialetto e non del pavano o del bergamasco, divenuti presto «registri linguistici codificati per il genere rusticale»,6 ma dei dialetti locali si propaga anche nel Veneto settentrionale: a Treviso, ad esempio, il rimatore Paolo da Castello compone due egloghe (l’Egloga di Trotol e Mengola, giuntaci in tre redazioni, e l’Egloga di Busat e Croch) e ventisette sonetti (o meglio ventisei, dato che uno di essi è ripetuto),7 rielaborando la materia bucolica all’interno di coordinate giocosamente villanesche, sulla scia dei precedenti toscani; e in un centro periferico come Belluno, divenuto avamposto settentrionale della Serenissima nel 1404, si colloca nei primi decenni del Cinquecento l’altrettanto periferica e singolare esperienza poetica del notaio Bartolomeo Cavassico, autore di più di duecento componimenti in volgare e in dialetto parzialmente pubblicati, in tempi diversi, da studiosi di vaglia come Vittorio Cian e Carlo Salvioni dapprima (1893-94), Giovan Battista Pellegrini poi (1969-71).8

Nato a Belluno nel 14809 dal notaio Troilo e da Margherita di Campo di Zoldo, membro dunque di una famiglia ben inserita nella vita politica cittadina, il Cavassico aveva compiuto gli studi giuridici presso le Università di Perugia e Padova.10 Costretto dalla morte del padre (1507) ad amministrare personalmente la fortuna della numerosa famiglia, iniziò presto a esercitare la professione di cancelliere vescovile nella città natale e, dal 17 aprile 1509, quando gli venne ufficialmente conferito il titolo, di notaio. Pochi altri dettagli biografici il matrimonio con la nobile Margherita Persicini nel 1511 (il contratto nuziale è datato 25 luglio) e l’ingresso nel Consiglio dei nobili di Belluno completano il quadro di un’esistenza tranquilla e appassionatamente dedicata, «non ostante le cure della famiglia e della professione, [...] alla vita pubblica e all’amministrazione della sua città»,11 fino alla morte, sopraggiunta il 4 marzo 1555.

Come si è anticipato, il Cavassico è noto principalmente in quanto autore di una cospicua silloge di rime, conservate autografe nel ms. 396 della Biblioteca Civica di Belluno.12 Si tratta di 229 componimenti (ai quali si aggiungono quattro epistole amorose in prosa), certo in gran parte «mediocrissimi», «sciatti» e «prolissi»,13 ma pur sempre degni d’attenzione in quanto permettono di conoscere gli interessi culturali di un ambiente, quello bellunese, relegato «alla periferia della cultura rinascimentale».14 Più rilevante ancora, dal nostro punto di vista, è che «accanto a un’ampia e metricamente diversificata produzione in lingua (sonetti, canzoni, capitoli, strambotti, ecc.), riconducibile ai modi e ai gusti della letteratura cortigiana»,15 il Cavassico abbia incluso nel suo volume un corposo gruppo di 66 testi composti nel dialetto locale, ora più ora meno caratterizzato in senso “rustico”: preziosi per lo storico della lingua, poiché costituiscono importanti fonti d’informazione per un’area avara di testimonianze in volgare d’età medievale (tra quelle di carattere letterario, si contano solo i quattro versi del cosiddetto Ritmo bellunese, di autenticità ancora non pacifica),16 essi sono di qualche interesse anche per lo storico della letteratura, dato che documentano la ricezione a tratti originale, più spesso fiacca e puramente imitativa di temi e soluzioni espressive già ben formati nei coevi prodotti della poesia pavana e della produzione rusticale settentrionale.

Cronologia e metri delle rime dialettali

Al netto di minime e sempre possibili dislocazioni operate dall’autore, volte a creare delle micro-articolazioni interne alla sua raccolta (vedi infra), è indubbio che i testi siano generalmente copiati nel manoscritto secondo l’ordine di composizione (un’eccezione è segnalata nella nota 30):17 nel margine superiore di c. 2r si legge infatti che «Iste liber inchoat(us) fuit die [manca l’indicazione del giorno] septe(m)br(is) 1508», e le rubriche spesso premesse ai testi sono progressivamente datate dal settembre 1508 (n. XI) al giugno 1530 (n. LXXII, l’ultima delle poesie trascritte nel codice); ad ogni modo, la maggior parte dei componimenti risale agli anni 1508-1512.18 Ciò non esclude che, già prima del 1508, il Cavassico potesse essersi cimentato nell’esercizio della poesia, ed è anzi assai probabile che durante gli anni della formazione universitaria nella Padova dei macaronici e dei pavani il giovane Bartolomeo fosse entrato in contatto con lo sperimentalismo letterario che proliferava all’ombra dello Studio, traendo da esso ispirazione e incentivo per le sue future prove vernacolari.

Nell’autografo i componimenti dialettali non costituiscono un corpo a sé stante, ma si trovano inframmezzati a quelli in lingua. Volendo fornirne anzitutto una classificazione sotto il profilo metrico,19 osserveremo che la preferenza del Cavassico si rivolge alle forme della «‘poesia-spettacolo’» e per musica quattrocentesca:20 contiamo 45 zingaresche (dette ode o frotole nelle rubriche),21 composte da strofe tetrastiche con schema a7b7b7c4-5c7d7d7e4-5 ecc., dove il terzo e il quarto verso formano un endecasillabo con rimalmezzo;22 e sette barzellette di ottonari (definite nel manoscritto barzelete o frotole,23 e una volta canzon), sempre dotate di ripresa tetrastica (gli schemi rimici oscillano tra xyyx ababbx [XVIII, LXI, LXIII, XIP]24 e xyyx abbaax [LXVII]). Vi sono poi sette sonetti: uno bicaudato (XXII), tre caudati (LV, LVIII, LX) e tre semplici (XXXIV, LVI, LVII). Sei i capitoli ternari: VII (Disperata villanesca), VIII (Villanesco contrasto intra Borthol, Tuoni, Menech et Salvador), XIX, XXI, XXXVIII e LXV (un contrasto Interlocutores Lenat, Scip, Stieven et Cesch). Infine, spicca sugli altri componimenti una Favola pastorale in lingua villanesca (LXIV) nella forma del «polimetro in terzine e ottave».25

Non mette conto qui soffermarsi sulla «somma libertà» formale che caratterizza le poesie del notaio bellunese: basti dire che così nella prosodia come nella rima il Cavassico non è esente da infrazioni alla norma, rimandando per maggiori dettagli allo studio di Salvioni.26

La materia delle rime dialettali

Nettamente prevalenti, e già ben passati in rassegna da Zanenga nel suo studio citato,27 sono i componimenti di carattere amoroso. La tematica erotica è l’unica ad affacciarsi sin dal proemio, scritto in dialetto e copiato a posteriori nelle prime carte bianche del manoscritto (cc. 14v-16v, secondo la cartulazione moderna): offrendo ai lettori il suo «pizol libret» e chiedendo venia per la propria «falsa vena» poetica, il Cavassico si sofferma su alcuni motivi (gli effetti devastanti dell’amore, la ritrosia delle donne «vezouse / come el diavol») che trovano ampia eco nei suoi testi, e specifica che, se buona parte delle poesie muovono dalla sua personale esperienza d’innamorato, talvolta ha anche prestato la voce «a qualche amich / ch’era vegnù mendich / per trop amar» (vv. 78-80).

Nel volume, in effetti, ci imbattiamo non solo in rime che riguardano l’io poetico in prima persona, alle prese con amanti crudeli e inarrendevoli (XXV, XXVII, XXVIII, ecc.) che lo inducono talvolta ad assumere posizioni “disperate” (specie nella notevole Disperata villa-nesca, n. VII) o, viceversa, misogine (IX, XXXVIII), ma pure in rime composte per istanza di amici e parenti, che prendono direttamente la parola o, più spesso, trovano nel Cavassico un intermediario: nel secondo gruppo rientrano le poesie in forma ora di esortazione, ora di rimprovero, ora di serenata indirizzate a Bianca Doglioni, amante di Pietro Carpedoni (XXIX, XXXIII), a Giuliana De’ Corti, amata da Giovan Battista Cavassico (LXVI-LXIX), e a Lucrezia Della Bella, vagheggiata da Pietro Persicini (LXX). Quest’ultimo è peraltro coprotagonista, insieme al Cavassico, di un triangolo amoroso che nell’arco di ben cinque componimenti (XXX, IVP, XXXII = XVIIIP, VP, VIIIP) vede dapprima Pietro e Bartolomeo contendersi la stessa donna, Antonia Salce; quindi il poeta si ritira dal gioco, essendosi nel frattempo innamorato della sorella del rivale, Margherita. A lei sono dedicate cinque poesie dialettali: quattro zingaresche (XXXI, contenente le consuete esortazioni del corteggiatore; XXXVI, per cui vedi infra; XXXVII, nella quale Margherita è invitata a lasciare il borgo di Cirvòi per unirsi all’amante; VIIP, datata 1511, dov’è la futura sposa a prendere la parola per lodare il proprio «moros», alludendo all’imminente matrimonio) e un’accorata barzelletta, indirizzata alla moglie colpita dalla pestilenza del 1530 (LXXIII).

Nel complesso, all’abbondanza delle rime amorose corrisponde un evidente appiattimento stilistico, particolarmente nei testi non destinati a Margherita. Con verbosa monotonia, il Cavassico modula e rimodula motivi e tessere sintattiche stereotipate, generalmente desunti dalla tradizione delle “mattinate” e delle “villotte” rusticali:28 dagli esordi in turpiloquio («Te nasca el schiantis...», «Al sango de San Lazer...») e dagli appellativi ingiuriosi rivolti alla donna («crudelaza», «cagna malandrina», «traditora»), all’enumerazione degli effetti fisici debilitanti della malattia d’amore (insonnia, inappetenza, evacuazione).

Su questo sfondo si staglia un curioso sonetto caudato (LX, c. 181r),29 nel quale il Cavassico aderisce esplicitamente al filone parodico del genere pastorale per materia (il lamento bucolico) e soluzioni espressive, rendendo omaggio fin nel nome e nella caratterizzazione dei personaggi (il pastore Trotol, innamorato di Mengola) a un testo che doveva essergli ben noto: l’Egloga «maggiore» in trevisano rustico di Paolo da Castello.30

Che se dirà di me apruò la zent,
     quand’e’ sarei butà zo de quel crep?
     Ben se dirà ch’e’ son un mat da cep
     haver lassà per tousa el bel arment.4
In nom de Dio e de tuti i Sent,
     me parte de chilò e non da trep,
     che quand’e’ del me’ caf harei fat strep
     e serei mort, alhor serè content;8
ch’e’ non pos né de dì né de not zir:
     s’e’ vade al scur o lus dela cresevola
     bater a l’us, la no me vuol davrir.11
Mengolla, e’ t’hei nel cuor a muò ’na pégola,
     e ogni muò tu vuos Trotol far morir,
     ch’e’ son un pì bel fent de questa riegola.14
          Né bo’, né cavra o piegola
     hei ubigà a nigun, e’ son tut franc.
     Muore per quî tetoz to’ bianch e [bianch].3117

1-4. Cosa si dirà di me presso la gente, quando mi sarò buttato giù da quel crepaccio? Si dirà certo che sono (stato) matto da legare ad aver abbandonato il bell’armento a causa di una ragazza. 5-8. Per Dio e per tutti i Santi, me ne vado da qui e non per finta: quando mi sarò strappato via il capo e sarò morto, allora sarò contento; 9-11. perché non posso andare (da lei) né di giorno né di notte: se vado al buio o alla luce della luna crescente a bussare al (suo) uscio, lei non vuole aprirmi. 12-14. Mengola, ti porto (attaccata) nel cuore come la pece, e ad ogni modo tu vuoi far morire Trotol, benché io sia uno dei più bei ragazzi di questa brigata. 15-17. Non ho obbligato a nessuno né un bue, né una capra, né una pecora, non ho debiti. Muoio per quei tuoi seni bianchi bianchi.

Nel suo breve esercizio, prendendo le mosse dal ben più ampio componimento del poeta trevigiano, il Cavassico dà spazio al disperato monologo di Trotol, sofferente d’amore al punto da volersi togliere la vita (vv. 1-8). Lo sviluppo corrisponde ovviamente alla trama dell’Egloga («Trottol bon pastro per <la> Mengola muor, / che no ’l volea tignir per so moros, / habiandge dat la pitturina e ’l cuor», vv. 106-108;32 e si confrontino i vv. 9-11 del sonetto con il discorso di Mengola: «O grama mi, che no te averzì [‘aprii’] l’us / quand che tu muzolave [‘singhiozzavi’] l’altra not», vv. 228-229), dalla quale il notaio ha prelevato pure la difficile serie rimica crep: cep: trep (Egloga, vv. 185-189):

Chi disont mo’ chamar, che ne conta
     la mort de custù [scil. Trotol], che no è da trep [...]?
Zo el d’estre buttà d’un de quî crep,
     per haver debette e no haver dener.
     S’el foes così, el sarou mat da cep.33

Ma il lettore riconosce anche alcune deviazioni dal modello, certo dovute al desiderio del Cavassico di incrementare il coefficiente di rusticitas del proprio rifacimento. Ai vv. 14-16, ad esempio, Trotol procede in prima persona al topico “vanto” dell’innamorato, che nell’Egloga è invece affidato alla voce di Morel (vv. 283-288):

Mengola, tu isi stata una villana
     haver fat murir sì bel fantat,
     ch’el parecchio no gi era in Trivisana.
L’era dret in parsona a muò d’un scat,
     e l’era in ciera zintil e revost,
     vermei, e bianc com’ sarou ’na lat.34

Soprattutto, mettendo in bocca a Trotol la grossolana lode della bellezza fisica di Mengola (v. 17), il Cavassico sembra aver intenzionalmente ordito una gustosa contaminazione di due diversi “codici” rusticali, se è vero che l’elogio dei tetó della donna amata è un topos endemico, piuttosto che nella poesia villanesca veneta, nei testi “alla bergamasca” quattro-cinquecenteschi: si veda a tal proposito il n. III dei Sonetti alla bergamasca («ch’e’ vedi quel bel pet con quei tetó», v. 7),35 o ancora il n. II degli strambotti stampati in coda alla Massera da bé (1554) di Galeazzo dagli Orzi («al vé tamagn splendor fò per quei bus / che manda quel vos pet cum quei tetó», vv. 5-6).36

Nel «libret» del Cavassico si incontrano anche componimenti (poco meno di una ventina) che esulano dalla materia amorosa: se volessimo proporne una sommaria classificazione tematico-strutturale, sulla falsariga degli studi di Cian e Zanenga, potremmo distinguere tra testi (1) di carattere popolareggiante o narrativo, (2) testi d’argomento storico-politico e (3) morale, e (4) testi farseschi o drammatici.

Nel primo gruppo rientra l’importante Villanesco contrasto intra Borthol, Tuoni, Menech et Salvador (VIII), in terzine di endecasillabi, che in virtù dell’impianto dialogato e dell’argomento esibisce, a prescindere dal metro, significativi contatti con i mariazi pavani quattro-cinquecenteschi (verosimilmente intercettati dal Cavassico durante la sua permanenza a Padova). Nel testo, Borthol confessa a Tuoni di voler dare la propria figlia in sposa a barba Menech, per la sola ragione che costui, sebbene anziano, è ricco e non esigerà alcuna dote; sopraggiunto il pretendente, Borthol procede a tessere le lodi della ragazza (vv. 52-57),37 sennonché l’entrata in scena del quarto personaggio, Salvador, rovescia topicamente le sorti della trattativa: il giovane villano rivela infatti che Borthol aveva già promesso la figlia a un tale Cesch da Polentes, e a Menech non resta che mandare a monte l’unione («Mi me ’n vuoi zir, ch’ei altre che fer [...]. / L’è ’na mal facta cousa [...]», vv. 94, 97).38

Per il resto, i testi narrativi sono perlopiù ispirati a scene di vita quotidiana, talvolta deformate in direzione novellistica, e certo devono molto, al di là dell’inevitabile filtro dell’inventio letteraria, all’osservazione diretta della società contadina bellunese da parte dell’autore, che nel distretto (a Cirvòi) possedeva una villa e dei terreni:39 emblematico è il caso del Capitulo (XIX), nel quale l’io poetico assume la voce di un villano che si è recato presso i «boi vesin» riuniti per il filò.40 Il contado può divenire il palcoscenico di vicende divertenti e movimentate, che coinvolgono, insieme ai villani, anche il Cavassico e i suoi compari, lieti di “ingaglioffarsi” fra la gente rustica. Così avviene nella barzelletta n. LXI, che vede cinque compagni (Bartolomeo Bellot, Matteo Capon, Toffol del Col, Jeronimo d’Amigo e Nostasi da Mier) darsi man forte per rubare a Zucon e a sua figlia Cencia alcune trippe di vitello; o nella zingaresca n. IIIP, dove l’io poetico racconta alla dedicataria Antonia Salce lo spassoso inseguimento di Giovanni Cuch, colpevole d’essersi sbafato buona parte delle vivande dei suoi amici, da parte di Bartolomeo, Piero Cecat (controfigura di Pietro Carpedoni) e Avanz (parente di Antonia).

Assai di rado il Cavassico fa propri i toni della cosiddetta satira antivillanesca, feroce e amara nei confronti dei contadini (e ben viva in Veneto ancora tra Quattro e Cinquecento):41 solo nella zingaresca n. XXVI l’io poetico, criticando un certo mugnaio Pasqual per la sua eccessiva indulgenza verso i villani, corrobora il proprio assunto con alcune classiche ingiurie: «I [scil. i villani] è piez che non è i can, [...] / zent che n’ha cortesia, / come questa» (vv. 17-18; 20). Ma si tratta, come detto, di un episodio isolato, perché gli abitanti del distretto bellunese sono guardati piuttosto con occhio bonario e simpatetico dal nostro notaio, specialmente quando egli si sofferma sulle loro misere condizioni. È il caso del componimento n. XXXVI, un’altra zingaresca che in ben 204 versi rievoca l’omaggio reso alla futura moglie del poeta, Margherita, da tre abitanti del distretto; nel recare alla nobildonna «’na zongiada [‘una giuncata’] / da magnar» (vv. 3-4), in segno di riconoscenza per la sua consueta generosità, uno dei convenuti espone le difficoltà che i contadini patiscono quotidianamente: dalle requisizioni dei berrovieri (vv. 49 ss.) alla penuria di alimenti (vv. 61 ss.), dalla leva obbligatoria (v. 109-111) ai non rari indebitamenti nei confronti dei signori bellunesi (vv. 112 ss.). Non è risparmiato, a questo punto, un moto d’insofferenza rivolto ai crudeli cittadini: «O mo’ fosi picà / tuquent da Cividal! / Polenta senza sal / magnon per lor» (vv. 165-168).42

Le ristrettezze sofferte dal contado si ripresentano anche nel secondo dei raggruppamenti tematici proposti sopra, quello dei testi storico-politici. In essi la materia è sempre fornita dalla tragica esperienza della guerra della Lega di Cambrai: «tra il 1508 e il 1513», infatti, «Belluno fu teatro [...] di battaglie, distruzioni, saccheggi, in un continuo andirivieni di truppe che avevano fatto della provincia tutta intera [...] un bruciato campo di battaglia»,43 e il Cavassico non manca di rappresentare nelle sue rime gli effetti del drammatico evento. Lo testimonia già uno dei primi testi del «libret», la zingaresca n. XI (rubrica: «[...] 1508. Guerra. Caristia»), nella quale la voce di un villano descrive il clima di miseria che regna nelle campagne bellunesi («Aon tut aguan piant / la vera d’i nimis. / Al sango del schiantis, / n’aon mai ben», vv. 29-32).44 Altrove, nella zingaresca n. XLVI, l’io poetico denuncia le rapine e le incursioni dei soldati tedeschi, ma anche veneziani , che affliggono tanto i possidenti quanto i più poveri contadini, secondo la legge di un doloroso paradosso: «Bià chi n’è segnor, / e gram chi è poveret» (vv. 29-30).

Lo sconforto per il tempo presente, la sfiducia verso il futuro («El sem va ala malora, / el taren non è arà, / el pan ne mancherà, / mo’ che farone? // E de che viverone?», XLVI, vv. 41-45)45 e «il rimpianto per i bei tempi passati»46 vengono meno soltanto nelle rime risalenti agli anni 1513-1514 (n. LXIII e XIVP),47 quelli cioè in cui il conflitto si avvia alla conclusione. La barzelletta n. LXIII, forse composta sul modello di testi d’ampia circolazione in quel periodo,48 festeggia ad esempio il successo di Venezia nella sua eroica resistenza contro i potenti nemici riuniti nella Lega cambraica dall’Impero alla Spagna e alla Francia, dai Ducati di Ferrara e Mantova al papa , ciascuno dei quali viene apostrofato, stanza per stanza, dal coro vittorioso.

Sui componimenti fin qui ricordati spicca il n. LXV, un contrasto in terzine Contra Cancellarium Magnif(ici) Dom(ini) Potestatis, qui fuit quidam Angelus Cinturella de la Motta (datato 1514), nel quale quattro villani (Lenat, Scip, Stieven e Cesch) si lamentano dei soprusi inflitti loro dal Cancelliere. Ne risulta il ritratto di un sistema giudiziario avido e corrotto, che insieme ai disagi arrecati dalla guerra («[...] da dies agn in qua / e’ no seon mai stat senza fistilli [‘fastidi’], / o d’i Todesch, Spagnuoi, o d’i soldà», vv. 85-87) e alle interminabili tassazioni (vv. 88-89) affligge gli strati sociali più deboli. Ridotti in miseria dai debiti e dalle requisizioni, i villani devono sopportare anche le ingiurie dei cittadini: «Quel che se fa d’i can, i [scil. i cittadini] fa de noi», afferma Stieven (v. 95); ma sono le parole di Lenat a colpire maggiormente il lettore, perché nel descrivere i rapporti di tensione tra gli abitanti di Belluno e quelli del contado esse consuonano con la serie di insulti che il contaìn Ruzante, nella Prima Oratione, riferisce con disappunto al cardinal Cornaro:49

Come i ne cata, i ne dis: “Imbriac,
riviei, gazan, maras e martalos [‘ribelli, eretici, serpenti e scellerati’]”.
(LXV, vv. 136-137)

[...] i [scil. i cittadini di Padova] ghe dise, a nu containi, “vilani”, “marassi”, “ragani” [‘ranocchi’] [...].
(Ruzante, Prima Oratione, § 51)

Veniamo ora ai cinque testi d’argomento morale: si tratta della zingaresca n. VIP, nella quale il Cavassico osserva con sdegno l’asservimento della società al denaro, lanciando i suoi strali contro gli usurai, e di una corona di quattro sonetti, trascritti l’uno di séguito all’altro (nn. LV-LVIII, cc. 178r-179v) e rubricati Dial(ogus), nei quali l’io poetico esprime indignazione per il sempre più esiguo rispetto tributato alla religione cristiana («No g’è pì amor de Dio, l’è pers la fe’», LVI, v. 12), manifestando inoltre il proprio disincanto nei confronti del sentimento d’amore degli uomini (LVII), ormai dominati dalla bramosia (LVIII).

Più importa rilevare, ad ogni modo, come nel primo sonetto della serie (LV) il Cavassico, celato dietro la maschera di un villano, denunci apertamente la corruzione dei giudici, rimodulando tesi già esposte lo si è visto in altri suoi componimenti e aderendo al tempo stesso a un topos ben presente nella letteratura coeva.50 Si sa infatti che quello giudiziario è un tema tutt’altro che ignoto alla produzione pavana quattrocentesca, e sarà appena il caso di ricordare che acquisizioni recenti certificano la diretta conoscenza, da parte del notaio bellunese, di alcuni testi tra i più rappresentativi di questo filone: il Contrasto di Sacoman e Cavazon e il sonetto Misiere al vostro oicio e’ son stò acusò de fruto, entrambi testimoniati da un manoscritto il Landau Finaly 13 della Biblioteca Nazionale di Firenze appartenuto alla famiglia Cavassico.51

Nella raccolta figurano infine alcuni testi di carattere farsesco e drammatico. Collochiamo tra i primi, in quanto strutturati in forma dialogica e verosimilmente anche se non esplicitamente destinati alla recitazione, due componimenti già menzionati: il contrasto detto Villanesco (VIII) e quello Contra Cancellarium (LXV), entrambi dotati di quattro voci dialoganti e giustamente annoverati dal Cian poiché «dal semplice contrasto alla farsa villanesca è assai breve la distanza»52tra i prodromi della grande commedia veneta cinquecentesca e del teatro di Ruzante.

Sono invece drammatici a tutti gli effetti tre lunghi testi che certo il Cavassico ha scritto in vista di una rappresentazione, da svolgersi in contesti pubblici o privati. È il caso anzitutto della Gratiarum actio (XLV) resa ad Alvise Mocenigo il generale veneziano che il 22 agosto 1509, dopo un assedio di diciannove giorni, aveva liberato Belluno dalle mani del capitano tedesco Liechtenstein e recitata la sera del 15 settembre alla presenza del dedicatario. L’actio vede avvicendarsi un capitolo ternario e una zingaresca in lingua letteraria, nei quali rispettivamente un liricus e un gruppo di quinque virgines omaggiano l’eroismo del Mocenigo; quindi, in un’Oda dialettale (a rusticis recitata), la voce dei villani invita il pubblico alle danze, non prima di aver descritto i disagi e i soprusi arrecati dalla guerra.

Quest’ultimo componimento, recitato in un’occasione significativa se altre mai per la comunità bellunese, basterebbe ad assicurarci che il Cavassico «era diventato il poeta, a così dire, officiale della sua città»;53 ma una conferma decisiva ci è data dalla notevolissima Favola pastorale in lingua villanesca (LXIV), messa in scena nel palazzo dei Rettori, dinanzi al podestà e capitano Francesco Vallaresso, alla podestaressa e a molti concittadini del poeta, il giorno di Carnevale del 1513, quando cioè si era appena conclusa la funesta parentesi della guerra cambraica il pensiero del lettore corre inevitabilmente al Proemio in lingua tosca della Pastoral ruzantiana (1518). La Favola, che si può ricondurre al genere dell’egloga rappresentativa quattro-cinquecentesca, presenta una struttura a cornice, solo approssimativamente riflessa dall’impianto metrico (terze rime precedute e seguite da ottave). Il livello narrativo più esterno accoglie la vicenda stricto sensu bucolica: i pastori Eleo e Silvano si aggirano nel palazzo bellunese e si imbattono nel loro compagno Filetico, appena risvegliatosi da lungo sonno in cui era caduto per amore della ninfa Chiara; poiché il suo letargo ha coinciso con i sei anni in cui il conflitto ha imperversato, Filetico convince Eleo a fornirgliene un resoconto, concluso il quale si giunge al duello tra un mostruoso fauno, rapitore di Chiara, e il pastore innamorato, che riesce vincitore e può quindi unirsi alla ninfa e dare avvio alle danze. Su tale cornice pastorale, tuttavia, prevale nettamente il lungo racconto di Filetico (vv. 136-471), che in più di trecento versi sviluppa senza la mediazione di alcun «velame pastorico» né di «simboli pastorali»,54 ma anzi tramite l’esposizione diretta dei fatti, non ignota alla bucolica quattrocentesca55una «cronaca [...] versificata e fedele degli avvenimenti dei quali Belluno e il Cadore erano stati teatro dal 1508 al 1513 e il poeta in gran parte testimonio oculare».56

Tra le rime dialettali si affaccia anche una rappresentazione (LXXI) composta non già per essere recitata in pubblico, ma per allietare una “domestica” serata di Carnevale del 1527, in occasione della quale il Cavassico aveva invitato a cena molti propri famigliari. Nel componimento, articolato in tre zingaresche (LXXI.1, 3 e 4) e in una prosa parzialmente rimata (LXXI.2), si ripresenta il tema matrimoniale, che automaticamente innesca l’adesione alle movenze dei mariazi (un vecchio contadino ha dato in sposa la figlia a un «giatonat» [‘ragazzaccio, bricconcello’], salvo poi ricredersi, ma il giovane rifiutato argomenta le proprie ragioni e ottiene la mano della fanciulla). Non meno importante è che nel manoscritto il testo sia accompagnato da «dettagliatissime didascalie ‘registiche’»57 che descrivono l’occasione e le modalità esecutive della recita, rivelandoci ad esempio che la parte del «fante villanelo» spettava al figlio maggiore del notaio, Dario.

Noterella linguistica

Messa in conto l’indubbia tendenza alla deformazione giocosa del codice che è propria dell’uso riflesso del dialetto, e considerata pure la probabile intromissione, in alcune delle rime, di elementi linguistici allotri riferibili all’influsso ora del pavano, ora di varietà semi-ladine,58 i componimenti dialettali del Cavassico ci offrono un quadro fonomorfologico del bellunese rustico tutto sommato coerente con quello della varietà ‘cittadina’ che ci è testimoniata da (pochi) testi documentari tre-quattrocenteschi.59 Tra i tratti illustrati da Salvioni e Pellegrini nelle loro annotazioni linguistiche,60 in gran parte riscontrabili nelle citazioni testuali da noi effettuate nelle pagine precedenti, ricordiamo: l’innalzamento metafonetico di é (quist, cridi ‘credi’), raramente di ó (curi ‘corri’, LXV 155); il dittongamento di è e ò, di tipo metafonetico (capiei ‘capelli’, fuorsi ‘forse’) o ‘toscano’ (tien, suor); la palatalizzazione di a tonica (grent ‘grande’, enca ‘anche’); l’esito òu da o chiusa e da AU (morousa, cousa); l’ampia caduta delle vocali atone finali, tranne -a e -e desinenza femminile plurale; gli esiti -oi, -ai da -¯ONI, -ANI (boi, villai); nella morfologia verbale, notiamo la desinenza -on della I persona plurale e le forme sigmatiche di Il persona singolare (es ‘hai’, vuos ‘vuoi’).

Storia editoriale

Mai divulgate dall’autore, in quanto perlopiù concepite come nugae private, le rime del Cavassico dovettero attendere l’ultimo ventennio dell’Ottocento per essere sottratte al loro oblio plurisecolare. I primi specimina apparvero tutti su defilate pubblicazioni per nozze, stampate a Belluno: al 1880 data il foglio reperito da Loreta Rossa,61 mentre al 1883 risalgono le edizioni di due importanti componimenti curate dall’abate ed erudito bellunese Francesco Pellegrini,62 che undici anni prima aveva rinvenuto il codice autografo.63

Di lì a poco, incoraggiato proprio dal valore storico-letterario e linguistico della Favola pastorale recentemente riesumata, Vittorio Cian avviò il progetto di un’edizione critica delle rime del notaio,64 avvalendosi della stretta collaborazione del Pellegrini e affidando il compito dell’illustrazione linguistica a uno dei massimi dialettologi italiani, Carlo Salvioni. L’edizione apparve in due puntate entro la bolognese «Scelta di curiosità letterarie inedite o rare»: nel 1893 uscì il primo volume, che conteneva una ricca introduzione storico-critica firmata dal Cian; nel 1894 seguì il secondo, che ospitava l’edizione dei testi accompagnata dalle Annotazioni lingusitiche di Salvioni.65

Si tratta, com’è noto, di un lavoro capitale, che a distanza di più di un secolo tiene ancora il campo e rende un ottimo servizio ai fruitori delle Rime. Ma presenta anche dei limiti: innanzitutto, è un’edizione parziale, perché il Cian, constatando la verbosità e la «falsa vena» del nostro notaio, non intese stampare integralmente la sua opera, e nemmeno la totalità dei testi dialettali (le Rime ne includono 49 su 66, uno dei quali, peraltro, dimezzato); inoltre, essendo stata allestita a quattro mani e in tempi diversi, in quest’edizione accade spesso che Salvioni sia stato costretto a rettificare, nelle Note critiche al testo conclusive, la lezione fissata dal Cian (e ulteriori aggiustamenti sono stati da lui raccolti nel citato articolo del 1894).

Al primo difetto rimediò in parte, in tempi più recenti, Giovan Battista Pellegrini, che provvide a stampare le poesie dialettali rimanenti (1969-70) con il corredo di importanti Osservazioni linguistiche (1970-71). Negli stessi anni Bartolomeo Zanenga, che col Pellegrini aveva riesaminato l’autografo del Cavassico, pubblicò un denso saggio in cui, a una generale rassegna della produzione dialettale del notaio bellunese, faceva seguire l’analisi di ciascuna delle diciotto nuove accessioni (1970-71).66 Nel 1977, infine, un breve contributo di Loreta Rossa proponeva in forma integrale due testi che nell’edizione Cian-Salvioni figurano erroneamente privi della parte finale: il sonetto n. XXII (c. 56rv) e la zingaresca n. XXIV (cc. 73v-74v), risarciti rispettivamente della seconda coda e degli ultimi 20 versi.67 Trovava così compimento l’edizione dei testi vernacolari, mentre le poesie in lingua letteraria escluse dalla scelta del Cian erano state trascritte e studiate pochi anni prima dalla stessa Rossa nella propria tesi di laurea, rimasta inedita.68

Ma torniamo, prima di concludere, alle rime dialettali, in assoluto le più significative. Sebbene abbiano ricevuto le cure di insigni studiosi, esse sono ancora sprovviste in entrambe le edizioni correnti di un testo critico propriamente detto: allestito secondo criteri moderni e uniformi; rispettoso dell’ordine di seriazione originale dei testi; dotato di un apparato che segnali esplicitamente gli interventi dell’editore69 e renda conto della stratigrafia redazionale dell’autografo;70 corredato di una traduzione corrente e di note esegetiche aggiornate allo stato attuale degli studi. Si aggiunga che la collazione tra le edizioni Cian-Salvioni e Pellegrini permette di rilevare non poche divergenze d’interesse dialettologico che renderebbero auspicabile una revisione complessiva del testo vulgato. Ne elenchiamo qui alcune.71

I 52 anema] amena; I 69 bulgar] buligar (‘agitarsi’); XXIV 55 agnan] aguan; XLVI 23 ogni] agni; LXIII 58 che] que; LXV 93 al] el; LXVII 35 grazia] gretia; LXVIII 82 berve] beire (‘bere’); LXXI.2 25 libertà] lubertà;72 LXXI.3 33 Anch’ella] ench’ella; 40 avocat] ochat;73 144 zanzon] zanzun (‘cianciamo’, in rima con nessun); LXXII 7 Carnaval] Carnasal; IIP 46 propri] propi; IIIP 59 biastimant] biastemant; VIIP 111 grant] grent (e 115 gran) grent); VIIIP 87 precis] percis; XVIIIP 123 bien] ben; ecc.

In qualche punto, inoltre, un controllo sull’autografo consente di attingere un senso migliore, soprattutto nelle rime pubblicate da Pellegrini:

IIP 26-27 «O, cancre a quest amor! / El me [ms. ne] roseghea el cuor»; VIIP 27 «Ma se [ms. ve] sei dir...»; XVP 13-16 «...se vuol / Amar color che ama, / Ch’è loze [ms. ch(e) lhe = ch’el è] honor e fama / Volerse ben»; XVIIP 129-132 «Almen tuò questa spada / E màzeme via tost / Azzò tuti a me’ cost / sea scatorì [ms. scaltrì]»;74 XVIIP 165-168 «Fuos ben che tu oles star / Cent agn cossì inorida, / [E] sempro saver chi guida [ms. «Sempre haver chi guida...»] / el to’ muset»; XVIIIP 45 «sì starnì [ms. sturnì ‘stordito’]»; ecc.

____________

1 Antonio Medin, La coltura toscana nel Veneto durante il Medio Evo, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti», LXXXII (1922-1923), pp. 83-154; Furio Brugnolo, I Toscani nel Veneto e la poesia veneta toscaneggiante del primo Trecento (1976), in Id., Meandri, Roma-Padova, Antenore, 2010, pp. 139-258; Gianfranco Folena, Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova, Editoriale Programma, 1990, pp. 287-352.

2 Per un quadro sintetico, cfr. Ivano Paccagnella, Uso letterario dei dialetti, in Luca Serianni e Pietro Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana, III. Le altre lingue, Torino, Einaudi, 1984, pp. 495-539: pp. 515-524; Alfredo Stussi, La letteratura in dialetto nel Veneto, in Id., Lingua, dialetto e letteratura, Torino, Einaudi, 1993, pp. 64-106; Luca D’Onghia, Quattrocento sperimentale Veneto: un diagramma e qualche auspicio, «Quaderni veneti», I, 1 (2012) pp. 81-104.

3 Vedi almeno Atti del Convegno sul tema: La poesia rusticana del Rinascimento, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1969; Maria Corti, «Strambotti a la bergamasca» inediti del secolo XV. Per una storia della codificazione rusticale nel Nord (1974), in Ead., Storia della lingua e storia dei testi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1989, pp. 143-159; Claudio Ciociola, Attestazioni antiche del bergamasco letterario. Disegno bibliografico, «Rivista di letteratura italiana», IV (1986), pp. 141-174: pp. 163-168; e infine il contributo di Luca D’Onghia in questo volume.

4 Gianfranco Contini, La poesia rusticale come caso di bilinguismo (1969), in Id., Ultimi esercizî ed elzeviri, Torino, Einaudi, 1989, pp. 6-21: p. 9.

5 La più recente edizione di questi testi, non sempre affidabile sul versante filologico, è di Marisa Milani, Antiche rime venete (XIV-XVI sec.), Padova, Esedra, 1997, pp. 27-174.

6 I. Paccagnella, Uso letterario dei dialetti, cit., p. 519.

7 Cfr. il punto di Vittorio Formentin, Carlo Salvioni filologo. Con un excursus sulla tradizione dell’egloga maggiore di Paolo da Castello, in Michele Loporcaro et al. (a cura di), Carlo Salvioni e la dialettologia in Svizzera e in Italia. Atti del Convegno internazionale di studi (Bellinzona, 5-6 dicembre 2008), Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2010, pp. 193-224: pp. 193-194, con esaurienti rinvii bibliografici.

8 Le rime di Bartolomeo Cavassico notaio bellunese della prima metà del secolo XVI, con introduzione e note di Vittorio Cian e con illustrazioni linguistiche e lessico di Carlo Salvioni, 2 voll., Bologna, Romagnoli Dall’Acqua, 1893-1894 (rist. Bologna, Forni, 1969); questa edizione, intenzionalmente parziale, è stata completata per i soli testi dialettali da Giovan Battista Pellegrini, Poesie inedite in antico bellunese di B. Cavassico (1969-1970), da leggersi insieme a Id., Osservazioni linguistiche alle poesie inedite di B. Cavassico (1970-1971), ora entrambi ristampati e accorpati in Id., Studi di dialettologia e filologia veneta, Pisa, Pacini, 1977, pp. 287-335. I testi saranno citati con minimi ritocchi da queste edizioni, di volta in volta identificati dal numero d’ordine in numero romano (quelli pubblicati da Pellegrini saranno contrassegnati con una «P» in pedice: es. IIIP).

9 L’incertezza circa l’anno di nascita, ancora espressa nel più aggiornato profilo biografico disponibile (Claudio Mutini, voce Cavassico, Bartolomeo, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. XXIII, 1979, pp. 30-32: p. 30), era stata risolta già da Bartolomeo Zanenga, Proverbi e detti popolari nel dialetto bellunese del Cinquecento, «Archivio Storico di Belluno Feltre e Cadore», XLII, 195-196 (1971), pp. 52-68: p. 64, nota 6.

10 La plausibilità del soggiorno perugino, al quale fa riferimento lo stesso Cavassico nel componimento proemiale (vv. 53-56), è stata messa in dubbio da Vittorio Rossi nella sua recensione dell’ed. Cian-Salvioni («Giornale storico della letteratura italiana», XXVI [1895], pp. 214-223: pp. 214-215, nota 1).

11 Le rime di Bartolomeo Cavassico, cit., I, p. xxxiv.

12 Il codice, interamente riprodotto nel portale http://www.nuovabibliotecamanoscritta.it/Generale/ricerca/AnteprimaManoscritto.html?codiceMan=1441&tipoRicerca=S&urlSearch=area1%3DCavassico&codice=&codiceDigital= (ultima consultazione il 27/06/2020), è cartaceo, di mm 210 × 153 (c. 2), e consiste di cc. iii + 246 + iii’ (poiché la temporanea chiusura della Biblioteca Civica non ha permesso un’ispezione autoptica del manufatto, ci si affida alla descrizione fornita nel portale). Solo ove segnalato, si seguirà la cartulazione moderna a lapis posta nell’angolo inferiore interno del recto (cc. 1-246), facendo altrimenti sempre riferimento a quella originale, posta nell’angolo superiore esterno del recto (cc. 1-232 = mod. 17-244).

13 Le rime di Bartolomeo Cavassico, cit., I, p. cxlvi.

14 Bartolomeo Zanenga, Illustrazione e commenti alle poesie dialettali inedite di B. Cavassico, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CXXIX (1970-1971), pp. 249-291: p. 261.

15 Vittorio Formentin, Dal volgare toscano all’italiano, in Enrico Malato (diretta da), Storia della letteratura italiana, IV. Il primo Cinquecento, Roma, Salerno Editrice, 1996, pp. 177-250: p. 241.

16 Cfr. complessivamente Loredana Corrà, Linee di storia linguistica bellunese, in Manlio Cortelazzo (a cura di), Guida ai dialetti veneti VI, Padova, CLEUP, 1984, pp. 129-157.

17 Non così nell’indice redatto dall’autore alle cc. 6r-11r (numerazione moderna), dove i componimenti sono suddivisi per genere metrico: cfr. Le rime di Bartolomeo Cavassico, cit., I, p. xliii e II, pp. 299-306.

18 Le rime di Bartolomeo Cavassico, cit., I, p. XLIII.

19 Si segue il quadro tracciato da B. Zanenga, Illustrazione e commenti, cit., pp. 258-259.

20 Pietro G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, il Mulino, 2011, p. 121.

21 Sull’uso dei due termini in riferimento a questa forma cfr. Franca Magnani, La zingaresca. Storia e testi di una forma, Università di Parma, Istituto di Filologia Moderna, 1988 (sul Cavassico vedi le pp. 27-29).

22 Il riconoscimento della forma metrica si deve a Carlo Salvioni, Ancora del Cavassico. La cantilena bellunese del 1193 (1894), in Id., Scritti linguistici, 5 voll., a cura di Michele Loporcaro et al., [Bellinzona], Edizioni dello Stato del Cantone Ticino, 2008, III, pp. 578-596: p. 581 e nota 2.

23 Sull’attributo “frottola” riferito alla barzelletta, vedi P. G. Beltrami, La metrica italiana, cit., p. 121, nota 112.

24 La barzelletta XIP presenta una struttura irregolare: xyyx ababbx ababbx abaaccx (nelle ultime due stanze in sede a si ha assonanza e non rima).

25 B. Zanenga, Illustrazione e commenti, cit., p. 259.

26 C. Salvioni, Ancora del Cavassico, cit., pp. 582-587: p. 582.

27 B. Zanenga, Illustrazioni e commenti, cit., pp. 264-271.

28 Cfr. M. Corti, «Strambotti a la bergamasca» inediti del secolo XV, cit., pp. 277 ss.

29 Prima che nell’edizione Cian, il testo di questo sonetto apparve – previa espunzione della coda – nel foglio per le Nozze Smali-Caldart, Belluno, s.e., 1880, come segnalato da Loreta Rossa, Due inediti dialettali di Bartolomeo Cavassico, «Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore», XLVIII, 220 (1977), pp. 139-147: pp. 139-140 e 147, nota 8.

30 Carlo Salvioni, Egloga pastorale e sonetti in dialetto bellunese rustico del sec. XVI (1901)e Illustrazioni sistematiche all’“Egloga pastorale e sonetti, ecc.” (1904), in Id., Scritti linguistici, cit., III, pp. 597-632 (il testo dell’Egloga sarà tratto da qui, con pochi ritocchi) e 633-720. Il contatto, che non era sfuggito a Stefano Mazzaro, Un’egloga rustica veneto-settentrionale del primo ’500, in M. Cortellazzo (a cura di), Guida ai dialetti veneti XIII, Padova, CLEUP, 1991, pp. 35-73: p. 37, potrebbe fornire un terminus ante quem per la composizione dell’egloga, collocandosi il sonetto del Cavassico tra rime datate 1513 (c. 175v) e 1512 (c. 184r) – ma si rammentino le cautele espresse sopra, all’inizio del secondo paragrafo.

31 La parola è illeggibile per un danneggiamento del supporto, non riscontrato – o tacitamente risarcito – dal Cian (Le rime di Bartolomeo Cavassico, cit. p. 72).

32 “Il buon pastore Trottol muore a causa di Mengola, / che non lo voleva per amante, / sebbene lui le avesse offerto il (proprio) petto e il (proprio) cuore”.

33 “Chi dobbiamo chiamare, ora, che ci racconti / la morte di costui, che non è (cosa) da ridere [...]? / Dev’essersi buttato giù da uno di quei crepacci, / perché aveva debiti e non aveva denaro. / Se così fosse, sarebbe matto da legare”.

34 “Mengola, tu sei stata una villana / ad aver fatto morire un così bel ragazzo, / che non aveva eguali in (terra) trevigiana. / Nel portamento era retto come un bastone, / e aveva un aspetto distinto e prosperoso, / vermiglio, e bianco come il latte”.

35 Rinviando ad altra sede l’edizione dei cinque sonetti (cfr. l’art. di Ciociola cit. nella nota 3), dei quali chi scrive ha rinvenuto un testimone manoscritto dell’ultimo Quattrocento, si cita dalla stampa Frottula nova tu n’andarè col bocalon ecc., Brescia, Damiano e Giacomo Filippo Turlino, ante 1537 (esemplare di Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Rari. Palat.E.6.6.153./1.12), emendando per in pet ‘petto’.

36 Galeazzo dagli Orzi, La massera da bé, a cura di Giuseppe Tonna, Brescia, Grafo edizioni, 1978, p. 255.

37 Per questo topos, cfr. i vv. 144-164 del secondo mariazo pavano (M. Milani, Antiche rime venete (XIV-XVI sec.), cit., pp. 260-276).

38 Un «mal contrato» è anche all’origine della vicenda sceneggiata nel primo mariazo pavano (ivi, pp. 240-259, v. 31). Come ha notato B. Zanenga, Illustrazione e commenti, cit., pp. 271-272, al presente componimento si riallaccia il n. XXXVIII, dov’è assunto il punto di vista di Cesch da Polentes.

39 Una simile circostanza artistico-biografica accomuna, a questo proposito, il Cavassico e il poeta veronese Giorgio Sommariva (1435-1500 ca), che meno di cinquant’anni prima aveva tratto ispirazione dai suoi ripetuti soggiorni nel contado (a Malavicina e a Zevio, dove il padre ricopriva la funzione di vicario) per ritrarre, in venti sonetti dialettali, alcuni momenti della vita dei villani: dalle feste e dagli amori campagnoli, alla realtà tragica dei pignoramenti e delle vessazioni esercitati dai citaìni (cfr. sopra la nota 5).

40 B. Zanenga, Illustrazione e commenti, cit., p. 272. Certo improntate a eventi reali sono anche le «cantate propiziatorie» (ibid.) in cui i villani, esibitisi in omaggi o spettacoli in onore dei padroni o di illustri personaggi, chiedono in cambio vivande e doni: sono i nn. LI, LII (qui i villani si rivolgono al podestà Luigi Delfino), XP e XIP.

41 L’intuizione è già di Cian, in Le rime di Bartolomeo Cavassico, cit., I, pp. cxi-cxii; sul tema, cfr. la sintesi di Gian Paolo Marchi, La schiuma del mondo (testimonianze di una letteratura anticontadina tra Medioevo e Rinascimento), in Giorgio Borrelli (a cura di), Uomini e civiltà agraria in territorio veronese, 2 voll., Verona, Banca Popolare di Verona, 1982, II, pp. 676-681, e i saggi ivi citati.

42 “Che fossero impiccati / tutti quanti (i cittadini) di Belluno! / Polenta senza sale / mangiamo a causa loro”.

43 B. Zanenga, Illustrazione e commenti, cit., pp. 260-261.

44 “Per tutto quest’anno abbiamo pianto / la guerra (portata) dai nemici. / Al sangue del baleno, / non abbiamo mai pace”.

45 “Le sementi vanno in malora, / il terreno non è arato, / il pane ci mancherà, / allora che faremo? // E di che cosa vivremo?”.

46 Così Zanenga (Illustrazione e commenti, cit., p. 273) a proposito della zingaresca n. XIIIP.

47 Su quest’ultimo testo, nel quale è salutata con gioia la nomina del nuovo podestà di Belluno (forse Geronimo Tagliapietra) e si allude alla pace tra Enrico VIII e Luigi XII (agosto 1514), cfr. ivi, pp. 282-283.

48 L’ipotesi è già del Salvioni (C. Salvioni, Ancora del Cavassico, cit., p. 588, nota 2), che segnalava altresì l’alta frequenza di pavanismi nel componimento. Per riscontri nella letteratura pavana, cfr. almeno le barzellette Gi è partù quei lanziman! e Cantom tuti in paxe e amore pubblicate tra le Poesie politiche da M. Milani (a cura di), Antiche rime venete (XIV-XVI sec.), cit., pp. 401-404 e 409-411.

49 Angelo Beolco il Ruzante, La Pastoral. La Prima Oratione. Una lettera giocosa, a cura di Giorgio Padoan, Padova, Antenore, 1978, p. 215.

50 Cfr. ad esempio i vv. 7-8 «El no g’è pì giusticia, né rason. / I se la fa a so muo’: chi à mal, so dan» con il n. 15 dei Sonetti ferraresi pubblicati in M. Milani (a cura di), Antiche rime venete (XIV-XVI sec.), cit., pp. 139-140 (ma una forte denuncia del malfare di notai e giudici è pure nel n. 29: ivi, pp. 167-168): «E’ fu’ a Ferara e sè me lamentiè / dal poestà e dal zuixe e dai Maùri. / El me fo ditto: “Sarto, torna indrie’, / ne perder tempo a dir de’ malfaturi / che ’l mondo se governa ala strapiè [‘all’incontrario’]. / <A>recomandate a Diè, / ch’el te pò aiar, se ’l vole, e trar d’affanno: / l’è un tempo, adesso, [che] chi ha mal, so danno”».

51 Lidia Bartolucci, Intorno a un ms. di origine bellunese (ms. Firenze, Bibl. Naz. Centr., Landau-Finaly 13), «Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore», LXXVII 331 (2006), pp. 134-137. Vedi anche Andrea Bocchi, Il contrasto di Sacoman e Cavazon, in Antonio Daniele (a cura di), Metrica e poesia, Padova, Esedra, 2004, pp. 89-126: pp. 90-91 e nota 3.

52 Le rime di Bartolomeo Cavassico, cit., I, p. CVII (corsivi originali). Sull’argomento è ancora fondamentale Ludovico Zorzi, Alle origini del teatro veneto del Rinascimento: l’esperienza dei “Mariazi” e la “Betìa” del Ruzante, «Ateneo Veneto», II (1964), pp. 56-80.

53 Le rime di Bartolomeo Cavassico, cit., I, p. CXXIX.

54 Maria Corti, Il codice bucolico e l’“Arcadia” di Jacobo Sannazaro (1968), in Ead., Nuovi metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 281-304: p. 288.

55 Enrico Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi, 1908, p. 239.

56 Le rime di Bartolomeo Cavassico, cit., I, p. cxxii.

57 V. Formentin, Carlo Salvioni filologo, cit., p. 204, nota 29.

58 C. Salvioni, Ancora del Cavassico, cit., pp. 588-591 (a proposito delle rime LV-LVIII e LXIII); G. B. Pellegrini, Poesie inedite, cit., pp. 314-316 ha invece ipotizzato che i presunti tratti ladino-veneti (in particolare l’intacco palatale di ca e ga) fossero effettivamente propri di alcune varietà rustiche del bellunese cinquecentesco, ma vedi le riserve espresse ora da Lorenzo Tomasin, Tra linguistica e filologia. Contributo al dibattito sugli esiti di CA, GA, «Vox Romanica», LXXIV (2015), pp. 1-19: pp. 5-7.

59 Lorenzo Tomasin, Calendario trecentesco delle feste per la Scuola di S. Martino di Belluno, in Michelangelo Zaccarello e Lorenzo Tomasin (a cura di), Storia della lingua e filologia. Per Alfredo Stussi nel suo sessantacinquesimo compleanno, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2004, pp. 159-176; Nello Bertoletti, Testi in volgare bellunese del Trecento e dell’inizio del Quattrocento, «Lingua e stile», XLI (2006), pp. 3-26.

60 Le rime di Bartolomeo Cavassico, cit., II, pp. 307-403; G. B. Pellegrini, Poesie inedite, cit., pp. 312-335.

61 Cfr. sopra la nota 29.

62 Francesco Pellegrini, La Favola Pastorale in lingua villanesca pubblicata da Luigi Alpago Novello per le Nozze de Bertoldi-Ancillotto e dedicata con lettera allo Sposo, Belluno, Cavessago, 1883; Id., Una cena nel carnovale del 1527 in una casa patrizia bellunese. Componimento in segno d’esultanza pubblicato da Giacomo Migliorini per le Nozze Sperti-Fagarazzi, Belluno, Deliberali, 1883.

63 Il Pellegrini informò l’Ascoli del prezioso ritrovamento, pur senza accogliere la proposta d’una pubblicazione a quattro mani che gli fu avanzata dall’illustre glottologo: cfr. B. Zanenga, Illustrazioni e commenti, cit., pp. 250 ss. e Giovan Battista Pellegrini, Carteggio Ascoli-Fr. Pellegrini, in Studi di filologia romanza oerti a Silvio Pellegrini, Padova, Liviana, 1971, pp. 421-455: pp. 436 ss.

64 Si aggiunga che il Cian aveva frattanto pubblicato la barzelletta Viva Marc e i partesan (LXIII) nel «Giornale storico della letteratura italiana», XVII (1891), pp. 112-113, nota 1; essa era stata poi ristampata da Antonio Medin, La obsidione di Padua del MDIX. Poemetto contemporaneo, Bologna, Romagnoli Dall’Acqua, 1892, pp. 319-325.

65 Le rime di Bartolomeo Cavassico, cit., I e II.

66 Cfr. sopra le note 8 e 14.

67 L. Rossa, Due inediti dialettali, cit., pp. 142-146.

68 L. Rossa, Le rime inedite di Bartolomeo Cavassico, tesi di laurea, Università di Padova, 1976, rel. Armando Balduino.

69 Ci limitiamo a segnalare i numerosissimi ritocchi tacitamente apportati dal Cian al testo della farsa n. LXXI, sulla scia degli interventi di F. Pellegrini (es. LXXI.2 25-26 «Diner le ha in libertà, / Marcandresse tut doi» [ms. «Le ha diner in lubertà / marcandaresse tute doi»]; ecc.).

70 Non di rado, infatti, s’incontrano nel ms. correzioni che sono significative per le loro implicazioni fonetiche (I 14 morouse) u agg. nell’interlinea, come in 15 vezouse; I 74 como] chomo, con o finale corr. su e; LVII 8 quent] e corr. su a; VIIP 26 de quest] corr. su di quist, ecc.) o perché documentano alcuni involontari errori di Cavassico copista di sé stesso (XXII 4 ne voiè corr. su voiade; XXXIV 13 ebbe seguìto da bu depennato; XXXVI 58 avei corr. su dige depennato; 109 Perchè) P(er)ch(e) corr. su Daspò; LXV 176 lassarlo] la sequenza arlo corr. su ello, ecc.).

71 Nella forma “lezione a stampa] lezione manoscritta”, quest’ultima in trascrizione interpretativa.

72 Il restauro procura una seconda attestazione di una forma finora documentata solo in Ruzante (lubertè, con singolare passaggio di i a u) e interpretata come frutto dell’incrocio giocoso con ubertè ‘ubertà’ (Andrea Cecchinato, Questioni lessicali ruzantiane, «Quaderni veneti», VI, 1 [2017], pp. 61-74: pp. 61-62). Lo stesso fenomeno si osserva pure in certe forme del verbo busognare ‘bisognare’, qui (LXV 52 busognà) e nella tardocinquecentesca Egloga pastorale di Morel (G. B. Pellegrini, Egloga pastorale di Morel [1964], in Id., Studi di dialettologia e filologia veneta, cit., pp. 375-442), che presenta ben quattro riscontri (v. 13 busognà, 157 Busognarae, 336 busogna, 397 Busognarave), sicché si potrebbe pensare, se non di nuovo a un incrocio lessicale (questa volta con buso), a un gioco linguistico sulle forme latine lubet/libet.

73 Su questa parola, cfr. Andrea Calmo, Il Saltuzza, a cura di Luca D’Onghia, Padova, Esedra, 2006, p. 146, nota 42.

74 Leggi dunque sëa bisillabo.