Revue Italique

La poesia dialettale del Rinascimento nell’Italia del Nord

OJ-italique-695

Genova 1575-1612. La poesia dialettale ligure nelle Rime diverse in lengua zeneise

Matteo Navone

La letteratura dialettale ligure1 conobbe un solido sviluppo artistico solo a partire dalla metà del Cinquecento. Prima di questa data infatti, al netto di alcune attestazioni letterarie risalenti alla fine del secolo XII (il Contrast bilingue Domna, tant vos ai preiada e il Descort plurilingue Eras quan vey verdeyar del trovatore provenzale Raimbaut de Vaqueiras) e alla seconda metà del XIII (i versi del cosiddetto Anonimo Genovese),2 il volgare ligure subì la dura concorrenza del latino e del provenzale, quest’ultimo importato nella Genova del Duecento attraverso gli stretti rapporti commerciali con la Spagna e la Francia meridionale, e preferito alla parlata locale da poeti come Bonifacio Calvo e Lanfranco Cigala.3 La situazione cominciò a modificarsi nel corso dei secoli XIV e XV, durante i quali si verificò un graduale consolidamento dell’uso scritto del dialetto, avaro certo di testimonianze artisticamente rilevanti, ma comunque indicativo di una crescente emancipazione dall’influenza del provenzale e delle altre varietà italiane settentrionali, significativamente parallela alla lenta ma incessante penetrazione del toscano nel territorio ligure. Non a caso nel Cinquecento fu proprio la definitiva affermazione del modello linguistico e poetico toscano a favorire lo sviluppo della sua alternativa dialettale, che tuttavia prese ad acquisire una fisionomia di rilievo solo nella seconda metà del secolo: e se in questo i genovesi si dimostrarono arretrati rispetto ad altre realtà italiane, soprattutto quelle venete, va riconosciuto che tale ritardo riguardò l’intera scena letteraria e non solo il suo comparto vernacolare. Andrà inoltre constatato che, nel generale risveglio delle lettere verificatosi a Genova nel secondo Cinquecento riscatto di secoli di marginalità e al tempo stesso premessa di quell’autentico siglo de oro della poesia ligure che sarà il Seicento fu proprio la produzione dialettale a giocare un ruolo trainante e decisivo.4

La tradizione ci ha consegnato una straordinaria ‘fotografia’ collettiva o forse sarebbe meglio dire una piccola collezione di ‘istantanee’ dei poeti dialettali attivi in Liguria nell’ultimo quarto del XVI secolo: mi riferisco all’antologia Rime diverse in lengua zeneise, pubblicata per la prima volta a Genova nel 1575 presso Marcantonio Bellone, e poi riedita con l’aggiunta di nuovi testi e un titolo italianizzato (Rime diverse in lingua genovese) dapprima a Pavia nel 1583 e nel 1588 presso la tipografia di Girolamo Bartoli, poi nel 1595 sempre nella città lombarda per gli eredi del Bartoli,5 e infine a Torino nel 1612, «ad instanza di Bartolomeo Calzetta e Ascanio de Barberi». La princeps di questa miscellanea, pur non essendo la più antica edizione con testi in genovese,6 rappresenta il primo esempio di pubblicazione interamente dedicata a questa produzione nonché, a livello nazionale, una delle prime antologie poetiche dialettali a stampa e le sue cinque edizioni (forse sei)7 realizzate nell’arco di un quarantennio testimoniano il successo di questainiziativa, di cui fupromotore Cristoforo Zabata, unodeiprincipali artefici del risveglio letterario della Genova tardo-cinquecentesca.8

Vissuto tra il 1530 e il 1594 circa, Zabata fu autore di varie poesie e di una fortunata raccolta di motti e facezie, il Diporto (o Sollazzo) de’ viandanti (Pavia, Girolamo Bartoli, 1589), ma è oggi ricordato soprattutto per la sua attività di editore non nel senso di stampatore, ma di libraio committente e organizzatore di iniziative editoriali e in particolare di curatore di una serie di antologie poetiche uscite tra il 1560 e il 1593 dai torchi di Venezia, Genova e Pavia, nelle quali i versi di svariati e talvolta oscuri rimatori liguri si affiancano a quelli di autori celebri come Giovanni Della Casa, Luigi Tansillo e Torquato Tasso: un’operazione culturale che, come la critica ha ormai da tempo rilevato, svolse un ruolo determinante sia a livello nazionale, promuovendo l’officina letteraria ligure oltre i confini della Repubblica di Genova, sia a livello locale, fissando un gusto concettista e filo-tassiano9 destinato a influenzare le grandi penne del primo Seicento ligure (Gabriello Chiabrera, Angelo Grillo, Ansaldo Cebà, Gian Vincenzo Imperiale). Tra queste raccolte si distingue la serie delle sillogi in genovese, di cui Zabata curò tutte le edizioni fino alla stampa del 1588, come dimostra la sua firma in calce alle dediche.10 Val la pena iniziare questo nostro percorso proprio dalle premesse zabatiane di fatto i più antichi contributi ‘critici’ sulla poesia dialettale ligure per poi passare a considerare gli autori inclusi in queste raccolte, seguendo le novità introdotte di stampa in stampa.

La dedica della prima edizione,11 scritta in genovese e indirizzata al nobile Giovanni Maria Bava, rivela subito un’informazione interessante sulla genesi di questa impresa editoriale. Zabata racconta infatti di averla ideata a Venezia dove si era recato per fuggire le lotte civili scoppiate a Genova nel marzo 1575 dopo essersi ritrovato in compagnia di un gruppo di giovani «da no desprexà», in parte veneziani e in parte «forestè», che avevano criticato la «lengua zeneise» definendola «chinna de mancamenti [piena di difetti]»12 e impossibile da scrivere, nonché inadeguata a un qualsiasi impiego letterario, al contrario della parlata lagunare, già nobilitata da scrittori come il commediografo Andrea Calmo. Questo aneddoto che suona quantomeno verosimile, poiché Zabata ebbe certamente stretti rapporti con l’industria editoriale veneziana e soggiornò più volte nella Serenissima 13 è significativo soprattutto per il riferimento alla produzione del Calmo: esso suggerisce che la scelta di realizzare le Rime diverse fu influenzata dalle analoghe iniziative intraprese nei decenni precedenti dall’editoria lagunare, che aveva accolto e promosso la vivace produzione pavana, veneziana e plurilingue diffusa sin dal tardo Quattrocento e praticata soprattutto in ambito teatrale (come ben dimostra proprio l’attività del Calmo) e lirico (si pensi a Maffio Venier, nome sul quale converrà tornare).14 Del resto il modello veneziano aveva già agito sulle antologie in lingua promosse dallo Zabata, ispirate alle miscellanee uscite in gran copia dai torchi lagunari attorno alla metà del secolo, a partire dalle celebri Rime diverse di molti eccellentissimi autori edite dal Giolito nel 1545.15 Tornando alla dedica al Bava, Zabata vi proclama dunque un ben preciso intento: punto sul vivo dalle critiche della compagnia di giovani, egli intende dimostrare «che de concetti e sentimenti dogii e atri belli diiti a Zena ghe son de quelli chi san fa` sì ben come quarch’un’atro [‘che a Genova ci sono poeti che sanno comporre concetti e dolci versi d’amore e altre belle espressioni non inferiori a quelle di altri’]», e che se i veneziani possono fregiarsi di un poeta dialettale come Andrea Calmo, i genovesi possono «gloriasse d’havei un Poro che se puoe meriteivementi chiamà poere dra lengua zeneixe [‘vantarsi di avere un Paolo che si può meritatamente definire il padre della lingua genovese’]».16 Il Poro in questione è Paolo Foglietta, il maggior poeta in vernacolo ma forse si potrebbe dire il maggior poeta tout court – espresso da Genova nel Cinquecento, grande protagonista di questa antologia e di tutte le sue successive riedizioni, a cui, pur senza nominarlo esplicitamente ma al cognome si allude subito dopo con un trasparente gioco di parole, quando il poeta è definito «pichiena foggietta [‘piccola foglietta’]» destinata a produrre «grendi erbori d’oro [‘grandi alberi d’oro’]»17Zabata riconosce il merito di aver dimostrato le potenzialità poetiche dell’idioma materno. Questa prima peroratio in favore della parlata ligure, sia stata o no sollecitata dalla discussione col gruppo di giovani incontrato a Venezia, vuol prendere di petto i rilievi di ben più illustri detrattori, dal Dante del De vulgari eloquentia (I, XIII 6), che aveva menzionato il genovese solo per biasimarne la sovrabbondanza di dure z,18 al Benedetto Varchi del recentissimo Ercolano, che lo aveva posto tra gli idiomi «disarticolati», impossibili cioè da «scrivere e dimostrare con lettere» (si noti l’analogia con le critiche riferite da Zabata),19 senza dimenticare le perplessità, ancora di marca dantesca, di umanisti come Paolo Pompilio.20

Questo intento apologetico si registra anche nelle dedicatorie delle successive edizioni, con la parziale eccezione di quella del 1583, indirizzata a un altro nobile locale, Agostino Durazzo, e, caso unico nella serie, redatta in italiano. In essa Zabata presta sorprendentemente il fianco ai rilievi più comuni contro il genovese, dando ancora una volta l’impressione di aver ben presenti in particolare quelli di Varchi:

Tra quelle lingue [...] che ricevono in loro qualche imperfettione per la quale non può l’uomo intieramente esprimere il suo concetto, mi pare che si debba con molta ragione la genovese annoverare, essendo ella talmente dificile nella pronuntia, per mancamento di alquante lettere all’intelligenza di quella necessarie, che gli stessi cittadini non possono senza molta considerazione leggerla compiutamente.21

Questa apparente palinodia della difesa del 1575 serve in realtà a enfatizzare il talento e il primato del Foglietta, «il quale, con la sua propria industria, ha ridotto in tal maniera facile questa favella, che l’uomo ne può debita sodisfattione avere, come da i versi suoi chiaramente si vede, i quali sono [...] per la maggior parte dignissimi riputati della toscana Musa».22 La strategia torna invece affine alle dichiarazioni del 1575 nella dedica del 1588 all’ennesimo patrizio locale, Giovanni Pietro Crollalanza: tornando a scrivere in dialetto, Zabata sottolinea che nelle piacevoli rime antologizzate «con molta facilitè son espressi molti concetti bellissimi, a mendamento de quelli chi no vuoeran che se posse in questa nostra lengua esprime rò sò intento [sono facilmente espressi molti bellissimi concetti, a emendamento di quanti sostengono che nella nostra lingua non sia possibile esprimere il proprio pensiero]».23 L’elogio del «zeneixe» si fa qui più risoluto, incoraggiato forse dal successo editoriale (siamo alla terza edizione in tredici anni): senza concedere più quasi alcuno spazio alle perplessità dei detrattori, Zabata torna a rimarcare il ruolo di padre nobile del Foglietta, aggiungendo che la sua esperienza ha fatto scuola, e che diversi poeti ormai «pìgian ra mira a ro sò bersagio [‘prendono di mira il suo stesso bersaglio’]», anche se sono pochi quelli che «dàghan dentr’o segno [‘danno nel segno’]».24 Tra questi emuli del Foglietta va annoverato lo stesso Zabata, del quale già nella raccolta del 1583 compare un sonetto caudato a Stefano Carmagnola, riproposto cinque anni dopo assieme ad altri tre testi (un sonetto al Crollalanza e due caudati, uno ancora rivolto al Carmagnola e un altro, responsivo, a Lorenzo Questa).25 Al di là degli omaggi encomiastici, queste poesie si caratterizzano per la loro misura piacevolmente narrativa, che nella risposta al Questa Se no fuisse che ven messè Bastian si traduce nel resoconto di un avventuroso viaggio da Genova a Venezia, mentre nel caudato al Carmagnola Tandem, feto ho ro libero stampà, svela la complicata vicenda editoriale delle Rime del 1583, per la cui stampa Zabata racconta di aver versato una caparra a un imprecisato tipografo mil nese datosi poi alla macchia («E così d’oggi anchuoe drento a Miran / fin a disette giorni o m’ha menaou [E così ad oggi per Milano / mi ha fatto girare per diciassette giorni])» e di essersi poi rivolto alla «stamparia / bonna e perfetta» del Bartoli.26

In tutte le edizioni della miscellanea la dedica è seguita da un’ampia sezione riservata alle composizioni del Foglietta, a ennesima riprova del ruolo di capofila che queste antologie gli riconoscono, e al quale va probabilmente aggiunto anche quello di promotore, assieme a Zabata, almeno della silloge del 1583.27

Nato intorno al 1520 in una famiglia di nuova nobiltà, e vissuto quasi ininterrottamente a Genova fino alla morte nel 1596,28 Paolo Foglietta condivise le passioni politiche dell’allora più celebre fratello, lo storiografo e libellista Oberto, che per le sue idee contrarie alla politica perseguita da Andrea Doria e dai cosiddetti nobili ‘vecchi’, espresse nel dialogo Delle cose della Repubblica di Genova (Roma, A. Blado, 1559), venne bandito da Genova nel 1559.29 Proprio questo bando, che ebbe certamente conseguenze anche per il resto della famiglia, può aiutare a spiegare la discrezione che caratterizzò gli esordi editoriali di Paolo: una prima selezione delle sue rime dialettali vide infatti la luce nel 1570 in una delle sillogi di Zabata, la Nuova selva di varie cose piacevoli [...] (Genova, [Antonio Bellone]), sotto la sigla «M. P. C.»,30 ovvero Messer Paolo Cattaneo, dal nome della famiglia al cui albergo erano stati ascritti i Foglietta;31 seguì, cinque anni dopo, la princeps delle Rime diverse in lengua zeneise, con un gruppo più ampio di liriche, non tutte inedite, pubblicate stavolta addirittura in forma adespota o, in un solo caso, sotto le iniziali «P. F.»,32 soluzione quest’ultima adottata peraltro anche per tutti gli altri autori antologizzati.33 Una scelta non facile da spiegare (si ricordi che anche nella dedica Zabata allude soltanto al cognome del poeta), ma forse da ricollegare proprio al bando inflitto ad Oberto, che potrebbe aver indotto il fratello, in considerazione anche del tema politico di alcune poesie, a scegliere un esordio all’insegna del basso profilo; ed è altresì possibile che, nel caso della raccolta del 1575, l’anonimato scelto per il suo indiscusso protagonista sia ricaduto, per uniformità e convenienza, anche sugli altri autori. Sta di fatto che il nome del Foglietta apparve senza più filtri solo a partire dalle Rime del 1583, quando ormai da tempo il bando contro Oberto era stato ritirato (1576).

Al netto di queste traversie, la ricorrente presenza nei libri genovesi di fine Cinquecento, anche come poeta in toscano,34 permise a Foglietta di conquistare una certa notorietà, non limitata ai confini della Liguria. Lo dimostrano gli elogi in versi tributatigli da Angelo Grillo poeta genovese, ma di respiro nazionale che al Foglietta indirizzò vari sonetti raccolti nella Parte prima delle sue Rime (Bergamo, Comino Ventura, 1589), ma soprattutto da Torquato Tasso, che nel sonetto O dotto fabro del parlar materno (Rime, 1378)35 ricambiò l’elogio tributatogli dal ligure nella poesia in vernacolo Se ben mille degn’overe laudè, incluso nella celebre edizione genovese della Gerusalemme liberata corredata dalle illustrazioni di Bernardo Castello (Genova, [Girolamo Bartoli], 1590).36 Per quanto generico, l’omaggio tassiano permette di introdurre una prima caratteristica della produzione di Foglietta: la citazione incipitaria del verso dantesco dedicato ad Arnaut Daniel (Purgatorio, XXVI 117) coglie infatti la cifra sperimentale e colta di questa esperienza poetica, basata non già sull’idea di un uso spontaneo e privo di mediazione artistica del «parlar materno», ma piuttosto sulla volontà di forgiare il dialetto come lingua «concettualmente»37 e stilisticamente elaborata. Questo disegno si avverte chiaramente nella scelta di misurare i propri versi con le auctoritates della tradizione toscana e con quasi ogni ambito del poetabile, dall’amore alla politica, dal registro morale a quello comico.

La sezione amorosa preponderante nelle Rime del 1575, probabilmente anche per le cautele politiche di cui si è detto, e poi costantemente riproposta persegue questa nobilitazione coniugando il dialetto con stilemi e immagini della poesia colta per eccellenza del periodo, il petrarchismo, a loro volta deformate dal contatto con un linguaggio ben più concreto del rarefatto lessico bembiano, con scenari prosaici e quotidiani, e spesso con una spiccata inclinazione giocosa. È un gioco che presenta molti tratti tipici del manierismo (torsione interna di un modello più che sua radicale contestazione),38 ma che soprattutto rientra appieno nel più ampio e variegato fenomeno del petrarchismo dialettale,39 attuato qui in una misura piuttosto moderata, che evita la parodia dissacrante, ma al tempo stesso propone continui urti tra registro serio e comico. Si veda ad esempio il lungo sonetto caudato scelta metrica che già denota una prima torsione in direzione burlesca dedicato a una «Chieretta» cugina del poeta. La prima quartina rende omaggio alla tradizione recuperando il tema già stilnovista dell’amata creata da Dio per mostrare in terra la propria potenza:

Se, per mostrà ra so possanza, Dè
     dre bellezze dro cè schiumà ra sció
     e voi ne fè con sì divin sprendó,
     ch’in terra ne mostrè ro ben dro cè

Se Dio, per mostrare la sua potenza, / schiumò il fiore delle bellezze del cielo / e ne fece voi, con uno splendore così divino / che in terra ci mostrate il bene del cielo.

Segue il motivo petrarchesco della crudeltà della donna che cela all’amante e agli altri uomini la propria bellezza, virato però subito verso un tono vivacemente popolare, sia con il termine che designa l’oggetto veicolo del nascondimento un «chiumassetto», probabilmente un ventaglio di piume sia con la metafora giocosa scelta per rendere la condizione degli amanti privati della loro luce:

E à l’orbetto zughemo tutti noi
     e a taston van re gente tutte quente
     senza ro lume che n’ascondei voi.40

E noi tutti giochiamo a moscacieca / e tutte le persone vanno tentoni, / senza la luce che voi ci nascondete.

Ulteriori spunti sono offerti dai versi successivi, ritmati da continui giochi di parole intorno al nome dell’amata41 che emulano, ma in chiave divertita, le rifrazioni verbali del nome di Laura nel Canzoniere. Non mancano altri esempi di questa tendenza a deformare il codice petrarchesco in una direzione argutamente faceta, come in Quando a ro ben e mà ben hò pensaòu, in cui campeggia l’immagine di Amore-arciere cieco («orbo barestrè») che colpisce il poeta con le sue frecce trasformandolo in un «porco spin» e persino in un «zin [riccio di mare]»,42 oppure in A torto dro cè, Minna, ve dorei, in cui l’amata è invitata a non dolersi per il fatto di aver perso un occhio, in quanto il cielo non poteva lasciarle «doì soì [‘due soli’]» con cui oscurare l’astro celeste e al contempo rendere ciechi i propri amanti:43 una galanteria giocosa, quest’ultima, che da un lato guarda alla tradizione comico-burlesca, e dall’altra rivela una ricerca di originalità e un interesse per il deforme che annunciano il gusto barocco. Certo non mancano rime amorose più controllate, come quelle per la poetessa genovese Pieretta Scarpa Negrone44 o la lunga serie di ottave dedicate alla nobildonna Placidia Pallavicini;45 ma a colpire sono soprattutto i casi di ripresa in chiave scherzosa del canone petrarchista, anche perché non privi di precedenti nella tradizione dialettale, ad esempio nelle Bizzarre, faconde, et ingeniose rime pescatorie di Andrea Calmo,46 in cui si riscontra anche un’altra soluzione attestata pure in Foglietta, seppur con minor frequenza, ovvero la trasformazione «piscatoria» e marittima del paesaggio petrarchesco.47 La citazione del Calmo nella dedica del ’75 va quindi forse letta, al pari dell’omaggio a Maffio Venier di cui si dirà, come indicazione di un modello ben presente a Zabata e Foglietta, ispiratore di un gioco ironico più antibembiano che anti-petrarchesco. Certo i modelli veneziani restano distanti nella riuscita e soprattutto nella maestria tecnica, come dimostra il ristretto campionario metrico dispiegato da Foglietta, limitato al sonetto, caudato e non, e all’ottava; va precisato però che la vena giocosa di Foglietta si esprime anche in una serie di frottole carnascialesche escluse dalle antologie zabatiane per esplicita ammissione del curatore,48 e tutt’oggi in massima parte inedite.49

La scelta di escludere i versi burleschi, verosimilmente concordata traZabata e Foglietta, conferì maggior risalto al versante più impegnato della produzione del genovese i componimenti di soggetto politico e morale, quantitativamente prevalenti dal 1583 in poi evidenziando altresì una peculiarità di queste antologie, in cui l’uso più consueto del dialetto, finalizzato alla creazione di una poesia comica o comunque piacevole, si alterna a un impiego più alto e serio, in cui il vernacolo diventa strumento di impegno civile e persino veicolo di dibattito pubblico, capace com’è di rivolgersi a tutte le componenti sociali, e non soltanto al ristretto ceto dirigente. Tra le poesie politiche di Foglietta per cui è possibile proporre una datazione,50 le più antiche sono certamente quelle cosiddette «per armar galee», legate a un dibattito sorto negli anni Cinquanta, quando Genova si trovò costretta a fronteggiare la crescente minaccia corsara e a reagire all’invasione franco-ottomana della Corsica: queste emergenze evidenziarono la precaria situazione militare della repubblica, che non poteva contare su una flotta pubblica, ma solo su galere private di proprietà di Andrea Doria e di altri esponenti dell’aristocrazia ‘vecchia’, che le utilizzavano per scopi privati e al servizio della Spagna di Carlo V. Crebbe così in città, soprattutto tra i nobili ‘nuovi’, un partito favorevole al riarmo dell’arsenale statale e a una maggiore indipendenza dalla Spagna, nel quale militarono entrambi i fratelli Foglietta: Oberto affrontò il tema nel citato dialogo del 1559 che gli costò l’esilio, mentre Paolo manifestò le sue idee in una quindicina di sonetti caudati risalenti agli anni 1555-1560, che godettero probabilmente di una immediata circolazione manoscritta, ma non giunsero alle stampe prima del 1583, a sette anni dalla ricomposizione del conflitto tra Vecchi e Nuovi e a ben ventitré dalla morte del principale (ma mai esplicitato) obiettivo polemico di questi versi, Andrea Doria. L’arte di Foglietta tocca in queste rime le sue punte espressive più alte e accorate, soprattutto nei versi in cui il rimpianto del passato si scontra con l’amarezza del presente:

Zena moere de regni e de cittè,
     za regina dro mà fo tanto brava
     che navegando de gren rè piggiava
     non che menùi e pichieni corsè,4
    
     che a travaggiava con garie armè
     […]
Ni renna òura a pà chiù,
     anzi de renna a pà vegnua un messo
     […]

Genova, madre di regni e di città, / fu regina del mare un tempo, e così valorosa / che quando navigava sapeva catturare gran re / nonché corsari di ogni risma; / e si dava da fare armando galee [...] Già adesso non sembra più regina, / anzi da regina si è trasformata in valletto.51

Lo stile è retoricamente elaborato, come testimoniano le immagini enfatiche e l’insistenza sul concetto di regalità, ottenuta tramite una serie di figure della ripetizione (poliptoto e figura etimologica: regni, regina, renna), che in queste rime prendono sovente il posto dei bisticci giocosi frequenti nelle poesie amorose. L’immagine di Genova come decaduta regina dei mari torna in questi testi in maniera quasi ossessiva, determinando una sorta di Ringkomposition – al sonetto appena citato, il secondo della serie, si contrappone l’ultimo, con la prosopopea di Genova, «gran reginna» divenuta «schiava», che gioisce alla notizia che la «signoria» ha infine deciso di costruire nuove galere 52 e conservando forse in una delle sue occorrenze una vaga impronta della Drittura commiserata da Dante in Tre donne intorno al cor mi son venute («Se ben Zena bellissima e famosa, / chi fo tegnua za Renna dro mà, / oura va ma vestia e desarmà / e streppellà com’unna povertosa [Sebbene Genova, tanto bella e famosa / che fu ritenuta la regina del mare, / ora va mal vestita e mal armata / e malconcia come una poverella]»).53 Molto forte è la contrapposizione tra il «ben comun» rappresentato dalla costruenda flotta e il «ben particulà»54 ricercato da tanti ottusi concittadini, che pensano solo ad assicurare bene le navi e a rendere sfarzose le loro ville, senza curarsi di proteggere tanto lusso, né di tutelare la nave più importante, quella «communna»;55 puntuale è anche la denuncia delle conseguenze politico-sociali di questo atteggiamento, dalla crescente sfiducia verso la capitale da parte delle riviere, lasciate alla mercé delle incursioni piratesche, ai problemi di ordine pubblico causati dai tanti giovani che si danno al furto per mancanza di lavoro, e che sulle galere potrebbero meglio applicare il loro vigore e coraggio.56 La rampogna contro l’oligarchia al potere mette anche in guardia petrarchescamente dalla malriposta fiducia nei «Tudeschi»57 mercenari, sostanziandosi inoltre di un tema molto caro a Foglietta, la critica contro i genovesi che trascurano le tradizionali attività mercantili per dedicarsi alle operazioni finanziarie. Si legga ad esempio la seconda quartina del già citato sonetto conclusivo della serie

Aora perché ho cangiao ro navegà
     in cangi, son cangià de gran reginna
     in schiava, e da canaggia berrettina,
     e da vassalli me son scarchizà.

Ora perché ho cambiato il navigare / in cambi, sono cambiata da gran regina / in schiava, e da canaglia berrettina / e da vassali sono calpestata.58

dove ancora poliptoto e figura etimologica, assieme alla marcata allitterazione cangiao: cangià: canaggia, rendono l’idea di un cambiamento insensato e moralmente negativo (si ricordino, a tal proposito, i dubbi sulla liceità cristiana dei cambi). A Foglietta sfugge la complessità di questo processo storico, in qualche modo obbligato dallo spostamento del baricentro del commercio marittimo dal Mediterraneo all’Atlantico, né lo impressiona il segno più tangibile del suo successo, gli sfarzosi palazzi privati edificati dai nobili arricchitisi con prestiti e investimenti, che sono anzi biasimati in altre rime civili come residenze da re più che da «citten [cittadini]». In questo nutrito filone spicca un sonetto che torna a dialogare con Petrarca, stavolta senza intenti comici e puntando sul versante morale del Canzoniere:

Ra gora, pompa e i otiose chiume
     e sempre andà su l’amorosa vitta,
     e fà dra ninfa, e fà dra bella vitta
     e no vorei cagà chiu senza lume;4
     
ro zugà giorno e notte per costume,
     ra superbia matesca chi desvitta
     l’aveise l’un e l’altro in ira e in gritta,
     l’esse òrbi e presumì d’avei gran lume;8
     
ro lassà nuo ro comun meschin
     e noi vestise d’oro tutta via,
     e pareise de sangoe crestallin;11
     
l’avei lassiao ra drita mercantia
     e a cangi andà derrè seira e mattin
     aura han da Zena ogni virtù bandia.14

La gola, la pompa e le oziose piume, / il continuo amoreggiare, / il far la ninfa e la bella vita, / il non voler cacare senza lume; // il giocare giorno e notte per abitudine, / la folle superbia che porta fuori strada, / l’odiarsi e disprezzarsi l’un con l’altro, / essere ciechi e pretendere di vedere bene; // lasciare nudo il povero bene comune / mentre noi ci rivestiamo d’oro, / il credersi di sangue puro; // l’aver abbandonato l’onesto commercio / e l’inseguire sera e mattino i cambi, / hanno bandito da Genova ogni virtù.59

Il sonetto è una sorta di riscrittura dilatata del primo distico del celebre La gola e ’l sonno et l’otïose piume (Rvf 7), in cui il lamento per gli uomini che trascurano la poesia e la sapienza, centrale nell’originale petrarchesco, lascia il posto a una rassegna dei costumi corrotti dei genovesi contemporanei, tra i quali spicca ancora l’abiura dei commerci (vv. 12-13). L’operazione è molto letteraria, tanto che sembra di scorgere prestiti da altre poesie di Petrarca, segnatamente nel v. 8, che fa ripensare al «poco vedete, e parvi veder molto» rimproverato ai signori d’Italia in Rvf 128, 24, e che non a caso segue un verso dedicato alle divisioni cittadine. Il linguaggio è sorvegliato come in tutta la rimeria politica-morale di Foglietta, anche se non manca un passaggio triviale (v. 4), che ha un sapore di satira indignata più che di divertita degradazione del modello, come se Petrarca si mescolasse con il Dante di Malebolge, in barba alle prescrizioni di Bembo. Una coloritura comica ed equivoca va inoltre riconosciuta nell’espressione «fà dra ninfa» (v. 3), da intendere probabilmente nel senso di ‘comportarsi in modo effemminato’.60

L’abbandono della drita mercantia non è l’unico tratto della tradizione genovese rimpianto dal Foglietta: la sua ideologia conservatrice, non sorprendente per un poeta dialettale, si esprime anche nei sonetti ‘per le toghe’, testimoniati a partire dal 1570,61 in cui l’abbandono del sobrio abito tradizionale genovese la toga appunto in favore di abbigliamenti più sontuosi d’importazione forestiera diventa ancora una volta specchio dell’oblio delle antiche virtù e della tradizione mercantile della città. La medesima esterofilia viene contestata anche sul piano linguistico in due sonetti, nel più celebre dei quali, Ri costumi e re lengue emo cangiè, sono prese di mira le parole toscane sempre più usate in luogo dei corrispondenti termini locali (come fradelli e scarpe invece di frè e cazè) dai «tuschen [...] azeneizè [‘toscani genovesizzati’, con probabile gioco di parole con aze, ‘asino’]».62 Il secondo è invece una risposta a un amico (un giurista della famiglia Spinola) che lo rimprovera bonariamente per il fatto di non aver espresso in toscano il suo talento poetico, cosa che gli avrebbe permesso di rendere la sua Minetta più celebre di Laura e Genova più famosa di «Smirna, Mantua, Firenza e ogni cittè»; a queste parole Foglietta ribatte con orgoglio che

Se ben no ho Smirna e Mantua superaou
     dri me versi zeneixi naturè,
     a mi me basta che per versi tè
     ro poeta zeneixe son chiamaou.4
     
Mi son zeneixe, e Zena ho sempre amaou,
     però parlo zeneixe, in lingua mè,
     no in lengua d’atri como i inspritè,
     ni d’atro cha dro me vago fassaou.8

Sebbene non ho superato Smirne e Mantova / coi miei versi genuini genovesi,/a me basta che per tali versi / sia chiamato il poeta genovese. // Io sono genovese e ho sempre amato Genova, / perciò parlo in genovese, nella mia lingua, / non nella lingua d’altri come i forsennati, / legato a nient’altro che al mio sogno.63

La scelta di usare il dialetto per trattare temi politico-civili si rivela qui anche un modo per rivendicare un’identità locale, e dunque una continuità con la gloriosa tradizione cittadina, equiparata alla propria ascendenza nobiliare:64 una scelta politica tout court, cui Paolo restò fedele anche quando propose alla repubblica di tradurre in genovese le Historiae Genuensium del fratello Oberto (Genova, Bartoli, 1585), progetto poi naufragato in favore di una traduzione in toscano affidata a Francesco Serdonati (Genova, eredi Bartoli, 1597), scelta ormai obbligata, a fine Cinquecento, per un’opera volta a veicolare l’immagine della Superba fuori dai confini liguri.65 Fu questa l’ennesima divergenza tra la classe dirigente cittadina e Foglietta, che tuttavia nell’ultima fase della sua produzione e dopo la riforma legislativa che pose fine al conflitto del 1575-76, recependo almeno in parte le richieste dei Nuovi 66 stemperò gli strali polemici verso il governo in nome del valore dell’unità cittadina, recuperando persino Andrea Doria nel pantheon della storia genovese.67

Per quanto preminente, Foglietta non fu l’unico rappresentante della scena dialettale ligure di fine secolo: fin dalle Rime del 1575 a lui si affiancarono, oltre ad alcuni incerti, due figure per noi poco nitide, quelle di Benedetto Schenone e Vincenzo Dartonna, il primo autore di una serie di ottave amorose giocate sul paradosso del poeta cieco che percepisce la luce della virtù dell’amata,68 il secondo di alcuni testi satirici, per lo più sempre in ottave, tra i quali spicca una riscrittura in genovese del primo canto dell’Orlando furioso,69 primo caso di travestimento in panni liguri di un classico italiano, per il quale non mancano precedenti ancora in ambito veneto.70

Poco di più sappiamo su un altro minore, Bernardo Castelletto, sodale di Zabata che oltre ad accogliere alcune rime toscane nelle sue antologie e a dedicargli una miscellanea del 1582, lo saluta come fedele amico in Tandem, feto ho ro libero stampà – noto tra i suoi concittadini come collezionista di epigrafi e altre antichità:71 anche lui optò per una produzione disimpegnata, formata da due sonetti amorosi di tono giocoso editi già nel 1575, cui si aggiunse nel 1583 uno scherzoso caudato indirizzato a Foglietta, in cui Castelletto, dietro la maschera di «Buxotto», oste di Recco, rimprovera all’amico la tirchieria con cui ha reagito al conto di favore ricevuto presso la sua taverna; un testo questo interessante soprattutto per le forme rivierasche che caratterizzano il suo dialetto.72

La stampa del 1583 segnò anche l’ingresso in scena dell’unico poeta capace, se non di contendere a Foglietta il ruolo di protagonista, almeno di affiancarsi a lui come comprimario di rilievo: Barnaba Casero, appartenente a una famiglia di piccola nobiltà ascritta dal 1528 all’albergo dei Cigala, autore di una produzione più smilza di quella di Foglietta, ma anch’essa bipartita tra rime civili (due poemetti in forma di lunghi sonetti caudati in onore dei dogi Antonio Cebà e Agostino Doria, composti in età matura e pubblicati nel 1593 e nel 1601) e amorose (una serie di ottave e una canzone scritte in gioventù e accolte nelle nostre antologie).73 Questi versi sono accomunabili a quelli di Foglietta per la volontà di veicolare usi nobili del dialetto, ma se ne distinguono sotto altri aspetti: se quelli politici appaiono inclini a celebrare più che criticare il ceto dirigente, quelli amorosi, senz’altro i più interessanti, sono espressione di un petrarchismo dialettale più raffinato, che privilegia immagini delicate ed eleganti, pur affiancate anche qui a elementi prosaici. Nelle ottave Resto d’aveive visto abarlugaòu, Barnaba canta il suo amore per la bella Margherita inanellando spunti di ascendenza stilnovista (l’innamoramento nei pressi di una chiesa cittadina, il nesso bellezza-virtù, il confronto con le altre donne, il tema di Amore che dipinge l’immagine della fanciulla nel cuore del poeta) depurati da simbolismi spirituali troppo accentuati, ma declinati talvolta in un registro conforme ai modelli lirici alti:

E fó ro primo giorno che ve vì,
e de gianco eri quello dì vestia;
una sciò bella voi pareivi lì,
dentro una tazza de lete purìa

E fu la prima volta che vi vidi, / e quel giorno eravate vestita di bianco;

/ sembravate un bel fiore / in una tazza di puro latte.

Altrove prevale invece un linguaggio più crudamente realistico:

E sì parei regina dre reginne
con ra bella presentia e maiestè,
e tutte i atre han chiera de zaninne,
sì poeren chieustri e bèrgore acartè

Così sembrate regina delle regine / per la vostra bella presenza e maestà, / e tutte le altre hanno il viso da serve, / sembrano sgorbi o vecchie sguattere.

Notevole è la canzone Quando un fresco, soave, doce vento, in cui l’autore paragona l’amata e sé stesso a una serie di immagini naturali ritagliate anche da paesaggi marini (ovvero genovesi), e caricate talvolta di un’eleganza e un’intensità espressiva sconosciute a Foglietta:

E quando vego quarche egua corrente
     luxì como un crestallo netta e chiera,
     che chi ghe pone mente
     in fondo vè ra gera,36
     e dentro sì ghe brilla, ro pescio con l’anghilla,
     a ro mormorà sò piaxeive e lento
     che Amò no fa giustitia me lamento.40
     
Quando ro mà è grosso e scorrosaòu,
     contra ri scogi ri maroxi o batte,
     e de longo è alteraòu
     fin che con ló o combatte,44
     così se l’è astrià quella Nerona pà,
     e mi ri scogi fermi e pacienti
     a ri torti, a i ingiurie, a ri tormenti.48

E quando vedo un’acqua corrente / splendente come cristallo, pulita e chiara, / tanto che chi la guarda attentamente / vede la ghiaia sul suo fondo, / e brillare in essa il pesce e l’anguilla, / al suono del suo piacevole e lento mormorio / mi lamento che Amore non rende giustizia. // Quando il mare è grosso e cupo, / sbatte le onde contro gli scogli / e rimane alterato / finché combatte contro di essi, / allo stesso modo quando è stizzita / mi appare quella Nerona, / e io [sembro] gli scogli fermi, pazienti / sotto i torti, le ingiurie e i tormenti.74

Il rilievo del Casero trova conferma nella stima accordatagli da Zabata che nella dedica del 1588 gli assegna il «primo luoego» tra gli emuli di Foglietta e nello spazio crescente riconosciutogli nella serie antologica: nel 1588 alle due rime amorose citate si aggiunsero un paio di ottave a indovinello sul nome dell’amata e persino caso unico un manipolo di rime giovanili «in toscana favella» poste a conclusione del volume,75 mentre nel 1595 Barnaba guadagnò addirittura il ruolo di dedicatario, con tanto di elogio nella premessa firmata da Antonio Orero.76

Nell’edizione del 1588 comparvero nuove integrazioni, costituite dai già menzionati versi di Zabata, dal sonetto di proposta a quest’ultimo di Lorenzo Questa e inoltre da una serie di indovinelli anonimi (Demande d’adavinà) con relative soluzioni,77 che incrementano con un tocco enigmistico la componente evasiva di queste miscellanee, replicando un’idea già introdotta da Zabata nella Nuova selva del 1570. Più interessante è l’inserimento, subito prima dell’appendice toscana di Casero, di una poesia in veneziano di Maffio Venier, la celebre canzone Strazzosa.78 Si tratta dell’ennesimo nesso in direzione lagunare alle già ricordate frequentazioni di Zabata e alla sua citazione del Calmo va aggiunto il fatto che proprio un libro veneziano conserva la più antica attestazione a stampa di una poesia in vernacolo ligure 79 che conferma l’attenzione dei genovesi per la produzione veneta; e tutt’altro che casuale appare la scelta di omaggiare proprio Venier, il maggior poeta in veneziano del secondo Cinquecento, scomparso precocemente da appena due anni, e presente con una sua canzone in toscano in un’altra antologia del solito Zabata,80 probabile trait d’union tra il poeta della Serenissima e il mondo letterario ligure.

L’assetto del 1588 restò quasi invariato nelle riedizioni del 1595 e del 1612 non realizzate da Zabata, come si è detto salvo per un’unica, significativa eccezione: alla fine dell’ultima stampa (pp. 176-188) compare una «giunta» di nuove rime promessa fin dal frontespizio, consistente in un manipolo di poesie firmate da Todaro Conchetta, nom de plume dell’allora giovanissimo Giuliano Rossi, protagonista della scena dialettale ligure nella prima metà del Seicento assieme al suo antagonista Gian Giacomo Cavalli, l’indiscusso campione del periodo che si guadagnerà l’ammirazione di Chiabrera.81 L’antologia del 1612 segnò così un ideale passaggio di consegne tra la prima e la seconda generazione dei poeti zeneisi: sia Rossi sia Cavalli muoveranno dal lascito dei loro predecessori, ma sarà soprattutto il secondo a farsi interprete di quella concezione della poesia dialettale come esercizio stilisticamente e letterariamente elaborato, tanto nelle sue accezioni piacevoli quanto in quelle più impegnate, portato avanti dalle antologie del 1575-1612.

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1 Su questo tema si vedano i vari profili antologici curati da Fiorenzo Toso, tra i quali si segue qui La letteratura ligure in genovese e nei dialetti locali, Recco, Le Mani, 2009, 7 voll., in particolare il vol. III, Il Cinquecento; inoltre Alberto Beniscelli, Dal Cinquecento al Settecento, in A. Beniscelli, Vittorio Coletti, Lorenzo Coveri, La Liguria, in Francesco Bruni (a cura di), L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, Torino, UTET, 1992, pp. 51-64; Franco Croce, La letteratura dialettale ligure, in Pietro Mazzamuto (a cura di), La letteratura dialettale preunitaria, Palermo, G. Aiello, 1994, 2 voll., I, pp. 413-469. Sulle specificità linguistiche del dialetto ligure si rimanda a Fiorenzo Toso, La Liguria, in Manlio Cortellazzo et al. (a cura di), I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, Torino, UTET, 2002, pp. 196-225: pp. 208-211.

2 Cfr. Anonimo Genovese, Rime e ritmi latini, a cura di Jean Nicolas, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1994.

3 Cfr. V. Coletti, Il Medioevo, in A. Beniscelli, V. Coletti, L. Coveri, La Liguria, cit., pp. 45-83: p. 46.

4 Sulla letteratura ligure del XVI secolo cfr. Stefano Verdino, Cultura e letteratura nel Cinquecento, in La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova, Costa & Nolan, 1992, 2 voll., I, pp. 83-132.

5 Questa edizione è presentata nel frontespizio come «seconda impressione» della stampa del 1588.

6 Precedenti sono infatti una raccolta veneziana del 1560 e una stampa genovese del 1570 (cfr. infra e note 30 e 79) che includono anche versi in vernacolo ligure.

7 Alcune fonti segnalano anche una ristampa pavese datata 1593, che non risulta però al momento reperibile: cfr. Paolo Foglietta, Rime in lengua zeneise. Poesie in lingua genovese, a cura di Franco Vazzoler, Recco, Le Mani, 1999, p. 16.

8 Su questa figura cfr. Graziano Ruffini, Cristoforo Zabata. Libraio, editore e scrittore del Cinquecento, Firenze, Firenze University Press, 2014.

9 Sulla fortuna di Tasso nella Genova di fine Cinquecento cfr. Stefano Verdino, Tasso genovese, in Laura Malfatto (a cura di), Storia di un sogno. Tasso, la Liberata e Genova, «La Berio», XXXVI, 1 (1996), pp. 16-44, e Matteo Navone, Dalla parte di Tasso. Giulio Guastavini e il dibattito sulla Gerusalemme liberata, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011.

10 Non sono invece ascrivibili all’attività di Zabata le raccolte del 1595 e del 1612, probabilmente successive alla morte dell’editore, che non vi compare come estensore delle dediche, sostituito nel primo caso da Antonio Orero (libraio genovese collaboratore di Zabata) e nel secondo da Ascanio Barberi.

11 Cfr. Rime diverse in lengua zeneise, Genova, Marcantonio Bellone, 1575 (d’ora in poi Rime 1575), cc. 2r-3r. Questa stampa è stata considerata per lungo tempo irreperibile (cfr. F. Toso, Il Cinquecento, cit., p. 48), finché G. Ruffini (cfr. Cristoforo Zabata, cit., pp. 50, 83-84) ne ha individuato un esemplare presso la Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana di Roma, da cui ha trascritto la dedica (pp. 140-141). La copia della Corsiniana è riprodotta in G. Musso, Rime diverse in lengua zeneise, Wikisource, (data dell’ultima consultazione: 27/06/2020) https://wikisource.org/wiki/Rime-diverse-in-lengua-zeneise.

12 Si cita da G. Ruffini, Cristoforo Zabata, cit., p. 140; sono mie questa e le successive traduzioni della dedicatoria al Bava.

13 Sui rapporti tra Zabata e Venezia cfr. ivi, pp. 37-39.

14 Per fare un esempio, le prime edizioni delle commedie e delle Rime Pescatorie di Andrea Calmo risalgono agli anni Cinquanta del XVI secolo. Su questi temi cfr. Manlio Dazzi (a cura di), Il fiore della lirica veneziana, Venezia, Neri Pozza Editore, 1956-1959, 4 voll., I, Dal Duecento al Cinquecento; I. Paccagnella, Il Rinascimento nel Veneto, in Michele A. Cortellazzo e I. Paccagnella (a cura di), Il Veneto, in L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, cit., pp. 249-253.

15 Non a caso proprio a Venezia vide la luce, nel 1560, la prima antologia curata da Zabata, intitolata Stanze di tre eccellenti poeti, di nuovo date in luce (sulle otto antologie italiane di Zabata cfr. G. Ruffini, Cristoforo Zabata, cit., pp. 41-128). Sulle miscellanee venete del XVI secolo cfr. Monica Bianco e Elena Strada (a cura di), «I più vaghi e i più soavi fiori». Studi sulle antologie di lirica nel Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, e la riedizione della giolitina del 1545 curata da Franco Tomasi e Paolo Zaja (San Mauro Torinese, Res., 2001).

16 G. Ruffini, Cristoforo Zabata, cit., p. 141.

17 Ibid.

18 Cfr. Dante Alighieri, Le opere, III, De vulgari eloquentia, a cura di Enrico Fenzi, con la collaborazione di Luciano Formisano e Francesco Montuori, Roma, Salerno Editrice, 2012, pp. 98-99.

19 Per le citazioni cfr. Benedetto Varchi, L’Hercolano, a cura di Antonio Sorella, presentazione di Paolo Trovato, Pescara, Libreria dell’Università, 1995, 2 voll., II, rispettivamente Quesito terzo, 4, p. 646 e Quesito primo, 24, p. 639. Le prime edizioni dell’Ercolano vennero pubblicate a Firenze dai Giunti nel 1570, appena cinque anni prima della stampa delle Rime diverse in lengua zeneise.

20 Cfr. il commento di E. Fenzi a De vulgari eloquentia, I, XIII 6, in op. cit., p. 99.

21 Cfr. Rime diverse in lingua genovese [...], Pavia, Girolamo Bartoli, 1583 (d’ora in poi Rime 1583), p. 3. Come in tutte le altre citazioni da cinquecentine la trascrizione è conservativa: si è però proceduto a distinguere u e v, a sopprimere le h etimologiche o pseudoetimologiche, ad ammodernare la punteggiatura e le maiuscole, ad accentare tutti i participi e gli infiniti dialettali. La dedica si legge anche in G. Ruffini, Cristoforo Zabata, cit., pp. 149-150.

22 Rime 1583, p. 4.

23 Si cita da Rime diverse in lingua genovese [...], Pavia, Girolamo Bartoli, 1588 (d’ora in poi Rime 1588), p. 4, e per la traduzione da F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 50-51, che riproduce anche il testo della dedica, così come G. Ruffini, Cristoforo Zabata, cit., p. 151. L’intera antologia è pubblicata anche in rete: cfr. Rime diverse in lingua genovese, Wikisource, (data dell’ultima consultazione: 27/06/2020) https://it.wikisource.org/wiki/Rime_diverse_in_lingua_genovese.

24 Rime 1588, p. 6.

25 Va qui corretta l’indicazione di G. Ruffini, Cristoforo Zabata, cit., p. 133, secondo cui il libraio ligure pubblicò i suoi versi in vernacolo «solo nell’edizione del 1588»: in quest’ultima compare in effetti il gruppo più ampio di liriche (cfr. Rime 1588, pp. 119-126), ma il caudato Tandem, feto ho ro libero stampà era già stato inserito in Rime 1583 (pp. 109-110: il nome di Zabata non è precisato nell’intestazione, ma è indicato nei versi finali, su cui cfr. anche la nota 26); inoltre le liriche del 1588 tornano anche nelle stampe successive, compresa quella del 1612. Non molto si sa dei personaggi cui Zabata indirizza le sue prove dialettali: del Questa abbiamo solo il sonetto di proposta a Zabata, mentre il Carmagnola compare, come il Crollalanza, tra i personaggi cui Zabata attribuisce le facezie narrate nel suo Diporto de’ viandanti (vi è definito «gentiluomo genovese» proprietario di un mirabile giardino a Multedo; si cita dall’edizione Pavia, eredi di Girolamo Bartoli, 1596, p. 158). Dai versi di Zabata apprendiamo inoltre che Carmagnola era «cugnò [cognato]» del Crollalanza (Rime 1588, p. 120). Zabata fu autore anche di un buon numero di poesie in toscano edite sempre all’interno delle sue antologie, ora ripubblicate in G. Ruffini, Cristoforo Zabata, cit., pp. 158-183 (per le rime dialettali pp. 175-179).

26 Rime 1583, p. 109 (mie le traduzioni). Queste affermazioni non vanno riferite alla stampa del 1588, come sembra invece ritenere G. Ruffini, Cristoforo Zabata, cit., p. 39, ma a quella del 1583, che contiene, come si è visto nella nota 25, la princeps del sonetto. A ulteriore conferma, nei versi finali Zabata dichiara di aver composto la poesia nella «cittè chi ha dentro sò confin / ra torre de Boetio Severin [‘la città che ha dentro le sue mura la torre di Boezio, cioè Pavia’]» il giorno «cinque d’arvì dro mille cento / oittantatrei, con sovra quattro cento [il 5 aprile 1583]» (Rime 1583, p. 110); si noti che la dedica al Durazzo con cui si apre la stampa è datata 6 aprile 1583.

27 Questa ipotesi è stata avanzata da F. Vazzoler in P. Foglietta, Rime in lengua zeneise, cit., pp. 16 e 21, sulla base di un sonetto di Foglietta pubblicato solo in Rime 1583 (p. 111) in ultima posizione (subito dopo il caudato nel quale Zabata racconta le vicissitudini del libro), in cui il poeta ligure sembra dedicare la stampa a un misterioso giovane chiamato «Raffè da Sanguinao». Al di là di questi versi, il rilievo di cui Foglietta gode in queste miscellanee rende plausibile un suo ruolo nell’allestimento delle prime tre edizioni; non credibile è invece Zabata quando afferma di aver raccolto le poesie di Foglietta «senza alcuna saputa dell’autore» (Rime 1583, p. 5).

28 Sulla biografia del Foglietta si veda la voce redatta da Giovanna Checchi per il Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 48, 1997, (data dell’ultima consultazione: 27/06/2020) http:// www.treccani.it /enciclopedia/paolo-foglietta-%28Dizionario-Biografico%29/; utile anche il profilo di F. Vazzoler in P. Foglietta, Rime in lengua zeneise, cit., pp. 13-15.

29 Cfr. Carlo Bitossi, Foglietta, Oberto (Uberto), in Dizionario biografico degli italiani, cit. (data dell’ultima consultazione: 27/06/2020) http://www.treccani.it/ enciclopedia/oberto-foglietta-(Dizionario-Biografico)/.

30 Si deve a S. Verdino, Tasso genovese, cit., pp. 40-44, la riscoperta di questo raro libro e l’individuazione delle rime di Foglietta in esso contenute.

31 Tale ascrizione era avvenuta a seguito delle Reformationes Novae del 1528, la grande riforma dell’assetto istituzionale genovese promossa da Andrea Doria: secondo questo ordinamento, per accedere alle cariche pubbliche occorreva essere inseriti in un apposito registro, il libro delle descrizioni, in cui i singoli nomi erano ripartiti tra ventotto alberghi, coincidenti con le più grandi famiglie cittadine, inclusa quella dei Cattaneo. Sulla storia genovese del Cinquecento cfr. Arturo Pacini, La repubblica di Genova nel secolo XVI, in Dino Puncuh (a cura di), Storia di Genova. Mediterraneo, Europa, Atlantico, Genova, nella sede della Società Ligure di Storia Patria, 2003, pp. 325-390.

32 Cfr. Rime 1575, p. 16r.

33 Tra questi dovrebbero esservi Bernardo Castelletto («B. C.»), Benedetto Schenone («B. S.») e Vincenzo Dartonna («V. D.»), rimatori locali presenti anche in altre antologie zabatiane (cfr. infra). Più enigmatici restano gli acronimi «F. O.» e «B. F.»: cfr. G. Ruffini, Cristoforo Zabata, cit., p. 50.

34 La parte edita della produzione dialettale del Foglietta è stata ripubblicata interamente in P. Foglietta, Rime diverse in lingua genovese, a cura di Edoardo Villa e Vito Elio Petrucci, Genova, Tolozzi, 1983. Più filologicamente accurate sono però le selezioni accolte in P. Foglietta, Rime in lengua zeneise, cit., e F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 53-92; su quest’ultima si basa l’antologia edita in Franco Brevini (a cura di), La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento, Milano, Mondadori, 1999, 3 voll., I, pp. 527-546. Per la produzione in toscano bisogna invece far ancora riferimento alle cinquecentine indicate in P. Foglietta, Rime in lengua zeneise, cit., p. 15.

35 Cfr. Torquato Tasso, Le rime, a cura di Bruno Basile, Roma Salerno Editrice, 1994, 2 voll., II, p. 1471. Due brevi cenni a Foglietta si trovano anche in due lettere del 1587 ad Angelo Grillo, relative proprio all’invio del citato sonetto: cfr. T. Tasso, Le lettere, a cura di Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1852-1855, 5 voll., III, pp. 255 e 260 (nella seconda Tasso scrive per errore «Agostino Foglietta»). Tra gli omaggi poetici a Foglietta se ne registra uno del tutto particolare – segnalatomi da Luca D’Onghia, che ringrazio – in un caudato in genovese di Bernardo Rainoldi (I 18) contenuto nei Rabisch del Lomazzo, dove l’autore si augura di diventare un poeta «bon come ro Signò Poro Fogietta» (cfr. Giovan Paolo Lomazzo e i Facchini della Val di Blenio, Rabisch, a cura di Dante Isella, Torino, Einaudi, 1993, pp. 36-37, dove il nome di Foglietta non viene tradotto, né si spiega di chi tratti); sui Rabisch si veda il contributo di Enea Pezzini in questo volume.

36 Su questa edizione si veda la ristampa anastatica con nota introduttiva di Giuseppe Piersantelli (Roma, Stabilimento tipografico Julia, 1966) e inoltre M. Navone, Dalla parte di Tasso, cit., pp. 59-63.

37 Cfr. F. Toso, Il Cinquecento, cit., p. 10.

38 Diversi studiosi hanno usato la categoria di manierismo in relazione alla poesia amorosa di Foglietta: cfr. in particolare F. Vazzoler, Letterature dialettali e Manierismo in Italia, in Daniela Dalla Valle (a cura di), Manierismo e letteratura, atti del congresso internazionale, Torino, 12-15 ottobre 1983, Torino, Albert Meynier, 1986, pp. 233-245: pp. 238-241; F. Croce, La letteratura dialettale ligure, cit., pp. 419-421; F. Toso, Il Cinquecento, cit., p. 82.

39 Cfr. F. Brevini, Petrarchismo e antipetrachismo in dialetto, in Id., La poesia in dialetto, cit., pp. 561-603.

40 Testo e traduzione sono ripresi da P. Foglietta, Rime in lengua zeneise, cit., p. 38. Il sonetto apre la raccolta del 1575 (p. 3 v) ed è riproposto in tutte le successive.

41 Sulla frequenza dei bisticci nelle rime amorose di Foglietta cfr. F. Croce, La letteratura dialettale ligure, cit., pp. 421-422.

42 Cfr. P. Foglietta, Rime in lengua zeneise, cit., p. 28. Dopo essere stato incluso già nelle Rime del 1575, questo sonetto non compare nell’edizione 1583, mentre ritorna in tutte le sillogi dal 1588 in poi.

43 Cfr. ivi, pp. 44-45. Questo sonetto caudato compare in tutte le edizioni dell’antologia dialettale.

44 Si tratta di cinque sonetti editi in Rime 1575, cc. 10v-12r, di cui il primo risponde a una proposta sempre in genovese della Scarpa; non ricompaiono nelle stampe successive, ma uno di essi era stato anticipato nella Nuova selva del 1570 (S. Verdino, Tasso genovese, cit., pp. 43-44).

45 Si leggono a partire da Rime 1583, pp. 8-17 (ma la dedica alla Pallavicini è esplicitata solo a partire da Rime 1588, p. 10), e ora in P. Foglietta, Rime diverse in lingua genovese, cit., pp. 50-69.

46 Cfr. Gino Belloni, Il petrarchismo delle Bizzarre rime del Calmo tra imitazione e parodia, in Giorgio Padoan (a cura di), Petrarca, Venezia e il Veneto, Firenze, Olschki, 1976, pp. 271-314.

47 L’esempio più esplicito di questa tendenza lo offre il sonetto Quando de scuoggio in scuoggio va maitinna, attestato fin da Rime 1575 (cc. 3v-4r), per cui cfr. P. Foglietta, Rime in lengua zeneise, cit., p. 41.

48 Nella dedica di Rime 1588 (p. 5) Zabata si rammarica che gli sia stato impedito di pubblicare «quarch’unna dre [...] mascharate [poesie carnascialesche]» di Foglietta per timore che qualche fanciulla, non cogliendone i doppi sensi, imparasse delle parole «matte [oscene]».

49 Sono conservate in un codice della Biblioteca Franzoniana di Genova (segnato Ma C 35) che comprende una serie di frottole solo in parte attribuibili alla penna di Foglietta (alcune pubblicate in F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 11-27) e una poesia politica composta in occasione della pestilenza che colpì il genovesato tra il 1578 e il 1580, pubblicata in S. Verdino, La «Preghera per ra peste de 1578» di Paolo Foglietta, «Studi di filologia e letteratura», IV (1978), pp. 105-125.

50 Cfr. P. Foglietta, Rime in lengua zeneise, cit., pp. 17-18. Oltre alle rime edite nelle antologie di Zabata, la produzione civile di Foglietta comprende anche la Preghera per ra peste de 1578 (cfr. nota 49) e la commedia in prosa e in lingua Il barro, per cui cfr. F. Vazzoler, Una commedia politica del Cinquecento: «Il barro» di Paolo Foglietta, «Studi di filologia e letteratura», I (1970), pp. 85-115.

51 Rime 1583, p. 62, vv. 1-5 e 15-16 (per le traduzioni cfr. F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 64-65).

52 Rime 1583, p. 73. La decisione del governo di dotarsi di alcune galere dovrebbe risalire al 1560, termine ante quem della stesura di questi sonetti (F. Toso, Il Cinquecento, cit., p. 71).

53 Rime 1583, p. 72, vv. 1-4 (mia la traduzione).

54 Ivi, p. 67, v. 23.

55 Cfr. i sonetti Gren ville emo dattorno a ra cittè (ivi, pp. 62-63) e Perché chiù dro comun ro proprio ben (ivi, pp. 67-68, citazione dal v. 5). Nel secondo testo si insiste sulla necessità che la nave comune sia guidata da un buon timoniere e non da un «losco e ciarbotto [losco chiacchierone]» che la farebbe affondare anche con la bonaccia: una frecciata rivolta forse contro l’ammiraglio Doria.

56 Cfr. Se duoe de Zena ra rivera assè e Andà veggo per Zena a ra maraggia (ivi, pp. 63-65).

57 Cfr. Per guardà noi ra terra e ro paeize (ivi, pp. 71-72, v. 5).

58 Ivi, pp. 73-74, vv. 5-8.

59 Ivi, p. 52 (il sonetto compare per la prima volta in questa raccolta); la traduzione è ripresa, con qualche modifica, da F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 77-78.

60 L’espressione è usata in questo senso in un passo della Cortigiana del 1534 (I 201): cfr. Pietro Aretino, Teatro comico. Cortigiana (1525 e 1534). Il marescalco, a cura di L. D’Onghia, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, 2014, p. 807.

61 Il primo dei cinque sonetti della serie (per cui cfr. ivi, pp. 76-80) si legge già nella citata Nuova selva, mentre altri testi si aggiungono a partire dal 1575.

62 Rime 1583, pp. 49-50 (ma già in Rime 1575, cc. 13v-14r). Cfr. anche F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 58-60.

63 Rime 1583, pp. 79-80, vv. 1-8; la traduzione rielabora quella di Petrucci segnalata nella nota 34 (Rime diverse in lingua genovese, cit., p. 118).

64 Foglietta afferma che, se avesse scritto in toscano anziché in genovese, sarebbe decaduto da «nobile» a «mecanico» (Rime 1583, p. 80).

65 Cfr. F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 45-48.

66 Cfr. A. Pacini, La repubblica di Genova nel secolo XVI, cit., pp. 374-385.

67 Cfr. F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 73-76.

68 Oltre che in ivi, pp. 123-127, le ottave si leggono in Rime 1575, cc. 20r-22r e nelle successive raccolte dove, a partire da Rime 1588, pp. 105-106, sono aggiunti altri due sonetti di Schenone, ancora di soggetto amoroso ma di vena più scanzonata.

69 Cfr. Rime 1575, cc. 24r-27r e 32r-34r; ma la versione del Furioso compare a partire da Rime 1588, pp. 135-162, e se ne legge un estratto in F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 131-140. Da notare, nella terza ottava, la trovata di sostituire il dedicatario ariostesco (Ippolito d’Este) con Paolo Foglietta, che colloca anche il Dartonna nella cerchia vicina al poeta zeneise.

70 Pochi anni prima erano state pubblicate due versioni in veneziano del primo canto del poema ariostesco, una firmata da Benedetto Clario, Venezia, Agostino Bindoni, 1554, e una anonima, inserita nelle Rime piacevoli raccolte da Modesto Pino, Venezia, Sigismondo Bordogna, 1565, senza contare che nello stesso giro d’anni erano apparse versioni del primo del Furioso anche in altre parlate settentrionali, tra cui bergamasco e pavano: cfr. L. D’Onghia, Due paragrafi sulla prima fortuna dialettale del ‘‘Furioso’’, in Lina Bolzoni, Serena Pezzini e Giovanna Rizzarelli (a cura di), «Tra mille carte vive ancora». Ricezione del ‘‘Furioso’’ tra immagini e parole, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2010, pp. 285-302: pp. 286-287.

71 La sua passione di collezionista lo portò a collaborare con due eruditi liguri di rilievo, Giulio Guastavini e Gian Vincenzo Pinelli: sia consentito su questo il rinvio a M. Navone, Lettere inedite di Giulio Guastavini, «Studi secenteschi», 54 (2013), pp. 221-260: pp. 224 e 228-230.

72 Cfr. Rime 1583, pp. 98-101 (per i primi due testi anche Rime 1575, cc. 19r-v) e F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 140-142.

73 Su questo autore e la sua produzione cfr. ivi, pp. 93-119 e Barnaba Cigala Casero, Quarche gran maravegia. Qualche gran meraviglia. Liriche d’amore, a cura di F. Toso, Recco, Le Mani, 1998.

74 Per queste ultime citazioni cfr. Rime 1583, pp. 82, 87, 89; le traduzioni sono riprese, con modifiche, da F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 98, 102-103, 105.

75 Rime 1588, pp. 169-174.

76 In base a ciò Toso vede in questa stampa il passaggio dal «patronato» di Foglietta a quello di Casero: osservazione condivisibile, precisando però che la presenza di quest’ultimo si era già rafforzata nel 1588 con l’aggiunta dei versi toscani, che lo studioso, erroneamente, colloca nel 1595 (cfr. B.C. Casero, Quarche gran maravegia, cit., p. 19).

77 Rime 1588, pp. 127-134.

78 Ivi, pp. 163-168. La presenza della canzone nell’antologia genovese non è segnalata nella più recente edizione delle poesie dialettali di M. Venier, Canzoni e sonetti, a cura di Attilio Carminati, Venezia, Corbo e Fiore, 1993. Sul poeta veneziano si veda l’articolo di Jacopo Galavotti in questo volume.

79 Si tratta di un frammento della Frottora dri giolì a re donne de Zena, musicato da Vincenzo Ruffo e pubblicato nel suo Terzo libro de madregali a quatro voci (Venezia, Antonio Gardano, 1560), aperto significativamente da una dedica a «messer Cesare Romeo nobile genovese». La frottola si legge per intero nel manoscritto della Franzoniana (cfr. nota 49), dettaglio che ha fatto ipotizzare ad alcuni la paternità del Foglietta, rimasta invero dubbia e comunque non provata; è certo invece che questa attestazione dimostra la precoce circolazione di versi in genovese al di fuori del dominio della Superba (cfr. F. Toso, Il Cinquecento, cit., pp. 23-24).

80 Nella Scelta di rime del 1579, Genova, [Antonio Roccatagliata], alle pp. 19-21, compare infatti la canzone Col cor pien di pietade e di spavento, dedicata alla pestilenza veneziana del 1575, tema d’attualità in una Genova che proprio nel ’79 si trovava alle prese con il contagio.

81 Cfr. F. Croce, La letteratura dialettale ligure, cit., pp. 413-418 e 436-451.