Revue Italique

La poesia dialettale del Rinascimento nell’Italia del Nord

OJ-italique-695

Tra satira e realismo: per un’edizione commentata dell’Alfabeto dei villani pavano

Micaela Esposto

Desidero ringraziare Luca D’Onghia per i preziosi suggerimenti e l’attenta lettura. Nelle note di commento all’Alfabeto sono utilizzate le seguenti abbreviazioni e sigle: Baricci 2015 = Federico Baricci, Per una nuova edizione critica del Dialogo facetissimo di Ruzante, «Rinascimento», LV (2015), pp. 123-221; Bert letti 2005 = Nello Bertoletti, Testi veronesi dell’età scaligera. Edizione, commento linguistico e glossario, Padova, Esedra, 2005; Boerio = Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Venezia, Giovanni Cecchini, 1867; Bortolan = Domenico Bortolan, Vocabolario del dialetto antico vicentino (Dal Secolo XIV a tutto il Secolo XVI), Vicenza, S. Giuseppe, 1893; Burgassi 2011 = Cosimo Burgassi, Prove di commento ai «Due dialoghi» di Ruzante, «Studi di filologia italiana», LXIX (2011), pp. 375-407; Cherchi – Collina 1996 = Tomaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, a cura di Paolo Cherchi e Beatrice Collina, Torino, Einaudi, 1996; Contini 1960 = Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini, vol. I, Milano – Napoli, Ricciardi, 1960; Cortelazzo = Manlio Cortelazzo, Dizionario veneziano della lingua e della cultura popolare nel XVI secolo, Limena, La Linea, 2007; CP = corpus di testi per il Vocabolario del pavano (allestito presso l’Università di Padova da un gruppo di lavoro coordinato da Ivano Paccagnella), interrogabile online all’indirizzo http://ilpavano.it (data dell’ultima consultazione: 27/06/2020); D’Onghia 2006 = Andrea Calmo, Il Saltuzza, a cura di Luca D’Onghia, Padova, Esedra, 2006; D’Onghia 2010 = Angelo Beolco il Ruzante, Moschetta, a cura di Luca D’Onghia, Venezia, Marsilio, 2010; Dieci tavole = Le dieci tavole dei proverbi, a cura di Manlio Cortelazzo, Neri Pozza, 1995; Dornetti 1983 = Vittorio Dornetti, Matazone da Caligano e le origini della satira del villano, in Studi di lingua e letteratura oerti a Maurizio Vitale, vol. I, Pisa, Giardini, 1983, pp. 22-44; Forzatè Pastorale = Claudio Forzatè, Comedia et intermedii del sig. Claudio Forzatè padovano: commedia pastorale (CP); Forzatè Rime = Claudio Forzatè, Delle Rime de Sgareggio Tandarelo da Calcinara in Lingua Rustica Padoana. Parte prima, Padova, Paolo Meietti, 1583 (CP); Formentin 2002 = Vittorio Formentin, Antico padovano «gi» da ILLI: condizioni italo-romanze di una forma veneta, «Lingua e stile», XXXVII, 1 (2002), pp. 3-28; Freedman 1999 = Paul Freedman, Images of the Medieval Peasant, Stanford, Stanford University Press, 1999; GDLI = Salvatore Battaglia, Giorgio Barberi Squarotti, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 1961-2002; LEI = Lessico etimologico italiano, a cura di Max Pfister et al., Wiesbaden, Reichert, 1979; Lovarini 1965 = Emilio Lovarini, Studi sul Ruzzante e la letteratura pavana, a cura di Gianfranco Folena, Padova, Antenore, 1965; Lucchi 1978 = Piero Lucchi, La santacroce, il salterio e il babuino: libri per imparare a leggere nel primo secolo della stampa, «Quaderni storici», XIII, 38/2 (1978), pp. 593-630; Magagnò Rime, I = La prima parte de le Rime di Magagnò, Menon e Begotto in lingua rustica padovana, con una tradottione del primo Canto de M. Ludovico Ariosto, Padova, Grazioso Percacino, 1558 (CP); Magagnò Rime, II = La seconda parte de le rime di Magagno, Menon, e Begotto. In Lingua rustica padovana, Venezia, Giovanni Giacomo Albani, 1562 (CP); Magagnò Rime, III = La terza parte de le Rime di Magagnò, Menon, e Begotto, Venezia, Bolognino Zaltiero, 1569 (CP); Magagnò Rime, IV = La quarta parte delle rime alla rustica di Menon, Magagnò, e Begotto, Venezia, Giorgio Angelieri, [1583] (CP); Merlini 1894 = Domenico Merlini, Saggio di ricerche sulla satira contro il villano. Con appendice di documenti inediti, Torino, Loescher, 1894; Milani 1981 = Alvise Cornaro, Orazione per il Cardinale Marco Cornaro e Pianto per la morte del Bembo, a cura di Marisa Milani, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1981; Milani 1996 = Marisa Milani, Vita e lavoro contadino negli autori pavani del XVI e XVII secolo, Padova, Esedra, 1996; Milani 1997 = Antiche rime venete, a cura di Marisa Milani, Padova, Esedra, 1997; Milani 2000 = Marisa Milani, El pì bel favelare del mondo. Saggi ruzzantiani, a cura di Ivano Paccagnella, Padova, Esedra, 2000; Morello Buranello = Jacopo Morello, A sier Bragon Scachio Buranello quel che l’amore gh’ha forò el cervello, in Il ridiculoso dottoramento di M. Desconzò de Sbusenazzi [...], Venezia, Stefano Alessi, 1551 (CP); Morello Lalde = Jacopo Morello, Le lalde e le sbampuorie della unica e virtuliosa Ziralda ballarina e saltarina scaltrietta Pavana: destendue int’una slettra scritta in lengua pavana per lo arguttissimo Messier Iacomo Morello da Padoa: non più venuta in luce: cosa bellissima et ridiculosa, Venezia, Stefano Alessi, 1553 (CP); Morello Sprolico = Jacopo Morello, Sprolico in lengua pavana sbottazzà in laldo del magnafigo messier Mechiele Battagia Poestè de Pieve l’anno 1548. recitò per lome del Terretuorio Pavan. Composta per lo inzegneole Messier Iacomo Morello: con n’altra slettra scritta alla so Parona, Venezia, Stefano Alessi, 1553 (CP); Morello Terza Orazione = [Jacopo Morello], Terza oratione di Ruzzante a l’illustrissimo signor cardinal Pisani, in Tre orationi di Ruzante recitate in lingua rustica alli illustris. Signori Cardinali Cornari, et Pisani [...], Venezia, Stefano Alessi, 1551 (CP); Morello Zanzume = Jacopo Morello, Questo sì è un zanzume de un sletran Pavan dalla villa in laldo del sgolaizzo Re, Segnore e Scapotagno de la smusega: messier Pirisson cantarin de la madona Segnoria da le Vegniesie, parona de Pava e del Pavan, in Il ridiculoso dottoramento di M. Desconzò de Sbusenazzi [...], Venezia, Stefano Alessi, 1551 (CP); Novati 1910 = Francesco Novati, Le serie alfabetiche proverbiali e gli alfabeti disposti nella letteratura italiana dei primi tre secoli, serie IV, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», LV (1910), pp. 266-308; Padoan 1978 = Angelo Beolco il Ruzante, La Pastoral, La Prima Oratione, Una lettera giocosa, a cura di Giorgio Padoan, Padova, Antenore, 1978; Padoan 1981 = Angelo Beolco il Ruzante, I Dialoghi, La Seconda Oratione, I prologhi alla Moschetta, a cura di Giorgio Padoan, Padova, Antenore, 1981; Patriarchi = Gasparo Patriarchi, Vocabolario veneziano e padovano co’ termini e modi corrispondenti toscani, Padova, Tipografia del Seminario, 1821; Pozzobon 2018 = Alessandro Caravia, Verra antiga; Naspo Bizaro, a cura di Alessandra Pozzobon, tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, coordinatore prof. Rocco Coronato, supervisore prof. Ivano Paccagnella; Prati 1968 = Angelico Prati, Etimologie venete, a cura di Gianfranco Folena e Giambattista Pellegrini, Venezia – Roma, Istituto per la Collaborazione Culturale; REW = Wilhelm Meyer-Lübke, Romanisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg, Carl Winter’s Universitätsbuchhandlung, 1911; Ronchitti Dialogo = Girolamo Spinelli, Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene. In perpuosito de la stella nuova, Padova, Pietro Paolo Tozzi, 1605; Schiavon 2006 = Chiara Schiavon, Dal pavano nei vocabolari al vocabolario del pavano, in Francesco Bruni e Carla Marcato (a cura di), Lessicografia dialettale. Ricordando Paolo Zolli, Atti del Convegno di Studi (Venezia, 9-11 dicembre 2004), vol. I, Roma – Padova, Antenore, pp. 135-150; Schiavon 2010 = Chiara Schiavon, Per l’edizione del Ruzante classicista. Testo e lingua di Piovana e Vaccaria, Padova, CLEUP, 2010; SNP = La sapienza dei nostri padri. Vocabolario tecnico-storico del dialetto del territorio vicentino, a cura del Gruppo di Ricerca sulla Civiltà Rurale, Vicenza, Accademia Olimpica, 2002; TLIO = Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, consultabile al sito http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/ (data dell’ultima consultazione: 27/06/2020); Tomasin 2004 = Lorenzo Tomasin, Testi padovani del Trecento. Edizione e commento linguistico, Padova, Esedra, 2004; Tuttle 1981 = Edward F. Tuttle, Snaturalitè e la s- iniziale pavana: qualche considerazione storica e stilistica, «Studi mediolatini e volgari», XXVIII (1981), pp. 103-118; VP = Ivano Paccagnella, Vocabolario del pavano (XIV-XVII secolo), Padova, Esedra, 2012; Wendriner 1889 = Richard Wendriner, Die paduanische Mundart bei Ruzante, Breslau, Wilhelm Koebner, 1889; Zorzi 1967 = Ruzante, Teatro, a cura di Ludovico Zorzi, Torino, Einaudi, 1967. Per le opere di Ruzante le edizioni di riferimento sono: Padoan 1978 per la Pastoral, la Prima Oratione e la Lettera giocosa; Padoan 1981 per la Seconda Oratione, il Parlamento e il Dialogo secondo; Schiavon 2010 per la Piovana e la Vaccaria; D’Onghia 2010 per la Moschetta; Baricci 2015 per il Dialogo facetissimo; Zorzi 1967 per tutte le altre opere.

«L’Alfabeto è senza dubbio il componimento più alto e compiuto della produzione pavana del ’500»: con queste parole Marisa Milani introduce il testo dell’Alfabeto dei villani pavano pubblicato all’interno del suo volume di Antiche rime venete.1 Trascorsi più di vent’anni da questo giudizio ripreso più recentemente anche da Ivano Paccagnella nell’introduzione al Vocabolario del pavano –2 non si è più tornati sull’Alfabeto; tuttavia, l’altissima qualità del pezzo e i vari problemi ancora aperti giustificano la riapertura del dossier.

Tramandato da due manoscritti (il ms. Marc. It. XI 66 conservato alla Biblioteca nazionale Marciana di Venezia e il cod. Sorelli, ms. 1445 della Biblioteca comunale di Treviso) e da una serie di stampe popolari cinquecentesche, l’Alfabeto è stato datato dai precedenti editori al primo quarto del XVI secolo per motivi interni al testo stesso. In base all’accenno al «gran deslubio» del v. 74 Lovarini individua come termine ante quem per la composizione il febbraio 1524, mese per il quale era stato appunto pronosticato un diluvio universale; in particolare, ritiene che il periodo più probabile di composizione per l’Alfabeto sia il 1522-24, quando la paura per l’imminente alluvione si fece più diffusa e provocò la pubblicazione di molte stampe sul tema.3 Problemi di datazione in parte analoghi pone un altro testo della letteratura pavana, la Lettera giocosa di Ruzante, in cui si fa ugualmente accenno al pronostico di un diluvio: «agn’om sbèrega altùrio e meserecuordia de sto deslubio che de’ vegnire» ‘tutti implorano aiuto e misericordia per questo diluvio che deve venire’.4 Non si tratta per altro dell’unico riferimento ruzantiano al tema: nella Piovana, infatti, Daldura impreca contro gli astrologi che, pur avendo previsto da tempo che sarebbe arrivato un diluvio, non avevano detto che si sarebbe verificato proprio quella notte: «O struologi, cancaro ve magne! Mo che no desìvivo che ’l delubio doea vegnir sta notte, così con’ a’ disissi zà assè; che sto fortunale ve arà pur fatto parere che a’ indiviniessi qualche botta!» ‘O astrologi, il canchero vi mangi! Che non dicevate che il diluvio doveva venire questa notte, così come avete detto già da molto tempo; che questo fortunale avrebbe pure fatto sembrare che indoviniate qualche volta!’.5 Al contrario di Lovarini, Milani ritiene che il «gran deslubio» dell’Alfabeto sia solo una «generica indicazione del giudizio universale» e che, se anche il diluvio fosse stato quello del 1524, sarebbe stato comunque impossibile datare il testo con precisione, dato che da almeno due decenni si scriveva a riguardo.6 L’esame linguistico del testo porta la studiosa a proporre una datazione intorno al secondo decennio del Cinquecento.7 Della stessa opinione è Giorgio Padoan, che ritiene però l’Alfabeto composto nello stesso torno d’anni della Seconda Oratione e del Parlamento ruzantiani (1528-1529).8

Una lettura dell’Alfabeto non può prescindere dal tentativo di definire la sua collocazione all’interno del genere della satira antivillanesca, sviluppatosi in Europa a partire dall’XI-XII secolo (soprattutto in Francia e in Germania), ma fiorito in Italia soprattutto tra Quattro e Cinquecento. Al tema ha dedicato un saggio ormai datato, ma ancora insostituito, Domenico Merlini, secondo cui le origini del genere in Italia sono da ricercare nell’antagonismo tra città e campagna, inasprito dai fenomeni di inurbamento dei contadini.9 L’opinione di Merlini è passata in giudicato, nonostante alcuni dubbi sollevati già da Vittorio Rossi sul fatto che la vitalità di questa satira possa essere ricondotta esclusivamente a cause economiche; in particolare, nella sua recensione al saggio di Merlini, Rossi invita a tenere in considerazione il peso della tradizione letteraria, che tendeva a trasformare il genere in un motivo burlesco.10

I critici successivi hanno approfondito, ma non confutato, questa tesi: Michele Feo, che ha analizzato il passaggio dalla visione classica del pius agricola al disprezzo medievale e rinascimentale per i contadini, sostiene ad esempio che «il letterato o semiletterato [...] che porta il suo contributo alla satira contro il villano [...] può anche non fare immediatamente lotta di classe [...], ma innegabilmente assume una visione del mondo che è dinamicamente in antitesi con un’altra».11 Claire Cabaillot, in anni più recenti, ha posto l’accento sulla paura per le rivolte contadine, diffusesi con particolare violenza nel XIV secolo,12 e ha collegato la satira antivillanesca a un tentativo di giustificare la dipendenza economica dei contadini e la loro condizione di miseria attraverso l’insistenza sulle loro caratteristiche fisiche e morali negative.13 Su questa linea si è mosso anche Paul Freedman, che ha letto la rappresentazione satirica dei contadini come un’elaborazione della teoria aristotelica della schiavitù naturale: in quanto moralmente e intellettualmente inferiori, i contadini possono essere legittimamente sfruttati.14 Oltre a Freedman, numerosi storici hanno dedicato pagine al tema della satira antivillanesca, tenendo sempre presente come punto di partenza il saggio di Merlini: nella Storia d’Italia einaudiana Emilio Sereni e Corrado Vivanti analizzano la formazione di un fronte compatto fra tutti i gruppi sociali cittadini contro le rivendicazioni della campagna;15 ancora, Massimo Montanari vede esplicarsi una nozione cittadina del rapporto con le campagne soprattutto nel topos del contadino ladro.16

All’interno di questo genere l’Alfabeto dei villani pavano si colloca in una posizione del tutto peculiare, in primis per l’adozione del dialetto rustico. Come ha scritto Marisa Milani, «la satira feroce contro il villano è possibile solo in lingua: l’uso del dialetto impedisce lo scontro tra culture».17 Questo dato non implica tuttavia che l’Alfabeto consista in una denuncia sociale; al contrario, il testo presenta gran parte dei topoi tipici della satira del villano:18 i contadini sono analfabeti e ignoranti in materia religiosa (vv. 1-3), si fingono amichevoli ma sono in realtà rancorosi (vv. 43-45), si riconoscono per il caratteristico lezzo (v. 48), non perdono occasione di attaccare briga (v. 49), spendono i soldi nei balli e non ne hanno poi per sfamare i figli (vv. 50-51), sono falsi e irrazionali (vv. 53-54) e sono addirittura ritenuti responsabili della crocifissione di Gesù Cristo (vv. 64-66). Rispetto tuttavia a testi come la Sferza dei villani, la satira antivillanesca che probabilmente conobbe più fortuna tra la seconda metà del Quattrocento e il Seicento, nell’Alfabeto si ha anche una grande attenzione alla rappresentazione della miseria della vita contadina: si descrivono le fatiche del lavoro nei campi, dei cui proventi non godono direttamente i contadini (vv. 4-9, 19-20), l’oppressione da parte degli esattori delle tasse, dei preti e dei soldati (vv. 10-13, 15-18, 28-30), l’abbigliamento misero (vv. 13-14,55-57), l’alimentazione e le case poverissime (vv. 21-24, 31-33, 46-47). Questi aspetti occupano la maggior parte del testo, che mette davanti agli occhi del lettore una vita di stenti cui sono destinati giovani e vecchi indifferentemente e dalla quale non si può trovare scampo né di giorno né di notte, come sottolineato dalla frequente ricorrenza del verbo stentare (vv. 26, 40, 77, oltre al sostantivo stente al v. 4) e del sostantivo martori (vv. 37, 81). L’Alfabeto si distingue inoltre, rispetto alle altre satire in cui l’autore si pone in una posizione di superiorità rispetto a un mondo contadino percepito come altro, per l’uso della prima persona plurale: sono i contadini stessi ad attribuirsi con rassegnazione i difetti in genere elencati nei testi satirici, come fossero caratteristiche immodificabili della loro «nagia» «desgratià» ‘razza disgraziata’ (v. 41).

Per quest’ultimo aspetto l’Alfabeto pavano è accostabile alla Nativitas rusticorum di Matazone da Caligano, probabilmente il primo componimento in volgare di area italiana ascrivibile al genere della satira antivillanesca, che si immagina recitato in prima persona appunto da un Matazone che «fo da Caligano / e naque d’un vilano» (vv. 6-7).19 Oltre ad alcuni topoi satirici, il testo presenta una descrizione degli alimenti poverissimi consumati dai villani (vv. 97-102), dei loro indumenti (vv. 103-106) e degli attrezzi che portano con sé (vv. 107-112), tutti elementi su cui si sofferma anche l’Alfabeto. L’ultima parte della Nativitas rusticorum, inoltre, consiste in un elenco delle prestazioni che il signore deve imporre ai contadini, distribuite su tutti i dodici mesi dell’anno, rappresentando così una vita di miserie senza tregue, impressione che si ricava, ancor più accentuata per i toni di tragica rassegnazione con cui è espressa, anche da molti passi dell’Alfabeto. Anche per la Nativitas, non a caso, la critica si è interrogata sulla prevalenza di una volontà satirica o di denuncia sociale: sull’opinione critica precedente, che propendeva per il secondo orientamento, ha sollevato molti dubbi Vittorio Dornetti, secondo cui il testo sarebbe coerentemente volto a ribadire la naturale inferiorità del villano e sarebbe quindi problematica «una lettura per antifrasi che proprio nella quantità di disgrazie accumulate sulle spalle del contadino scorge gli estremi di una comprensione umana o addirittura della denuncia coraggiosa, ancorché ambigua, di un’esistenza grama e stentata»;20 più recentemente, Nicolino Applauso ha individuato nel testo la presenza di due tipi di satira, contro i villani («peasant hater satire») e in loro difesa («peasant author satire»).21 La somiglianza tra i due testi è stata notata già da Francesco Novati22 e Gianfranco Contini; secondo quest’ultimo, in particolare, l’autore dell’Alfabeto sembrerebbe quasi schierarsi dalla parte dei contadini:

nell’Alfabeto la condizione contadina è descritta con accenti addirittura tragici, ai quali non sta molto addietro l’applicazione del tema dei mesi alle fatiche rustiche presso Matazone: antifrasi surrettizia che in realtà trasporterebbe i due detti nella provincia favorevole al contadino, cui appartengono talune variazioni favolistiche e i proverbi del villano, antenati di Bertoldo?23

Di fatto, il testo vive della dialettica data da un lato dalla ripresa delle accuse tipiche della satira del villano e dall’altro dalla rappresentazione di una vita di stenti attraverso un linguaggio preciso, che raffigura in pochi tratti gli elementi più caratteristici del mondo rustico, ma senza patetismi.

La forma scelta per la trattazione di questi temi è qui quella dell’alfabeto disposto, studiata in particolare da Francesco Novati, che ne rintraccia le origini nelle raccolte di proverbi disposti alfabeticamente per favorirne la memorizzazione e la ricerca. Novati ha inoltre messo in luce come nel Medioevo l’alfabeto sia concepito con finalità didattiche ed esemplari e solo successivamente sia stato volto a contenuti beffardi; il più antico esempio di alfabeto satirico sarebbe infatti proprio il nostro.24 I due principali bersagli di questo genere di testi burleschi erano le donne e, appunto, i villani; al secondo gruppo appartengono almeno altri due alfabeti più tardi, rispettivamente del XVII e XVIII secolo.25 L’Alfabeto pavano presenta la serie completa dei segni riportati sulle tavole alfabetiche, che si aprivano con il signum crucis, seguito dalle lettere dell’alfabeto e dai segni di abbreviazione dei gruppi et, con e ron.26

Il testo che propongo si basa per ora su quello approntato da Marisa Milani (fondato a sua volta sulla lezione del Marciano), alla luce però di una ricollazione sui due manoscritti, che sono indubbiamente i testimoni più autorevoli del pezzo.27 In altra sede mi riservo di scrutinare completamente la tradizione a stampa, che ho già iniziato a sondare: segnalo in particolare che, oltre a quelle marciane già note a Novati, Lovarini e Milani, altre due stampe tramandano il pezzo, e sono conservate rispettivamente presso la Biblioteca Colombina di Siviglia e la Biblioteca Apostolica Vaticana.28 Rispetto al testo di Milani, ho ritoccato la punteggiatura e ho apportato alcune normalizzazioni grafiche per adeguarlo ai criteri attualmente diffusi nell’edizione di testi pavani (an > an’ ‘anche’; di > d’i ‘dei’; ge > ghe; mo > mo’ ‘ora’; pi > ; si > ‘così’; ho poi aggiunto le maiuscole iniziali a Ave e Patanostro). Ho proposto inoltre i seguenti ritocchi:

  • 3> ni: Milani emenda la lezione di M in , ma la forma ni è ben attestata in pavano ed è infatti conservata da Novati e Lovarini;

  • 12 e ’l cavazale > e i cavazale: Novati legge «e cavazale», Lovarini «e ’l cavazale». L’asta verticale tracciata in M tra e e cavazale, probabilmente aggiunta in seguito, è più probabilmente una i;

  • 15 a’ seom > a’ seomo: in pavano in genere la desinenza della prima persona plurale del presente indicativo è -om/-on, tuttavia mi sembra più prudente ripristinare qui la lezione di M, come già Lovarini e Novati, data la presenza nell’Alfabeto di altre due forme con desinenza -omo (magnessomo al v. 45 e stentomo al v. 77), pur contro 34 occorrenze di forme in -om/on. Da una ricerca nel CP emerge un gruppo di sette forme in -omo in un altro testo copiato nel ms. Marc. It. XI 66, la Betìa di Ruzante, oltre a poche attestazioni sporadiche in altri testi. Per quanto riguarda il presente del verbo essere, l’Alfabeto ha cinque occorrenze della forma seom, tre di sem, una di seomo e una della forma veneziana semo;

  • 23 con > co: ripristino la lezione diMe la misura endecasillabica, come già Novati e Lovarini;

  • 38 inspezorare > in spezorare: si veda il commento al testo;

  • 49 Quustion fra nu e andom cercando briga > Quustion fra nu e’ andom cercando e briga: M legge qui «Quustion fra nu eandom cerca(n)do ebriga». Novati stampa «Quustion fra nue andom cercando e briga», Lovarini «Quustion fra nu; e andon çercando ebriga». La soluzione proposta permette di salvare la lezione del manoscritto evitando di supporre forme non altrimenti attestate in pavano come nue ed ebriga;

  • 57 le gambe > legambe: si veda il commento al testo;

  • 67 ge > ne: M legge «ge nasse», ma ghe è usato in pavano solo come pronome obliquo di terza persona (VP, 287); S legge invece «ne nase». La lezione di M è facilmente spiegabile come errore di anticipo rispetto al ge del verso successivo;

  • 76 Con > Co’: data l’interscambiabilità delle due forme in pavano, sciolgo così l’abbreviazione 9, come già Lovarini, per rispettare la misura endecasillabica del verso;

  • 80 ch’è > che è: ripristino la lezione di M, come già Novati.

Ecco il testo:

La santa crose, l’Ave, el Patanostro
non se l’haom possù tegnir a mente,
ni letra fatta a stampa o con ingiostro.
AArare e rupegare con gran stente:
quest’è la nostra prima lecion5
che n’ha insegnò i nuostri mazorente.
BBruscar le vi’ e metter d’i pianton,
a’ sè che ’l vin che faon non ne fa male:
nu bevon l’aqua e gi altri beve el bon.
CCetole po reale e personale,10
i sbiri sì ne ten tanto agrezè,
coegnom lassar i lieti e i cavazale.
DDesculci, senza calce e strinciè,
seom sbrendolusi e tutti sì n’inzerga
e sempre a’ seomo i primi assachezè.15
EE canta i preve sora i cuorpi e sberga,
po ne castra i borsetti a man a man.
Ghe vegna l’ango mo’ sotto la chierga!
FFormento, mégio, spelta e d’ogni gran
per gi altri semenon, nu martoriegi20
co un puo’ de sorgo se fazon del pan.
GGagii, galline, oche e polastriegi
gi altri sì magna e nu co un po’ de nose
magnon d’i ravi com che fa i porciegi.
HHuomeni e donne, tusi con le tose,25
el dì tutti se stenta quanto i pole
e po la notte su le mille crose.
II soldè d’ogno banda sì ne tole
e po ne lassa doppie le mogiere;
seom sempre i primi a far le muzarole.30
KKason de pagia, teze è le letiere,
le stalle de le biestie è pur megiore,
ogn’hom spublicamente el pò vedere.
LLuvi de notte sì è nuostri segnore,
rospi e ranuogi sì ne fa el biscanto,35
d’aseni e gagii aldom sonar le hore.
MMartori sem con duogia e con gran pianto,
le nuostre carte dise in spezorare,
non sè como a’ possom mè soffrir tanto.
NNassem tutti a sto mondo per stentare,40
l’è sì desgratià sta nuostra nagia
che d’ogno banda se sentom pelare.
OOdio se portom tutti in la coragia,
che se mostrom amisi al parlamento,
può se magnessomo el cuor in fritagia.45
PPolenta e porri è el nuostro passimento,
d’agio e scalogne el corpo se noriga,
fra la zente n’andom spuzando a vento.
QQuustion fra nu e’ andom cercando e briga,
spendom la festa i bieci in qualche ballo,50
el pan ne manca e i nuostri tosi ciga.
RRustici seom chiamè, non è gnian fallo,
sem tutti falsi, che ve ’l vuò dir pure,
no havom po pì rason com ha un cavallo
SStrope e stropiegi usom da far centure, 55
le ne scusa per strenghe e an’ per zuogia
e da ligar legambe a le zonture.
TTusi e le tose, anchora che i non vuogia,
attende a i puorci fin che gi è passù;
zoveni e vechi, tutti sem con duogia60
VVache co i buò, le biestie sta con nu.
El mondo n’ha con biestie acompagnò
e pruopio a muo’ de biestie seom tegnù
XCristo fo da villan crucificò
e stagom sempre in pioza, in vento e in neve 65
perché havom fatto così gran peccò.
YPhigiuoli che ne nasse dentro al sieve,
ghe faom le spese e sì i tegnom in ca’
e no saom si gi è nuostri o pur d’i preve.
ZZape e baili, vanghe e la gugià,70
co i nuostri cortelaci tachè al fianco,
quest’è la letra che n’è stà insegnà.
&Et te sè dir che andom dal puoco al manco:
a’ cherzo ben che ’l dì del gran deslubio
a’ saron di maliti dal lò zanco.75
9Co’ hagom del ben el svola via in un subio,
stentomo in tanta duogia e strussion
ch’agom la vita amara co’ è ’l marubio.
R⎠Romponse pur la vita co’ a’ vogiom,
sarem sempre de quigi che è al fondo:80
martori semo e martori sarom.
A’ seom pruopio la schiuma de sto mondo.

1 santa crose] sancta † S; 2 non] num S; 2 haom] haum me S; 3 ni] Ne S; 3 fatta] fata S; 3 con ingiostro] cu(m) lingiostro S; 4 Arare] arrare S; 4 e rupegare] ropegare S; 4 con] cu(m) S; 4 stente] stent S; 5 quest’è] Questa e S; 5 lecion] lectio(n) S; 6 insegnò] insegnio S; 6 nuostri] nostri S; 7 metter] meter S; 7 d’i] i S; 8 vin] vim S; 8 che faon] cha fe(m) S; 9 bevon] beo(m) S; 9 l’aqua] lagua S; 10 Cetole po] cetole S; 10 e] et S; 11 ten] tiem S; 12 coegnom lassar] che ge lagom S; 12 lieti] letti S; 13 Desculci] descalzi S; 13 calce] calze S; 13 e strinciè] et stri(n)sie S; 14 seom sbrendolusi e tutti sì n’inzerga] sem sbrendolusi e tutti sine inzerga riscritto a margine M; 14 sbrendolusi] sbrendoluzi S; 14 tutti sì n’inzerga] gialtri sine celega S; 15 a’ seomo] sem S; 15 assachezè] sach(e)ze S; 16 sora] e sora S; 16 cuorpi] corpi S; 16 e sberga] sberega S; 17 borsetti] borsiegi S; 18 l’ango] el lango S; 18 sotto] soto S; 18 chierga] chierega S; 19 mégio] meio S; 19 e] et S; 20 semenon] semenom S; 21 co un puo’ de sorgo se fazon] E po d(e)l sorgo a fago(m) S; 21 puo’] puo con u aggiunta in interl. M; 22 Gagii] gagi S; 22 galline] galine S; 22 e polastriegi] polastregi S; 23 gi altri] gialtri corr. su glaltri M; 23 sì] ne S; 23 co un po’] cu(m) puo S; 24 magnon] sbiassom S; 24 com che fa] cu(m) fa S; 25 e donne] done S; 25 con] cu(m) S; 26 tutti se stenta] se stenta(n) tuti S; 26 pole] puole S; 27 po] puo S; 27 notte] note S; 27 su] in su S; 28 ogno] ogni S; 28 tole] tuole S; 29 doppie] dopie S; 29 mogiere] mugiere S; 30 far] fa S; 31 pagia] paia S; 31 teze] tieze S; 31 è le]e S; 32 stalle] stale S; 32 biestie] bestie S; 32 megiore] meiore S; 33 ogn’hom] Ogniu(m) S; 33 spublicamente] splublicamente S; 33 vedere] videre S; 34 Luvi] I luvi S; 34 si è] so(n) S; 34 nuostri] nostri S; 34 segnore] signore S; 35 rospi e ranuogi] Ruospi ranochi S; 36 d’aseni] Da asini S; 36 gagii] gagi S; 36 aldom] aldon S; 37 sem] seo(m) S; 37 con] in S; 37 con] cu(m) S; 38 nuostre] nostre S; 38 in spezorare] impezorare S; 39 sè] sao(m) S; 39 como a’] come S; 39 soffrir] sofrir S; 40 Nassem] Nassu(m) S; 40 tutti] tuti S; 40 mondo] monto S; 41 nuostra] nostra S; 42 ogno] ogni S; 43 portom] porton S; 43 tutti in] in S; 44 che] po S; 45 può se magnessomo] se magnesom po S; 45 in fritagia] cu(m) la fortagia S; 46 e porri] puori S; 46 è el nuostro passimento] el nostro pascime(n)to S; 47 d’] De S; 47 noriga] nutriga S; 48 fra] E fra S; 48 n’andom] andom S; 48 spuzando] puzando S; 48 a] al S; 49 Quustion] Questio(n) S; 49 e’ andom] ando(m) S; 50 la festa] le feste S; 50 bieci] sbieci S; 51 el pan ne manca] po el pa(n) ge man(n)cha S; 51 nuostri] nostri S; 51 tosi] tusi; 52 seom] sem S; 52 non è gnian] el ne gran S; 53 sem] Su(m) S; 53 tutti] tuti S; 53 dir pure] pur dire S; 54 no havom] no(n) ge hom S; 54 po pì rason] cervelo pi S; 54 com] cu(m) S; 55 stropiegi] stropiegii S; 55 usom] usu(m) S; 56 scusa] scusa(n) S; 56 e an’] ancor S; 58 tose] tuse S; 58 anchora] ancor S; 59 attende] giattende S; 59 puorci] priorei S; 59 gi è]i ge S; 60 tutti] tuti S; 60 sem] stem S; 60 con] cu(m) S; 61 co i] cu(m) S; 61 biestie] bestie S; 61 con] cu(m) S; 62 con] cu(m) S; 62 biestie] bestie S; 63 pruopio] p(ro)prio S; 63 a muo’ de] come S; 63 biestie] bestie S; 64 fo] fu S; 64 da] di i S; 64 villan] vilam S; 64 crucificò] crucifigo S; 65 e stagom sempre in] stenton cu(m) S; 65 in vento e in neve] vento fa(n)go e neve S; 66 perché havom fatto] p(er)chagon facto S; 66 così gran peccò] cusi gra(n) peco S; 67 Phigiuoli] fioli S; 67 che ne nasse] che ge nasse M si ne nase S; 69 e no] Ne S; 69 si gi è] po si ge S; 69 di] d(e)l S; 70 e baili] bailli S; 71 cortelaci] cortelazi S; 71 tachè] a tacho S; 72 quest’è] Questa e S; 72 letra] lettera S; 73 sè] so S; 73 che andom dal puoco] dal pocho andro(m) S; 74 a’ cherzo] Credo S; 74 ’l] nel S; 75 a’ saron] Saru(m) S; 75 maliti] malvasii S; 76 hagom] gaom S; 76 ben] bem S; 76 svola] vola S; 77 stentomo in tanta duogia e strussion] Se stao(m) cu(m) afano in duogia strusiom S; 78 ch’agom] Cagu(m) S; 78 co è ’l] col S; 79 Romponse] rompense S; 79 vita] testa S; 79 co’ a’] co(m) S; 80 sarem] Seom S; 80 quigi] quegi S; 80 che è al] ch(e) val S; 81 semo] seo(m) S; 81 sarom] serom S; 82-83 Questa e la A.B. d(e) nu villa(n) da pava / ch(e) ago(m) imparo da nostra mea besava S.

1-3. La santa croce, l’Ave Maria, il Padrenostro / non ce li siamo potuti tenere a mente / né lettera stampata o tracciata con l’inchiostro. 4-6. Arare e dissodare faticosamente: / questa è la nostra prima lezione / che ci hanno insegnato i nostri anziani. 7-9. Potare le viti e mettere dei polloni, / so che il vino che facciamo non ci fa male: / noi beviamo l’acqua e gli altri bevono il buono. 10-12. Tasse poi sui beni e sulle persone, / gli sbirri continuano a tormentarci a tal punto, / [che] dobbiamo lasciare i letti e i cuscini. 13-15. Scalzi, senza calzemaglie e stracciati, / siamo sbrindellati e tutti ci offendono / e siamo sempre i primi saccheggiati. 16-18. E cantano i preti sopra i corpi e predicano, / poi ci svuotano i borselli a mano a mano. / Gli venga il langio sotto la chierica! 19-21. Frumento, miglio, spelta e ogni genere di grano / seminiamo per gli altri, noi meschini / con un po’ di sorgo ci facciamo del pane. 22-24. Galli, galline, oche e pollastrelli / gli altri mangiano e noi con un po’ di noci / mangiamo delle rape come fanno i maiali. 25-27. Uomini e donne, ragazzi con le ragazze, / di giorno tutti stentano quanto possono / e poi di notte stanno sulle mille croci. 28-30. I soldati da ogni parte ci depredano / e poi ci lasciano doppie le mogli; / siamo sempre i primi a darci alla fuga. 31-33. Case di paglia, fienili sono i letti, / le stalle delle bestie sono pur migliori, / ognuno lo può vedere chiaramente. 34-36. I lupi di notte sono nostri signori, / rospi e ranocchi ci fanno la cantilena, / da asini e galli sentiamo suonare le ore. 37-39. Siamo martiri con dolore e con gran pianto, / le nostre carte dicono in peggiorare, / non so come possiamo mai soffrire tanto. 40-42. Nasciamo tutti a questo mondo per stentare, / è così disgraziata questa nostra stirpe / che da ogni parte ci sentiamo pelare. 43-45. Odio ci portiamo tutti nel petto, / che ci mostriamo amici a parole, / poi ci mangeremmo il cuore in frittata. 46-48. Polenta e porri sono il nostro nutrimento, / d’aglio e scalogno si nutre il corpo, / andiamo fra la gente puzzando al vento. 49-51. Liti fra noi andiamo cercando e briga, / nei giorni di festa spendiamo i soldi in qualche ballo, / il pane ci manca e i nostri bambini gridano. 52-54. Rustici siamo chiamati, non è neanche un errore, / siamo tutti falsi, che ve lo voglio pur dire, / non abbiamo poi più raziocinio di un cavallo. 55-57. Giunchi e giuncastri usiamo per fare cinture, / ci servono come stringhe e anche come ghirlanda / e per legare legacci alle giunture. 58-60. I ragazzi e le ragazze, anche se non vogliono, / badano ai maiali finché sono pasciuti; / giovani e vecchi, tutti siamo con dolore. 61-63. Vacche con i buoi, le bestie stanno con noi: / il mondo ci ha accompagnato con le bestie / e proprio alla stregua di bestie siamo considerati. 64-66. Cristo fu crocifisso da villani / e stiamo sempre in pioggia, in vento e in neve / perché abbiamo fatto un così gran peccato. 67-69. Figlioli che ci nascono dentro alla siepe, / li manteniamo e li teniamo in casa / e non sappiamo se sono nostri oppure dei preti. 70-72. Zappe e badili, vanghe e il pungolo, / con i nostri coltellacci attaccati al fianco, / questa è la lettera che ci è stata insegnata. 73-75. E ti so dire che andiamo dal poco al meno: / credo bene che il giorno del grande diluvio / saremo dei maledetti dal lato sinistro. 76-78. Quando abbiamo del bene vola via in un soffio, / stentiamo in tanto dolore e affanno / che abbiamo la vita amara come è il marrubbio. 79-82. Rompiamoci pure la schiena quanto vogliamo, / saremo sempre di quelli che sono al fondo: / martiri siamo e martiri saremo. / Siamo proprio la schiuma di questo mondo.

1-3. La santa crose: denominazione delle tavole alfabetiche, in cui una piccola croce era tracciata prima della A (Lucchi 1978, 602-604), come interpretava già Lovarini 1965, 419. Secondo Milani 1997, 374 indica invece il segno della croce in quanto «primo elemento dell’insegnamento cristiano». Data la collocazione del sintagma all’inizio della serie, l’interpretazione di Lovarini mi sembra preferibile. Cfr. Cortelazzo, 418 la santa crose ‘tavola dell’alfabeto sulla quale in antico i bambini imparavano a leggere, preceduta da una croce’; Boerio, 210 tolèla de la santa croce ‘quella tavoluccia sopra cui sono chiare e grandi le lettere dell’alfabeto, per uso de’ fanciulli che cominciano ad imparare’. L’Ave, el Patanostro: sono le preghiere che aprivano il Salterio, testo usato nelle scuole come sillabario e libro di lettura (Lucchi 1978, 600-602). La scarsa conoscenza delle preghiere è spesso ricordata nelle satire contro i villani come segno della loro mancanza di fede: «El villan non sa l’ave maria / né alcuna orazione» (Capitolo satirico, vv. 45-46, in Merlini 1894, 182); «Credo che pochi tra molti ne sia / che abbino della fede cognizione, / né sappin pur ben dir l’Avemaria / né il Paternostro, o altra orazione» (La sferza dei villani, vv. 145-148, in Merlini 1894, 201). La forma patanostro presenta apertura di e in a davanti a vibrante (Wendriner 1889, §19; Schiavon 2010, 250) e dissimilazione (D’Onghia 2010, 216, n. 54, che riporta una serie di riscontri). Nel rifacimento della Prima Oratione ruzantiana di Alvise Cornaro si legge una parodia del Pater noster storpiato dai contadini: «Pare nostro Cristo in ciello santi santificetena nome tua, regna tua, filantas tua così in ciello e in terra. Pare nostro inquotidiana Dona Bisuodia dimiti ai mussi saco de nose in luca in tentacion no sì malamen» (Milani 1981, 6). Letra fatta a stampa o con ingiostro: l’eventuale ridondanza rispetto alla locuzione la santa crose del v. 1 può essere facilmente eliminata se si considera la letra non la ‘lettera dell’alfabeto’, ma un qualsiasi scritto stampato o vergato a mano. 4-6. Rupegare: ‘erpicare, dissodare’ (VP, 620-621; Patriarchi, 164, s.v. ropegare), anche nelle forme rapegare e ropegare; cfr. venez. rapegar/ropegar (Boerio, 552 e 583)e arpegar ‘erpicare’ (Cortelazzo, 95); vic. arpegare/erpegare/rapegare (SNP, 13). Cfr. «La se può somenare in cao del mese de lugio, com s’ha drezzò el terren in vanieza senza ropegarla» (Stugio del boaro, 38, in Milani 1996, 170); «a’ zapo, a’ brusco, a’ rapego a na bota» (Forzatè Rime, 36, 17). Rispetto alla forma arpegare ‘erpicare’ (VP, 45) si deve qui supporre la metatesi ar > ra (Wendriner 1889, § 46) e il passaggio a > o/u davanti a consonante labiale (Wendriner 1889, §17; Schiavon 2010, 250-251). Prati 1968, 5, s.v. arpega e REW, 4141 danno come etimologia il lat. *hĕrpex per hĭrpex, -ĭcis. Con gran stente: ‘faticosamente, duramente’ (VP, 780). La locuzione è usata anche in Pronostico alla villotta sopra le puttane, 90-91, in Milani 1997, 475; Ruzante Piovana, II, 98. Mazorente: ‘anziani’ (VP, 413; Milani 1997, 374); cfr. venez. mazorente ‘maggiorente’ (Cortelazzo, 802; Boerio, 406, che lo registra come variante antica di mazorengo). I sostantivi della III declinazione hanno generalmente in pavano il plurale in -e (Wendriner 1889, § 93; Schiavon 2010, 265): in questo testo si hanno anche cavazale (v. 12), preve (vv. 16 e 69), nose (v. 23), crose (v. 27), segnore (v. 34). 7-9. Bruscar: ‘potare’ (VP, 101; Patriarchi, 29); cfr. i rimandi in Zorzi 1967, 1336, n. 172 e Bertoletti 2005, 459, s.v. bruscaro, cui aggiungo Cortelazzo, 231 e SNP, 57. L’azione è spesso riferita, come qui, alla pianta della vite, in particolare in Dialogo di duoi villani padoani, 4, 177-178, in Milani 1997, 433; Ruzante Vaccaria, IV, 14 e 100; Stugio del boaro, 4, 5, 6, in Milani 1996, 160-162 (alle viti si riferisce anche nell’unica occorrenza registrata dal TLIO s.v. bruscare, «faro bruscaro le vigne», in Bertoletti 2005, 295-297). Pianton: ‘polloni’ (VP, 514; Patriarchi, 147; Cortelazzo, 999; Boerio, 505), qui piante arboree di sostegno alla vite (Milani 1997, 578). SNP, 319 registra vic. pianton ‘sostegno alle viti’. Generalmente doveva trattarsi di polloni di salici (Lovarini 1965, 419), come si deduce anche da un passo del Pianto per la morte del Bembo di Alvise Cornaro: «gi è deventè con sarae <purpio> puorpiamen un pianton de salgaro che foesse stò sgasò e decipò» ‘sono diventati come sarebbe propriamente un pollone di salice che fosse stato scortecciato e consumato’ (Milani 1981, 83). Gi altri: l’articolo determinativo maschile plurale è qui nella forma gi perché davanti a vocale (cfr. Formentin 2002, 16-19). Le altre occorrenze di questa forma nell’Alfabeto sono ai vv. 20 e 23. 10-12. Cetole [...] personale: ‘cedole di tassazione relative ai beni e alla persona’ (VP, 137). La locuzione ha occorrenze anche in Magagnò Rime, II, Prol.; Forzatè Rime, 46, 18-20; Ronchitti Dialogo, 35. In molti testi pavani ricorrono le invettive contro gli esattori delle tasse, da cui i contadini non trovavano scampo (Milani 1996, 27-29): nella Frotola d’un vilan dal Bonden, ad esempio, si fa un elenco di tutte le imposte che dovevano pagare (vv. 122-148, in Milani 1997, 207-208). Ten [...] agrezè: perifrasi continuo-iterativa, priva di valore risultativo, costruita con il verbo tenere e il participio passato, attestata nei dialetti settentrionali e soprattutto in piemontese (Ricca 1998, con esempi anche dal veneziano e dal pavano; cfr. anche D’Onghia 2010, 173, n. 93). Agrezare significa ‘disturbare, molestare’ (VP, 13), cfr. venez. agrizzar ‘molestare, mettere in imbarazzo, in difficoltà’ (Cortelazzo, 33-34). Cfr. Sonetti ferraresi, II, 3, 2, in Milani 1997, 181; Ruzante Pastoral, 607; Ruzante Piovana, III, 64; Magagnò Rime, II, 7, 130; Forzatè Rime, 6, 17-18 e 20, 113-114. Il TLIO registra il verbo agrezar ‘sollecitare qualcuno con eccessiva insistenza a fare qualcosa’ o ‘infliggere una sofferenza (fisica o spirituale)’, con due occorrenze in Bonvesin de la Riva e una nelle rime dell’Archivio di Stato di Bologna. In soli testi settentrionali è attestato anche il sostantivo agrezo, registrato dal TLIO con il significato di ‘stimolo tormentoso, tormento’. LEI, I, 463-464 riporta il verbo sotto la base *acrĭdiare ‘divenir agro’ e quindi in senso figurato ‘stimolare’. Coegnom [...] cavazale: i contadini sono cioè costretti a vendere o impegnare persino i letti per pagare le tasse. I cavazale sono i ‘cuscini’ (VP, 129; Patriarchi, 44); cfr. ad es. «un leto e una coltra / con du cavazale» (Mariazi, II, 30-31, in Milani 1997, 261). 13-15. Desculci: ‘scalzi’ (VP, 194), plurale metafonetico di descolzo (Milani 1997, 374). Per l’etimologia si vedano i rimandi riportati da Lovarini 1965, 421. Questo elemento è ricordato anche in un’altra satira antivillanesca, La vita de li infideli, pessimi e rustici vilani (v. 9): «Cum li piedi discalçi, / E cum li falzi / Inciditis herbas» (Merlini 1894, 175). Calce: ‘calzebrache’, indumento stretto alla gamba che scendeva dalla cintura fino alle ginocchia o ai piedi (VP, 110); cfr. Tomasin 2004, 236, s.v. chalce; D’Onghia 2010, 88, n. 1. Strinciè: Milani 1997, 604 propone dubitativamente il significato di ‘stracciato’, ripreso da VP, 794. Potrebbe trattarsi di una forma con s- prostetica del verbo trinzar ‘trinciare’, ‘tagliare minutamente’ registrato da Patriarchi, 214 e Boerio, 768. In tal caso, potrebbe essere riferito ai contadini, indicando che i loro vestiti sono stracciati, oppure potrebbe essere retto anch’esso da senza e indicare un tipo di calzoni tagliati per lasciar vedere la ricchezza delle fodere (per cui si vedano i rimandi riportati da D’Onghia 2010, 233, n. 10, tra i quali un passo in cui Giulio Cesare Croce usa appunto l’espressione «braghesse trinciate»). Sbrendolusi: ‘sbrindellati, cenciosi’ (VP, 654; Patriarchi, 171, s.v. sbrindoloso), plurale metafonetico. Cfr. venez. sbrindoloso ‘cencioso’ (Boerio, 611). Cfr. «E po’, a’ si’ cossì sbrendoloso» (Ruzante Parlamento, 70); «Te è sì sbrendoloso» (ivi, 84); «ho un gaban nuovo roto, sbrendoloso» (Forzatè Rime, 36, 3). REW, 1110 riporta l’it. sbrendolo ‘brandello’ sotto la base germ. binda; l’etimologia è invece dubbia per Prati 1968, 154. Inzerga: inzergare significa qui ‘ingiuriare, offendere’ (VP, 366), come in «No m’andar a inzaregando, / che, se Diè m’ai’, a’ te tambarerè!» (Ruzante Betìa, I, 903-904). Cfr. i rimandi riportati da Zorzi 1967, 1418, n. 122 e D’Onghia 2010, 197, n. 17. Assachezè: è l’unica attestazione nel CP del verbo assachezare ‘saccheggiare, derubare’ (VP, 53) con a- prostetica, contro le sette attestazioni di sachezare/sacchezzare/sachizare ‘saccheggiare’ (VP, 624). Secondo Milani 1997, 374 si tratterebbe di una spia non pavana, ma potrebbe essere collegato ai vari casi di prostesi di a- registrati da Schiavon 2010, 253. 16-18. Cuorpi: qui nel senso di ‘cadaveri’, con riferimento alle funzioni funebri (Milani 1997, 374). Sberga: sbergare/sberegare significa in generale ‘gridare’ (VP, 646; Patriarchi, 170, s.v. sberegare), ma qui piuttosto ‘predicare a gran voce’ (Lovarini 1965, 422; Milani 1997, 374), come in «Vaghe pur messier Berto, / co ’l sona un campanon, a sberegare / in cima a na cariega da comare / per voler insegnare / filuorica e meesina a i scuelari» ‘Vada pure messer Berto / quando suona un campanone, a predicare / in cima a una sedia da comare / per voler insegnare / filosofia e medicina ai venditori di scodelle’ (Magagnò Rime, III, 1, 189-193). Cfr. vic. sberegare ‘belare, predicare’ (Bortolan, 242) o ‘gridare’ (SNP, 381). Secondo Prati 1968, 153 il verbo deriverebbe da una base onomatopeica *berg-; LEI, VII, 740, 28-35 lo riporta sotto la base *ber- ‘grido di richiamo; rumore di animale’. Castra i borsetti: i preti ‘svuotano le borse dei denari’ (VP, 126) dei contadini attraverso offerte e simili. Castrare significa però letteralmente ‘castrare, tagliare’ (VP, 126; Milani 1997, 524) e indica quindi l’azione con cui i ladri staccavano il borsello dalla cintura con un taglio (cfr. D’Onghia 2010, 125, n. 73): i preti sono così assimilati a dei ladri. Ango: il lango o ango/angio è il ‘langio’, ulcera cancrenosa della coda del cavallo (VP, 31; Boerio, 339, s.v. langio). Passato per estensione a indicare un generico ‘tumore’, in pavano è spesso usato in imprecazioni (VP, 31), come ad es. in: «Pota de l’ango» (Sonetti ferraresi, I, 3, 12, in Milani 1997, 114); «Che viegna l’ango a ste lengue bardele!» (Poesie politiche, 15, 4, in Milani 1997, 412); «che ’l mal del lango i possa degorare» (Magagnò Rime, I, 14, 89). Chierga: ‘chierica’, rasura tonda degli ecclesiastici (VP, 137); cfr. «Ne te crer che me voia inamorare / con un pritazo c’ha la cherga in co’» (Sonetti ferraresi, I, 27, 7-8, in Milani 1997, 163). 19-21. Formento [...] gran: cfr. gli elenchi di cereali tipici della campagna padovana in «e poron pur semenare / orzo, spelta e di fromenti» (Poesie politiche, 11, 35-36, in Milani 1997, 402); «Mo biave, po’, cum è mégio, sorgo, spelta, ségala, orzo, scandela, vena e vezza?» (Ruzante Prima Oratione, 13). Formento: ‘frumento’ (VP, 264), forma metatetica, con 7 occorrenze nel CP, contro le 40 della forma fromento. Martoriegi: il termine è qui ambivalente, in quanto sia diminutivo di martore ‘martire’ (VP, 407-408; Lovarini 1965, 422-423; e infatti i contadini nell’Alfabeto sono definiti martori ai vv. 37 e 81, con riferimento alle sofferenze che patiscono) sia nome proprio della ‘martora’ o ‘faina’ (VP, 408), che ha poi assunto vari significati spregiativi come ‘sciocco’, ‘meschino’ e ‘subdolo’ (Zorzi 1967, 1419, n. 124; D’Onghia 2010, 198, n. 20). Questo passo dell’Alfabeto è citato da Schiavon 2006, 137-144, che fa il punto della questione relativamente ai due possibili significati di martorello con vari riferimenti lessicografici, da cui risulta chiaramente che il termine è spesso usato come appellativo per i contadini. Resta dubbio se questo uso di martorello come appellativo possa spiegarsi a partire da martore ‘martire’ e non muova invece da martorello ‘martora’. Co un puo’ [...] pan: il sorgo, cereale normalmente destinato agli animali, era usato per fare il pane in tempo di carestia o dai contadini più poveri (Milani 1997, 374; Baricci 2015, 152, n. 16). Agli alimenti consumati durante le carestie è dedicata parte della prima scena del Dialogo facetissimo di Ruzante, in cui è citato anche il sorgo: «No saì-u che gi anni ananzo a’ dasìvinu el sorgo ai puorzi? Mo ben, el doventè po bona biava per gi uomeni, perqué, con’ a’ v’he ditto, messier Giesondio ghe fè intrare la so’ gratia. Così sarà an’ de le rèmole» ‘Non sapete che gli anni addietro davamo il sorgo ai porci? Ebbene, diventò poi buon foraggio per gli uomini, perché, come vi ho detto, messer Gesù Dio ci fece entrare la sua grazia. Così sarà anche della crusca’ (Ruzante Dialogo facetissimo, 16). Cfr. anche «sto pan de sorgo, que par coari da prie de segaore» (Morello Buranello, 15); «[...] quel pan / ch’a’ sbiasso adesso pezo che da can / serà sorgo e mezan / co ’l è anca adesso [...]» ‘quel pane / che mastico adesso peggio che da cane / sarà sorgo e cruschello / com’è anche adesso’ (Forzatè Rime, 64-67). 22-24. Ravi: ‘rape’ (VP, 583). Altro alimento povero, in genere destinato agli animali, ma consumato anche dai contadini durante i filò (cfr. Ruzante Anconitana, IV, 52; Ruzante Lettera all’Alvarotto, 32) e soprattutto in tempo di carestia (cfr. Ruzante Dialogo facetissimo, 3: «a’ me vago pure impensanto con’ se porae fare de magnar puoco, che sti cancari de ravi ne ha sì slargò el buellame ch’el se magna artanto» ‘Sto pensando come si potrebbe fare per mangiare poco, che questi cancheri di rape ci hanno così allargato le budella che si mangia tanto quanto si espelle’). Cfr. Burgassi 2011, 385-386. Com che fa: fare è qui verbo vicario (cfr. D’Onghia 2010, 102, n. 4). 25-27. Tusi: ‘ragazzi’ (VP, 827), plurale metafonetico rispetto al femminile tose subito successivo, come anche al v. 58. Stenta: ‘stentano, penano’ (VP, 779), con verbo ripreso ai vv. 40 e 76. Su le mille crose: la locuzione stare sulla croce significa ‘stare in ansietà, essere preoccupato, stare sulle spine’ (GDLI, III, 996; cfr. Lovarini 1965, 423); mille enfatizza la quantità di preoccupazioni del contadino, che non può trovare riposo né di giorno, né di notte. 28-30. I soldè [...] mogiere: riprende il tema, già accennato al v. 15, dei soprusi subiti dai contadini da parte dei soldati. Le loro ruberie sono descritte in termini simili in un Dialogo de vilani, in cui l’elenco dei beni sottratti si conclude proprio con il riferimento alla moglie del contadino: N. «La pase l’è [stà] fatta a dirte el vero / e de i soldè no n’averen pensero.» Q. «Sì, adesso che son legiero, / che d’ogno banda son stò sachezò, / fuorsi ch’adesso un po’ me refarò. / In prima i m’ha robò / i puorci, i buò, el caro col versuro, / le bote co i tinaci, anche el vituro. / Mo ’l me sa ben pi duro / di leti ch’i ha robè, de le letiere, / e pezo che i m’ha tolta la mogiere» ‘-La pace è stata fatta, a dirti il vero, / e dei soldati non avremo più pensiero. / -Sì, adesso che sono alleggerito, / che sono stato saccheggiato da ogni banda, / forse adesso mi rifarò un po’. / Prima mi hanno rubato / i porci, i buoi, il carro col versore, / la botte con i tini, anche il vetturo. / Ma mi sa più duro / dei letti che hanno rubato, delle lettiere, / e peggio che mi hanno presa la moglie’ (Poesie politiche, 15, 28-38, in Milani 1997, 413-414). Anche il Pater nostro dei villani pubblicato insieme all’Alfabeto in una delle stampe della Marciana (cfr. n. 28) è incentrato su questo tema. D’ogno banda: più che ‘banda armata, esercito’, come intende Milani 1997, 513, banda significherà qui ‘lato, parte’ (VP, 68), come anche al v. 42 e come già traduce Lovarini 1965, 423. Muzarole: ‘fughe’ (VP, 442), da muzare ‘fuggire’ (ibid.); così fu chiamato in particolare l’esodo di contadini verso Padova e Venezia durante la guerra di Cambrai, soprattutto nel 1509, detto appunto l’anno delle muzarole (Lovarini 1965, 423; Zorzi 1967, 1352, n. 318). Oltre ai passi ricordati da D’Onghia 2010, 151-152, n. 45, cfr. Ruzante Anconitana, IV, 78; Ruzante Piovana, V, 53; Ruzante Lettera all’Alvarotto, 39; Alvise Cornaro, Orazione per il Cardinale Marco Cornaro, 600, in Milani 1981, 20; Morello Sprolico, 34. 31-33. Kason de pagia: le case con le pareti di canne e il tetto di paglia sono tipiche della campagna, in opposizione alle ca’ de muro della città (Milani 1997, 374; D’Onghia 2010, 195, n. 13). Nel Parlamento il personaggio di Ruzante fraintende così la parola paillard all’interno dell’imprecazione Vilain coquin paillard ascoltata dai soldati francesi: «‘pagiaro’, una ca’ de pagia, ché a’ stagon in le ca’ de pagia» (Ruzante Parlamento, 16). Cfr. anche «el fo inanzo el terratuorio ca le cittè, e le ca’ de muro venne drio a quelle de pagia» (Ruzante Piovana, Prol., 72-73); «Mi ch’a’ son mi, nassù do’ a’ son nassù / fuora alla villa in t’un cason de pagia» (Magagnò Rime, II, 9, 1-2); «Orben, a’ giera un puovero brazzente / a’ gh’éa una chiesura con un cason / in cima fatto de cane e de pagia» ‘Orbene, ero un povero bracciante / avevo un terreno recintato con un casone / in cima fatto di canne e di paglia’ (Forzatè Pastorale, I, 210-212). Teze: ‘fienili’ (VP, 818; Patriarchi, 208, s.v. tezza; Zorzi 1967, 1299, n. 119); cfr. venez. teza ‘tettoia; fienile; capanna’ (Cortelazzo, 1384-1385; Boerio, 747), vic. teza e tezzotto ‘fienile’ (Bortolan, 284; SNP, 475); GDLI, XX, 799, che registra teggia/tezza come voce di area settentrionale. REW, 761 riporta venez. e veron. teza sotto la base gall. attegia ‘capanna’. Il fieno faceva da giaciglio ai contadini: «che se no porterì leto, a’ dormerì su la teza» (Ruzante Betìa, V, 159); «El n’è rio saore, l’è saore da fen; ch’a’ he dromio zà quatro mese sempre su teze» (Ruzante Parlamento, 24). Patriarchi, 208 registra la locuzione dormir su la tezza ‘dormire al pagliaio’. Letiere: indica la ‘lettiera’, cioè l’intelaiatura del letto (VP, 379). Spublicamente: l’avverbio, non registrato in VP, presenta un prefisso s-, molto produttivo in pavano con funzione enfatica o espressiva (Tuttle 1981, 116-118; Schiavon 2010, 297-298) e ampiamente sfruttato in particolare da Ruzante a scopo caricaturale (Milani 2000, 109). In questo testo si hanno anche spezorare (v. 38), spuzando (v. 48), svola (v. 76) e forse strinciè (v. 13). 34-36. Biscanto: ‘discanto, cantilena’ (VP, 85, con quest’unica attestazione; Lovarini 1965, 423-424; Milani 1997, 374); cfr. venez. biscantar ‘canterellare, canticchiare’ (Cortelazzo, 185); it. biscanto ‘cantilena’ e biscantare ‘canterellare, canticchiare’ (GDLI, II, 249). Il TLIO registra per biscanto il significato tecnico di ‘voce superiore alla voce guida in una composizione musicale a più voci’, con un’unica occorrenza nel commento alla Commedia del bolognese Jacopo della Lana. D’aseni [...] hore: cfr. «nualtri containi no saessan mè quando a’ dessan levar su, se ’l dolce son di gagi e de gi aseni no ne chiamasse» ‘noialtri contadini non sapremmo mai quando dobbiamo alzarci, se il dolce suono dei galli e degli asini non ci chiamasse’ (Morello Zanzume, 14). 37-39. Martori: cfr. n. 7 a martoriegi. Le nuostre [...] spezorare: le carte sono qui i bigliettini della ventura (Lovarini 1965, 424; Milani 1997, 374); cfr. «Sì, sì, così no stéssele in pezorare, le nuostre carte!» (Ronchitti Dialogo, 173); «Le carte diseno in pezorar» (Dieci tavole, 1074). Lovarini e Milani stampano inspezorare ‘peggiorare’ (VP, 357), che avrebbe nel CP quest’unica attestazione. Considerati i riscontri appena riportati, sembra più opportuno stampare in spezorare, come già Novati 1910, 306. La locuzione significherebbe cioè che i biglietti della ventura estratti dai contadini prevedono che il loro destino possa solo peggiorare. 40-42. Stentare: cfr. v. 26 e n. relativa. Nagia: ‘razza, genìa’ (VP, 443; Lovarini 1965, 424; Zorzi 1967, 1527, n. 41); cfr. ad es. «Perché el figiuolo si è con’ è la raise del peon del pare, quello che no laga mè morir la nagia fina in bissecola» ‘Perché il figliolo è com’è la radice del tronco del padre, quello che non lascia mai morire la stirpe in eterno’ (Ruzante Vaccaria, I, 29); «a’ cerche d’hanorare quigi que è della nostra nagia pavana» (Morello Zanzume, 23). D’ogno banda: cfr. v. 28 e n. relativa. Pelare: qui avrà il significato figurato di ‘impoverire’, ‘sfruttare economicamente’ o simili (GDLI, XII, 950). 43-45. Odio [...] coragia: cfr. «Come nasce col puro ognor l’Agnella / Il Lupo col vorace e con l’inganno / La Tigre col crudel, con l’alma fella, / Così nasce il villan con l’odio [...]» (Satira contro i villani, in Merlini 1894, 222). Coragia: ‘petto, cuore’ (VP, 164; Lovarini 1965, 424); cfr. vic. coraggi ‘precordii’ (Bortolan, 80). Nei testi pavani il sostantivo è in genere usato nella descrizione delle viscere in subbuglio tipiche della sintomatologia amorosa o è comunque sede della sofferenza per amore; cfr. ad es. Ruzante Bilora, 31; Magagnò Rime, III, 95, 1-3; Forzatè Rime de Sgareggio, 70, 119. Al parlamento: la locuzione significa ‘a parole, in apparenza’ (VP, 478). 46-48. Polenta [...] noriga: ritorna il tema dei cibi poveri consumati dai contadini, già toccato ai vv. 19-24. Porri, agio e scalogne sono ricordati insieme tra i prodotti tipici della campagna padovana elencati nella Prima Oratione ruzantiana: «Mo çeole, scalogne, agio e puori, che farae magnar a un mezo morto» (Ruzante Prima Oratione, 14). Anche la satira La vita de li infideli, pessimi e rustici vilani si sofferma su questi alimenti (vv. 17-20): «Mille volte al sole / Ayo e cepole / Cum l’aqua pura. / Ex mestura / Mangiati el pane» (Merlini 1894, 175). Passimento: ‘nutrimento’ (VP, 484), ha quest’unica occorrenza nel CP. Spuzando a vento: Boerio, 696 registra la locuzione spuzzar a vento ‘fetere, ammorbare, putire di pessimi odori’; cfr. anche «El spuza a vento» (Dieci tavole, 676). Per il topos del «vilan puzolento» (così nella Nativitas rusticorum di Matazone da Caligano) si veda Dornetti 1983, 28-29. 49-51. Quustion: VP, 574 lemmatizza questa forma sotto il verbo *quustionare, con quest’unica attestazione, come imperativo di IV persona (dovrebbe presupporsi l’apocope o la sincope di una sillaba dalla forma quustionon/quustionom). Mi sembra più probabile che si tratti di una forma del sostantivo costion/custion/question ‘questione, controversia’ (VP, 170), al singolare o al plurale, come intendeva già Lovarini 1965, 425. Bieci: il bezzo (in genere bezze in pavano, con metaplasmo di declinazione, cfr. Wendriner 1889, § 96 e Schiavon 2010, 313) è una moneta di rame coniata a Venezia a partire dal 1497, del valore di mezzo soldo veneto (VP, 83; GDLI, II, 202; Boerio, 78; Cortelazzo, 180). Ballo: la passione dei contadini per i balli è ricordata in più testi satirici: cfr. «in ogni cativanza / balla e mena (a) danza» (Capitolo satirico, vv. 19-20, in Merlini 1894, 182); «Tutta la festa salta, balla, e giocca / Che a cena poi si segnano la bocca» (Alfabeto contro i villani, in Merlini 1894, 226). Sulla presenza delle feste e dei balli nei testi pavani si veda Milani 1996, 43-44. Ciga: cigare significa ‘gridare’ (VP, 144; Patriarchi, 49-50); cfr. venez. cigar ‘gridare acutamente’ (Cortelazzo, 344; Boerio, 170). Secondo Prati 1968, 207 si tratta di voce onomatopeica. 52-54. Rustici: come nota Milani 1997, 375, sembra trattarsi di un uso consapevole della forma colta, rispetto alla forma dialettale rusteghi. Rustico è anche il primo degli appellativi riferiti ai villani ricordati da Tomaso Garzoni nella Piazza universale (Cherchi – Collina 1996, 821). Sem tutti falsi: la disonestà dei contadini è un topos: la Sferza dei villani, ad esempio, è composta per la maggior parte da un elenco dei raggiri compiuti dai villani ai danni dei padroni; una serie più ridotta di imbrogli è anche nella Piazza universale di Garzoni (Cherchi – Collina 1996, 820) e nel Capitolo satirico edito in Merlini 1894, 182-185. No havom [...] cavallo: l’irrazionalità e la stupidità dei contadini sono richiamate con paragoni tratti dal mondo animale anche nella Piazza universale di Garzoni: «non regna in lui communemente né conscienza né ragione, essendo un bue del discorso, un asino nel giudicio, un cavallaccio nell’intelletto» (Cherchi – Collina 1996, 821). 55-57. Strope e stropiegi: stropiegi è diminutivo plurale di stropa ‘giunco, vincastro’ (Patriarchi, 199; Zorzi 1967, 1283, n. 1; Padoan 1978, 60, n. 2; D’Onghia 2010, 146, n. 26); cfr. venez. stropa ‘vermena di salice o simile con cui si legano le viti, le annestature ed altro’ (Boerio, 716; Cortelazzo, 1337); vic. stroppe ‘vimini’ (Bortolan, 275; SNP, 460); it. stroppa ‘fune, cordicella ritorta, in partic. quella usata per legare le fascine o per condurre gli animali’ (GDLI, XX, 394). Cfr. «Cancaro a i stropiegi!» (Ruzante Pastoral, 1). REW, 8321 riporta ant. it. stroppa e venez., emil. e lomb. stropa ‘laccio di salice’ sotto la base lat. strŏppus ‘cinghia’. Scusa: scusare significa qui ‘fungere, servire’ (VP, 688); cfr. ad es. «El to cantar scusava per loame» (Magagnò Rime, III, 13/1, 12); «col capel su, che scuse per elmeto» (Forzatè, Rime, 7, 11). Zuogia: ‘ghirlanda, serto’ (VP, 897; Lovarini 1965, 426); cfr. ad es. «con la zuogia d’erbazi e vischia in man» (Poesie politiche, 4, 10, in Milani 1997, 386). Cfr. venez. zogia ‘ghirlanda’ (Cortelazzo, 1535); vic. zoia ‘corona’ (Bortolan, 308). Boerio, 819 registra zogia de morto ‘ghirlanda’ e Patriarchi, 225 morir cola zogia ‘morir colla ghirlanda’. Da ligar [...] zonture: tutti gli editori stampano le gambe; secondo Lovarini 1965, 426, che porta ad esempio la locuzione registrata dal Tommaseo – Bellini legarsi le calze col salcio ‘essere un villano’, la frase farebbe riferimento ai lacci con cui si legavano le calze alle giunture, in particolare alle caviglie. Il senso letterale del verso, che sarebbe quindi ‘e da legare le gambe alle giunture’, non è però del tutto chiaro: l’interpretazione di Lovarini può tuttavia essere mantenuta a patto di stampare legambe ‘legami, legacci’. Nel CP è attestata solo la forma ligambe/ligambo (VP, 382), ma il passaggio i > e in protonia è ben attestato in pavano (Wendriner 1889, § 19). Cfr. venez. ligambo ‘legaccio’ e in particolare ‘cinto da legar le calze attorno alla gamba’ (Boerio, 371; Cortelazzo, 718; Prati 1968, 88). Patriarchi, 117 per ligambi rimanda al lemma zulagia dele calze, cioè appunto i legacci delle calze. 58-60. Attende: qui attendere vale ‘prendersi cura di animali’ (VP, 56-57); cfr. ad es. nel Pianto per la morte del Bembo, 93-95 di Alvise Cornaro «no viu che nu huomeni a’ no saon pì atendere a piegore né a cavale né a vache né a buò» (Milani 1981, 84). Gi: le due forme del pronome personale di terza plurale gi/i hanno distribuzione allomorfica in pavano (Formentin 2002, 21-24). La presenza della forma gi è qui giustificata dal contesto prevocalico. L’unica altra occorrenza di questa forma nell’Alfabeto è al v. 69. 61-63. El mondo [...] tegnù: cfr. ad es. «[scil. La Natura] Tra l’altre bestie diede a noi mortali / Questa villana bestia assai più ria / Dell’altre vieppiù crude e micidiali» (Satira contro i villani, in Merlini 1894, 222). Sull’assimilazione dei contadini agli animali nei testi satirici (qui anche al v. 54) si vedano anche Cabaillot 1988, 11 e Freedman 1999, 139-143. 64-66. Cristo [...] crucificò: l’accusa della crocifissione di Gesù è tradizionale nelle satire contro i villani (Merlini 1894, 3 e n. 1). Cfr. ad es. «el spirito suo crudele / a Cristo de [sic] del ferro / siando in croce posto» (Capitolo satirico, vv. 203-205, in Merlini 1894, 184); «e’ furon quei che di lor proprie mani / presono, e flagellorno il tuo Signore, / e crocifissol, que’ perfidi cani» (Sferza dei villani, vv. 755-757, in Merlini 1894, 219). E stagom [...] peccò: le avversità climatiche sono ricordate anche da Matazone da Caligano nella Nativitas rusticorum e da Tomaso Garzoni nella Piazza universale come punizione divina destinata ai contadini: «lo vento e la corina / l’azonse a gran ruina; / la pyoza e l’aquamento / l’azonse de presento: / zo fo per provedere / quen vita el deveva avere» (Contini 1960, 794); «Egli par veramente maladetto da Iddio, perché oltra la maledizione generale che per il peccato d’Adamo ricevé la terra, riceve mille particolari maledizioni, provando l’ira d’Iddio da tutti i tempi, particolarmente nelle pioggie che gli annegano la casa, nelle rotte di fiumi che lo sommergono, nelle tempeste che li spiantano il grano e l’uva [...]» (Cherchi – Collina 1996, 819-820). 67-69. Phigiuoli [...] sieve: come nota Milani 1997, 375 i bambini non nascevano tanto dentro alle siepi, quanto piuttosto vi erano concepiti. Cfr. ad es. «Robanse le moglie / in villa fra le foglie» (Capitolo satirico, vv. 62-63, in Merlini 1894, 183). Al sieve: nel processo di assegnazione dei sostantivi della terza declinazione latina al genere maschile o femminile, c’è stata a lungo una certa oscillazione nelle lingue romanze: nel CP il sostantivo sieve ha sette occorrenze, di cui quattro al singolare maschile, una al singolare femminile e due in cui non è possibile stabilire il genere (cfr. Wendriner 1889, § 98). Ghe faom le spese: la locuzione far le spese significa ‘mantenere’ (VP, 762); cfr. Sonetti ferraresi, I, 29, 17, in Milani 1997, 168; Ruzante Prima Oratione, 49; Ruzante Piovana, IV, 46; Magagnò Rime, II, 50, 126-127; ivi, III, 15/3, 2. No saom [...] preve: il topos dell’infedeltà coniugale subita dai contadini, che rende dubbia la paternità dei figli, è qui declinato in un’allusione anticlericale, dopo la più estesa invettiva ai vv. 16-18. Una delle proposte di legge della Prima Oratione ruzantiana ha lo scopo di risolvere proprio questo problema sociale: «La sie: che a’ façé che agno preve possa aver mogiere, o che i supia castré [...]; e perché i n’ha femene, i va in tanta veregagia, che, com i se imbatte in una de le nuostre femene, a la prima botta i la ingravia de fatto, e nu poveriti a’ fazon le spese a’ suò figiuoli» ‘La sei: che facciate che ogni prete possa avere moglie, o che siano castrati [...]; e perché non hanno donne, vanno in tanta smania, che, come si imbattono in una delle nostre donne, la prima volta le ingravidano di fatto, e noi poveretti manteniamo i loro figlioli’ (Ruzante Prima Oratione, 49). 70-72. Zape [...] cortelaci: lo stesso elenco di attrezzi tipici del contadino è in Forzatè Rime, 46, 60-64: «El dise que l’asegio / que adovro adesso, la zapa, el baile, / la vanga, el cortellazzo e tanti mile / ordigni dale vile / a’ i dovrerò anche alhora [...]» ‘Dice che il pungolo / che adopero adesso, la zappa, il badile, / la vanga, il coltellaccio e tanti mille / strumenti dalle campagne / li adopererò anche allora [...]’. Il coltello appeso al fianco è ricordato anche in un Capitolo satirico contro i villani (v. 102): «a lato porta el cortello» (Merlini 1894, 183). Gugià: ‘pungolo’ (VP, 313; Patriarchi, 103); cfr. «Mo di’ che se façe una bona caegia se la no è de cornaro, mo na bona gugia, mo dente da molin» (Ruzante Prima Oratione, 27, che sarebbe da stampare gugià come nel CP); «falce, zuvi, gugiè, manare e maci» (Forzatè Rime, 25, 23). Lovarini 1965, 428 stampava l’agugià, ma almeno l’attestazione in Forzatè farebbe propendere per la forma gugià. LEI, I, 538, 5, REW, 125 e Prati 1968, 81 riportano come base il lat. aculeatus. 73-75. ’L dì del gran deslubio: per l’identificazione di questo diluvio con quello previsto per il 1524 e le conseguenze relative alla datazione del testo, si veda l’introduzione. Dal lò zanco: ‘sinistro’ (VP, 882), anche in venez. (Cortelazzo, 1508; Boerio, 805). Lovarini 1965, 249 interpreta ‘dal lato sinistro del Signore’, al momento del giudizio universale (cfr. Matteo 25, 41). I contadini sono destinati alla dannazione eterna anche nella Sferza dei villani (vv. 532-535)e in un Alfabeto contro i villani del XVII sec.: «benché egi avran l’eterna dannazione / poi che fien desti all’angelico suono, della città di Dite e’ contadini / faransi allora eterni cittadini» (Merlini 1894, 212); «Da Cain derivò questa natione / Che da Dio ebbe la maleditione. / [...] / Cristo non darà mai di gloria il Regno / Al Villan che dell’opre sue è indegno» (ivi, 225-226). 76-78. In un subio: ‘in un soffio’, quindi ‘velocemente’ (VP, 800). La locuzione è riferita al verbo svolare anche in Morello Lalde, 18: «E questa svola int’un suppio, e pi tosto che polvere inanzo al vento». Cfr. anche Dialogo di duoi villani padoani, 4, 15-16, in Milani 1997, 426; Morello Terza Orazione, 29. Stentomo: cfr. v. 26 e n. relativa. Strussion: derivato di strussio ‘affanno, ansia’ (VP, 796; Patriarchi, 199), a sua volta deverbale da strussiare ‘strusciare, logorare stropicciando’ e quindi ‘affaticare’ (VP, 796; Zorzi 1967, 1544, n. 195); cfr. venez. strussia ‘pena, travaglio’ e strussiar ‘affaticare, stentare’ (Cortelazzo, 1339; Boerio, 718), vic. struscia ‘fatica’ (Bortolan, 276) e strussiare ‘faticare’ (SNP, 460). Marubio: il marrubbio è una pianta dal gusto amaro (VP, 408; Lovarini 1965, 430), per cui cfr. «un certo dolce papolò, che incende / pi che no fa el marubio [...]» (Magagnò Rime, II, 3, 22-23), «Oh pi che n’è el marubio Amor amaro!» (ivi, III, 2, 1), «conse in colusion che xe nomè / fiele, cegua e marubio smissiè» (ivi, IV, 82, 112-113). Cfr. in veneziano nel Naspo Bizaro di Caravia, II, XCVI, vv. 1-2 «Non è sì amaro el marubio e l’incenso, / quanto è ’l sentir d’amor tormenti e guai» (Pozzobon 2018, 410). 79-82. Vita: qui nel senso di ‘vita, cintola’ (VP, 872) e quindi per estensione ‘parte del corpo umano estesa dalle spalle ai fianchi’ (GDLI, XXI, 932; Boerio, 797). Martori: cfr. n. 7 a martoriegi. Schiuma: qui nel senso di ‘persona o insieme di persone che rappresenta la parte peggiore, infima, spregevole di una categoria o di un ambiente’ (GDLI, XVII, 1029).

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1 Marisa Milani (a cura di), Antiche rime venete (XIV-XVI), Padova, Esedra, 1997, p. 367. Prima di Marisa Milani avevano fornito un’edizione dell’Alfabeto Emilio Lovarini e Francesco Novati (Antichi testi di letteratura pavana, a cura di Emilio Lovarini, Bologna, Romagnoli Dall’Acqua, 1894, pp. 84-88, poi ripubblicato in Emilio Lovarini, L’alfabeto dei villani in pavano nuovamente edito ed illustrato, «Il libro e la stampa», IV (1910), 4-6, pp. 125-142 con il corredo di un ampio commento, infine raccolto in Emilio Lovarini, Studi sul Ruzzante e la letteratura pavana, a cura di Gianfranco Folena, Padova, Antenore, 1965, pp. 411-431; Francesco Novati, Le serie alfabetiche proverbiali e gli alfabeti disposti nella letteratura italiana dei primi tre secoli, serie IV, «Giornale storico della Letteratura Italiana», LV (1910), pp. 305-307.

2 Ivano Paccagnella, Vocabolario del pavano (XIV-XVII secolo), Padova, Esedra, 2012, p. XXVII.

3 E. Lovarini, Studi sul Ruzzante, cit., pp. 428-430. Gianfranco Folena riporta una nota apposta da Lovarini alla propria copia di lavoro dell’edizione dell’Alfabeto, in cui segnala come un testo copiato nel ms. Marc. It. XI 66 dia per il diluvio la data del febbraio 1522 e non 1524; tuttavia, come notato da Giorgio Padoan, Momenti del Rinascimento veneto, Padova, Antenore, 1978, p. 108, n. 49, nel ms. si legge chiaramente la data 1524. Anche Ludovico Zorzi, in riferimento alla Lettera giocosa di Ruzante, nota come la data dell’evento sia fissata ora al 1522 ora al 1524, ma senza chiarire a quali testi faccia riferimento (Ruzante, Teatro, a cura di Ludovico Zorzi, Torino, Einaudi, 1967, p. 1594, n. 11).

4 Ruzante, Lettera giocosa, 10, in Id., Teatro, cit., p. 1249. La datazione della Lettera è stata ampiamente discussa da Federico Baricci, Note per una nuova edizione della Lettera giocosa di Ruzante, in Ivano Paccagnella (a cura di), «parole assasonè, pa`ıe, slettrane». Omaggio a Marisa Milani, Padova, CLEUP, 2018, pp. 67-93, a cui rimando per le origini e lo sviluppo del dibattito cinquecentesco sul diluvio del 1524 e per la bibliografia più recente sul tema.

5 Ruzante, Piovana, I, 2, in Chiara Schiavon, Per l’edizione del Ruzante classicista. Testo e lingua di Piovana e Vaccaria, Padova, CLEUP, 2010, p. 120.

6 M. Milani (a cura di), Antiche rime venete, cit., p. 375.

7 Ivi, p. 367.

8 G. Padoan, Momenti del Rinascimento veneto, cit., pp. 140-141, che cita a sostegno solo il fatto che nel codice Sorelli della Biblioteca comunale di Treviso sono registrate sparse le date del 1527, 1528, 1529.

9 Domenico Merlini, Saggio di ricerche sulla satira contro il villano. Con appendice di documenti inediti, Torino, Loescher, 1894, pp. 1-29.

10 Vittorio Rossi, recensione a Merlini, Saggio di ricerche, cit., «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XXIV (1894), pp. 432-436. L’opinione di Merlini è ripresa, ad esempio, da Alfredo Stussi, Lingua, dialetto e letteratura, Torino, Einaudi, 1993, pp. 16-17, che ricorda alcuni fattori economici e politici che inasprirono l’antagonismo tra campagna e città.

11 Michele Feo, Dal pius agricola al villano empio e bestiale (A proposito di una infedeltà virgiliana del Caro), «Maia», XX (1968), pp. 89-136 e 206-223: pp. 13-14 dell’estratto.

12 Claire Cabaillot, La satire du vilain à travers quelques textes du Moyen Âge, «Chroniques italiennes», 15 (1988), pp. 1-27: pp. 3-5.

13 Ivi, pp. 25-27.

14 Paul Freedman, Images of the Medieval Peasant, Stanford, Stanford University Press, 1999, pp. 133-156.

15 Emilio Sereni, Agricoltura e mondo rurale, in Ruggiero Romano e Corrado Vivanti (a cura di), Storia d’Italia, I caratteri originali, vol. I, Torino, Einaudi, 1989, pp. 135-252: pp. 193-196; Corrado Vivanti, Lacerazioni e contrasti, in R. Romano e C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia, cit., pp. 869-948: pp. 909-931.

16 Massimo Montanari, La satira del villano fra imperialismo cittadino e integrazione culturale, in Roberta Mucciarelli, Gabriella Piccinni e Giuliano Pinto (a cura di), La costruzione del dominio cittadino sulle campagne. Italia centro-settentrionale, secoli XII-XIV, Siena, Protagon, 2009, pp. 697-705: pp. 698-699.

17 M. Milani (a cura di), Antiche rime venete, cit., p. 7.

18 I. Paccagnella, Vocabolario del pavano, cit., p. XXVII lo definisce, ad esempio, «un esercizio di cultura cittadina, di spietata satira del villano».

19 Gianfranco Contini (a cura di), Poeti del Duecento, vol. I, Milano – Napoli, Ricciardi, 1960, p. 791.

20 Vittorio Dornetti, Matazone da Caligano e le origini della satira del villano, in Studi di lingua e letteratura oerti a Maurizio Vitale, vol. I, Pisa, Giardini, 1983, pp. 22-44: p. 35.

21 Nicolino Applauso, Peasant Authors and Peasant Haters: Matazone da Caligano and the Ambiguity of the Satira del villano in High and Late Medieval Italy, in Albrecht Classen (a cura di), Rural Spaces in the Middle Ages and Early Modern Age. The Spatial Turn in Premodern Studies, Berlin/Boston, De Gruyter, 2012, pp. 607-637.

22 Francesco Novati, Carmina Medii Aevi, Firenze, Libreria Dante, 1883, pp. 29-30, n. 2.

23 G. Contini (a cura di), Poeti del Duecento, cit., p. 790.

24 Francesco Novati, Le serie alfabetiche proverbiali e gli alfabeti disposti nella letteratura italiana de’ primi tre secoli, serie I, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XV (1890), pp. 337-401: pp. 397-400. Cfr. anche Piero Lucchi, La santacroce, il salterio e il babuino: libri per imparare a leggere nel primo secolo della stampa, «Quaderni storici», XIII (1978), 38/2, pp. 593-630: pp. 603-604, di cui sono però da respingere le considerazioni riguardo all’Alfabeto pavano, che sarebbe a suo giudizio un testo indirizzato ai contadini stessi e scritto per esprimere i loro veri sentimenti.

25 Il primo, il cui incipit è «A lavorare sempre è destinato», è tradito dal cod. H, XI, 5, ff. 202-203 della Biblioteca comunale di Siena ed è edito da D. Merlini, Saggio di ricerche, cit., pp. 227-228, che lo attribuisce a un anonimo della Congrega dei Rozzi della seconda metà del Seicento. Merlini pubblica anche un rifacimento di questo testo con poche varianti, tramandato dal cod. I, 3, 32, ff. 15 e sgg. della Biblioteca Bertoliana di Vicenza (ivi, pp. 225-226). Il secondo, invece, il cui incipit è «A trattar col villan pien di malizia», è tradito da un codice del Museo Correr (cod. 132, f. 158r) e ricordato da F. Novati, Le serie alfabetiche proverbiali, serie I, cit., p. 399, n. 1. Un Alfabetto del villano con questo stesso incipit è anche in una stampa veneziana del XVIII secolo riprodotta in F. Novati, La Storia e la Stampa nella produzione popolare italiana. Con un elenco topografico di tipografi e calcografi italiani che dal sec. XV al XVIII impressero storie e stampe popolari, Bergamo, Istituto italiano d’Arti grafiche, 1907, p. 32 da un esemplare della Collezione Bertarelli di Milano.

26 P. Lucchi, La santacroce, il salterio e il babuino, cit., p. 603.

27 Biblioteca nazionale Marciana, ms. Marc. It. XI 66 (=6730), cc. 221v-222r secondo la numerazione in grafite nel margine inferiore (d’ora in poi M); Biblioteca comunale di Treviso, Cod. Sorelli, ms. 1445, cc. 38v-40r (d’ora in poi S), dove il testo ha come titolo L’alfabetto pavan. In calce al testo riporto i risultati della collazione.

28 Le due stampe della Marciana sono: Dialogi interlocutori Matre: Fia: Massara. Et prima incomenza la madre chiamando la figlia. Con altri capituli novi. Et l’alphabeto de li vilani, s.d.e, Misc. 2405.3 (un altro esemplare di questa edizione sembrerebbe trovarsi presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze, RARI Palat. D.4.6.23/9); Lo alphabeto delli villani con il Pater nostro & il lamento, che loro fanno, cosa ridiculosa bellissima, Venezia, Matteo Pagano, s.d., Misc. 2213.5. La stampa di Siviglia, segnalatami da Luca D’Onghia, è L’alphabeto di villani, s.l., Rinaldo Mantovano & figlio, s.d. (Klaus Wagner e Manuel Carrera, Catalogo dei libri a stampa in lingua italiana della Biblioteca Colombina di Siviglia, Modena, Panini, 1991, p. 456 riporta una nota d’acquisto vergata sulla stampa che reca la data dell’ultimo giorno del settembre 1530). La stampa della Vaticana è Lo Alphabetto delli Villani: con el Pater nostro, s.d.e., Stamp. Cappon. V.681 (int. 41).