La poesia dialettale del Rinascimento nell’Italia del Nord
OJ-italique-695
Magagnò ovvero la metamorfosi del pavano
Angelo Beolco, Ruzante, muore il 17 marzo 1542, mentre si appresta a mettere in scena per l’Accademia degli Infiammati, in casa di Giovanni Cornaro, la Canace, che Sperone Speroni aveva scritto tra il 9 gennaio e il 9 marzo 1541, a seguito delle discussioni sorte nell’Accademia sulla tragedia (e in specie sull’Orbecche di Gian Battista Giraldi Cinzio).
In vita, non una sua commedia viene pubblicata, nonostante la richiesta di privilegio di stampa inoltrata alla Repubblica Veneta il 13 dicembre 1533 (firmata con il nome d’attore con cui era ben noto sulle scene veneziane) per due commedie, «l’una Truffo et l’altra Garbinello», vale a dire la Vaccaria e la Piovana. D’altra parte lo stesso Ruzante aveva posto tardi (probabilmente nello stesso 1533) nel «Primo Prologo» della Vaccaria il problema di una versione scritta del testo teatrale, posteriore e diversa da quella portata in palcoscenico, con l’affermazione che «molte cose stanno bene nella penna, che nella scena starebben male». Bisognerà aspettare il 1548 per l’edizione della Piovana stampata a Venezia da Gabriel Giolito de Ferrari. E la sua fortuna editoriale si definirà fra il 1551 e il 1559 con le ben ventitré impressioni veneziane di Stefano Alessi, il quale assumerà poi un vero e proprio monopolio delle pubblicazioni pavane (e plurilingui) con le quindici edizioni di Calmo fra il 1551 e il 1561 e le tre di Giacomo Morello fra il 1551 e il 1553.
Il successo sul palcoscenico e quello (per quanto tardo) librario, che determinano la conoscenza delle opere di Angelo Beolco, ma anche del pavano come lingua d’arte, vanno di pari passo con l’imitazione ruzantiana e un nuovo sviluppo della letteratura pavana, diverso da quello tre-quattrocentesco (dai sonetti pavani di Giorgio Sommariva ai mariazi), culminato poi nel commediografo padovano e in tutta una produzione più o meno coeva, più o meno indipendente (dal Contrasto del matrimonio de la Tamia al Testamento de sier Perenzon, all’Alfabeto dei villani).1
L’altro dominatore delle scene venete contemporanee, Andrea Calmo, con Ruzante si scambia la paternità della Rodiana («composta per il famosissimo Ruzzante» recitano i frontispizi delle edizioni, dall’Alessi del 1553 alle ultime ristampe secentesche) in un «gioco di mistificazione e pubblicità»,2 un intreccio professionale che è sì furto d’autorità (probabilmente ad opera dello stampatore che ne condivideva il copyright) ma anche un riconoscimento della fama del maggior commediografo padovano, quasi nascondendosi dietro l’etichetta più riconoscibile. Nello stesso anno Alessi pubblica la Fiorina di Calmo, palese e intenzionale imitazione (o meglio rifacimento) di quella ruzantiana, dove però intr duce un gioco pluridialettale (veneziano e bergamasco, oltre al pavano) che manca al testo di Ruzante, rigorosamente monodialettale, come saranno solo Betìa, il Primo dialogo, le due Orationi e Piovana. Singolare che la precedenza editoriale spetti al rodigino Gigio Artemio Giancarli: la Capraria è edita a Venezia nel 1544 da Francesco Marcolini e la Zingana, sempre a Venezia, nel 1545 da Venturino Ruffinelli. Lo si potrebbe spiegare con gli stretti rapporti di Giancarli con la corte ducale ferrarese, dove aveva goduto della protezione di Ercole, Sigismondo ed Ippolito d’Este e dove probabilmente era entrato in contatto con il teatro di Ariosto e anche con quello di Ruzante, che a Ferrara aveva recitato la Moschetta; ma ancor più per i rapporti con Aretino, Calmo, il Burchiella, quella che Calmo nel suo testamento parodico chiama la «scuola d’i Liquidi», e un ambiente più o meno velatamente eterodosso, cui partecipa anche Marcolini, accademico Pellegrino, editore di Aretino, appunto. Il pavano dei villani Spadan nella Capraria e Garbuglio (nome anche del fameio della Piovana di Ruzante) nella Zingana assembla luoghi, nomi, riprese topiche ruzantiane, ricalcando il modello, di cui conserva i tratti stilistici più tipici (le interiezioni oscene, i wellerismi, le ingiurie) e ancor più quelli linguistici (metafonesi, ipercaratterizzazioni, come i dittonghi del tipo vieri ‘veri’ o gli esiti tipicamente pavani di –LLI¯ del tipo osiegi, tic caricaturali, come la metatesi comica del tipo cherzo - ovviamente con la vocale chiusa e la z sonora - ‘credo’, l’abuso di s- prostetica del tipo slegrisia, l’inserzione di r parassita come in scròlora, ‘collera’, deformazioni del latino del tipo idreste per idest).
L’imitazione intenzionale del Ruzante inizia subito nel suo più stretto entourage, a cominciare dal suo mecenate, Alvise Cornaro, che, pochi anni dopo la morte di Beolco, attorno al 1545, rimaneggia la Prima oratione,3 e dall’abate Giacomo Morello, probabile curatore per conto di Alvise delle stampe Alessi, il quale inserisce una propria apocrifa Terza orazione nell’edizione Alessi del 1551 delle due orazioni di Ruzante.
Ma la più radicale trasformazione dell’uso letterario del pavano e dell’utilizzazione del modello Ruzante («Quel gran Ruzante che n’ha insegnò a nu», lo definirà Magagnò, nel sonetto 29 della Terza parte delle rime, dov’è una commossa descrizione del paesaggio euganeo e berico) è segnata dalla pubblicazione a Padova nel 1558, ad opera di Grazioso Percacino, della Prima parte de le rime di Magagnò, Menon, e Begotto in lingua rustica padovana, con una tradottione del primo canto de m. Ludovico Ariosto.4
Nella dedica al canonico di Vicenza Iseppo Sanseverino,5 Giovan Battista Maganza,6 il Magagnò, etichetta i testi della raccolta come «canzon, che nu uomeni da le ville a’ canton tal fià l’instè, sotto a l’olmo, o l’inverno a filò in cerca a i nuostri fogolari». E giustifica l’inclusione dei componimenti dei sodali Menon, Agostino Rava (canonico, mansionario del Duomo di Vicenza, tra i fondatori dell’Accademia Olimpica, morto il 12 settembre 1583), e Begotto, Marco Thiene (morto il 10 luglio 1552), con una dichiarazione di modestia e discrezione:
E vezanto che el me’ cerpilio e le me’ campanelle iera massa puoche e che a far na bella zuogia o un bel mazo, el ghe vuole de le fiore purassè; e de pì sorte, a’ gh’he domandò licintia a l’anorevole e spelucativo barba Menon de anare in lo so orto. E sì a’ son stò anch’in quello che somené la benetta anema de barba Begotto, che Messer Giesondio ghe daghe paxe a l’anema: perqué el lo mierita, madè in bona fetta sì.
E vedendo che il mio timo timo e le mie campanule erano troppo poche e che per fare una bella ghirlanda o un bel mazzo ci vogliono molti più fiori e di più specie, ho chiesto autorizzazione all’onorevole e speculativo zio Menon di andare nel suo orto, e così sono stato anche in quello seminato dall’anima benedetta di zio Begotto (che il Signor Gesuddio dia pace all’anima sua, che lo merita, sì, per Dio, in buona fede).
In effetti questa Prima parte antologizza solo i tre vicentini, con l’eccezione di un «sonagietto» di Morello (e la relativa «resposta» di Magagnò),7 e, in chiusura, la traduzione in pavano di Marco Thiene del primo canto dell’Orlando furioso («El primo cantare de M. Dovigo Arostìo»).
Ne La seconda parte, che appare a Venezia da Giovan Giacomo Albani nel 1562,8 alla triade iniziale si aggiungono Valerio Chiericati con un’ercolana9 («El boaro de Chiavelin») e «Griso Trogiatto», Camillo Scroffa, con un «Capitello», un lungo capitolo in terzine.10 Nella dedica a Giovan Battista Foscarini, «poestò, capotagno e rezaore de Feltre»,11 Magagnò riprende il topos della dolcezza delle proprie poesie salbeghe, selvatiche:
[...] cetté vontiera sto me puo’ de slibrezzuolo, perqué, se ben ’l è mal sdaldorò, fuorsi ch’a’ ghe catterì per entro un certo no so que de salbego, che ve parera pì dolce a l’aldire che tanti versuri fatti intun favellare, che, de i cento che gi alde, el no gh’in sera trì, che gi intende.
[...] vogliate accettare di buon grado questo poco di mio libretto, perché, anche se è stato sbozzato malamente, forse ci troverete un certo non so che di selvatico, che vi sembrerà più dolce che non sentire tanti versi in una sola parlata, che di cento che li ascoltano ce ne saranno meno di tre che li capiscono.
e rivendica la propria scelta linguistica, contrapposta a quella dei «cettaini sletrani», con evidente citazione ruzantiana (almeno da Moschetta e Prima oratione):
[...] da quel dì che Amore me stramué d’un cermison e d’un povero boaro ch’a’ iera intun de quî cantaore che smergolanto per i buschi e per i pré fa tal bota tirar le regie a quî cettaini sletrani che favella en gramego o fiorentinesco, per inchina al dì d’ancuo, che ’l de’ esser, fè vostro conto, de gi agni pì de deseoto, a’ no gh’ho cognossù negun, a’ digo negun, che m’abbia alturiò pì vontiera e pì alla slibrata de quel ch’haì fatto vu [...].
[...] da quel giorno che Amore mi ha tramutato da quello zuccone o bovaro che ero in uno di quei cantori che, gorgheggiando per i boschi e i prati fanno talvolta rizzare le orecchie a quei cittadini letterati che parlano in grammatica o in fiorentinesco, fino al giorno d’oggi, che, fatevi il conto, sono più di diciott’anni, non ho conosciuto nessuno, dico nessuno, che mi abbia aiutato più di buon grado e con maggiore liberalità di quanto avete fatto voi [...].
La presenza parodica di Ruzante è forte in tutta questa dedicatoria, dal gioco di personificazioni come nella Littera all’Alvarotto («mea Slibralità») alle citazioni puntuali («lagar far de i sonagitti a i Pulitani da Rubin», ancora da Moschetta e Prima Oratione) o al wellerismo «[...] no m’ha ditto a mi el nostro Preve [...]», rifatto sul prologo della Piovana, fino a quello che chiama direttamente in causa il Beolco (con il cognome reale): «E con’ solea dire quel omo da ben de barba Agnolo Beolco, viver pì che se pò in zuogia e in alegriesia perqué questa è la via del bon vivere e del scampar purassè» (peraltro con ripresa puntuale da Le lalde e le sbampuorie della unica e virtuliosa Ziralda, ballarina e saltarina scaltrietta pavana – «Le lodi e i festeggiamenti dell’unica, virtuosa Giralda, ballerina, salterina, furbetta pavana» –12 e dalla Terza Oratione di Giacomo Morello).
Il riferimento più forte al nome di Ruzante si trova nella Terza parte de le rime di Magagnò, Menon, e Begotto, edita a Venezia da Bolognino Zaltieri nel 1569, proprio ad apertura di libro nel lungo (341 versi) sonetto caudato indirizzato a Leonardo Mocenigo, con un sottotitolo esplicito della propria visione del mondo contadino: «Dove l’Auttor prova, che i contadini sanno naturalmente, e per osservatione, quanto quei che imparano con longo studio». Qui Magagnò accomuna la propria condizione subalterna (e tanto misera da non poter poetare perché costretto a cercare da mangiare) a quella di Ruzante, e invita Mocenigo a farsi mecenate come lo era stato Cornaro, dimostrando una conoscenza della produzione teatrale del Beolco e della sua diffusione da Padova a Venezia, con il riferimento a Fiorina e Trese, probabilmente più personaggi che titoli di pièce:13
Se Ruzante, che fo
bon cantarin e così gran boaro,
no s’imbattea cattar quel Cornolaro
donde el se fè un zugiaro
e ’n bon baston da pontarseghe su,
mi a’ so che Pava no l’arae sentù
cantar co’ a’ fagon nu
e la so bella Trese e la Fiorina
n’arae mè passò Lezaffusina,
perqué la deroina
d’un bon celibrio è, quando el vuol cantare,
scognir pensar que consa el dè magnare.
Se Ruzante, che fu buon canterino e così gran bovaro, non incappava a trovare quel gran Corniolo, di cui si fece un pungolo e buon bastone da appoggiarcisi, io so che Padova non l’avrebbe sentito cantare, come invece facciamo noi, e la sua bella Beatrice e la Fiorina non sarebbero mai arrivate a Venezia e si sarebbero fermate a Lizza Fusina, perché la rovina di un buon cervello, quando vuol poetare, è dover pensare a cosa mangiare.
In questa Terza parte la compagnia pavano-berica si allarga: ai tre «padri» e Chiavelin si aggiungono Giuseppe Gualdo, Antonio Scroffa, Bedin Lanzotto, nomenagia di Bernardo Ghislanzoni (come è chiarito nei tre epitaffi dedicatigli da Magagnò), e un non identificato Tognon (ammesso che non sia lo stesso Scroffa).
Il nome di Ruzante compare con più frequenza nella Quarta parte delle rime alla rustica, edita a Venezia da Giorgio Angelieri dopo il 1583 (data della dedicatoria di Magagnò al tipografo). Così nel sonetto (30) a Forzatè:
A Dio, Sgaregio frello,
cantarin che l’impatta de bel patto
a Ruzante, a Billora e anche a Menatto.
Addio fratello Sgareggio, canterino che sta alla pari con Ruzante, Bilora e anche Menato.
e poi in quello a Alvise Bembo14 (37):
[...] a la fe’, da compare
a’ melité quel laldo, paron caro,
che fè Ruzante così gran boaro
a ’n Loise Cornaro
e che gh’ha fatto Menato e Billora,
de muo che ’l mondo el lalderà d’agn’ora [...]
[...] in fede, da buon compare, meritate, padrone mio caro, quella lode che quel gran bovaro di Ruzante tributò a Alvise Cornaro e che ha reso Menato e Bilora tali che il mondo intero li loderà per sempre [...].
fino all’evocazione (79) nel sonetto ad Alvise Cornaro, «pare e paron de tutti i vertuliusi», padre e padrone di tutti i virtuosi:
Mo tutte le comierie, e le canzon
ch’ha compondue Ruzante, in fede mia,
che ’l le gh’ha fatte apozò al so peon,
sì che ’l no fo el baston
an de la so vecchiezza e de Billora
e de Menatto che ’l s’in dise ancora?
Ora, tutte le commedie e le canzoni che Ruzante ha composte, in fede mia, non le ha fatte appoggiato al suo tronco, sì che non fu il bastone anche della sua vecchiaia e che di Bilora e Menato si continua a parlare?
dov’è evocata tutta la compagnia teatrale del Beolco. L’elogio e la comparazione a minore ad maius ritorna nel sonetto (56) a Bartolomeo Moretto:
[...] a cantar de Pava
el ghe vorae Ruzante o quella brava
lengua, che za cantava
là su in Arqua [...]
[...] a cantare di Padova ci vorrebbero Ruzante o quella brava lingua di Petrarca che cantava lassù, a Arquà [...]
e in quello per Angelo Grandi e Clarice Gallina (80):
Perqué no ven barba Agnolo Ruzante
al Paraiso chivelò in ’ste bande
per far anore a ’n Agnolo de i Grande
che sea mè stò, dal Polente al Levante?
Perché non viene zio Angelo Ruzante in paradiso qui, da queste parti, per onorare un Angelo dei Grandi che sia mai esistito, da ponente a levante?
Quasi a voler creare un’unica grande cerchia pavana erede della cornariana «massaria d’i Ruzanti», Magagnò allarga al massimo il numero dei partecipanti a questa sua ultima grande smissiaggia: Sborozzò (probabilmente Camillo Zarabotani), Braghin Caldiera (Giovan Battista Calderari), Issicratea Monti, Luigi Groto, Maddalena Campiglia, Cenzon (Vincenzo Dal Bianco, nipote di Magagnò), Rovigiò Bon Magon (Giuseppe Gagliardi), Tuogno Figaro (Alvise Valmarana). Si definisce qui il quadro della continuità ma soprattutto della trasformazione del lascito del Ruzante.
La formazione letteraria del Magagnò avviene all’interno di quel classicismo rinascimentale ellenistico che Gian Giorgio Trissino aveva trapiantato a Vicenza dalla corte romana. Ed è proprio il Trissino che ha influito sul nuovo modo di concepire il dialetto e sull’operazione stilistica del Magagnò, con il proprio concetto di lingua come coinè e del dialetto in rapporto alla lingua comune, alla luce della sua lettura della Poetica di Aristotele, con la distinzione (sulla base del cap. 21 della Poetica) fra nome comune, «parola propria» (κύριον), di uso corrente, e quello forestiero o dialettale (γλῶττα), in opposizione al traslato metaforico (αλλοότριον ὄνομα). La lingua è il risultato della mescidanza delle varie parlate regionali, oscillante nell’uso individuale, più che sald mente fondata attorno a un nucleo originario com’era nella più concreta proposta bembiana. Nella Sesta divisione della poetica (attorno al 1549) Trissino affrontava il tema dell’egloga avallando la nozione del dorico come lingua rustica congruente al genere ma al contempo in grado di esibire ornatus e metafore, tentando così di classicizzare il dialetto. La virata15 impressa da Magagnò al realismo ruzantiano in , («che imitò Virgilio»), per non aver «asseguito» – come neppure fece Virgilio rispetto a Teocrito – la «grazia» e la «venere» teocritee «in questa nostra lingua [...], quantunque abbia bello e alto stile», dall’altro conclude: «Ben credo che se alcun buon poeta scrivesse egloghe in alcune di quelle lingue rustiche nelle quali scrisse Ruzante o Strascino o Battista Soardo o simili, che forse riuscirebbono meglio».16
Sarà Magagnò a compiere l’operazione di coniugare il realismo di Ruzante con la pratica già «secentista» della metafora in una poesia, dove le reminiscenze classiche (Virgilio ma anche Teocrito, Anacreonte) si mescolano a memorie di poesia popolare entro una sperimentazione linguistica e metrica estrema, dal sonetto (privilegiando quello caudato, con code fino a oltre trecento versi) alle canzoni, dai madrigali alle mattinate, dalle sestine alle ottave alle ercolane.
I Quattro libri di rime in lingua rustica, privi di struttura organica di ‘canzoniere’ (semmai assemblaggio di ‘microcanzonieri’ come quello di Menon per la Tietta), miscellanea (smissiaggia) di componimenti diversi, idealizzano il mondo contadino in un quadro idillico, bucolico, partendo da contingenze encomiastiche e adulatorie per i vari potenti e protettori, o da occasioni parodiche: le varie ‘riscritture’ in chiave popolareggiante di testi del Petrarca (a partire dall’imitazione di Chiare, fresche, e dolci acque ad opera di Magagnò, cui risponde in concorrenza l’amico Menon, per continuare con quelle ben più frequenti di Begotto, il quale Begotto parodizza anche altri autori contemporanei, Giulio Camillo, Domenico Venier, Giovanni Muzzarelli, per finire con Ariosto «stramuò» in pavano, dove va marcato il termine stramuare, ‘trasformare’, che è nel Ruzante della Vaccaria, ma è soprattutto il muar lengua, muar el favellare, mimetismo linguistico, della Moschetta e della Piovana).
La ripresa del modello ruzantiano prende però tutt’altra piega. Il teatro di Ruzante, privato di ogni realismo, perde la propria carica ideologica. Nella dissimulazione contadina il poeta boaro ‘pastore’ (non più vilan ‘contadino’ come i personaggi di Beolco, inurbati o meno) si rifugia nell’arcadia, nell’apologia di una vita campestre sobria e pacifica, di cibi poveri e naturali come la zonchià o i gnuocchi, l’amore per le tose, Viga, Tietta, che assomigliano più alla Laura petrarchesca che non alle donne dei mariazi. Dalla scena la poesia si sposta alle accademie e ai conviti, dal teatro alle parodie, agli elogi e alle declamazioni. Il dialetto, espressione di snaturalitè, fame e sesso, perde il proprio nerbo vitale e si esaurisce nell’elogio arcadico della vita campestre, semplice e povera ma pacifica e soprattutto remota da conflitti sociali, nelle poesie d’amore, nelle odi di «ballarine e saltarine scaltriette», nelle «laldi» di podestà e potenti. Ormai anche nel Veneto sono ben attive le prescrizioni e le censure dei Tribunali dell’Inquisizione. La Vicenza di Trissino e Magagnò vive una fase di mutamenti radicali, con l’aumento della ricchezza agraria, l’ostentazione delle ville padronali (quelle innalzate dall’amico Palladio) e un’aspirazione alla nobilitas della classe dominante cittadina. Un clima stagnante, appena incrinato dalle inquietudini religiose: la Riforma si diffonde nel Vicentino, l’anabattismo e il radicalismo religioso e sociale troveranno spazio fra gli artigiani ma interesseranno anche la nobiltà, tanto che Giulio e Bartolomeo Capra verranno giustiziati e Bianca Nievo Angaran, incappata con il marito e le figlie nelle maglie dell’Inquisizione vicentina, verrà strangolata. La subalternità di Magagnò a questo mondo nobiliare è la molla che fa scattare le sue finzioni rustiche; la difesa della vita di natura, dei contadini che «sanno naturalmente, e per osservatione, quanto quei che imparano con longo studio» è una forma di autodifesa della propria personalità e della propria cultura. In sintonia con i cambiamenti epocali, storici e politici, e dell’evoluzione del gusto cittadino, dell’aristocrazia vicentina, Magagnò riduce la poesia pavana a poesia bucolica, arcadica (ma ancora una volta un’arcadia che non è quella della Pastoral ruzantiana), dove il mondo contadino è nobilitato fin nella stessa lingua, ipercaratterizzata dialettalmente ma non meno segnata dalla ricercatezza dei propositi letterari.
Magagnò devitalizza la lingua di Ruzante nel momento in cui ne fa lo strumento della propria sperimentazione letteraria: la rappresentazione della natura diventa figurazione di una nuova, diversa concezione della comunità, la lingua manifesta il disagio dell’estrazione sociale dell’autore. Così Magagnò e i “pavani vicentini” distorcono la scelta dialettale ruzantiana, con l’intromissione di stilemi e lessemi preziosi e iperletterari, ridimensionano il rapporto tra dialetto e mondo contadino sbilanciandolo verso una letterarietà che ripropone la sperimentazione del registro rustico corretto però da un riallineamento nei ranghi di un umanesimo erudito – Ruzante letto alla luce del prologo della Piovana, dove la «noella bella e nuova» «l’è fatta de legname vegio», la materia plautina che non è furto imitare: «el serave conzar per i vivi, e no tuor a negun de i muorti; ché la sisa serà di muorti e ’l panno di vivi» (la storia bella e nuova [...] è fatta di legno stagionato [...] sarebbe sistemare per i vivi senza nulla togliere ai morti, perché il taglio sarà dei morti ma il panno dei vivi. Non più dunque lingua di un mondo subalterno (anche se fittizio, reinventato in variante cittadina da Beolco, il cui teatro rimane pur sempre all’interno della satira del villano), ma gusto manieristico e artificioso per il ‘primitivo’, travestissement azzardato di generi e forme illustri.
Si spiega così il recupero più arcaico o geograficamente marginale (una pavanità che vira al vicentino e alle aree di confine) del dialetto, l’interesse lessicografico e documentario che traspare nelle glosse alle edizioni Zaltieri della Prima e Seconda parte del 1569 e 1570 (e più tardi, nel 1659, in quella veneziana di Giovan Battista Brigna della Prima parte), gli hapax (più raramente neoformazioni o invenzioni magari fondate sulla deformazione, come invece spesso avviene in Morello), l’archiviazione e l’accademismo glottologico (che già era stato di Calmo, in particolare quello delle Lettere).
All’apice di questa parabola figura l’edizione di Tutte le opere di Ruzante stampata a Vicenza da Giorgio Greco17 nel 1584 (cui non è detto fosse estraneo proprio il Magagnò), la quale fissa un corpus ‘canonico’ che dal punto di vista linguistico come anche da quello ortografico e della punteggiatura assume una fisionomia regolare e definita: la dedica dell’editore al patrizio vicentino e accademico olimpico Vespasiano Giuliani sanziona l’evidente e deciso cambio di visione dell’interpretazione della snaturalitè ruzantesca in un’ottica tutta letteraria, artificiosa, opera di un milieu accademico vicentino, che reinterpreta l’uso del pavano in chiave cittadina, legata agli indirizzi culturali che venivano definendosi nell’Accademia Olimpica.
L’intenso e raffinato manierismo nell’uso del dialetto nei Quattro libri di rime rustiche si vede con particolare evidenza nel continuo riferirsi ai modi e ai temi della cultura alta e sul piano della sperimentazione metrica, dove la rappresentazione del mondo contadino è filtrata da un costante petrarchismo di fondo (particolarmente scoperto nelle riscritture dialettali e nelle parodie del Petrarca e di petrarchisti come Venier e Muzzarelli, che si rinviano dall’uno all’altro dei tre maggiori autori delle Rime, in particolare in Marco Thiene, e che poi travalicheranno nelle successive Rime di Sgareggio, nella Smissiaggia di Tuogno Figaro, nella raccolta di Sonagitti, spataffi, smaregale e canzon in morte di Menon). Le Rime rustiche sono un grande laboratorio, sia dal punto di vista delle forme che da quello della misura dei versi (da endecasillabo e settenario a quinari e ottonari). Nei Quattro libri si trovano: 50 sonetti e 132 sonetti caudati (con code di schema ricorrente: dEE, eFF che spesso eccedono il centinaio di versi); 11 ercolane (tre di Menon – I 24, 38, II 48 –, sei Magagnò – II 1, III 5, 9, 12, IV 8, 63 –, una rispettivamente di Chiavelin – II 49 – e di Rovigiò – IV 128; schema: Ab 7Ab 7 (c 5 +c 5)(d 5+d 5)(e 5+e 5)X, con i quinari con rimalmezzo e l’ultimo verso ossitono); 7 canzoni (qui il luogo privilegiato dell’imitazione e parodia petrarchesche), di cui tre a strofe e quattro a stanza singola; 39 quartine (metro fisso dei molti epitaffi dei quattro libri); 5 sestine (di cui tre di Menon, in sequenza, I XXV-XXVII) e una sestina narrativa18 di Begotto; 5 ottave (tutte di Begotto, a imitazione dell’Ariosto, tranne le 264 quartine del Monte de Venda di Magagnò, I LVIII); 3 capitoli ternari; 18 frottole; 69 madrigali, più 4 a stanza singola.19
Un esempio è il complicato polimetro della Zonchià de Magagnò composto da un sonetto caudato di 137 versi a schema ABBA ABBA CDC DCD d 7EE e 7FF ... yZZ, cui segue, dal verso 138 al verso 412 un’ercolana a schema Gh 7GH(i 5+i 5)(l 5+l 5)(m 5+m 5)N e dal verso 413 alla fine, v. 427, il ritorno della coda del sonetto, con la ripresa dell’ultima rima dell’ercolana, rosà: smergolà, n 7OO o 7PP ... y 7ZZ. I versi di chiusura di strofa (e i settenari ai versi 5-7 della strofa) sono sempre ossitoni. Il passaggio dal sonetto all’ercolana è marcato dallo spostamento del settenario dall’inizio (d 7EE e 7FF ...) a cerniera fra gli endecasillabi (Gh 7GH), entratura al ritmo battuto dell’ercolana, che nell’economia narrativa del componimento si rivela come un testo nel testo, movimento ‘cantato’ entro la descrizione della mungitura di Viga. Se ne dà il testo in edizione critica, sulla base della princeps Albani del 1562, seguìto dalla traduzione e da una serie di succinte note esplicative.20
La zonchià
Al Mag. S. Francesco Pisani
Que dè portare un puovero villan | |
a’n so’ paron, che ghe vuol tanto ben | |
ch’ el lo vorave ver contugnamen | |
a galder del so vin e del so pan? | 4 |
Vie’ chì Chiarina! Lora va’ pian, | |
ch’a’ vuogio farve monzer molto ben! | |
E ti, Viga, polìa, bella e da ben, | |
curri al sechiaro e lavate le man | 8 |
e tuò un pugno de sale, che te sè | |
ch’agno pochetto che l’in magnerà | |
le darà de la latte purassè | 11 |
E porta quella secchia, che n’è stà | |
ancora metù in uovera; perqué | |
a’ vuò ch’a’ ghe fagamo na zonchià | 14 |
e co’ a’ gh’abbia asià | |
d’i zunchi e de le scorze de pianton, | |
con la de stare a’ la regoneron. | 17 |
Mo que dirà el paron | |
co a’ ghe la porte? Ghe darà-l del muso | |
o m’averà-l per un celibrio buso? | 20 |
Ch’un Segnore ch’è uso | |
a magnar buoni pesse e buoni osieggi | |
e ziravalda e zaccara e tortieggi, | 23 |
sti cierti bocconcieggi | |
ch’è pasto da ’n boaro poveretto | |
e ch’in Vegniesia se n’ha co un marchetto | 26 |
tanta ch’agn’apetetto | |
se pò stuffar, ghe parerà un presente | |
che no sea troppo bon per i suo’ dente. | 29 |
Mo l’è ben puoco gniente | |
quel ch’a’ ghe vuo’ donar, mo el bon amore | |
è pur qualconsa, accompagnò co ’l cuore. | 32 |
Quel gran pare e segnore, | |
c’ha impigiò el sole, la luna e le stelle | |
e che no gh’ha besogno de candelle, | 35 |
volze pur gi uocchi a quelle | |
da ’n bagatin, che qualche poveretta | |
impigerà denanzo a n’anconetta. | 38 |
L’è el cuor quel che se cetta, | |
e ’l me paron ch’è stò sempre slibrale | |
e morevole e bon e maregale | 41 |
dirà: «Quest’è un segnale | |
de la benevolientia de questù», | |
e no m’arà così per turlurù. | 44 |
Viga me’ bella orsù, | |
va’ via e vie’ presto, ch’a’ me senterò | |
sotto a st’ombrìa e sì a’ t’aspeterò. | 47 |
O puover Magagnò, | |
te stè pur male, ti è pur nassù sotto | |
a la cativa Luna, al mal pianotto, | 50 |
Miedio! E ’l no gh’è cerotto | |
che guanno te te puosse deparare! | |
Abiando sette tusi d’arlevare, | 53 |
que te zoa el to cantare | |
e far di sonagitti tanto ben | |
che Menon te strapassa solamen, | 56 |
s’te gh’è contugnamen | |
vuogio el vezatto e la cassa dal pan | |
e con cento berunci el to gaban? | 59 |
Mo sea magnò da i can | |
s’a’ no crezo ch’un strullo, un calandratto | |
o na gazzuola g’abbie pì bon patto | 62 |
che con l’è dì defatto | |
la so’ cara parona o ’l so’ paron, | |
ghe va a la gabbia a far supa o boccon | 65 |
e se ben gi è in preson | |
gi è an seguri da le sbolzonè, | |
da gi architti, dal vischio e da le rè. | 68 |
O nemale biè, | |
Che senza ovrar la sesola o ’l versuro | |
a’ gh’haì chi v’impina el giotauro! | 71 |
Ti è presto co è un leguro, | |
Viga me’ dolce, a passar un vaon | |
quando el sol scotta e correre al machion! | 74 |
Gh’hè-tu mo abbìo del bon | |
a portar un puo’ d’acqua in sto caìn? | |
Ma ti è pì netta che n’è l’oro fin. | 77 |
Mostram’un pochettin | |
la secchia. È-lla forbìa, l’hè-tu lavà? | |
Sì, che l’è muogia, daghe na sugà. | 80 |
Perqué n’è-lla fracà | |
de smozzanighe? Ch’a’ stassan po ben | |
in vita d’agni. Orsù spazzatamen | 83 |
fatt’in su molto ben | |
la camisa d’i brazzi, che ’l no gh’è | |
cirio pasquale che ghe batte a pè: | 86 |
è-gi mo ben fromè? | |
È-gi duri, e bianchi? È-gi mo slissi? | |
A’ cherzo in bona fe’ che s’t’i metissi | 89 |
(e che te n’i movissi,) | |
in te la latte con la sea arpigià, | |
ch’agnon dirae che gi è tutti zonchià. | 92 |
Faggi un gozzetto in qua, | |
cara Doviga, lagam’i basare! | |
O que dolzore, o que bon zuppegare! | 95 |
S’a’ no te cresse fare | |
male, a’ te zuro ch’a’ in torae un boccon, | |
che i dè essere buoni pì che n’è i baldon. | 98 |
Conzate in cuzzolon | |
e tuò i cotagi de la biestia in man | |
e lavaghe ben via tutto el paltan. | 101 |
Te fè massa pian! | |
Dà pi sotto co ’l pugno con’ te munzi, | |
se t’è piaser che la sbolze da lunzi. | 104 |
Miedio! Se te no unzi | |
con de la latte el caveèl fiapìo | |
e manezarlo un pezzo inanzo e indrio, | 107 |
a’ no gh’arem compìo | |
de ste do ore gnanche in tutt’ancuò | |
e mi no porò far po quel ch’a’ vuo’. | 110 |
Vitu, el se fa a sto muo’ | |
e po s’avre i zenuocchi e sì se ten | |
stretta la secchia. Adesso te stè ben, | 113 |
perqué la latte ven | |
fuora e sì sbuta con farae na spina. | |
Guarda, no l’hè-tu mo desquasio pina? | 116 |
Doh! Sta frema Chiarina, | |
tien saldo el cullo – che ’l lango t’accuora! – | |
che la latte no vaghe de chi fuora. | 119 |
Vuotu monzer la Lora? | |
Mo guardate da ella, che te sè | |
che la frusca co i cuorni e tra del pè | 122 |
Munzila pur perqué | |
mi ghe starò denanzo e ghe darò | |
sta puoca sale. M’ha-la mo lecò | 125 |
tutto el pugno e inbavò? | |
Mo l’ha la lengua ruspia che la pare | |
un de sti garzi sichi da garzare! | 128 |
Avri e tiendi a passare | |
ora un pugno, ora l’altro, che debotto | |
te n’arae monto squasio un scuelotto. | 131 |
E al son del sigolotto | |
mi in sto demezzo, cara figioletta, | |
a’ vuò che t’aldi una me’ canzonetta, | 134 |
ch’amor che fa i poletta, | |
per farte anor, co’ ’l suol far tal fià, | |
me darà alturio e me l’inditterà. | 137 |
No crer Dovigha che ’l to bel musotto | |
sea manco inverzelò | |
che se in la latte ch’è in quel scuelotto | |
ghe foesse un malgaragno strucolò. | 141 |
E no crer migga cara Dovigga | |
che i tuo’ caviggi no gh’abbia an iggi | |
quel color ranzo ch’ha el bò denanzo | |
ch’aseggia el Sol co ’l ne carreza el dì. | 145 |
Né che ’l zenaro supie stò catò | |
un bel pezzo de giazzo | |
da qualche boaruolo con’ xe el to’ | |
viso, che ’l par che ’l sea quel tavolazzo | 149 |
donde l’Amore me trà in lo cuore | |
i vereton d’un par d’occhion | |
ch’ha el so bianco né pì né manco | |
co è un gusso d’uuovo e ’l negro co è ’l velù. | 153 |
A’ vorae pur laldare an le tuo’ cegie, | |
el naso e agno palpiero, | |
che tutt’insembro el me par ch’i’ somegie | |
a ’n bel arco, a la corda e al so teniero | |
e che i suo’ dente sea purpiamente | |
la nosa bianca. Ma el no gh’amanca | |
nomè quelù che tire su | |
e che descarghe la balestra po. | 161 |
Quest’è quel fureghin, quel salbanello | |
che s’ha fatto un niaro | |
int’i tuo’ uocchi con’ farave n’osello | |
intun buso d’un muro o d’un salgaro. | |
E ’l gran falò ch’è livelò | |
gh’ha brastolè l’ale e scurzè | |
sì fattamen che ’l ghe conven | |
far la so vita e star sempre con ti. | 169 |
Quando fo mè guardò con smeraveggia | |
da ’n grossolan boaro | |
un de qui sigaluotti metù in streggia | |
che sona a sant’Antuogno intun armaro, | |
che no sea manco reondo e bianco | |
de la to gola? O Dio que gola | |
me fa i tondini d’ariento fini | |
de sempre mè straffenzerla anca mi. | 177 |
Quella to’ ose po che me sparagna | |
la sera el vin e ’l pan, | |
che i tusi l’indromenza e sì no magna | |
pur che gi ascolte el to dolce soran. | |
N’ha-la chiarìo sì in fe’ de Dio | |
quel russignuolo che sta in lo bruolo, | |
che ’l no fa pi «Tu cri tu cri» | |
ma el pruova an el de cantar a quel muo’? 185 | |
Pensa s’ti è bella e s’ti è compìa de fatto, | |
che ’l m’ha ditto Menon, | |
che ’l te inscontrè che iera ello e Moratto | |
che gi anasea a la festa a Mortarton, | |
e che i zurava co’ i te guardava | |
che ’l gh’iera viso che ’l paraìso | |
foesse averto e che de certo | |
un agnolo da ciel fosse zolò. | 193 |
Se barba Cecco cantarin d’Arquà | |
tornasse a star con nu, | |
el no porae cantar quel che te fa | |
parer sì bella e dirlo per menù, | |
de muo’ che mi n’in’ dirò pi | |
perch’a’ so ben, s’a passo el sen, | |
ch’a’ no porò tegnirme po | |
ch’a’ no pare a cuerto e vache e buò. | 201 |
Ch’a favellar de quelle tuo’ tetine | |
che par du colombatti | |
e ch’è pì stagne, bianche e molesine | |
che n’è du pan de smalzo nomè fatti, | |
no se pò fare de no sbrissare | |
arvoltolon per quel vaon | |
che gli è in lo mezo, de muo’ ch’a’crezo | |
ch’a’ poessan po far n’altra zonchià. | 209 |
Basta, che dal to muso tanto bello | |
e ’l se pò immaginare | |
che supie quel che t’he sotto al guarnello | |
senza ch’a’ vuogie starte a despogiare. | |
Setu, serore, che la maore | |
to gran bellezza è na richezza | |
che passa tutte de quante putte | |
è nassù za mill’agni intel Pavan? | 217 |
Che ancora che te supi tanto bella | |
e tanto poveretta | |
che t’he dagnora al monte la gonella | |
(e an pì de le volte la gonella), | |
che i containi e i cettaini, | |
per morosarte e per mandarte | |
le ruffe a ca’, no t’ha smachià | |
de l’onor che te sta sempre al galon. | 225 |
Quest’è le conse che xe de portante, | |
e no mostrarte nua | |
e dir che inte l’anar ti è pì galante | |
che n’è un paon, pì derta ca na grua. | |
È be el devere e sì ho piasere | |
an’ mi de dire e far aldire | |
le to’ bellezze da i piè a le drezze, | |
ma co’ a’ te lalda a’ suogio dir così, | 233 |
ch’a’ m’arecordo un dì che te t’aivi | |
colgà sotto l’ombrìa | |
d’i nuostri nosellari e sì dromivi | |
che l’ave dal cerpilio s’è partìa | |
e da le ruose fresche e liose | |
per rebutarse e pascolarse | |
sul to’ bocchin ch’è sempre pin | |
de quella miele che n’ha palangon. | 241 |
E mi, seror, che senza cimegare | |
a’ t’ea gi uocchi in lo muso, | |
a’ gh’ea piasere a verle destacare | |
zo da le ciese e torse via dal buso | |
e lì da nu far «xu xu xu», | |
squasio con dire: «Fengi dromire | |
ch’a’ poron miegio ficcar l’aseggio | |
in du biè lavri dolce e colorì». | 249 |
Mo perqué ’l no pò star descobiè | |
amore e zelosia | |
e mi gh’ho abbìo paura sempre mè | |
che inchin le mosche me te porte via, | |
per no te fare disdissiare | |
a’ no criava ma a le parava | |
col me gaban e con le man, | |
digando: «Biestie! A’ me la becherì!». | 257 |
Se l’intraven mè pì che le se same | |
per anar via da ca’ | |
senza che sbate un sechio e ch’a’ le chiame, | |
sempre on’ te serè ti le vegnerà, | |
che s’te volissi te le porissi | |
menar in gola a na cesiola, | |
tant’ha-le el cuore a quel dolzore | |
ch’è in la to’ bella bocca dalmaschin. | 265 |
Ma sabo ch’a vegnìa da Villa Boza, | |
ch’a’ gh’iera sto a zappare, | |
che t’asiavi el canevo in la roza | |
e un puo’ de lin per fargi masarare, | |
no viti mi don’ ti eri ti | |
l’acqua corrente no correr gniente? | |
Ma el se vezea che la cresea | |
per toccarte le cosse, e un puo’ pì in su. | 273 |
Mo el bel si fo po a ver ch’in meliate | |
che la t’ave tocà, | |
quell’acqua vegne purpio co’ è na latte | |
che in t’el bruò de verzin sea smissià, | |
che le to cosse bianche e rosse | |
dà de ’l so bello a tutto quello | |
che ghe sta arente. Mo incontegnente | |
no fo quell’acqua de tanta vertù, | 281 |
ch’ancuò, da brespo, che brusava el sole | |
tutte l’erbe ch’è in l’orto, | |
de muo’ che quel to’ baro de viuole | |
pigava el cao e si iera squasio morto, | |
che te corissi e sì in’ tolissi | |
un cainotto, miedio! debotto | |
che ’l fo sguazzà el deventà | |
an ello d’un color bianco e rosin? | 289 |
Viga, seror, l’è tempo d’anar via | |
che ’l sol vuol nar a monte | |
(vi’-tu che ’l fa caìr maor l’ombrìa | |
da st’albrazzo) e ti hè le vache monte. | |
Ti è pur sacente! Fatteme a rente, | |
ch’a’ zuzze e base quelle carase | |
che i gomaritti dei tuo’ lavritti | |
avre a mi solo e a gi altri ten passè. | 297 |
Vaghe pur al bordel quî turlurù | |
che spende i suo’ dinari | |
in mazzucaro e in miele, ch’ho sentù | |
un dolce che no gh’ha in ti suo’ pittari | |
Zan spiciale el dì de Nale. | |
Ma a’ no me vuo’ per tutt’ancuo | |
forbir la bocca, che co’ a me tocca | |
con la lengua i mostacchi, a’ trionferò. | 305 |
Quest’è el saor che messier giesondio | |
sì m’ha vogiù asiare, | |
perché’ co’ a vegno a ca’ che a’ son affenìo | |
da cavar i fossè da terrazzare, | |
se be a’ no gh’hò carne de bo | |
ma na polenta e l’acqua intenta, | |
dal to’ bocchin ven carne e vin | |
e zo che pò reffeciar agnon. | 313 |
Orsù! n’in’ digon pi, perqué l’è ora | |
d’anar sotto al cason. | |
Vié chì Chiarina! Pru! Su, vacca Lora! | |
E ti Doviga no star pì in senton | |
ma tuò la secchia e va’ parechia | |
la colaora e l’impresora. | |
E se zonchià fo mè asià | |
con tutte quante le suo gremesì, | 321 |
con le tuo’ man - che par verasiamen | |
puori frischi e lavè, | |
che quel ch’avanza fuora de ’l terren | |
par le maneghe verde che te gh’he, | |
e ’l resto po dal mezo in zo | |
par quî deon ch’uovra el saon, | |
gucchia e deale sì ben che i vale | |
pi smozzanighe che n’ha pili un bo - | 329 |
asiaghe questa e fa’ che incerca via | |
el ghe supie atachè | |
purassè ruose, ma che le no sia | |
de quelle smorte e massa spanpanè, | |
ma de quî cierti buoccoli averti | |
che g’ha per drento gozze co’ è ariento, | |
e perqué i dure indusia pure | |
a sunargi doman con la rosà. | 337 |
Gh’ho-ggi mo smergolà? | |
Gh’ho-i tegnù duro? Mo Amor sì è stò quello | |
che m’ha fatto menare el bardevello, | 340 |
e s’a’ guardasse a ello | |
a’ te sè dir ch’a’ tegnerae menò | |
inchin che ’l sol foese stramontò | 343 |
e che ’l lusesse po | |
la prima stella che in su la bassora | |
somegia un pegorar che mene fuora, | 346 |
se ben l’è da strasora, | |
un gran chiapo de piegore che va | |
per lo ciel pascolando in qua e in là. | 349 |
Anagon pur a ca’, | |
perqué a no vezo l’ora, figioletta, | |
de tegnirte in lo letto stretta stretta. | 352 |
La giuncata di Magagnò al magnifico signor Francesco Pisani.
1-4. Cosa deve portare un povero contadino a un suo padrone, al quale vuole così tanto bene, che lo vorrebbe vedere di continuo a godere del suo vino e del suo pane? 5-11. Vieni qui, Chiarina, Lora va piano, che voglio farvi mungere per bene, e tu Viga, liscia, bella e da bene, corri all’acquaio e lavati le mani, e prendi un pugno di sale, che sai che ogni poco che ne mangeranno daranno molto latte. 12-17. E porta quella secchia che non è stata ancora usata, perché voglio che facciamo una giuncata e quando abbia preparato dei giunchi e delle scorze di germogli, la prepareremo per bene. 18-20. Ma che dirà il padrone, quando gliela porterò? La assaggerà o mi avrà per un cervello bucato? 21-29. Perché a un signore che è abituato a mangiare buoni pesci e uccelli, dolci, zucchero e tortelli, questi certi bocconcini che sono pasto da povero bovaro e che a Venezia con un marchetto ne può avere tanti da far stancare ogni appetito, gli sembrerà un regalo non troppo buono per i suoi denti. 30-32. Certo è ben poco o niente quel che gli voglio donare, ma il buon amore è pur qualcosa, accompagnato con il cuore. 33-38. Quel gran padre e signore che ha acceso il sole, la luna e le stelle e che non ha bisogno di candele, volge pur gli occhi a quelle da un bagattino che qualche poveretta accenderà davanti a una immaginetta sacra. 39-44. È il cuore quello che si accetta, e il mio padrone che è sempre stato generoso, amorevole, buono e socievole dirà: «Questo è un segnale della benevolenza di costui», e non mi riterrà così sciocco. 45-47. Viga mia bella, orsù, va via e vieni presto, che mi siederò sotto quest’ombra e sì ti aspetterò. 48-59. O povero Magagnò, stai pur male, sei pur nato sotto cattiva luna, al mal pianeta. Dio m’aiuti, non c’è unguento con cui quest’anno tu ti possa difendere. Con sette figli da allevare, che ti giova il tuo cantare e far sonetti tanto bene che soltanto Menon ti è superiore, se tu hai continuamente vuoti la botticella e la cassa del pane e hai cento toppe al gabbano? 60-68. Che possa essere mangiato dai cani se non credo che uno storno, una calandra o un gazzerotto abbiano miglior patto di quando, a giorno fatto, la loro cara padrona o il loro padrone vanno alla loro gabbia a far zuppa o bocconi, e se anche sono in prigione, sono peraltro sicuri dai colpi di freccia, dagli archetti, dal vischio e dalle reti. 69-71. O animali beati, che senza adoperare la falce o l’aratro avete chi vi riempie la strozza! 72-74. Sei veloce come un ramarro, Viga mia dolce, a passare una callaia, quando il sole scotta, e correre ai cespugli! 75-77. Sei poi riuscita a portar un po’ d’acqua in questo catino? Ma tu sei più lustra dell’oro fino. 78-80. Mostrami un po’ la secchia: è pulita? L’hai lavata? Sì, che è bagnata, dalle un’asciugata. 81-92. Ma perché non è piena colma di mocenighi? Che potremmo star bene per sempre. Orsù, prontamente, rimboccati molto bene la camicia su quelle braccia che non c’è cero pasquale che regga il confronto: sono ben formate, sono dure e bianche, non sono lisce? Credo, in buona fede, che se tu le mettessi (e poi non le muovessi) nel latte quando sia cagliato, che chiunque direbbe che sono tutte giuncata! 93-95. Falle un po’ in qua, cara Doviga, lasciamele baciare! O che dolcezza, che buon succhiare! 96-98. Se non pensassi di farti male, ti giuro che me ne farei un boccone, che deve essere più buono delle salsicce. 99-101. Accucciati e prendi in mano le tette della bestia e lavaci via per bene il fango. 102-104. Fai troppo piano! Dacci più sotto con il pugno quando mungi, se vuoi che sprizzi lontano. 105-110. Per dio, se non ungi con del latte il capezzolo flaccido e non lo maneggi per un pezzo avanti e indietro, non avremo finito in queste due ore neppure tutt’oggi e io non potrò fare poi quel che voglio! 111-116. Guarda, si fa in questo modo e poi si aprono le ginocchia e si tiene così ben stretta la secchia. Adesso stai bene perché il latte esce e butta come farebbe la spina di una botte. Guarda, non l’hai ora quasi riempita? 117-119. Oh! Sta’ ferma, Chiarina! Tieni saldo il culo - che ti possano venire le piaghe! Che il latte non esca fuori! 120-122. Vuoi mungere la Lora? Ma guardatene, che sai che cozza con le corna e tira calci. 123-128. Mungila pure, perché io le starò davanti e le darò questo poco di sale. Ma non mi ha leccato tutto il pugno e sbavato? Ha la lingua ruvida che sembra un pezzo di lana grezza ancora da cardare. 129-131. Apri e bada a chiudere ora un pugno, ora l’altro, che subito tu ne avrai quasi munto una scodella. 132-137. E al suono del piffero, io intanto, cara figlioletta, voglio che tu ascolti una mia canzonetta, che Amore, che rende poeti, per farti onore, come talvolta è solito fare, mi darà aiuto e me la detterà. 138-145. Non credere, Doviga, che il tuo bel musetto sia meno roseo che se nel latte che è in quella scodella ci fosse stato spremuto un melograno. E non creder mica, cara Doviga, che i tuoi capelli non abbiano anche loro quel colore arancio che ha il bue prima che il sole dardeggi quando ci porta con il suo carro il giorno. 146-153. Né che a gennaio un qualche ragazzotto che fa il bovaro abbia mai potuto trovare un pezzo di ghiaccio bello come il tuo viso, che sembra quel bersaglio da cui Amore mi tira nel cuore le frecce di un paio di occhioni che hanno il loro bianco né più né meno che un guscio d’uovo e il nero come il velluto. 154-161. Vorrei piuttosto lodare anche le tue ciglia, il naso e ogni palpebra, che tutto insieme mi pare assomiglino a un bell’arco, alla corda e al fusto, e che i suoi denti siano veramente la noce bianca: ci manca solo quello che tenda e poi scarichi la balestra. 162-169. Questi è quell’intrigante, quel folletto che si è fatto un nido nei tuoi occhi come farebbe un uccello nel buco di un muro o di un salice. Il grande fuoco che è lì gli ha abbrustolito e accorciato le ali siffattamente che deve far la sua vita e stare sempre con te. 170-177. Quando fu mai guardato con meraviglia da un rozzo bovaro uno di quei pifferi messi in riga che suonano al Santo dentro un armadio, un piffero che non sia meno bianco e tondo della tua gola? Oddio, che voglia di morderla sempre anch’io mi fanno i bottoncini d’argento fini! 178-185. Quella tua voce, poi, che mi risparmia alla sera vino e pane, ché addormenta i figli e così non mangiano, solo che ascoltino il tuo dolce tono da soprano. In fede di dio, non ha fatto ricredere quell’usignolo in giardino che non fa più «Tu cri tu cri» ma prova anche lui a cantare a quel modo? 186-193. Pensa se non sei bella e ben cresciuta: me l’ha detto Menon, che ti ha incontrato - erano lui e il Moratto, che andavano alla festa a Monteortone: giuravano che quando ti guardavano gli sembrava che il paradiso si fosse aperto e che per certo un angelo fosse volato giù dal cielo. 194-201. Se zio Cecco, canterino di Arquà tornasse fra noi, non potrebbe cantare quello che ti fa sembrare così bella e dirlo minutamente, in modo tale che io non ne dirò più niente, perché so bene che, se passo il limite, non potrò tenermi che non spinga al coperto vacche e buoi. 202-209. Perché a raccontare di quelle tue tettine che sembrano due colombine, e sono più sode, bianche e tenere che non due pani di burro appena fatti, non si può non scivolare a rotoloni per quella valletta che è in mezzo, in modo che credo che poi potremmo fare un’altra giuncata! 210-217. Basta! Dal tuo muso tanto bello si può immaginare cosa sia quello che hai sotto il corpetto senza che io stia a spogliarti! Lo sai, sorella, che la maggiore tua grande bellezza è una ricchezza che supera tutte quante le ragazze che sono nate da mille anni nel Pavano? 218-225. Ma anche se sei tanto bella, sei talmente poveretta che porti sempre al monte di pietà la gonnella (e anche più volte), talmente povera che contadini e cittadini, per quanto ti corteggino e ti mandino a casa le ruffiane, non ti hanno macchiato l’onore che ti sta sempre a fianco. 226-241. Queste sono le cose che contano: non dipingerti nuda e dire che nell’andare sei più elegante di un pavone, più dritta di una gru! È un dovere e ho il piacere anch’io di dire e far udire le tue bellezze dai piedi alle trecce, ma quando ti lodo son solito dire così: mi ricordo un giorno che ti eri coricata all’ombra dei nostri noccioli e dormivi tanto che l’ape si allontanò dal timo e dalle rose fresche e profumate per chinarsi e nutrirsi alla tua bocchina che è sempre piena di quel miele che non ha paragone. 242-249. E io, sorella, che senza ammiccare avevo gli occhi nel tuo muso, avevo piacere a vederle staccarsi giù dalle siepi e togliersi via dal buco e lì da noi fare «xu xu xu» quasi come dire «Facciamoli dormire, che potremo meglio ficcare il pungiglione in due belle labbra dolci e colorate». 250-257. Ma poiché amore e gelosia non possono stare separati, e io ho sempre avuto paura che perfino le mosche mi ti portino via, per non farti svegliare non gridavo ma le spingevo via con il mio mantello e con le mani, dicendo: «Bestie! Me la pungerete!». 258-265. Se non succede più che sciamino per andar via da casa, senza che si sbatta un secchio e che le chiami, verranno sempre dove sei tu, che se volessi tu le potresti menare in gola a una rondine, tanto hanno il cuore a quella dolcezza che è nella tua bella bocca di rosa damaschina. 266-273. Ma sabato che venivo da Villa Bozza dov’ero stato a zappare, che tu preparavi la canapa nella roggia e il lino per farli macerare, non vidi forse che dove eri tu l’acqua corrente non scorreva per niente? Ma si vedeva che saliva per toccarti le cosce e un po’ più in su 274-289. Ma il bello fu poi vedere che non appena che ti aveva toccato, quell’acqua diventava proprio come il latte quando si mescola al brodo di verzino, che le tue cosce bianche e rosse danno la loro bellezza a tutto quello che gli sta vicino. E subito fu quell’acqua di tanta virtù che oggi, al vespero, che il sole bruciava tutte le erbe dell’orto in modo tale che quel tuo cespo di viole piegava il capo ed era quasi morto, e che tu sei corsa e hai preso, un grosso catino, perdio! non appena fu inumidito diventò anch’esso di un colore vermiglio. 290-297. Viga, sorella, è tempo di andare via, che il sole vuol andare al monte - vedi che fa cadere un’ombra maggiore da questo grosso albero – e tu hai munto le vacche. Tu sei pur sapiente! Fammiti vicina, che succhi e baci quei favi di miele che i corbelli delle tue labbruzze aprono solo a me, e agli altri tengono chiusi. 298-305. Vadano pure al bordello quegli sciocchi che spendono i loro soldi in zucchero e miele, che io ho sentito del dolce che non ha nei suoi vasi Zan speziale il giorno di natale. Non voglio per tutta la giornata pulirmi la bocca, che quando mi tocchi con la lingua i mustacchi, trionferò. 306-313. Questo è il sapore che il signor Gesuddio mi si ha voluto preparare, perché quando torno a casa che sono distrutto dalla fatica di scavare i fossi da riempire di concime, anche se non ho carne di bue ma una polenta e acqua sporca, dal tuo bocchino viene carne e vino e quanto può dar ristoro a chiunque. 314-337. Orsù, non parliamone più, che è ora di andare sotto la stalla. Vieni qui, Chiarina! Pru! Su, vacca Lora! E tu, Doviga, non star più a sedere ma prendi la secchia e vai a preparare il colatoio e il tappo. E se giuncata fu mai preparata come dio comanda, con le tue mani - che sembrano veramente porri freschi e lavati, che quel che esce fuori della terra sembrano le maniche verdi che hai tu e il resto, poi, dalla metà in giù, sembrano quelle grandi dita che adoperano sapone, ago e ditale così bene che valgono più mocenighi di quanti peli ha un bue - preparagli questa e fa che intorno le siano attaccate molte rose, ma non quelle smorte e troppo sfiorite ma quei boccioli aperti che dentro hanno gocce come d’argento, e perché durino aspetta pure a raccoglierli domani con la rugiada. 338-349. Ma ho ben cantato? Ho tenuto duro? Amore è stato quello che mi ha fatto muovere il bertevello e se guardassi a lui, ti so dire che lo muoverei ancora fin che il sole non fosse tramontato e che poi rilucesse la prima stella che al crepuscolo sembra un pastore che conduca fuori, anche se è tardi, un gran gregge di pecore che vanno pascolando in cielo in qua e in là. 350-352. Andiamo pure a casa, che non vedo l’ora, figlioletta, di tenerti stretta stretta nel letto.
Francesco Pisani. Nominato cardinale da Leone X nel 1517 (per questo la famiglia pagò oltre 20.000 ducati), nel 1524 fu vescovo di Padova (tra il 1529 e il 1541 le entrate furono amministrate da Alvise Cornaro) e nel 1527 di Treviso. Durante il sacco di Roma fu preso in ostaggio dagli imperiali e tenuto prigioniero a Napoli per due anni a garanzia degli accordi stipulati da Clemente VII. Pur vescovo non residente, a Padova appoggiò i decreti di riforma del clero del 1530-34, praticò la visita delle parrocchie urbane nel 1543 e dei monasteri femminili nel 1546-47 e promosse la ricostruzione del nuovo coro della Cattedrale di Padova con un progetto affidato al Sansovino che avrebbe comportato l’abbattimento della casa del Petrarca adiacente al Duomo (contro cui si schierarono Speroni e Alvise Cornaro, tanto che fu poi accolto il disegno di Michelangelo, la cuiesecuzionefuaffidataalproto Andrea Da Valle). Morìa Romail 28 giugno 1570 e fu sepolto nella chiesa di S. Marco Evangelista, dov’è il monumento funebre.
Tit. Zonchià. Formaggio fresco molle prodotto in fascere intrecciate di giunco in cui viene versata la cagliata; diverso dalla poina (o puina), ricotta, la parte meno ricca della filiera di trasformazione del latte, ricavata dal siero, dopo la produzione del burro e del formaggio (probabilmente dal lat. popīna ‘cucina, bettola’ e per estensione ‘cibi da osteria, grossolani’, forse per influsso del lat. popanum ‘focaccia’, dal gr. πόπανον). 4. Galder, con esito au > al normale nel veneto. 7. Viga. Ipocoristico di Doviga, ‘Ludovica’, l’innamorata (e moglie) di Magagnò. 8. Curri, con metafonesi regolare nel pavano (ma ipermarcata). 11. La latte, regolarmente femminile nei dialetti settentrionali. 13. Uovera, con dittongo pavano, usuale da Ruzante a Magagnò e agli altri pavani tardi. 16. Pianton. Pollone, germoglio che nasce dal rizoma o dal pedale di un tronco vecchio; la pianta giovane. 17. Regoneron. Da regonare ‘mettere in ordine’. Celibrio. Deformazione per dissimilazione del lat. cerebrum. 23. Ziravalda. Hapax di Magagnò (qui e in Rime III 7, 14: «Oh ziravalda, o mazzucaro, o homana»). Nell’edizione di Giorgio Bizzardo, Venezia, 1610, compare la forma zirualda, che potrebbe essere una reinterpretazione, senza però apportare altri chiarimenti. Si tratta molto probabilmente di un tipo di dolce (stante la serie zaccara/tortieggi e mazzuccaro/homana), forse da connettere, per la forma o il modo di produrlo, a zirare, ‘girare’, ‘avvolgere’. Zaccara. ‘zucchero’: nel GDLI: zacchera ant. Zucchero. 26. Marchetto. Nome popolare del soldo veneziano, dall’effigie San Marco che vi era impressa; moneta di poco valore, in biglione (lega d’argento con un contenuto elevato di rame), fu coniata a partire dal 1476. 37. Bagatin. Moneta del valore della dodicesima parte di un soldo, in uso nell’Italia settentrionale; genericamente per moneta di scarso valore. 38. Anconetta. Icona, immagine sacra. 40. Slibrale, con s- prostetica deformativa, usuale nel pavano. 41. Maregale. Nelle glosse a margine della ristampa veneziana di Bolognino Zaltieri del 1570 «attrattevole». 44. Turlurù. Sciocco. Con l’antecedente nei Sonetti ferraresi del 1494 con la variante turlulù (M. Milani, Antiche rime venete, cit.) compare solo in Magagnò (e dopo in Sgareggio e nella Tubbia de Durello di Lampietti). 50. Pianoto. La deformazione è solo in Magagnò (e dopo in Sgareggio e in Pasquale delle Brentelle). 52. Guanno. Da hoc anno. Sonagitti. Sonetti, forse per incrocio con sonagio ‘sonaglio’. È la forma costante in Magagnò (sonagiotto, in rima con sigolotto, solo in Rime I 16, 44; sonetto solo nei titoli). 56. Menon. Dichiarazione topica di inferiorità rispetto al canonico Rava. 58. Vuogio. Vuoto. Così sempre nei pavani, da Ruzante in giù (vuodo solo in Sgareggio). Vezatto. Diminutivo di vezo ‘botticella’con il suffisso usuale –atto (in Magagnò anche vezuolo e vezoleto). 59. Berunci. Toppe, pezze: ‘rattoppatura’ in Domenico Bortolan, Vocabolario del dialetto antico vicentino, Vicenza, Tipografia S. Giuseppe, 1894, non altrimenti attestato. 61. Strullo. Storno. In Magagnò anche striolo. Calandratto. Calandra, allodola con suffisso diminutivo –atto. 62. Gazzuola. Diminutivo di gaza ‘gazza’, in Magagnò convive con gazzolatto. Si veda in Morello: «con pì vuogia que n’aspetta la suppa un gazzolatto». 67. Sbolzonè. Da bolzon, ‘freccia’. 70. Sesola. Falce messoria, dal lat. sĭcilĭs ‘falce’ (Angelico Prati, Etimologie venete, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1968). Versuro. ‘Aratro’, dal lat. vĕrsōrium. 71. Giotauro. Gola, strozza, dal lat. glŭttīre (Prati). Ancora presente nel vicentino: giotidòro, giutiéro. 72. Leguro. Ramarro, voce di origine oscura. Solo in Magagnò. 73. Vaon. Valico, callaia, il passaggio che si apre nelle siepi per entrare nei campi. Dal lat. vadum ‘guado’ (Prati). 80. Muogia. Bagnata. Deverbale da un lat. pop. *mŏlliāre. 82. Smozzanighe. Lira moceniga, coniata dal doge Pietro Mocenigo nel 1474; continuò ad essere battuta anche dai dogi successivi, fino al 1575. 86. Cirio. Cero della Veglia pasquale. Fromè. La forma con metatesi ipercaratterizzata (vs. formè di Morello) è solo di Magagnò. 88. Slissi. Lisci, con s-prostetica tipicamente pavana. 91. La late con la sea arpigià. Il latte rappreso da cui la giuncata. 93. Gozzetto. Goccetto; un po’. 95. Zupegare. Succhiare. Prati: «Verbi di natura imitativa». 98. Baldon. Salsiccia (di sanguinaccio). Gasparo Patriarchi, Vocabolario veneziano e padovano colle voci e locuzioni toscane corrispondenti, Padova, Tipografia del Seminario, 18213 spiega con il toscanismo «mallegato». 99. In cuzzolon. Accucciato. 100. Cotagi. Cotal, tale; cosa, affare. Figurat. i testicoli, al femm. le mammelle della vacca. 101. Paltan. Fango; dal lat. *palta. 104. Sbolze. Schizzare, sprizzare. Solo in Magagnò. 106. Caveèl. Capezzolo. Nei pavani solo in Magagnò; anche nella Caravana di Modesto Pino (Manlio Cortelazzo, Dizionario veneziano della lingua e della cultura popolare del XVI secolo, Limena (Padova), La Linea, 2007). 116. Desquasio. Quasi. 118. Lango. Langio, tumore che si forma nella coda di bovini e equini. Così in Magagnò; nel Terzo mariazo e nei Sonetti ferraresi (M. Milani, Antiche rime, cit.) ango. Malaugurio usuale nei pavani. 122. Frusca. Cozzare, dar cornate. Solo in Magagnò. Eugenio Candiago, Vocabolario del dialetto vicentino, Vicenza, Cenacolo dei poeti dialettali vicentini, 1982 riporta l’espressione: «chéla vàca sèita a fruscàre» ‘quella mucca continua a scornare’. Nel veronese vale ‘mettere legna di sostegno’ (Giorgio Rigobello, Lessico dei dialetti del territorio veronese, Verona, Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere, 1998). 127. Ruspia. Ruvida, dal lat. *rūspāre ‘cercare’. 128. Garzo. Nel GDLI «capolino del cardo dei lanaioli con involucro irto di punte che, seccato, serve per cardare la lana», prob. deverbale dal successivo garzare ‘scardassare, sottoporre un tessuto alla garzatura per renderlo soffice’. Dal lat. *cardiāre, da *cardĕus, metaplasmo per cardŭmus. Sichi con metafonesi regolare nel pavano. 129. Tiendi. Regolare dittongo metafonetico. 131. Scuelotto. dimin. di scuela ‘scodella’. 132. Sigolotto (che in Magagnò e negli altri pavani alterna con suguolotti, sigualotti) ‘zufolo’. 135. Poletta. Deformaz. scherzosa usuale per ‘poeta’. 137. Alturio. Aiuto. LEI: da adiutorium, con l’ipercorrezione aut- > alt- dell’it. sett., a partire dal Veneto; it. ant. altorio; nel padovano già dalla Bibbia istoriata padovana della fine del Trecento (a cura di Gianfranco Folena e Gian Lorenzo Mellini, Vicenza, Neri Pozza, 1962). Inditterà. Dettare, suggerire. Solo in Magagnò. 139. Inverzelò. Roseo, lett. ‘striato di grasso’. In Patriarchi «Verzelà. Incarnatino, scarnatino, agg. di color della carne». 141. Malgaragno. Melograno, da una base *malu graneu (Prati). Solo in Magagnò; nello Stuggio del boaro di Lucio Marchesini, 1612, la forma margaragno, attestata nel veronese e nel roveretano (Rigobello, Prati). 143. Caviggi: iggi. Normale esito pavano di –-lli, con metafonesi. 144. Ranzo. Arancio. 145. Aseggia. Pungolare, da aseggio, il pungolo per spingere gli animali. Da acileus, a sua volta da aculeus. (Prati, Rigobello). Carreza. Guidare il carro. In Patriarchi carezà, ‘carreggiata’, strada battuta da carri e «Carezador. Carradore, conducitore del carro». 146. Supie. Congiuntivo pr. di essere, esere. 149. Tavolazzo. Pezzo di tavola, il bersaglio del tiro con l’arco e balestra. Solo in Magagnò (e nella forma taolazzo in Morello). 151. Vereton. Dardo da balestra, verrettone in GDLI. 153. D’uuovo. Nell’edizione Zaltieri vuouo. 154. Laldare. Lodare, con il normale esito au > al. 155. Palpiero. Palpebra, con metaplasmo di genere. Da *palpĕtra < palpĕbra. 156. Insembro. Insieme. Solo in Magagnò, in alternanza con le forme più usuali insembre, insembra. 157. Teniero. Teniere (GDLI), fusto di legno della balestra. Solo in Magagnò. 160. Nomè. Soltanto. Accanto al più frequente lomè, da non magis, con dissimilazione. 161. Descarghe. Scaricare. Fureghin (h diacritico non è nella princeps). Scaltro, intrigante. Da furegare ‘frugare, ficcarsi’. Salbanello. Folletto dei boschi, da sĭlvănus. 163. Niaro. Nido. 165. Salgaro. Salice, dal lat. pop. salicărius. 167. Brastolè. Alterna in Magagnò con brustolare ‘abbrustolire’. 172. Nella princeps Albani del 1563 Freggia. Da correggere, con l’edizione Zaltieri, in Streggia ‘fila, riga’. In Patriarchi «Stregia de case. Filare, fila, filatessa, riga, linea, ceppo di case, aggregato di molte case attaccate insieme». «Sigaluotti in streggia che sona a sant’Antuogno intun armaro» l’organo del Santo. 175. Gola. Gioco polisemico gola/voglia; nell’edizione Zaltieri: «Gola. Apetito ò desio d’havere». 176. Tondini. Monili di forma rotonda, bottoni ornamentali (GDLI). 177. Straffenzerla. Lett. ‘infilare, fendere’, con s- prostetica usuale e prefisso rafforzativo. z potrebbe essere resa grafica di /dh/. 178. Ose. Voce. Alterna in pavano con la meno frequente vose (Prati: «Nel veneto ora è d’uso comune vozze, preso dall’it. voce»). 180. Indromenza. Addormentare. Dal lat. pop. * indŏrmĕntiare, con metatesi usuale nel pavano. 181. Soran. Soprano, registro alto di voce. 187. Menon. Nomenagia del canonico Agostino Rava, compagno di rimeria pavana con Moratto, il canonico Giacomo Morello. 188. Inscontrè. Incontrare, imbattersi. 189. Mortarton. Monteortone, nei pressi di Abano. 193. Zolò. Nelle glosse Zaltieri «sceso a volo» (il significato più usuale di zolare/zulare in pavano è ‘allacciare, legare’). 194. Barba Cecco cantarin d’Arquà. Francesco Petrarca. 201. Pare. Spingere i buoi. Parar a cuerto ‘mettere al riparo’. 203. Colombatti. Con usuale dim. in –atto. 204. Molesine. Tenero, liscio. 205. Pan de smalzo. Forma di burro. Dal ted. Schmalz ‘strutto’. 206. Sbrissare. Scivolare. Prati: voce imitativa. 207. Arvoltolon. Rotoloni. Avverbio deverbale da arvoltolarse, con r epentetica. Vaon. Il passaggio che si apre nella siepe per entrare nei campi. Prati: da vadum ‘guado’. 212. Guarnello. Veste femminile scollata e senza manica, sottoveste. 218. Supi. Congiuntivo pr. di essere, esere. Più sopra: supie. 220. Dagnhora. Ognora, sempre. Monte. Il Monte di pietà. Gonella. La veste corta. Morosarte. Amoreggiare, corteggiare. 224. Ruffe. Ruffiana. In Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Venezia, Cecchini, 18562: «detto a Donna nel sign. di Ruffiana». F. Terzi: «no ghe gera sanseri, o rufe, o goli / che fèsse a i matrimoni tante berte» (in Cortelazzo, Dizionario veneziano cit.). Al galon.A fianco. Coscia. 232. Dai piea le drezze È la tecnica delle descriptio puellae da Petrarca, il Boccaccio delle Ninfe fiorentine, Bembo in giù. 231. Aldire con il normale esito au- > al-. 233. Suogio. Ind. pr. di solere. 235. Colgà. Part. pass. di colgare, colegare ‘coricarsi’. Ombrìa. Ombra. In Magagnò convive con lombrìa. 236. Nosellari. Nocciolo. Solo in Morello e Magagnò. 237. Ave. Ape. Cerpilio. Serpillo, timo selvatico. 238. Liose. Profumate. Da olire. Convive in Magagnò con oliosa. 241. Palangon. Paragone. Con usuale passaggio deformante r >l (in Morello parengon). 242. Cimegare. Socchiudere gli occhi. Patriarchi: «Cimegare. Sbirciare, cioè socchiudere gli occhi vedere più facilmente le cose minute». 245. Ciese. Siepi. Patriarchi: «Siepe, fratta, chiudenda, riparo di pruni, o altri sterpi, che si fa agli orti, o su i ciglioni de’ campi per chiudergli, che propriamente si dice Cisale. Dal lat. *caesa. 248. Aseggio. Per estensione, dalla forma e funzione del pungolo, pungiglione. 250. Descobiè. Nelle glosse Zaltieri: «Separate». Candiago: «Scubiare. Dividere, separare la coppia» (Patriarchi: «Cubiare. Accoppiare, appaiare, n. p. accontarsi, accompagnarsi»). 254. Disdissiare. Destare, svegliare. Così sempre in Magagnò (due occorrenze in Menon, una in Begotto); in Ruzante la forma desmissiare (Piovana: convive con desdissiè, part. pass.), nelle Poesie politiche (in M. Milani, Antichi testi, cit.) dismisiare, forma continuata nel veneto odierno (si confronti Vincenzo Menegus Tamburin, Il dialetto nei paesi cadorini d’Oltrechiusa al sito https://www.istitutoladino.it/Risorse-online/Vocabolari/Dizionario-Ladino-Italiano – data dell’ultima consultazione: 27/06/2020 –: dessedà, svegliare; Enzo Croatto, Vocabolario del dialetto ladino-veneto della valle di Zoldo (Belluno), Costabissara, Angelo Colla, 2004). 256. Gaban. Gabbano, mantello pesante. 258. Same. Sciamare. 263. Cesiola. Rondine, balestruccio. Forse voce onomatopeica. 265. Dalmaschin. Del colore e del profumo della rosa di Damasco.266. Villa Boza. Villa Bozza, tra Arsego e S. Maria di Non, sulla destra del Piovego, dov’era una villa («cortile e casa da contadino») di Pietro Bembo. 267. Asiavi. Preparare. Canevo. Canapa, nel veneto masch. Roza. Roggia, fosso. 274. In meliate. Immediatamente. Deform. del lat. immediate. Solo in Magagnò e una volta in Menon. Si mantiene la grafia non univerbata, che marca ancor più il qui pro quo parodico. 277. Bruò de verzin. Brodo, infusione di colorante rosso. Verzino, propriamente legno rosso del Brasile da cui si ricava un colore rosso. 280. Incontegnente. Subito, immediatamente. Deform. dell’avv. latino incontĭnentĕr. 282. Brespo. Vespro, con betacismo iniziale e usuale metatesi. 284. Baro. Cespo, ciuffo. Da una voce gall. * barros ‘cespuglio erboso’. 287. Cainotto. Gran catino. Miedio. Escl. ‘mio dio, perdio’. Prati: da m’aì deo. 288. Sguazzà. Inumidito. Da sguazzo, ‘guazza, rugiada’, dal lat. pop. acquacea o acquatia (Prati). 289. Bianco e rosin. Nelle glosse Zaltieri: «Vermiglio». 291. Nar a monte. Tramontare. 294. A rente. Vicino, accanto. Prati: da radente per «rasente». 295. Carase. Favo. Prati: forse incrocio di calìdene con rasa ‘resina’. 296. Gomaritti. Corbezzoli, da gomaro, con il diminutivo usuale in –etto, con metafonesi. Voce botan. dotta, dal lat. comaros, gr. κο´ μαροç. 297. Passè. Chiudere. Si veda Prati: «Passagia. Chiudenda, quella chiusa che si fa negli orti, o riparo con siepe, od altro». 298. Turlurù. Balordo, sciocco. Patriarchi: «Turlulù. Chiurlo, allocco, uomo balordo». 300. Mazzu- caro. Zucchero. 301. Pittari. Vaso di coccio, càntero, probabilm. scherzoso su ‘pitale’. 302. Spiciale. Speziale, farmacista. 308. Affenìo. Sfinito. Nelle glosse Zaltieri: «Stracco». 309. Fossè da terrazzare. Fossati da riempire di «terra mista a concime per ingrasso» (Prati). 311. Intenta. Part. pass. di intenzere, tingere, sporcare. 313. Reffeciar. Ristorare, anche nelle glosse Zaltieri, GDLI: reficiare, refiziare ‘provvedere di un pasto’. 319. Colaora. Colatoio. Patriarchi: «Colaòra. Cola coll’o stretto, stromento di rame bucato a guisa di crivello, col quale si cola il mosto, colo». Impresora. Tappo, chiusura. Pietro Sella, Glossario latino italiano. Stato delle Chiesa – Veneto – Abruzzi, Città del Vaticano, Biblioteca apostolica vaticana, 1944: «presora, presura, fermaglio». 321. Gremesì. Ornamento, preparativi. Nelle glosse Zaltieri: «Circostanze». 323. Puori. Porri, con dittongo metafonetico. 327. Deon. Accr. enfatico. Uovra. La grafia della stampa ha u indistinta, che non esclude la lettura vovra. 328. Gucchia. Ago, probabilm. palatale. GDLI «Gucchia,» it. ant. ‘ago’, aferetico di agucchia. Prati: dal lat. *acūcŭla. 330. Incerca via. Nelle glosse Zaltieri: «Intorno intorno». 333. Spanpanè. Lett. troppo aperte, sfiorite. Boerio: «Tor via i pampini delle viti». Candiago: sfiorire. 337. Sunargi. Raccogliere. GDLI: «ant. asunare. Adunare, riunire». Rosà. Rugiada. Nella Bibbia istoriata: roxada. 338. Smergolà. Nelle glosse Zaltieri (a XXXIX, Per laldare el Segnor Vicenzo Marosthega, Trivisan, el Magagnò): «Gorgheggiare». 340. Bardevello. Rete da pesca (a coni che impedisce l’uscita del pesce una volta entratovi) o da caccia (a imbuto). Patriarchi: «Bertevèlo. Ritroso, bertovelo, stromento da uccellare, o pescare che abbia il ritroso fatto di vinchi». Figurat. mettersi in un imbroglio, in un impiccio (GDLI). 345. Bassora. Crepuscolo, l’ora dopo il tramonto. Solo in Magagnò (e più tardi, 1614, nel Prenuostego di Pasquale delle Brentelle). Pegorar. Pastore, pecoraio. 347. Strasora. Ora tarda. 348. Chiapo. Gregge, branco. Patriarchi: «Chiapo de piegore, o altro. Branco. § Stormo, di uccelli, schiera. § Andar a chiapi. Andar a schiere, a branco, delle pecore». Dal lat. capŭmlum ‘sorta di corda’ (Prati).
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1 Per tutti i testi, cfr. Marisa Milani (a cura di), Antiche rime venete. XIV-XVI sec., Padova, Esedra, 1997.
2 Luca D’Onghia, Introduzione, in Andrea Calmo, Il Saltuzza, a cura di L. D’Onghia, Padova, Esedra, 2006, p. 7
3 Rimaneggiamento che resta inedito (nel Marc. It. XI 90 [= 6774]) anche se doveva aver circolazione nella «massaria di Ruzanti» nella casa di Alvise vicina al Santo, dove si raccoglievano i giovani “pavani” che coltivavano e deliberatamente imitavano la lingua del Beolco.
4 Si veda Carlo Cenini, Le Rime in lingua rustica padovana di Magagnò, Menon e Begotto. Testo critico e commento, tesi di dottorato in Scienze linguistiche, filologiche e letterarie, XX ciclo, Università di Padova, a.a. 2008-2009.
5 Del quale Magagnò sottolinea la cultura classica e volgare, insieme con il gusto per la musa pavana: «quando a’ serì stuffo da scartabelare quî slibrazzon de Dente, de Spetrarca, e de Ceseron [Dante, Petrarca, Cicerone], a’ ve darì un puoco de piasere a cantar qualcun de sti nuostri sonagitti».
6 Si veda Lorenzo Carpané, Alessandro Serafini, Maganza, Giovanni Battista, in Dizionario biografico degli italiani, 67, 2006 (anche on-line: https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-battista-maganza_(Dizionario-Biografico)/,data dell’ultima consultazione: 27/06/2020). Poche notizie in sintesi. Il Magagnò era nato, probabilmente attorno al 1510, a Calaone, nei pressi di Este. Al 1540 risale il trasferimento a Vicenza, dove il padre Marcantonio fu chiamato a svolgere l’ufficio di conestabile di porta Padova. Già qui nel 1541 inizia la carriera di pittore, soprattutto ritrattista. E qui se ne farà protettore Trissino. Frequentatore di Villa Cricoli, dove si discuteva di letteratura greca e latina e di archeologia, fu intimo del Palladio, con il quale e con Marco Thiene seguirà il mecenate a Roma. A Padova rimarrà legato, facendo poi parte dell’Accademia degli Infiammati. Fece probabilmente parte a Vicenza dell’Accademia dei Costanti; poi fu ammesso all’Accademia Olimpica (da cui ricevette, per un certo periodo, una sovvenzione di 18 ducati). Forse per rimediare alla sua cronica miseria si dedicò, con esiti economicamente disastrosi, all’alchimia, con ciò trascurando l’attività poetica o piegandola a celebrazioni occasionali in cambio di utili doni da parte di destinatari e protettori vari. Morirà, come attestano le Memorie storiche intorno all’Accademia Olimpica, il 25 agosto 1586.
7 Cfr. I. Paccagnella, Tre sonetti fra «Morato» e «Magagnò», Padova, CLEUP, 2011.
8 Che è anche la data della soscrizione della dedicatoria, probabilmente more veneto, ma nel colophon 1563.
9 Forma metrica vicina alla villotta tardo-quattrocentesca, della quale riproduce le quartine, l’intermezzo (nell’ercolana i quinari) e il nio, «ritornello concitato» di chiusura (come lo definisce Raffaele Spongano, Nozioni ed esempi di metrica italiana, Bologna, Pàtron, 1966, p. 61). Sull’ercolana (nei testi pavani ricorre come reculian, herculana, arcolana) cfr. Leandro Biadene, L’ercolana, in Solone Ambrosoli et al. (a cura di), Dai tempi antichi ai tempi moderni. Da Dante al Leopardi. Raccolta di scritti critici, di ricerche filologiche e letterarie, per le nozze di Michele Scherillo e Teresa Noce, Milano, Hoepli, 1904, pp. 447-55 (così chiamata «quasi a denotare che essa era nata in seno all’Accademia Olimpica di cui Ercole era il patrono e l’ispiratore»). È documentata in molte stampe popolari veneziane: Canzone de santo Herculano in laude delle bellezze di una donna, edita a Venezia attorno al 1525; Il primo canto del Furioso ridotto nell’aria di santo Herculano, s.l., Giulio Ferrarese, s.d. (ma post 1533); La comedia piacevole de Saltafosso. Con alcune stantie in canzon di santo Herculano sopra di una vecchia, Venezia, Augustino Bindoni, 1549; Canzone di santo Herculano con la gionta, et di novo stampata et corretta, Venezia, Stefano e Marc’Antonio Bindoni, s.d. (ma post 1548); Mascharate alla burlescha de un bravazzo chiamato Figao el qual vol tor la vita a una sua diva. Con la canzon de santo Herculano la qual dice. Mename al magazen che son serio, Venezia, s.n.t., 1553; Bravata alla bulescha, sun quel aiere de Sant’Herculano. Cosa piacevole; e con altre sette stanze ch’in quelle non erano, e novamente ristampate, Venezia, Mattio Pagan, 1556; Canzone morale di santo Herculano in resposta a quella di cento scudi, Venezia, Mattio Pagan, 1557; Le laude della Tietta fatte da Menon in lingua rustica in aere di santo Herculano, s.n.t. e s.d. (di fatto una scrematura dalle altre ercolane di Menon della Prima parte, a formare una nuova ercolana). Cfr. anche Bianca Maria Da Rif, La letteratura «alla bulesca». Testi rinascimentali veneti, Padova, Antenore, 1985, pp. 177-197. Per la possibile derivazione da una «aria de santo Herculano», con riferimento a Calmo e Parabosco, cfr. Andrea Calmo, Le lettere di messer Andrea Calmo riprodotte sulle stampe migliori, con introduzione e illustrazioni di V. Rossi, Torino, Loescher, 1883, pp. 433, ss.
10 Con ritraduzione pavana in Trogiatto (con l’usuale affusso diminutivo pavano –atto) e attribuzione in nomenagia del nome deformato e reinterpretato (griso ‘grigio’ ma anche panno grossolano) del personaggio dei suoi Cantici, Fidenzio Glottocrisio.
11 Foscarini è rettore di Feltre, con la doppia funzione di podestà e capitano, dal gennaio 1561 (1560 m.v.) al maggio 1565. La scelta del dedicatario da parte di Magagnò è quindi immediatamente successiva alla nomina. Non è invece ben chiaro il riferimento all’inizio di un’attività letteraria «da quel dì che Amore [...] per inchina al dì d’ancuo, che ’l de’ esser, fe vostro conto, de gi agni pi de deseoto [...]», che riporterebbe attorno al 1545: se è suo, il libretto a firma Lucrezio Beccanuvoli, Tutte le donne vicentine maritate, giovani e dongelle, è del 1539, mentre le stanze per Lucrezia Gonzaga, a firma esplicita sua, sono del 1554.
12 Edite da Stefano Alessi nel 1553. Sulla ballerina Ziralda anche Magagnò comporrà un sonetto.
13 Sulla base di questo allegato di Magagnò la critica ruzantiana ha a lungo ipotizzato l’esistenza di una commedia perduta. Se Fiorina è titolo sia della stampa Alessi di Ruzante (1552) che di quella Bertacagno (peraltro cognato e socio di Alessi) del Calmo (1553), di una Trese non troviamo traccia (ricordando anche però che Betìa e Pastoral sono scoperte recenti di Emilio Lovarini). Una «Trese dî Menegaci», ipocoristico di Beatrice, è ricordata, insieme a tante altre (Betta, Duoza, Cechetta, Gnua) nella Betìa e poi nel iii atto della Vaccaria: «Con a’ seon su, agnon fo de fatto in cerca a sta putta: “Con stètu, Trese? Con vala, Trese?” (que la putta haea lome cossì)» e «Iètu marià, Trese?» (più tardi una Trese galinara compare anche nel Pianto per la morte del Bembo di Alvise Cornaro, subito dopo il 1547).
14 Dov’è anche l’altro nome-parlante attribuitogli dal Bembo: «E vu l’hi indovinò, paron me bello, / a battezzarme per el Magradanza, / nomè de Magagnò compagno e frello, / mo a’ me poivi dire an Magra Granza».
15 Cfr. Fernando Bandini, La letteratura pavana dopo il Ruzante. Tra manierismo e barocco, in Gilmo Arnaldi e Manlio Pastore Stocchi (a cura di), Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1983, pp. 327-362: 328.
16 Giovan Giorgio Trissino, La quinta e la sesta divisione della poetica, in Bernard Weinberg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, II, Bari, Laterza, 1979, pp. 5-90: p. 88.
17 Giorgio Greco esordisce come editore in società con «Perin libraro», con cui stampa elogi di personaggi politici, istituzionali e di poeti locali come Maddalena Campiglia, Luigi Contarini, una riedizione della Sofonisba del Trissino, e, per quanto qui interessa, nel 1585 il Capitolo de Cenzon in lalde de tutta quanta la lustre sfioria, e sbamporiosa Cadiemia Limpica, di Vincenzo Dal Bianco, nipote acquisito di Magagnò. Da solo pubblica una ristampa dei Cantici di Fidentio del vicentino Camillo Scroffa. Si caratterizza come editore con stretti legami con il mondo cittadino della vita politica (raccolte di poesie e componimenti encomiastici per podestà, capitani, reggenti), religiosa (sotto la protezione dei domenicani di Santa Corona), con poche escursioni in ambito letterario (Parabosco, le Relationi universali di Botero, Girolamo Vida, Doni, la Campiglia). Collabora anche con Giorgio Angelieri, l’editore della Quarta parte, con cui stampa materiale locale e La historia di Vicenza di Giacomo Marzari, serrando i rapporti con l’Accademia Olimpica, per la quale stampa la Barriera fatta nella città di Vicenza, l’anno MDLXXXVIII. Adì 25 Febraro nel theatro delli sig. Academici Olimpici, i Discorsi intorno alla tragedia di Niccolò Rossi e L’hercole di Fabio Patrizi, entrambi accademici olimpici.
18 Secondo la definizione di Guglielmo Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in Alberto Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, III, Le forme del testo. I. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 439-518: p. 501.
19 Una «Tavola metrica» in C. Cenini, Le Rime, cit., pp. 83-88. Cfr. Anche I. Paccagnella, Petrarchismo pavano. Traduzioni, parodie, riscritture, «Studi di filologia italiana», LXXII (2014), pp. 141-181 (Gli Accademici per Rosanna Bettarini, Firenze, Accademia della Crusca, 2015).
20 Nell’edizione si sono adottati i criteri grafici ormai assodati per la filologia pavana. In particolare: è riportata all’uso odierno la separazione e unione delle parole (ad eccezione delle preposizioni articolate e della forma pavana intun), l’uso di maiuscole e minuscole, la punteggiatura; si è eliminata la h non diacritica ma si è mantenuto il trigramma chi ad indicare la palatale affricata sorda; si è distinto u da v (anche se in alcune grafie della princeps del tipo uoui uouera, pur con preposizione antecedente, resta un margine di ragionevole dubbio: in questi casi si è mantenuto uu). Si è mantenuta la grafia que perqué (pur oscillante con perché). Si è distinto ch’el soggetto da che ’l oggetto. Si è staccato con – il pronome enclitico soggetto dal verbo da cui dipende. Si è mantenuta l’oscillazione grafica della stampa di consonanti scempie e geminate. Si sono distinti gli omografi secondo i criteri stabiliti nelle edizioni ruzantiane di Luca D’Onghia della Moschetta (Venezia, Marsilio, 2010) e di Chiara Schiavon di Piovana e Vaccaria (Per l’edizione del Ruzante classicista, Padova, CLEUP, 2010).