La poesia dialettale del Rinascimento nell’Italia del Nord
OJ-italique-695
Appunti su una fortunata raccolta di rime in pavan
In posto di rilievo nella storia della poesia in pavano della seconda metà del Cinquecento spetta alla fortunata raccolta delle Rime di Magagnò, Menon e Begotto in lingua rustica padovana articolata in quattro parti, pubblicate per la prima volta rispettivamente nel 1558, 1562, 1569, 15831 e di cui si registrano numerose riedizioni fino al 1659.2 Dietro la nomenagia rustica di Magagnò, Menon e Begotto si individuano, com’è noto, i vicentini (di nascita o d’elezione) Giovan Battista Maganza (1509 circa-1586), Agostino Rava (1509 circa-1583) e Marco Thiene (1520-1552).3 Rilevanti e innovativi contributi critici sono stati dedicati negli ultimi quattro decenni alla produzione in pavano di questi autori:4 il presente intervento si propone di avviare un’illustrazione della prima parte delle Rime di Magagnò, Menon e Begotto, la più fortunata, editorialmente parlando, delle quattro parti della raccolta in questione. Alla princeps pubblicata a Padova nel 1558 da Grazioso Percacino, il cui frontespizio esibisce per la prima volta i nomi rustici dei tre autori,5 fanno, infatti, seguito altre quattro edizioni: nel 1563, 1564, 1565, 1573,6 a non considerare le sei collettive in cui alle Rime della prima parte seguono quelle delle altre parti (1569-1570, 1584, 1596, 1610, 1620, 1659). Grazioso Percacino era «allora il miglior stampatore padovano»7 e fino al 1558 nel suo catalogo compare, sempre che l’attribuzione alla sua tipografia sia corretta, una sola pubblicazione di testi in lingua rustica padovana, vale a dire il Dialogo de dui villani li quali s’incontrano, & uno racconta a l’altro quello che ha veduto in Padova mentre vi era la peste. Con uno intermedio d’una donna opera novamente fatta in lingua rustica padovana per Francesco de la Honestà vicentino del anno MDLV.8 Il Percacino aveva già pubblicato, con ogni probabilità nel 1557, un componimento in lingua di Giovan Battista Maganza: la Canzone di m. Giovan Battista Maganza recitata dal medesimo al clarissimo sig. Andrea Barbarico, nell’appresentatione d’un stendardo che se gli fece dalla Marca trivigiana, e dalle nationi confederate, nella sua partita di Padova l’anno MDLVII alli XI di maggio, In Padova, per Gratioso Percacino.9
La princeps della La prima parte de le rime di Magagnò, Menon, e Begotto si apre con la lettera di dedica (in pavano) del Maganza, promotore e regista dell’iniziativa editoriale,10 a Giuseppe Sanseverino, canonico della Cattedrale di Vicenza, in cui, per presentare la silloge che raccoglie componimenti di tre autori, si ricorre, giocando sul significato etimologico di antologia, alla metafora del mazzo di fiori:
E vezanto che el me’ cerpilio e le me’ campanelle iera massa puoche, e che a far na bella zuogia, o un bel mazo, el ghe vuol de le fiore purassè e de pì sorte, a’ g’he domandò licintia a l’hanorevole e speculativo barba Menon de anare in lo so horto; e si a’ son stò anch’in quello che somenè la benetta anema de barba Begotto.11
L’epistola dedicatoria si chiude sottolineando il carattere divertente e di piacevole intrattenimento, dei testi che vengono offerti in omaggio:
Indegneve toncha de cettare ontiera sto me’ puoco de presente, perqué quando a’ serì stuffo da scartabelare quî slibrazzon de Dente, de Spetrarcha e de Ceseron, a’ ve darì un puoco de piasere a cantar qualchun de sti nuostri Sonagitti.12
La raccolta si articola in tre sezioni, ciascuna dedicata a uno dei tre autori, come puntualmente segnalano le rubriche poste all’inizio di esse: «Sonagitti e Canzon del Magagnò» (c. 3r), «Sonagitti, Sestrine, Maregali, Reculiani [così nella princeps], Matinè et Spatafii de Menon» (c. 27r), «Sonagitti e Canzon de Begotto, co ’l primo Canto de messier Vigo Arosto» (c. 53r).
La prima sezione contiene 21 componimenti, nel seguente ordine: 1 sonetto caudato; 6 sonetti; 1 sonetto caudato; 1 canzone; 9 sonetti caudati; 1 sonetto; 1 sonetto caudato; 1 epitaffio (quartina ABBA).
Al testo di apertura (Quel orbo che cantè la costïon) il Magagnò affida una programmatica giustificazione della scelta del pavano come lingua poetica. Dopo aver ricordato che Omero e Virgilio avevano composto le loro opere impiegando la lingua usata dai loro contemporanei («[Omero] vosse cantare / purpio a quel muo’ che favelava agnon»,13 vv. 3-4), prosegue con l’esempio di Petrarca («E se quel fiorentin sì bon sletran / muava el so parlar, ch’è tanto bello, / la so Loretta l’intendea doman!»,14 vv. 12-4) per arrivare a chiarire le ragioni della propria scelta linguistica:
Mi mo, ch’a’ son pavan, | |
no serave na biestia, s’a’ laghasse | |
questa me’ lengua, o ch’a’ l’inroegiasse? | 17 |
Que me val s’a’ parlasse | |
miegio del mondo, e ch’a’ no sea intendù | |
in quella villa donde a’ son nassù?15 | 20 |
In pavano, quindi, canterà le lodi della sua donna (Doviga / Viga, cioè Lodovica): «La me’ Doviga bella con xe ’l sole» (v. 25),16 sperando che il nome di lei arrivi a tutti i borghi in riva al Brenta. Alla considerazione che «tal fià pì celente / serà un boaro, un puover contain, / che n’è un dottor gremego, un cettain» (vv. 36-8)17 e che non serve aver consultato libri e zibaldoni e Galeno, Boezio e Cicerone senza avere l’acume e l’intelligenza, che peraltro non si sviluppano andando a seguire le lezioni al Bo (sede dell’Università di Padova), il Magagnò fa seguire l’ipotesi di avere ricevuto in una vita precedente una compiuta educazione letteraria:
Chi sa che a’ no sea stò | |
un’altra botta al mondo, e che in quel pe’ | |
d’ovrar versuri, menare e zugiè, | 50 |
a’ g’habbia bragagnè | |
inchiuostri, penne, carte e calamari | |
e albergò co i sletran, no co i boari. | 53 |
Sì che, friegi mie cari, | |
no ve smaraveggiè s’a’ canterò | |
con’ s’a’ fosse un poleta slauranò.18 | 56 |
Sono versi per così dire rivelatori della reale identità di Giovan Battista Maganza: poeta letterato strettamente contiguo al milieu vicentino dell’Accademia Olimpica. Quella di Magagnò, poeta-contadino, o meglio poeta-boaro, quindi altro non è che una maschera. I suoi componimenti in pavano, come del resto quelli degli altri due componenti della triade rustica vicentina, sono infatti improntati a un alto tasso di letterarietà. In questi autori, come ha osservato Ivano Paccagnella, il pavano perde «la sua connotazione di lingua “altra” rispetto a quella degli sletran, rispetto cioè alla letteratura improntata al classicismo bembiano e al petrarchismo, e diventa semplice divagazione stilistica, artificio ludico, manieristico se non già prebarocco».19 A conferma di ciò valga l’esempio offerto dal terzo sonetto della sezione di Magagnò, che si rivela essere un rifacimento o meglio un’interpretazione pavana di uno dei più famosi carmi catulliani, il V:20
Sè-to, Viga me’ bella, con la xe? | Vivamus mea Lesbia, atque amemus, | |
Dagonse del piaser, vogionse ben, | rumoresque senum severiorum | |
e lagon dir sti viecchi scarcossè, | omnes unius aestimemus assis! | |
ch’el no ghe tira pì el cuor da far ben. | 4 | Soles occidere et redire possunt: |
Quel pittar de garuofoli che t’hè | nobis cum semel occidit brevis lux, | |
tornerà a rebutar st’anno che ven: | nox est perpetua una dormienda. | |
mo quî che muore, e che ven setterè, | Da mi basia mille, deinde centum, | |
i no torna mè pì, mè pì i no ven. | 8 | dein mille altera, dein secunda centum, |
E no vegnanto, el besogna che i sea | deinde usque altera mille, deinde centum. | |
senz’uogi, senza recchie e senza dente, | Dein, cum milia multa fecerimus, | |
e ch’i n’habbia piaser pì con gi haea. | 11 | conturbabimus illa, ne sciamus, |
Viga me’ bella, no crêr mè p`ı gniente | aut ne quis malus invidere possit, | |
al zanzar de to Barba, e de to Mea, | cum tantum sciat esse basiorum. | |
ch’agnon ven santo, co’ ’l ven despossente.21 |
Sono, come si vede, i primi sei versi del carme catulliano a venire rielaborati dal Maganza. Da segnalare da un lato la riduzione dalla dimensione cosmica del corso ciclico della natura («Soles occidere et redire possunt») a quella, per così dire, domestica di un vaso di garofani posseduto dalla Viga che ogni anno rigermoglieranno e dall’altro l’espansione in senso realistico-macabro (con i particolari del sotterramento e della decomposizione dei cadaveri) di ciò che il poeta latino aveva concentrato in due versi (4-5). Completamente trascurati in questa rielaborazione i versi catulliani dedicati ai baci (7-13). La sezione di Magagnò, pur non risultando riconducibile a quello che si può considerare un canzoniere, presenta però un certo grado di organizzazione al suo interno: si apre, infatti, con una serie (dedicata prevalentemente alla lode dell’amata Viga)22 delimitata da due sonetti caudati che incorniciano sei sonetti normali, alla quale segue una canzone composta a imitazione di Rvf 126; dopo il rifacimento della petrarchesca Chiare, fresche et dolci acque, si leggono 11 sonetti, tutti caudati, tranne uno, che però non è opera del Maganza, ma del canonico padovano Giacomo Morello che «si congratula con Magagnò per l’ammissione all’Accademia Olimpica»23, e offre «lo spunto per il successivo sonetto caudato, responsivo di Magagnò, topico della miseria del poeta e del peso della numerosa famiglia che gli impediscono di dedicarsi alla poesia».24 Più della metà dei sonetti caudati (con un numero di code variabile: si va da 7 a ben 56) sono testi che, come dichiarano le rubriche, sono diretti a un destinatario. Tra i destinatari figurano i seguenti personaggi: Menon, Begotto, Domenico Veniero, Valerio Chiericati,25 Antonio Durazzini, Daniele Barbaro, Andrea dal Fossò. A chiusura della sezione un epitaffio dedicato a Begotto (Marco Thiene).
Soltanto un commento potrà segnalare compiutamente le connessioni intertestuali presenti nei testi del Magagnò:26 qui ci si limita a evidenziare quelle individuabili nei componimenti che incorniciano la riscrittura di Rvf 126. Il sonetto caudato che la precede si apre con l’evocazione di Petrarca:
O Dio, perché no sonte un gran sletran
ch’a’ sapie ovrar na penna e un calamaro,
con’ fè quelù che del so bel oraro
se fè na zuogia con le purpie man?27
Nel sonetto caudato che tiene dietro alla canzone viene evocata come termine di confronto la petrarchesca Laura: Magagnò rivolgendosi a Menon lo invita, infatti, a incidere nella corteccia di un alloro che «la me’ bella Viga e la to Thia, / mierita anar con la Loretta a ’n paro»28 (vv. 7-8). La canzone O acque fresche e chiare, come s’è detto, è composta a imitazione della petrarchesca Chiare, fresche et dolci acque: Laura, «diventa Thietta,29 la fanciulla amata da Menon, e il paesaggio si trasforma impercettibilmente in quello dei colli Berici che fa da sfondo alla vicenda».30 Si confrontino le rispettive prime stanze e i congedi:
Chiare, fresche et dolci acque, | O acque fresche e chiare, | |
ove le belle membra | on le suo belle gambe | |
pose colei che sola a me par donna; | 3 | se lavè la Thïetta31 l’altro dì; |
gentil ramo ove piacque | caro ramo on taccare | |
(con sospir’ mi rimembra) | la vosse i suo’ ligambe | |
a lei di fare al bel fiancho colonna; | 6 | e quî suo’ biè scoffon, tanto polì; |
herba et fior’ che la gonna | herbesine fiorì | |
leggiadra ricoverse | chialò on la se sentà; | |
co l’angelico seno; | 9 | grumbïal mondo e netto, |
aere sacro, sereno, | pì cha gn’altro benetto, | |
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse: | 11 | con che in dreana po la se sugà; |
date udïenzia insieme e vu lombrie, | cha ghe tegnissi el sole, | |
a le dolenti mie parole extreme. | 13 | stè artienti tutti e aldì le me’ parole. |
[...] | ||
Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia, | Canzon, se mai t’aniessi via de chi, | |
poresti arditamente | guarda n’anar in man | |
uscir del boscho et gir in fra la gente.32 | de chi no sapie favellar pavan.33 |
Prima di lasciare la sezione di Magagnò, vale la pena di richiamare l’attenzione del futuro commentatore su due sonetti caudati, a vario titolo degni di nota: El n’è mai dì ch’el no me vegne rotto (cc. 21r-22v) e Mi ch’a’ son un sbrissagio e na quintana (cc. 23r-24v). Il primo per la rustica laus Amoris contenuta ai vv. 9-29:
[...] perqué l’Amore | |
è quel che dreza a agno bon snaturale, | |
e d’un boaro el pò far un dottore. | 11 |
L’Amor se ficca in tutti gi anemale, | |
e consa fatta senza el so saore | |
xe na panà senz’uolio e senza sale. | 14 |
Le mosche e le zenzale, | |
puorci, can, bichi, cavre e zò che gh’è, | |
tutti quanti d’Amor ven sbolzonè. | 17 |
No se catta apetè | |
inchinamen i polze e chi gi apetta | |
se no l’Amor, ch’è na consa benetta? | 20 |
Sfendaura sì stretta | |
no se pò vêr, né buso sì apassà, | |
ch’Amor, se ’l vuol, no l’habbia destropà; | 23 |
e ’l no farave zà | |
tanti furti la terra e pesse el mare, | |
s’Amore, che fa agno consa inamorare, | 26 |
no s’anesse a ficcare | |
di gi herbole e de l’herbe in le raìse, | |
e in la panza di pesse e in le baìse.34 | 29 |
Versi questi in larga misura debitori nei confronti di un brano del Prologo II de L’Anconitana di Ruzante:
Amore, an? Puh! mo a’ vivessàm deboto, se no foesse Amore. Mo no se fìcalo, per farghe vivere, chiamentre in la tera? Chi se ghe ficherae, se no elo, a inamorar la tera, per norigar le biave? A’ murissàn pur da fame. Amore, an? [El no sa andare in gi arbori, no l’ha el tirò a fargi far furto? Amore, an?] Mo guardè se l’è omo da ben, sto Amore, e si el ne vol ben, e si l’è de descrizion: perché el cognosse che con l’entra in gi arbore, el g’inamora [...] Amore, an? No favelare d’Amore, che ’l povereto, per amor nostro, e per farghe comelitè al magnare, se fica soto aqua, a far inamorar i pesse e fargi smultiplicare.35
Nel sonetto caudato Mi ch’a’ son un sbrissagio e na quintana il Magagnò ringrazia Andrea dal Fossò, accademico olimpico, per aver finanziato l’edizione delle rime sue e di Menon e Begotto pubblicata da Grazioso Percacino, ricorrendo a una fiaba che sviluppa il diffuso motivo folclorico del pesce parlante e del desiderio appagato:36
A’ pigiè un pesse grande co’ è un puttello, | 26 |
e in te quel, ch’a’ sbrefello | |
gi uocchi a guardarlo, che purpio el parea | |
d’ariento, d’oro, de velù e de sea, | 29 |
al sangue de me’ mea, | |
ch’a’ ’l sentì co’ ’l foesse un cristian, | |
favellar a sto muo’ pian, pian: | 32 |
«O puovero villan, | |
l’è pur de gi agni deseotto e pì | |
che te pischi in ste acque tutto ’l dì, | 35 |
e per inchina chì | |
con la pasta, con gi hami e con le rè | |
te n’hè mai piggiò pesse purassè; | 38 |
e sè-to mo perqué? | |
L’è con’ disea Begotto me’ compare, | |
“chi n’ha ventura, no vaghe a pescare”. | 41 |
A’ t’he vezù passare | |
dosento bote e anar inanzo e indrio, | |
preganto sempre messier Giesondio | 44 |
ch’a qualche bon partio | |
te vuogie aiare e haer compassïon | |
de tanti tusi, che te g’hè al galon, | 47 |
de tal muo’ ch’a’ me son | |
inmaghinò de pigiar la somegia | |
d’un luzzatto, d’un barbio o d’una streggia | 50 |
inchin ch’a’ m’inroeggia | |
in t’un de tuo’ tramagi o veramen | |
ch’a’ ingiota st’hamo che chialò me ten: | 53 |
e, s’te n’intendi ben | |
quel ch’a’ te digo, cavamel de bocca, | |
ché l’è quel che me fa sta ose roca». | 56 |
S’a’ romagniti un’oca, | |
quando a’ ’l sentì a parlar, co’ a’ fagon nu, | |
no me stè a dire, imaghinevel vu. | 59 |
Haì-vu mai vezù | |
consa che fa che ’l pelo se ve drezza | |
co’ ’l fa a ’n porcello su per la coezza: | 62 |
e par ch’un ve scavezza | |
in tutti du i zenuocchi, e s’a’ volì | |
criar “Alturio, alturio!”, a’ no poì? | 65 |
Così a’ romasi an mi: | |
pur a’ fié cuore, e in prima a’ ghe caviè | |
l’hamo de bocca, e po a’ ghe domandiè | 68 |
pì de quaranta fiè, | |
ch’el me volesse perdonare, e ello | |
disse grignanto: «A’ te vuo ben da frello, | 71 |
dimme pur tutto quello | |
che te gh’è de besogno, perquè ancuò | |
te g’harè quella gratia che te vuò». | 74 |
E mi, ch’a’ n’heva el muo’ | |
de dar a i stampaor quî sonagitti, | |
che pò impirme el borsatto de marchitti, | 77 |
a’ dissi: «Quî versitti, | |
che solea zà cantar barba Begotto, | |
e Menon, c’ha sì dolce el sigolotto, | 80 |
se perderà debotto, | |
se vu, segnor, no fé ch’a’ possa anare | |
dal Prechacin a fargi torcolare». | 83 |
E staganto a spettare | |
ch’el me responda, a’ guardo e vezo che | |
l’ha lagò lì le sue scagie indorè, | 86 |
e ch’altro no se ve’ | |
se non ch’a’ sento un bombio, ch’ense fuora | |
de l’acqua, e un dirme «Sta’ con la bon’hora!». | 89 |
A’ no viti quell’hora | |
de tuor su la so pelle, ch’iera zà | |
in tanti biè ducati tramuà.37 | 92 |
Anche la sezione seconda risulta composta da 21 componimenti che si succedono nel seguente ordine: 2 sonetti caudati; 1 ercolana; 3 sestine; 8 madrigali; 2 canzoni; 1 ercolana; 2 sonetti caudati; 2 epitaffi (ABBA). Subito risalta la notevole varietà metrica che caratterizza la sezione dei componimenti di Agostino Rava (Menon): non più soltanto sonetti e canzoni, ma anche sestine, madrigali ed ercolane. L’ercolana è «la forma metrica caratteristica della pavaneria cinquecentesca»,38 che Menon impiega per due suoi componimenti.
Questa seconda sezione presenta, com’è stato rilevato, un’organizzazione che ne fa «un vero e proprio canzoniere, componendo il quale [Menon] immediatamente si sdoppia, scrivendo poesie d’amore alla Tietta e componendo anche le risposte della Tietta».39 Quello che si può considerare il romanzo d’amore di Menon e della Tietta «si segnala per i suoi toni spesso schiettamente osceni»,40 come, ad esempio, nel madrigale El primo dì d’avrile, tutto giocato sul doppio senso di salatta:41
El primo dì d’avrile | |
cantava la Thïetta inanzo ’l sole, | |
zappando l’horto, e disea ste parole: | 3 |
“Caro dolce Menon, | |
s’te me vuo’ ben, vie’ catta | |
fin che l’è tendra de la me’ salatta, | |
zò ch’a’ g’ho in lo me’ orto è bello e bon: | 7 |
corri tonca, cogiom | |
tutti dù de brigà, t’un men de que, | |
salatta, herbe, agio e zò che te vorè”.42 |
Oltre che per i toni schiettamente osceni, il canzoniere di Menon si segnala anche per quelli «altrettanto spesso crudeli, come nella coppia orrorifica, direi quasi masochistica [delle canzoni Se mi a’ t’ho fatturò, Thïetta bella (cc. 36r-37r) e S’a’ ’l dissi mè, che’l mal che me sfraella (cc. 37r-38r)] nella quale prima Menon e poi la Tietta si giustificano a vicenda, Menon dall’accusa di aver gettato una fattura sulla Tietta, la Tietta dall’accusa di averlo accusato, invocando su di sé, come prova di buona fede, punizioni sempre più sanguinarie, una specie di repertorio di torture».43 Ma queste due canzoni devono richiamare la nostra attenzione anche dal punto di vista metrico, dal momento che entrambe esibiscono una ripresa molto fedele di uno degli schemi petrarcheschi di canzone meno imitati: quello di S’i’ ’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella (Rvf 206), canzone a coblas doblas di sei stanze costruite su tre sole rime (A: ELLA, B: EI, C: IA); le rime si dispongono, da coppia a coppia di stanze, secondo il principio della retrogradatio, per cuiIe II st.: ABBA AcccA, III e IV st.: BCCB BaaaB, V e VI st.: CAAC CbbbC e congedo Cbba(a5)C. Come ha rilevato Marco Santagata, «oltre che dalla particolare forma metrica, la canzone è caratterizzata da un vistoso andamento anaforico: la formula di base “S’i’ ’l dissi mai” apre le stanze I e III, la variante “S’i’ ’l dissi” la II e la IV (e si ripresenta ad apertura di piede e di sirma all’interno di tutte e quattro le prime stanze), le ulteriori variazioni “Ma s’io nol dissi” e “I’ nol dissi già mai” aprono, rispettivamente, la V e la VI stanza (prive di riprese anaforiche interne). Insieme al contenuto, è la presenza di queste formule a segnalare che la canzone si inserisce nel filone dell’escondit trobadorico».44 L’aderenza all’artificiosissimo modello di Rvf 206 che il dittico di Menon esibisce è davvero impressionante: due delle tre rime su cui sono costruite le stanze in entrambe le canzoni sono le stesse impiegate da Petrarca e nello stesso ordine di apparizione (A: ELLA e C: IA); l’andamento anaforico è ulteriormente accentuato dal fatto che il Rava impiega sempre ad apertura di piede e di sirma nelle prime quattro stanze una stessa formula: rispettivamente, «Se mi a’ t’ho fatturò» nella canzone di Menon e «S’a’ ’l disse mè» in quella di risposta della Thietta. Si aggiunga, inoltre, che i pochi imitatori dello schema di Rvf 206 si limitano a replicarlo una sola volta,45 mentre nel nostro caso siamo di fronte a una doppia sorprendente ripresa,46 un vero e proprio tour de force metrico-retorico,47 che presenta come un’unica, ma veniale, défaillance quella di non aver inserito nell’ultimo verso del congedo la rima interna che in Petrarca faceva sì che ogni rima tornasse complessivamente per venti volte in un componimento di sessanta versi.48 Ecco, di seguito, la prima stanza e il congedo delle due canzoni di Menon, a confronto con il testo petrarchesco:
S’i’ ’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella | Se mi a’ t’ho fatturò, Thïetta bella, | |
del cui amor vivo, et senza ’l qual morrei; | che me sea cavò ’l cuor fuor del magon; | |
s’i’ ’l dissi, che miei dì sian pochi et rei, | se mi a’ t’ho fatturò, che col polmon | |
et di vil signoria l’anima ancella; | 4 | me sea cavò fuora la coraella. |
s’i’ ’l dissi, contra me s’arme ogni stella, | se mi a’ t’ho fatturò, che co una mella | |
et dal mio lato sia | aguzà s’una pria, | |
Paura et Gelosia, | me sea la panza arvìa, | |
et la nemica mia | e supia la ferìa | |
più feroce ver’ me sempre et più bella. | 9 | sì grande che ’l gh’intraghe una scuella. |
[...] | [...] | |
Per Rachel ò servito, et non per Lia; | 55 | Perqué a’ no staghe pì in malenchonia, |
né con altra saprei | né ti in sospicion, | |
viver, et sosterrei, | ho fatta sta canzon: | |
quando ’l ciel ne rappella, | perzò, lusente stella, | |
girmen con ella in sul carro de Helia.49 | 59 | no crêr ch’a’ t’habbia fatto sta malia.50 |
S’i’ ’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella | S’a’ ’l dissi mè, che ’l mal che me sfraella | |
del cui amor vivo, et senza ’l qual morrei; | me faghe anare sempre mè a taston; | |
s’i’ ’l dissi, che miei dì sian pochi et rei, | s’a’ ’l dissi mè, che co’ a’ conza i scoffon | |
et di vil signoria l’anima ancella; | 4 | sempre mè me se rompa la gusella; |
s’i’ ’l dissi, contra me s’arme ogni stella, | s’a’ ’l dissi mè, ch’a’ sea co’ è na pomella | |
et dal mio lato sia | quando l’è stà arcogìa | |
Paura et Gelosia, | e in masera innegrìa, | |
et la nemica mia | tanto struccà, che impìa | |
più feroce ver’ me sempre et più bella. | 9 | supia de la me’ sangue una mastella. |
[...] | [...] | |
Per Rachel ò servito, et non per Lia; | Menon, s’a’ muoro de sta malatia, | |
né con altra saprei | soname el campanon, | |
viver, et sosterrei, | dimme un Cristalaison, | |
quando ’l ciel ne rappella, | e a pe’ de la capella | |
girmen con ella in sul carro de Helia.51 | 59 | fariesi po ch’a’ supia sopollia.52 |
La terza sezione (che viene stampata postuma, dato che Begotto, alias Marco Thiene, era morto nel 1552) presenta 20 componimenti, nel seguente ordine: 4 sonetti; 1 sonetto caudato; 4 sonetti; 1 canzone; 2 sonetti caudati; 5 sonetti; 2 epitaffi e la traduzione in pavano del I canto dell’Orlando furioso. L’unica canzone, che si trova esattamente al centro, è una riscrittura di Rvf 126 con cui Begotto risponde a quella di Magagnò contenuta nella prima sezione. Si riporta di seguito la prima stanza e il congedo, a confronto con la canzone petrarchesca:
Chiare, fresche et dolci acque, | Acque fresche e schiarè, | |
ove le belle membra | ove i biè slimbri allhora | |
pose colei che sola a me par donna; | 3 | fichè queliè, ch’un agnolo me pare; |
gentil ramo ove piacque | bel albaro lì a pe’, | |
(con sospir’ mi rimembra) | ch’a’ g’ho in lo cuore anchora, | |
a lei di fare al bel fiancho colonna; | 6 | on la s’anè con la schina a pozare; |
herba et fior’ che la gonna | herbe e fiore, o’ a sentare | |
leggiadra ricoverse | la ve vegnè a covrire | |
co l’angelico seno; | con quî suo’ biè guarnieggi; | |
aere sacro, sereno, | aiere, e vu ventesiegi, | |
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse: | 11 | onde Amor co i suo’ uocchi m’have avrire, |
date udïenzia insieme | aldime tutti a un, | |
a le dolenti mie parole extreme. | 13 | ch’a’ no favellerè mè pì a negun. |
[...] | ||
Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia, | 66 | S’t’haissi polianza con ti hè vuogia, |
poresti arditamente | a la fe’ te porissi | |
uscir del boscho et gir in fra la gente.53 | insir di buschi e anare on ti volissi.54 |
Come ha osservato Bandini, in «Begotto c’è non soltanto un maggior rispetto del testo petrarchesco; egli rinuncia agli aspetti scenici della “pavanità” in favore di una sorta di interpretamentum della poesia del Petrarca, realizzato con una più sottile trama di trasposizioni lessicali».55 Ma la sezione di Marco Thiene si caratterizza, rispetto alle precedenti due, per essere, quasi interamente, un’antologia di vere e proprie versioni in pavano di sonetti di Petrarca e di eleganti e raffinati petrarchisti cinquecenteschi, che si chiude con la traduzione dialettale del primo canto del poema ariostesco.56 Nove sono i sonetti dei Fragmenta oggetto di riscrittura da parte di Begotto (nel seguente ordine di successione: Rvf 95, 199, 140, 326, 246, 87, 190, 21, 116),57 inframezzati da altre cinque versioni in pavano di sonetti dei quali soltanto in due casi vengono dichiarati nella princeps autore e incipit (Domenico Veniero e Giovanni Muzzarelli).58 La prima traduzione ‘nascosta’,59 in ordine di comparsa, è quella del componimento È quisti i biè caviggi on me strentora che riscrive in chiave rusticale un sonetto di Sannazaro, con lo stesso schema metrico:
È quisti i biè caviggi on me strentora | Son questi i bei crin d’oro, onde m’avinse | |
quel tosatello, ch’è al me’ mal sì ardìo? | Amor, che nel mio mal non fu mai tardo? | |
È quisti quî bieg’uocchi on a’ fu ferìo | Son questi gli occhi, ond’uscì ’l caro sguardo | |
con quel spiandor ch’a’ g’ho in lo cuor anchora? 4 | ch’entro ’l mio petto ogni vil voglia estinse? | |
È questa quella man che me lavora, | È questo il bianco avorio, che sospinse | |
e penze a quel versuro, o’ a’ son rostìo? | la mente inferma al foco ove tutt’ardo? | |
È questa quella man che inanzo e indrìo | Mani, e voi m’aventaste il crudel dardo, | |
penze l’angon, che m’acuora dagn’ora? | 8 | che nel mio sangue allor troppo se tinse? |
È quisti i biegi e norì peazzon | Son queste le mie belle amate piante, | |
che donde i zapa, el ghe nasce cegua | che rivesten di rose e di vïole | |
per quell’aldore ch’i g’ha infra i deon? | 11 | ovunque ferman l’orme oneste e sante? |
È questa quella ose che sentua | Son queste l’alte angeliche parole? | |
no fo mè la megior, de muo’ ch’agnon | Chi ebbe – dicev’io – mai glorie tante? – | |
che l’alde trema al caldo, e al ferdo sua?60 | quando apersi, oimè, gli occhi e vidi il sole.61 |
Le rimanenti due traduzioni ‘nascoste’ vengono svelate a partire dall’edizione del 1569: si tratta, rispettivamente, dei sonetti: Dolzore che se smisia in la rosà, che ora è preceduto dalla rubrica «A imitation di quello di Giulio Camillo il qual comincia Ruggiadose dolcezze» (c. G3r)e Sti biè pallazzi, e sti biè portegale, rubricato nella princeps «Sora Vegnesia» (c. 54r), che ora viene dicharato come «Tolto da quel del Conte Marco Thiene che comincia Questi palaggi e queste loggie hor colte» (c. G3v) (un caso, quindi, piuttosto singolare di auto-traduzione).62 Gli unici testi della sezione di Begotto che non risultano essere traduzioni o riscritture sono due sonetti caudati consecutivi (Per mille fiè, caro segnor paron nelle nozze di Valerio Chiericati e Orbentena a’ son pur tutto schiarìo a Ippolito Tromboncino)63 e due epitaffi.64
Dopo la traduzione in pavano del primo canto del Furioso, ritorna in scena il Magagnò per chiudere il libro con un originale e curioso sonetto caudato, diretto all’ambasciatore veneziano Antonio Boldù, che contiene la richiesta della concessione del privilegio per la stampa delle rime «de Menon, de Begotto e Magagnò»:
Faghe che i stampaor, ch’è livelò | |
in la bella Vegniesia, o’ a’ spiero un dì | |
vêrve in su ’l cao un bel corno indorò, | 11 |
no posse torcolar, s’a’ no vuo mi, | |
de Menon, de Begotto e Magagnò | |
quî puochi sonagitti, ch’a’ saì. | 14 |
[...] | |
Paron fémelo fare | |
che ’l sea tintico e bon: e dasch’a’ si’ | |
an vu segnor, fé ch’el dighe così: | 26 |
che per nuov’agni e pì | |
in t’agno luogo de la Segnoria | |
altri n’i stampi, e n’i posse dar via. | 29 |
Paron, se Die v’aìa, | |
fé c’habbia un prevalierio, e spesseghè | |
perqué i cottagi è desquasio strucchè. | 32 |
[...] | |
Fé ch’el sea deschiarò | |
sul scartabello, che chi le farà | |
stampar a uno, o pur descobià, | 47 |
ch’el ghe suppie impennà | |
el cul sì fattamen, che la ghe bruse; | |
no pì, paron, ch’el vuol morir la luse.65 | 50 |
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1 Un elenco delle edizioni si trova in Ivano Paccagnella, Introduzione, in Id., Vocabolario del pavano (XIV-XVII secolo), Padova, Esedra, 2012, pp. LXIV-LXV.
2 Nel XVII secolo le quattro parti delle Rime in lingua rustica padovana vengono pubblicate in edizione completa di quattro volumi nel 1610 a Venezia da Giorgio Bizzardo, nel 1620 a Vicenza da Domenico Amadio e nel 1659, ancora a Venezia, da Giovan Battista Brigna. Si rammenti che un settore della biblioteca di Galileo Galilei «conteneva le opere di Ruzzante, le rime di Magagnò, Menon e Begotto e altre scritture pavane più tarde» (Gianfranco Contini, La poesia rusticale come caso di bilinguismo, in La poesia rusticana nel Rinascimento, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1969, p. 45).
3 La più recente messa a punto biografica dei tre autori in I. Paccagnella, Introduzione, cit., p. XXXIII-XXXV; cfr. anche Marisa Milani, Per un catalogo degli autori pavani fra XVI e XVII sec., «Giornale storico della letteratura italiana», CLX (1983), pp. 221-248; per il Maganza si dispone anche di Lorenzo Carpanè, Maganza, Giovanni Battista, «Dizionario biografico degli italiani», 67, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2006, pp. 308-311.
4 Cfr. Fernando Bandini, La letteratura pavana dopo il Ruzante tra manierismo e barocco, in Storia della cultura veneta, Il Seicento, 4/I, Vicenza, Neri Pozza editore, 1983, pp. 327-362; Id., La letteratura in dialetto dal Cinquecento al Settecento, Franco Barbieri e Paolo Preto (a cura di), Storia di Vicenza, III/2, L’età della Repubblica veneta (1404-1797), Vicenza, Neri Pozza editore, 1989, pp. 15-26; M. Milani, Vita e lavoro contadino negli autori pavani del XVI e XVII secolo, Padova, Esedra, 1996; Elisabetta Selmi, Aspetti della ricezione del Ruzante nel secondo Cinquecento, «Quaderni veneti», 27/28 (1998), pp. 319-367; I. Paccagnella, Tre sonetti fra «Morato» e «Magagnò», Padova, CLEUP, 2011 e Id., Petrarchismo pavano. Traduzioni, parodie, riscritture, «Studi di filologia italiana», LXXII (2014), pp. 141-181; Carlo Cenini, Rime extravaganti di Magagnò e Menon (e un autografo di Magagnò), in Luciano Morbiato e Ivano Paccagnella (a cura di), Tra filologia, storia e tradizioni popolari. Per Marisa Milani (1997-2007), Padova, Esedra, 2010, pp. 127-184; Carlo Cenini, Due usignoli pavani, in Gianfelice Peron e Alvise Andreose (a cura di), Anaphora. Forme della ripetizione, Padova, Esedra, 2011, pp. 243-264; Carlo Cenini, Un canzoniere a più mani, in Alvaro Barbieri e Elisa Gregori (a cura di), L’autorialità plurima. Scritture collettive, testi a più mani, opere a firma multipla, Padova, Esedra, 2015, pp. 335-352; Carlo Cenini, Su un uso espressivo della virgola in Menon, in I. Paccagnella (a cura di), «parole assasonè, paìe, slettrane». Omaggio a Marisa Milani, Padova, CLEUP, 2018, pp. 271-294. Andrà infine segnalata la tesi di dottorato di ricerca del 2008 di Carlo Cenini, Le rime in lingua rustica padovana di Magagnò, Menon e Begotto: testo critico e commento.
5 La prima parte de le rime di Magagnò, Menon, e Begotto in lingua rustica padovana, con una tradottione del primo Canto de M. Ludovico Ariosto, In Padova, per Gratioso Perchacino, 1558. Si tratta di un volume in 4° costituito da 19 fascicoli duerni (A-T4) per un totale di 76 carte; errori nella numerazione si registrano fra le cc. 48-52, numerate: 48-51-50-49-52 e fra le cc. 72-76, numerate: 72-74-74-76-76. Ho utilizzato per la trascrizione dei testi l’esemplare conservato nella Biblioteca Trivulziana di Milano (segnatura: Triv. I 170). Nel trascrivere i testi mi sono attenuto ai seguenti criteri: ho regolato sull’uso attuale separazione e unione delle parole, maiuscole e minuscole, distribuzione di u e v e segni diacritici e interpuntivi; una lineetta separa i pronomi enclitici soggetto dai verbi cui si riferiscono; gli omografi sono distinti così: a prep. / a’ pron.; chi pron. / chì ‘qui’; co ‘con’ / co’ ‘come’ ‘quando’; con ‘con’ / con’ ‘come’; fe’ ‘fede’ / fé ‘(voi) fate’ / fè ‘fece’; fié ‘io feci’ / fiè ‘volte’; he ‘ho’ / hè ‘hai’; me pron. / mè ‘mai’ / me’ agg. poss.; o cong. / o’ ‘dove’; po ‘poi’ / pò ‘può’; se ‘se’ (pron. e cong.) / sè ‘sai’; sta ‘questa’ / stà ‘stata’ part. pass. / sta’ ‘sta’ ‘ imperat.; ste ‘queste’ / stè ‘(voi) state’ / s’te ‘se tu’; sto ‘questo’/ stò ‘stato’ (part. pass.); ve pron. / ve’ ‘vede’; vuo ‘voglio’ / vuo’ vuoi; ho trascritto che ’l con ch’el, quando el è pronome sogg. Il privilegio di stampa di validità decennale per questa edizione concesso al Maganza è stato pubblicato da Alfred Mortier, Ruzzante (1502-1542). Un dramaturge populaire de la Renaissance italienne, Tome I, Paris, Peyronnet et Cie Editeurs, 1925, p. 182 nota. Sarà divertente segnalare come la triade «Magagnò, Menon e Begotto» risulti un bel novenario ad attacco anapestico con accenti di 3a-5a-8a che cadono sempre sulla ò.
6 Nell’ordine: Le rime di Magagno, Menon e Begotto. In lingua rustica padovana, con una tradottione del primo canto di messer Ludovico Ariosto, In Venetia, appresso Domenico Farri, 1563; Le rime di Magagnò Menon e Begotto. In lingua rustica padovana, con una Tradottione del primo canto di Messer Ludovico Ariosto. Di nuovo stampate, e con diligentia corrette, In Vinegia, [Domenico Farri], 1564; Le rime di Magagno, Menon, e Begotto. In lingua rustica padovana, con una tradottione del primo canto di Messer Ludovico Ariosto. Di nuovo stampate, & con diligentia corrette, In Vinegia, 1565 (attribuita ad Alessandro Viani sulla base della marca tipografica da Dennis E. Rhodes, Silent Printers. Anonymous printing at Venice in the sixteenth century, London, The British Library, p. 155); Le Rime di Magagno Menon e Begotto. In lingua rustica padovana, con una tradottione del primo canto di messer Ludovico Ariosto. Di nuovo stampate, & con diligentia corette, In Venetia, per Vicenzo Viani, 1573.
7 M. Milani, Introduzione, in Alvise Cornaro, Scritti sulla vita sobria: Elogio e Lettere, prima edizione critica a cura di M. Milani, Venezia, Corbo e Fiore Editori, 1983, p. 9; sull’attività editoriale del Percacino cfr. I. Paccagnella, Tre sonetti fra «Morato» e «Magagnò», cit., pp. 1-4.
8 Si conosce un unico esemplare, conservato presso la Biblioteca Palatina di Parma. Attribuita a Grazioso Percacino, sempre sulla base del confronto tipografico, anche l’edizione, databile a non prima del 1555, del Lamento delle cortigiane che sono in Padova per la partita delli scolari da quella nel suspetto della mala peste. Con una lettera di madonna Lauretta Scofonia, ne la quale prega una sua amica che gli voglia trovar partito aciò non perisca di fame in lingua Venetia[na] (unico esemplare noto conservato presso la Biblioteca Palatina di Parma).
9 Unico esemplare presso la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia; secondo Rhodes anche l’editio princeps della Seconda parte de le rime di Magagnò, Menon e Begotto (Venezia, 1562) sarebbe stata stampata dal Percacino, cfr. D. E. Rhodes, Silent Printers, cit., p. 154.
10 Al Maganza andrà così attribuita anche la responsabilità della scelta e della disposizione dei componimenti di Menon e Begotto.
11 La prima parte de le rime, cit., c.2r (‘E, vedendo che il mio serpillo e le mie campanelle erano troppo poche e che per comporre una bella ghirlanda o un bel mazzo occorrono molti fiori e di più tipi, ho chiesto all’onorevole e sapiente barba [qui impiegato come appellativo di riguardo] Menon il permesso di andare nel suo orto; e così sono stato anche in quello che seminò la benedetta anima di barba Begotto’). Secondo Cenini «la scelta delle due piante con cui Magagnò si presenta a Sanseverino è tutt’altro che casuale: le campanelle, che richiamano immediatamente la figura del giullare, ovvero, per eccellenza, l’uomo che deve allontanare la malinconia del re [...], e il serpillo, uno degli amuleti della poesia bucolica» (C. Cenini, Due usignoli pavani, cit., p. 248).
12 La prima parte de le rime, cit., c. 2v (‘Degnatevi, quindi, di accettare volentieri questo mio piccolo omaggio, perché quando sarete stanco di consultare quei libroni di Dante, di Petrarca e di Cicerone vi darete un po’ di piacere a cantare qualcuno di questi nostri sonetti’). Il gioco parodico sul nome di Petrarca (Spetrarcha) «sembra attraversare tutta la storia del pavano, dal Ruzante» in poi, e si «esercita tramite la deformazione con prostesi di s-» (I. Paccagnella, Petrarchismo pavano, cit., p. 145).
13 La prima parte de le rime, cit., c. 3r (‘Omero volle cantare proprio in quel modo in cui parlava ognuno’).
14 Ibidem (‘E se quel fiorentino così buon letterato mutava il suo parlare, che è tanto bello, la sua Loretta non lo avrebbe mai inteso’).
15 La prima parte de le rime, cit., c. 3r-v, vv. 15-20 (‘Ma io, che sono pavano, non sarei una bestia, se abbandonassi questa mia lingua o se la ingarbugliassi? Che mi vale se io parlassi nel miglior modo possibile, ma non fossi inteso in quella campagna dove sono nato?’).
16 Ivi, c. 3v.
17 Ibidem.
18 La prima parte de le rime, cit., c. 4r, vv. 48-56 (‘Chissà che io non sia vissuto un’altra volta e che al posto di adoperare aratri, accette e pungoli io abbia maneggiato inchiostri, penne, carte e calamai e dimorato con i letterati, non con i bovari. Così che, fratelli miei cari, non meravigliatevi se io canterò come se fossi un poeta laureato’).
19 I. Paccagnella, Introduzione, in Id., Vocabolario del pavano, cit., p. XXXIII.
20 La prima segnalazione (a me nota) di questa riscrittura in pavano di Vivamus, mea Lesbia, atque amemus in Giulio Cesare Becelli, Della novella poesia cioè Del vero genere e particolari bellezze della poesia italiana libri tre, In Verona, Per Dionigi Ramanzini, 1732, p. 241-242. Questo sonetto è l’unico di tutta la Prima parte de le rime a schema ABAB ABAB nelle quartine.
21 La prima parte de le rime, cit., c. 4v (‘Sai tu, Viga mia bella, come sta la faccenda? Spassiamocela, vogliamoci bene e lasciamo dire questi vecchi scarcassati, ai quali non viene più voglia di far bene. Quel vaso di garofani che tu hai tornerà a rigermogliare l’anno prossimo: ma quelli che muoiono, e che vengono sotterrati, non tornano mai più, mai più non vengono. E non venendo bisogna che siano senza occhi, senza orecchi e senza denti e che non provino più piacere come qui lo provavano. Viga mia bella, non credere mai più per niente al cianciare di tuo zio e di tua zia, dal momento che ognuno diventa santo quando diventa impotente’). Di seguito la traduzione di Alessandro Fo del carme catulliano: «Su viviamo, noi due, mia Lesbia, e amiamo e i mugugni dei vecchi troppo arcigni tutti insieme stimiamoli uno spicciolo. Solo i soli si spengono e ritornano. Ma noi, spenta che sia la breve luce, notte eterna e continua dormiremo. Mille baci tu dammi, e quindi cento, poi altri mille, e poi un’altra volta cento, quindi fino a altri mille, quindi cento. E poi, molte migliaia accumulatene, stravolgiamole, un po’ per non saperne, e un po’ contro il malocchio di un maligno che il totale di tanti baci sappia» (Gaio Valerio Catullo, Le poesie, a cura di Alessandro Fo, Torino, Einaudi, 2018, p. 13).
22 I sonetti che non lodano Viga sono: Senta, caro Begotto, chivelò (rubricato «Fatto in le nozze della Signora Laura dal Fossa», c. 5v) e Ziralda bella, a’ te vezù a ballare (cc. 5v-6r), sul quale cfr. F. Bandini, Mimetismo grafico e manierismo linguistico nel sonetto a Ziralda di G. B. Maganza, «Memorie dell’Accademia patavina di Scienze, Lettere ed Arti», LXXV (1962-1963), pp. 3-15.
23 I. Paccagnella, Introduzione, cit., p. XXXII.
24 Ibidem. Il sonetto di Morello e quello di risposta di Magagnò sono stati modernamente editi, tradotti e commentati da I. Paccagnella, Tre sonetti fra «Morato» e «Magagnò», cit., pp. 31-41.
25 Il nome di «Valierio Chieregato» quale destinatario del sonetto S’a’ stopinava e fasea fusaruoli lo si integra grazie all’errata corrige («Scapuzzon, che s’ha pigiò in lo stampare») presente ne La prima parte de le rime, cit., c 76r.
26 È merito di Carlo Cenini avere sottolineato l’opportunità di leggere il primo libro delle Rime rustiche così come i seguenti tre, sia individualmente che collettivamente, quale «compagine talvolta organica e compatta, talaltra atomizzata nella molteplicità degli autori coinvolti. Insomma un ibrido tra un’antologia e un canzoniere a più mani» (C. Cenini, Un canzoniere a più mani, cit., p. 335). Connessioni intertestuali sono, infatti, reperibili all’interno di ciascuna delle tre sezioni, ma rapporti e richiami si possono instaurare anche tra componimenti appartenenti a sezioni diverse, così come tra testi inseriti in sezioni di libri diversi.
27 La prima parte de le rime, cit., c. 6r (‘O Dio, perché non sono un gran letterato, così che io sappia adoperare una penna e un calamaio come colui che con le proprie mani si fece una ghirlanda del suo bel lauro?’).
28 Ivi, c. 8r (‘la mia bella Viga e la tua Thia meritano di stare appaiate alla Loretta’).
29 Thietta da Thia, abbreviazione di Dorotea.
30 F. Bandini, La letteratura pavana dopo il Ruzante, cit., p. 348.
31 La presenza della Thietta (la donna amata da Menon) ha indotto Cenini ad attribuire la riscrittura di Rvf 126 ad Agostino Rava (Due usignoli pavani, cit., p. 250), salvo successivamente rivedere in parte questa opinione (Un canzoniere a più mani, p. 345); Paccagnella la considera opera di Magagnò (Petrarchismo pavano, cit., p. 149) mentre Bandini l’aveva attribuita a Magagnò «in collaborazione con Menon» (La letteratura pavana dopo il Ruzante, cit., p. 348). Certo è che dopo il congedo della canzone si legge il seguente distico di endecasillabi a rima baciata «Stugiando ravi una sera a filò / cossì cantè Menon e Magagnò» (La prima parte de le rime, cit., c. 8r).
32 Francesco Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a cura di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 1996, pp. 583-585.
33 La prima parte de le rime, cit., cc. 6v-7r, 8v (‘O acque fresche e chiare, nelle quali l’altro giorno Thietta si lavò le sue belle gambe; caro ramo, dove volle attaccare i suoi lacci e quelle sue belle calze, tanto pulite; erbette fiorite qui, dove lei si sedette; grembiule mondo e netto, più di ogni altro benedetto, con il quale infine poi si asciugò; e voi, ombre, che le teneste il sole, state attenti tutti e ascoltate le mie parole. || Canzone, se mai andassi via da qui, guarda di non finire in mano a chi non sappia parlare pavano’). Puntuale ed elegante, al riguardo, l’annotazione di Bandini: «È un sistema di equivalenze, e di “traduzione” connotativa: i “ligambe” e i “scoffon” attaccati al ramo di petrarchesca memoria, e il “grumbial” (si noti la raffinata dieresi) che sostituisce la “gonna” (con la notazione “in dreana” al posto del “seno”): elementi di un divertimento minore, che trova la sua giustificazione nella notorietà del modello e nella continua, aggraziata sorpresa dei rimandi realistici e dei nuovi oggetti sostituiti alle nozioni rese sacre dalla poesia del Petrarca» (F. Bandini, La letteratura pavana dopo il Ruzante, cit., p. 348). La canzone riprende lo schema di Rvf 126 abCabC cdeeDfF (congedo AbB) con la sola variante che il penultimo verso di ogni stanza e del congedo è endecasillabo anziché settenario: abCabC cdeeDFF; identico il numero delle stanze (5); si devono, però, segnalare ben cinque casi di rime ripetute.
34 La prima parte de le rime, cit., c. 21r-v (‘Perché l’Amore è quello che indirizza a ogni buona natura e di un bovaro può fare un dottore. L’Amore si ficca in tutti gli esseri viventi e una cosa fatta senza il suo sapore è come una minestra di pane senz’olio e senza sale. Le mosche e le zanzare, porci, cani, caproni, capre e ciò che esiste: tutti quanti vengono colpiti con frecce da Amore. Non si trovano congiunte nell’atto sessuale perfino le pulci, e chi le congiunge se non l’Amore che è una cosa benedetta? Non esiste fessura così stretta, né buco così chiuso che Amore, se lo vuole, non li abbia aperti; e non produrrebbe già tanti frutti la terra e tanti pesci il mare, se Amore, che fa innamorare ogni cosa, non s’andasse a ficcare nelle radici degli alberi e delle erbe e nella pancia e nelle branchie dei pesci’).
35 Ruzante, L’Anconitana, in Id., Teatro, a cura di Ludovico Zorzi, Torino, Einaudi, 1967, pp. 781-783. (‘Amore, vero? Sì, vivremmo proprio, se non ci fosse l’Amore. Ma non si ficca, per farci vivere, fin dentro la terra? Chi ci si ficcherebbe, se non lui, a far innamorare la terra, per nutrire le biade? Morremmo pure di fame. Amore, vero? Non sa entrare negli alberi, non è stato lui a indurli a far frutto? Amore, vero? Ma guardate se non è un brav’uomo, questo Amore, e se non ci vuole bene, e se non è pieno di discrezione: siccome sa che quando entra negli alberi, li fa innamorare [...] Amore, vero? Non parlate d’Amore, che il poveretto, per amor nostro e per renderci più comodo il mangiare, si tuffa sott’acqua a far innamorare i pesci e a farli moltiplicare’). Il Prologo II a L’Anconitana a sua volta dipende dal discorso, d’ispirazione lucreziana, di Gismondo che celebra l’amore naturale nel II libro degli Asolani (cfr. Pietro Bembo, Asolani, in Id., Prose e rime, a cura di Carlo Dionisotti, Torino, Utet, 1978, pp. 419-422). Un altro vivace discorso in difesa e in lode di Amore è quello pronunciato dal personaggio del Rustico (in bergamasco e nel metro dell’ottava) nella Comedia nova d’Amore di Fausto Redrizzati, a stampa nel 1538 (cfr. Andrea Comboni, La parte del dialetto bergamasco nella “Comedia nova d’Amore” di Fausto Redrizzati, «Letteratura e dialetti», 1 (2008), pp. 97-106: pp. 102 e Id., Una commedia trilingue della prima metà del Cinquecento, in Simone Albonico et al. (a cura di), Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996, pp. 135-149: pp. 142-149).
36 Cfr. Stith Thompson, Motif-index of Folk-Literature, I (A-C), Bloomington and London, Indiana University Press, 1955, p. 399: «B 211.5 Speaking fish» e Id., La fiaba nella tradizione popolare, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 195.
37 La prima parte de le rime, cit., cc. 23v-24v; la traduzione che segue è di Raffaello Viola (con qualche minimo ritocco): ‘Pigliai un pesce grande come un bambino. E in quel che spalanco gli occhi per guardarlo, che proprio pareva d’argento, d’oro, di velluto e di seta, al sangue di mia zia!, lo sentii, come fosse un cristiano, parlare adagio, adagio in questo modo: «Oh, povero villano! Sono pure diciotto anni e più che tu peschi in queste acque tutto il giorno! E sino ad oggi con la pasta, con gli ami e con le reti, non hai mai pigliati pesci sufficienti. E sai perché? L’è come duecento volte e andare avanti e indietro, pregando sempre Giesuddio, che in qualche maniera ti voglia aiutare e abbia compassione di tanti figliuoli che hai alle costole. Così mi sono pensato di pigliar la figura di un luccio, un barbio, una triglia, per cader nella rete di qualche tuo tramaglio, o per inghiottire quest’amo che qui mi tiene. E se non intendi bene quello che dico, toglimelo di bocca, ché è quello che mi fa roca la voce». Se restai come un’oca, quando lo sentii parlare come facciamo noi, non sto a dire, immaginatevelo voi. Avete mai visto cosa che fa che il pelo vi si rizzi come a un porcello su per la cotenna, e par che qualcuno vi scavezzi tutti e due i ginocchi, e se volete gridare “aiuto, aiuto!” non potete? Così restai pur io; pure feci animo, e prima gli cavai l’amo di bocca, e poi gli chiesi più di quaranta volte che mi volesse perdonare, ed egli disse ridendo: «Ti voglio bene come a un fratello. Dimmi pure tutto ciò di cui abbisogni, perché oggi otterrai la grazia che desideri». Ed io che non avevo maniera di dare agli stampatori quei sonetti che possono empirmi la borsa di denari, dissi: «Quei bei versi che solevano cantare Begotto e Menon, che ha una zampogna sì dolce, si perderanno presto se voi, signore, non fate che possa andare dal Precacin [Grazioso Percacino] a farli imprimere». E stando ad aspettare che mi risponda, guardo e vedo che ha lasciate lì le sue squame dorate. Ed altro non si vede, eccetto che sento un bombire che vien fuori dall’acqua e uno che mi dice: «Sta di buon animo!». Non vidi l’ora di prendere su la sua pelle che era già tramutata in tanti bei ducati’ (Raffaello Viola, Due saggi di letteratura pavana seguiti da una antologia di testi del Ruzzante e del Magagnò con la traduzione italiana, Prefazione di Emilio Lovarini, Padova, Editoria Liviana, 1949, pp. 173-175).
38 F. Bandini, La letteratura pavana dopo il Ruzante, cit., p. 351 e nota 50; l’ercolana dei poeti pavani si compone di un numero variabile di strofe di 8 versi (i primi 4 sono 2 endecasillabi alternati con 2 settenari, a rime alternate); seguono 3 doppi quinari: AbAb c5 + c5 d5 + d5 e5 + e5 F, con rime ossitone al verso secondo, quarto e ultimo: a questo schema si adeguano le due ercolane di Menon (rispettivamente di 20 e 36 strofe).
39 C. Cenini, Due usignoli pavani, cit., p. 249; già Bandini aveva rilevato che le rime di Menon «costituiscono un piccolo canzoniere d’amore e reinventano, all’interno della rusticità pavana, il romanzo lirico di sapore petrarchesco» (Fernando Bandini, Lingua e cultura nella poesia di Magagnò, Menon e Begotto, «Odeo Olimpico», VIII [1969-1970], p. 49). Si può, inoltre, osservare anche la studiata distribuzione delle forme metriche: senza considerare i due epitaffi finali, il canzoniere di Menon è “chiasticamente” delimitato in apertura da un sonetto caudato e un’ercolana e in chiusura da un’ercolana e da un sonetto caudato.
40 Ibidem.
41 Il termine, infatti, può indicare anche l’organo sessuale femminile o il rapporto sessuale (nella locuzione Fare un’insalata), cfr. Valter Boggione, Giovanni Casalegno, Dizionario letterario del lessico amoroso. Metafore, eufemismi, trivialismi, Torino, Utet, 2000, pp. 259, 496-497; salata in senso osceno già nel sonetto quattrocentesco in veronese rustico di Giorgio Sommariva, Pare, sta sera cavando ravuoti, cfr. A. Comboni, Dittico villanesco, in Studi in onore di Ugo Vaglia, Brescia, Ateneo di Brescia, 1989, pp. 19-27: p. 26.
42 La prima parte de le rime, cit., cc. 34v-35r (‘Il primo giorno d’aprile la Thietta, zappando l’orto, cantava davanti al sole e diceva queste parole: “Caro dolce Menon, se mi vuoi bene, vieni a prendere la mia insalata, finché è tenera; ciò che ho nel mio orto è bello e buono: corri dunque, raccogliamo tutti e due insieme e subito insalata, erbe, aglio e ciò che tu vorrai”).
43 C. Cenini, Due usignoli pavani, cit., p. 249.
44 F. Petrarca, Canzoniere, cit., pp. 869-870.
45 Come risulta da Guglielmo Gorni, Repertorio metrico della canzone italiana dalle origini al Cinquecento (REMCI), Censimento di Guglielmo Gorni edito per cura sua e di Massimo Malinverni, Firenze, Franco Cesati Editore, 2008, p. 80, quattro sono gli autori che si cimentano (e per una sola volta) nella ripresa dello schema di Rvf 206: Pietro Barignano, Angelo Di Costanzo, Giulio Poggi e Giacomo Zane, ai quali si dovranno aggiungere Girolamo Malipiero e Stefano Colonna.
46 L’eccezionale doppia ripresa di Rvf 206 da parte di Menon non è ricordata da I. Paccagnella, Petrarchismo pavano, cit., mentre non era sfuggita a F. Bandini, La letteratura pavana dopo il Ruzante, cit., p. 350, nota 49.
47 Si tenga presente, inoltre, che in entrambe le canzoni (come, ovviamente, in Rvf 206) non si verifica mai ripetizione della stessa parola-rima.
48 Sulla struttura metrica di Rvf 206 cfr. le rilevanti osservazioni di Claudio Vela, Anomalie metriche nel Canzoniere di Petrarca, «Stilistica e metrica italiana», 4 (2004), pp. 61-65.
49 F. Petrarca, Canzoniere, cit., pp. 868-869.
50 La prima parte de le rime, cit., cc. 36r, 37r (‘Se io ti ho affatturato, Thietta bella, che mi sia levato il cuore fuori dal petto; se io ti ho affatturato, che con il polmone mi siano levate fuori le budella; se io ti ho affatturato, che con una lama affilata su una pietra mi sia aperta la pancia e la ferita sia così grande che vi ci entri una scodella.|| Perché io non stia più in malinconia, né tu in sospetto, ho composto questa canzone: perciò, lucente stella, non credere che io t’abbia fatto questa malia’).
51 F. Petrarca, Canzoniere, cit., pp. 868-869.
52 La prima parte de le rime, cit., cc. 37r, 38r (‘S’io lo dissi mai, che il male che mi tormenta mi faccia sempre procedere a tentoni; s’io lo dissi mai, che quando io rammendo le calze di lana sempre mi si rompa l’ago; se io lo dissi mai, che io sia come una oliva quando è stata raccolta e nel maceratoio annerita, tanto schiacciata che sia riempita del mio sangue una mastella. || Menon, se io muoio di questa malattia, suonami il campanone, recitami una preghiera e poi farai sì che io sia seppellita accanto alla cappella’).
53 F. Petrarca, Canzoniere, cit., pp. 583-585.
54 La prima parte de le rime, cit., cc. 56r, 57r (‘Acque fresche e chiare, nelle quali le belle membra mise colei che a me pare un angelo; bell’albero lì accanto, che ce l’ho ancora nel cuore, dove ella s’andò ad appoggiare con la schiena; erbe e fiori, dove ella sedendosi vi venne a coprire con quelle sue belle vesti; aria e voi, venticelli, dove Amore con i suoi occhi mi dovette aprire: ascoltatemi tutti insieme, perché io non parlerò mai più a nessuno. || Se tu avessi bellezza quanto tu hai voglia, in verità tu potresti uscir dai boschi e andare dove tu volessi’). La canzone di Begotto, a differenza di quella di Magagnò, replica del tutto fedelmente lo schema di Rvf 126 abCabC cdeeDfF (congedo AbB); identico il numero delle stanze (5); si devono, in questo caso, segnalare soltanto due casi di rime ripetute.
55 F. Bandini, La letteratura pavana dopo il Ruzante, cit., p. 349.
56 Fra i tre autori il Begotto, infatti, «risulta quello più fornito di una squisita cultura letteraria» (F. Bandini, La letteratura in dialetto dal Cinquecento al Settecento, cit., p. 18). Sulla riscrittura in pavano del Furioso cfr. Luca D’Onghia, Due paragrafi sulla fortuna dialettale del «Furioso», in Lina Bolzoni, Serena Pezzini e Giovanna Rizzarelli (a cura di), «Tra mille carte vive ancora». Ricezione del «Furioso» tra immagini e parole, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2010, pp. 296-300; le prime 54 ottave della riscrittura di Begotto si leggono nel ms. B. VII. 4 della Biblioteca Queriniana di Brescia, cfr. Alessandro Gnocchi, Rime di Pietro Bembo nel ms. B. VII. 4 della Biblioteca Civica Queriniana, «Annali Queriniani», II (2001), pp. 81-82.
57 Le riscritture in pavano di questi nove sonetti petrarcheschi, puntualmente segnalate dalle rubriche presenti nella princeps del 1558, sono state di recente edite e illustrate da I. Paccagnella, Petrarchismo pavano, cit., pp. 153-157. Allo stesso giro d’anni in cui sono state realizzate queste versioni risale probabilmente il rarissimo opuscolo (di cui si conosce un unico esemplare, purtroppo mutilo, nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia), privo di note tipografiche, dall’attraente titolo Li sonetti de misser Francescho Petrarcha tradotti in lingua rustica padoana, in cui sono presenti traduzioni di Rvf 269, 134, 12, 8, 210; in particolare la riscrittura di Rvf 210 è preceduta dalla rubrica «In morte della signora Iulia Lombarda», vale a dire di colei che Marin Sanudo aveva definito “meretrice sumptuosa”, che morì nel 1542; alle versioni in pavano dei cinque testi petrarcheschi seguono altri tre sonetti in cui sono nominate altre note cortigiane veneziane del tempo, Anzola Sara, Angela Zapheta. Quest’opuscolo (citato in Catalogue of printed books and manuscripts in various languages, (Payne and Foss), London, 1837, p. 205 e in A catalogue of books in various languages, (Payne and Foss), London, 1840, p. 226) sconosciuto, per quanto ne so, agli studi di letteratura pavana, sarà oggetto di un mio prossimo articolo.
58 Un’acuta analisi di due di queste riscritture in pavano si legge in F. Bandini, Lingua e cultura nella poesia di Magagnò, Menon e Begotto, cit., pp. 41-49.
59 Destinata a rimanere non segnalata ancora all’altezza dell’ultima edizione secentesca del Primo libro (1659): in questo modo il sonetto È quisti i biè caviggi on me strentora, terzo componimento della sezione di Begotto, stabilisce un rapporto di tipo omotetico con il terzo componimento di quella di Magagnò, anch’esso, come si ricorderà, una riscrittura in pavano di un testo che non viene indicato (il carme V di Catullo).
60 La prima parte de le rime, cit., cc. 53v-54r (‘Son questi i bei capelli dove mi tormenta quel fanciullo che è così pronto al mio male? Son questi quei begli occhi dove fui ferito con quello splendore che porto ancora nel cuore? È questa quella mano che mi lavora e spinge a quell’aratro dove sono arrostito? È questa quella mano che avanti e indietro spinge il male che m’accora sempre? Son questi i belli e nutriti piedaccioni che dove camminano nasce la cicuta per quell’odore che hanno tra i ditoni? È questa quella voce di cui non fu mai udita una migliore, così che ognuno che l’ascolta trema al caldo e suda al freddo?’).
61 Iacobo Sannazaro, Opere volgari, a cura di Alfredo Mauro, Bari, Laterza, 1961, p. 180.
62 Cfr. M. Milani, Per un catalogo, cit., p. 227.
63 La prima parte de le rime, cit., cc. 57v-58v.
64 Ivi, c. 60v.
65 Ivi, cc. 75r [ma erroneamente 76] -76v: sono, rispettivamente, i vv. 9-14, 24-32 e 45-50 del sonetto Doh, saorio, lioso e bel Baldon. (‘Fate che gli stampatori che sono là, nella bella Venezia, dove io spero un giorno di vedervi sul capo il corno dogale, non possano fare imprimere, se io non voglio, quei pochi sonetti di Menon, di Begotto e Magagnò che sapete [...] Padrone, fatemelo fare che sia autentico e buono: e giacché siete anche voi signore fate che reciti così: “che per nove anni e più in ogni luogo della Signoria altri non li stampi e non li possa vendere”. Padrone, che Dio vi aiuti, fate ch’abbia un privilegio, e affrettatevi perché ho i testicoli quasi rotti. Fate che sia spiegato nel documento che a chi li farà stampare insieme oppure separati gli sia scritto [nel significato di ‘frustato’] il culo in maniera che gli bruci. Non più, padrone, ché il giorno sta per finire!’). Una richiesta di privilegio di stampa consegnata a un sonetto in versi è un dato su cui richiamare l’attenzione degli storici del libro antico: l’unico precedente a me noto è la notifica del privilegio in forma di sirventese che si legge in Bettino da Trezzo, Letilogia, Milano, Antonio Zaroto, 1488, cfr. Angela Nuovo, Privilegi librari a Milano (secc. XV-XVII), «La Bibliofilìa», CXVI (2014), pp. 198-199.