Revue Italique

La poesia dialettale del Rinascimento nell’Italia del Nord

OJ-italique-695

Tra Bergamo e Brescia. La misura trilingue del bergamasco Giovanni Bressani

Massimo Danzi

Rodolfo Vittori

Gli autori ringraziano Luca D’Onghia, Piera Tomasoni e Luca Danzi per le proposte seguite all’attenta lettura di questo contributo.

Nel ritratto postumo, datato 1562 e oggi alla National Gallery of Scotland, del grande Giovan Battista Moroni, il poeta bergamasco Giovanni Bressani (1490-1560) è rappresentato tra una pila di libri mentre tiene in mano una carta su cui sono vergati dei versi e sul tavolo ha un poemetto manoscritto. L’identificazione è di Mina Gregori, per la quale quei versi sarebbero (ma il testo non è identificabile nel quadro) un «noto poemetto in ottave scritto in bergamasco che racconta un episodio eroicomico riferentesi agli abitanti di Lovere».1 Analoghe modalità rappresentative sono in altri ritratti moroniani, tra i quali c’è quello di un concittadino del Bressani, il canonico bergamasco Ludovico Terzi (oggi alla National Gallery di Londra). Comunque sia, l’osservazione della Gregori ci ricorda che molto del fecondo poeta, ma scarso lettore bergamasco (nel De se ipso et de suis scriptis, accanto alla composizione di «plusquam septuagina carminum milia in tribus linguis» registra la lettura di «non plusquam triginta vel circiter libros»)2, resta fuori dalla raccolta postuma, apparsa a Brescia nel 1574.3

Nel 1574, in territorio orobico, il poeta dei Tumuli è intanto il primo a vedersi intitolata una raccolta che, accanto a un più comune esercizio latino e volgare, comporta anche una sezione di 25 testi in dialetto. Il non comune trilinguismo (latino, volgare e bergamasco) e il ricorso alla tradizione del «tumulus», genere d’invenzione pontaniana, sono le caratteristiche più evidenti di questa poesia.4 Quelle in latino e in volgare sono composizioni in morte di familiari, amici e in gran parte concittadini (da Bergamo si esce raramente) e per epoca di composizione, non per l’anno di edizione, si inseriscono in una tradizione tutta meridionale ai cui estremi stanno l’eponima raccolta di Pontano e le Nuove fiamme di Lodovico Paterno, poeta che ha una serie di tumuli in volgare con decise sfumature pastorali.5 L’ esercizio trilingue del Bressani si colloca dunque, anche per questo, a mezzo dell’arco che il genere disegna facendosi di latino volgare e in esso la parte dialettale si stacca per una maggiore inventività di temi e per il registro a volte più giocoso.

In latino e in volgare, la poesia bressaniana è invece irretita, da un lato, nella esclusiva dimensione elogiastica (quasi un anticipo delle «gallerie» di ritratti che daranno il Giovio o, in pittura, Moroni) e, per un altro, nell’ ordinamento cronologico dei testi fissato dalla morte dei personaggi: tumuli, appunto, «temporis ordine collocati» come dice il titolo e decise la cerchia bergamasca responsabile dell’edizione postuma. Rispetto al grande modello pontaniano, non solo la struttura è azzerata e i testi ordinati per sezioni linguistiche, ma semplificate sono anche le modalità testuali esperite: vengono meno i testi dialogici (fondamentali in Pontano come nella tradizione dei carmina epigrafica) e vien meno il registro patemico e trasognato che alla dimensione familiare (principalmente coniugale e filiale) aveva impresso Pontano, i cui deliziosi enfantillages hanno qui un’unica povera approssimazione nell’«Epitaphio del giocondissimo fanciullo Guido Lancio. 1528». Bressani è altrettanto lontano dalle sapienti contaminazioni classico-volgari che sul tema del lutto caratterizzavano l’Umanista napoletano con intarsi dagli elegiaci latini e da Petrarca e, teso a onorare la memoria dei troppi trapassati, non pare veramente interessato a elaborare il tema. Certo, ci sono analogie fra i due autori,6 ma manca poi nei carmi latini e volgari quel senso profondamente ludico della tradizione epigrafica antica che nel Pontano declina cultura pagana e tradizione cristiana trascorrendo dalla celebrazione dei «nani» (futuro annuncio di Tansillo) agli «infantuli vagientes», dalle femmine sterili alle prostitute fino alla civetteria dell’auto-epitaffio (se ne ricordarà l’Ariosto latino).7 Un tratto che, invece, affiora nella parte in dialetto più compromessa con il registro giocoso. Non si può separare la parte in bergamasco dei Tumuli da quelle in latino e in volgare che la precedono e tuttavia questa costituisce, nella scelta del «naturale» che il dialetto reca con sé, quasi un controcanto di quelle, un sicuro antidoto di freschezza e realismo. In esse, a fronte del decrescere dei testi, è evidente la continuità dei personaggi8 entro un disegno inteso a celebrare, soprattutto in latino e in volgare, le virtù di amici, famigliari e concittadini che il poeta vuol far vivere post mortem. Ogni umanista, si sa, ha frequentato feretri e pianto la morte di qualche collega o amico, ma nel Bressani l’epitaffio o il sonetto funebre è a tal punto l’unico registro impiegato da divenire motivo ossessivo quasi fossimo davanti a un laico offizio per i defunti. Nulla al confronto sono le raccolte funebri coeve, o, nella Brescia dei Tumuli, per esempio quelle Funebri poesie di alcuni ingegni. Dedicate al sepolcro dell’ill. conte Lelio Avogadro (1576) anch’esse, fin dal titolo, animate a far che il Conte «tra honorati cavalieri perpetuamente viva».

Entro la tradizione che si è detto, recente e scarsa di esempi, la cifra dei Tumuli può forse indicarsi in quel gusto epigrafico-antiquario che, sulla scorta del Pontano e dell’umanesimo romano, giunge a Bergamo e in territorio veneto alle collezioni di monete, epigrafi e libri che conosciamo, per esempio, di un Giancrisostomo Zanchi o dei Bembo9 e che nel Bressani si colora però di una pietas morale e religiosa simpatetica al clima pretridentino e poi conciliare e contro-riformato che segna in profondità anche le vicende bergamasche. D’altro canto, secondo una fenomenologia già nota per Pontano, la presenza nei Tumuli di epigrafi in prosa accanto a tradizionali epitaffi in versi riporta probabilmente a una pratica dell’autore in chiese o cimiteri cittadini, anche se essa serba qua e là tratti di maggiore libertà.10

Almeno nelle parti latina e volgare, molti destinatari sono comuni: umanisti, maestri, medici, giuristi, pretori, ecclesiastici, musicisti e cantori e perfino un «architectus insignis» come il bergamasco Pietro Cleri (1484-1549), attivo al Monastero di San Benedetto.11 E si mescolano, assecondando il gusto dell’autore, a meditazioni di natura morale e filosofica sul tirannicidio o la buona e la cattiva morte, quasi laici abrégés di artes (bene) moriendi.12 La tipologia dei testi comporta epitaffi sepolcrali, testi in cui il morto prende la parola nei modi dell’elegia, visioni e insomnia, epicedî per animali (un passerculus celebrato, ovviamente, in versi catulliani) e vere e proprie fabulae in versi.13 Un altro registro, più archeologico, lo offrono testi su personaggi dell’Antichità (conta qui il suo Valerius Maximus in disticha redactus, uscito postumo dallo stesso stampatore e nello stesso anno) vicini a un genere, recente e non molto frequentato, come gli «Heroica» a quest’epoca composti dal veronese Giulio Cesare Scaligero o dai lombardi Marco Antonio Casanova e Matteo Bandello.14 C’è però nei Tumuli anche un registro medio e addirittura basso, cui è affidata la pietas per un’umanità più modesta: fanciulle morte giovani (De Laura puella fulmine extincta. 1546, p. 34), «improbissimi homines», delinquenti e omicidî, versificatori (a giudizio del Bressani)«non aspernandi» o aperti detrattori del poeta, ai quali manca la data di morte, costante negli epitaffi, quasi che la reviviscenza passasse, in questo caso, per un collettivo destino di fossa comune. Specialmente il tema dei detrattori, quei «carmina in obtrectatores» d’antica ascendenza classica e umanistica, è diffuso nella poesia dialettale del Bressani e parallelo all’ingenua e non infrequente rivendicazione della propria poesia in dialetto.

Due praeceptores interessano invece nel registro ‘alto’ della raccolta: l’umanista Giovita Rapicio da Chiari (1476-1553) e il poeta in volgare Guidotto Prestinari (Bergamo 1455-1527). Ci orientano oltre il dato più generale della stretta implicazione di Bergamo e Brescia sulla formazione del Bressani,15 della quale sappiamo poco. Nessuna menzione è fatta del celebrato Battista Pio, maestro a Bergamo di Bernardo Tasso, o di altri maestri e umanisti attivi nella bergamasca, seppure il Bressani dovette conoscerne vari, fra i quali almeno il bresciano Quinziano Stoa da cui trasse spunto per l’epitome in versi di Valerio Massimo.16

L’implicazione di Bergamo e Brescia testimoniata anche dai maestri del Bressani interferisce da sempre nella localizzazione linguistica degli antichi testi bergamaschi e dopo il precoce giudizio di Contini («Si tratta sempre di buoni documenti linguistici; ma sull’origine bergamasca di essi, e specialmente dei laudesi, non è mai da giurare») è stata confermata da Ciociola per il quale «può ben dirsi che la discriminazione dell’antico bresciano dall’antico bergamasco presenti le caratteristiche di problematicità che nelle varietà toscane [...] solleva la distinzione dell’antico pisano dall’antico lucchese».17 L’interferenza trova a suo modo conferma anche in questo bergamasco, non solo nella genealogia formativa ricordata (e forse nell’origine stessa della famiglia come fa sospettare il nome) o negli intrecci familiari che aiorano nei Tumuli,18 ma anche nel luogo di stampa di Tumuli e Valerius Maximus che a questra altezza (e fino all’arrivo a Bergamo di Comin Ventura nel 1589) non può essere, fuori della capitale veneziana, che Brescia. Sotto questo profilo, l’importante regesto delle stampe dialettali in versi ricostruito per Bergamo da Luca D’Onghia a quest’epoca,19 ore altre conferme con testi bergamaschi o «alla bergamasca» come il Testamento del Gian ala Bergamasca composto novamente (1534), la Frottula nova tu n’andarè col bocalon (s.d.) o la Commedia nova del Redrizzato (1538) o la Maitinada idest strambòg che fa il Gian alla Togna (1554), tutti editi a Brescia.20 Ma anche un altro testo dialettale del Bressani alternerebbe, a giudizio del suo primo editore, voci bergamasche e voci bresciane. Eccolo, tratto dal contributo del Caversazzi:21

Chi «vintidiù» gné «vintidó» dirà
per magher cortezá tegnut sarà,
               e ’ntend as ga farà3
ch’a l’è sempi chi parla forester
quand a no’ i sa d’ paroli più d’ do per;
               e che tat «u daner»6
a ’l va comgnà «un dinar»; e che «dessét»
è più bo dì, es fa tat, com’ «dezisét»;
               e chi vul parlà net9
e propriamet a no’ i de’ dì «tiré»
la borela gné ’l dat, ma i de’ dì «tré».
               Ho fac ol debit me12
a vizai che s’a i sa vul fa smatà
vaghi dre a quel so coionésc parlà.

Chi dirà «vintidiù» e non «vintidó» (‘ventidue’) sarà tenuto per un meschino cortegiano; e gli si farà intendere che sono sciocchi quelli che parlano forestiero, quando non sanno più di due paia di parole; e che tanto vale «u daner» (‘un denaro’) come «u dinar»; e che «dessét» (‘diciasette’) è meglio detto e tanto fa come «dezisét»; e quelli che vogliono parlare netto e proprio non devono dire «tiré» (‘tirate’) la boccia o il dado, ma devono dire «tré». Ho fatto il debito mio ad avvisarli, che se si vogliono far ridere dietro inseguano pure quel loro parlare michione.

In realtà, qui forse il ‘divertissement’ linguistico non sembra opporre tanto voci bresciane a voci bergamasche, quanto lemmi bergamaschi (che potrebbero pure essere bresciani) a un bergamasco ‘orecchiato’ attribuibile a scriventi «alla bergamasca» e dunque non nativi, come invece era Bressani: un bergamasco insomma ascrivibile a quegli sciocchi ricordati nel testo ‘che parlano forestiero quando non sanno più di due paia di parole’ («chi parla forester / quand a no’ i sa d’ paroli più d’ do per») e che dunque imitano maldestramente quell’idioma. Un atteggiamento, questo del Bressani, che pur sul filo del ‘divertissement’ linguistico si unisce però ai rimproveri rivolti qua e là nelle rime alle donne che sposano un ‘foresto’ impoverendo il paese e insomma con un senso di difesa della propria chiusa realtà antropologica.

Comunque sia, l’interferenza che abbiamo detto è ampiamente provata, tra Quattro e Cinquecento, sul piano linguistico. Si pensi, per esempio al lungo poemetto bresciano in versi della Massera da bé (fine XV sec.), che Piera Tomasoni ha mostrato segnato da forti elementi bergamaschi:22 un caso da unire, se pure il quadro delle conoscenze è lungi dall’essere fatto,23 agli esercizi in bergamasco di poeti bresciani come Andrea Marone e Pier Antonio Bresciano, e dunque da mettere su un piano diverso da quello su cui sta Bressani, di «letteratura dialettale riflessa», su cui torneremo a breve.

Il sostrato umanistico della poesia bressaniana, che un poco si coglie anche in quella dialettale, affiora negli epitaffi per Erasmo e Bembo, figure diverse tra loro ma non lontanissime come vide il Varchi facendone i blasoni di campi avversi.24 Bembo è l’unico nome presente nelle tre sezioni dei Tumuli con cinque testi latini (l’ultimo insieme alla ‘inquieta’ Vittoria Colonna), uno in volgare e un capitolo di 43 versi in bergamasco, lingua che il poemetto sente di dover giustificare («che piasiva ac a lu per quel c’ho ’ntis» ‘che piaceva anche a lui [Bembo] per quello che ho inteso’). Nella facile bonarietà del ritratto («L’era zentil, piasivol com as sa / honorivel, cortis et virtuos; / era semperma’ piena la so ca, / u fava di lemosni e ai besognos / soccoriva coi fag e coi parol» (‘era gentile, piacevole come è noto / cortese e virtuoso / la sua casa era sempre piena; / faceva elemosine e ai bisognosi / soccorreva con fatti e con parole’),25 il testo ci ricorda che a Bergamo il Veneziano era stato, pur senza risiedervi, titolare della Diocesi fino alla morte.

Al senso della presenza di Erasmo, all’indice dal 1559 e prudentemente indicato nella stampa con le iniziali (l’«incomparabilis vir E. R.»), si accennerà in seguito. Qui ci si limita a osservare l’elogio della sua triplice competenza linguistica («[...] triplicem linguam calluit egregie, / scilicet hebream, graiam paritereque latinam», Tumuli, p. 24) certo topico e peculiare di un umanesimo, come quello italiano, attento a separare dottrina linguistica e lezione morale e religiosa,26 ma che in Bressani finisce per riflettersi sullo stesso suo trilinguismo secondo una disposizione al riporto analogico che caratterizza in generale il poeta. Anche più esplicito, è il parallelo tra i Tumuli ei Dialoghi del «divin Platone» dell’ avviso «A’ lettori» che apre la raccolta. Certo, la poesia che garantisce memoria dopo la morte è topos diffuso (diciamo per semplificare di fortuna oraziano-petrarchesca),27 ma il parallelo trapassa i limiti del convenevole anche in un autore che declina verso il basso l’istituto dell’imitatio applicandolo ‘domesticamente’ a familiari e concittadini. Ecco il brano che interessa:

Se fra le lodi che si danno al divin Platone, questa se gli attribuisce che egli è stato grato verso i suoi amici havendogli introdotti ne’ suoi Dialoghi, e con questo mezzo tenuta la lor memoria al mondo, e datogli (si può dire) perpetua vita, perché io ancora non debbo havere se non tanta, almanco parte di sì fatta laude avendo de molti tenuto vivo il nome con questi miei epitafi, se non in perpetuo almeno fin che dureranno...?

Il parallelo con Platone non è, per un dialettale, isolato (il Doni dei Marmi vi rinviava per Ruzzante)28 ma l’esuberanza dell’«Avviso» si misura a contrasto con Petrarca, per il quale, al massimo, le nugae potevano accostarsi al «ruvido carme» di Ennio (Rvf 186, 12). Petrarca non rinunciava alla gloria («Est equidem premium poeticum in primis glorie decus»), ma con discrezione la riservava allo scriptor ydoneus capace di ridar vita ai grandi trapassati.29 Nell’ingenua stima di sé, Bressani («Amicus Plato, sed magis amica veritas») presume dunque troppo fidando in quell’«amor de si stess» cui accenna in altro testo e che, nel poeta dialettale, innesca frequenti e energiche autodifese contro i detrattori.30 E tuttavia non si tratta tanto di malriposta e un po’ bombastica fiducia di sé. La lettura parallela dell’avviso «A’ lettori» e dell’epitaffio per il Rapicio (Tumuli, p. 48), che ricorda il maestro bresciano per meriti platonici (di cui non sappiamo nulla),31 fa pensare piuttosto a un indiretto elogio dell’allievo al maestro, di cui il Bressani mostra di conoscere le opere («Huius multa licet praeclaraque scripta supersint», v. 1) e del quale onora diversi allievi nei Tumuli.32 La statura dell’umanista era del resto ampiamente riconosciuta. Dopo l’insegnamento nelle città ricordate nel testo, il Rapicio era stato chiamato a Venezia a «istruire nelle belle lettere i giovani destinati alla pubblica cancelleria»33 divenendo collaboratore editoriale del Ramusio e probabilmente dei Giunti; fu precettore di Paolo Ramusio nonché, per mediazione del Bembo, del figlio di Carlo Gualteruzzi. Alla morte, Paolo, figlio di Giovan Battista ne onorerà la memoria promovendone il ricordo in una silloge poetica.34

Se questo è dunque il profilo, non esente da ambizioni umanistiche, del poeta, cui per la prima volta è intitolata una raccolta in bergamasco, di essa andranno in limine sottolineati la responsabilità autoriale e l’uso genuino, e non parodico, del dialetto:35 due fatti che non sono ovvî in una tradizione di testi dialettali come quella bergamasca spesso adespota o anepigrafa nonché fortemente espressiva e parodica. È noto che, sulla scia di Croce che quella letteratura aveva battezzato «letteratura dialettale riflessa» collocandone gli inizi in epoca barocca, Contini ha proposto, cinquant’anni dopo, di retrodatarne la «fenomenologia» linguistica giudicandola costitutiva della nostra letteratura fin dalle Origini ed estensibile, al di là del Cinquecento, fino ai grandi espressionisti del Novecento italiano (la «funzione Gadda», appunto).36 Un giudizio che, insieme all’altro sulla scarsità di testi bergamaschi in versi, con la conseguente impossibilità di fare storia di questa poesia,37 ha stimolato linguisti e storici della lingua a muovere per arricchirne la documentazione.38 Da qui l’interesse di studiosi come Maria Corti, Piera Tomasoni, Claudio Ciociola, Ivano Paccagnella e Luca D’Onghia nel ricupero di testi in bergamasco o «alla bergamasca», di autori cioè non solo bergamaschi ma che scrivono in bergamasco: «mattinate» (‘serenate’) di sonetti o strambotti, contrasti, frottole, villanelle o anche inserti dialettali nelle commedie. Un patrimonio completato più di recente dallo studio di travestimenti bergamaschi che di autori come Petrarca o Ariosto fioriscono nel primo Cinquecento annnunciando un più vasto fenomeno che a Bergamo porterà al Goredo del Tasso «travestito alla rustica bergamasca» dell’Assonica. Ma tutta questa letteratura sfocia anche, in territorio bergamasco, nella figura del facchino e in quella produzione ‘alla facchinesca’ che troverà nella commedia plurilingue il suo naturale approdo e l’esito più noto nella Commedia dell’Arte.39 Sotto questo profilo, i ricuperi attuati soprattutto da Paccagnella e da D’Onghia, che in questo volume mostra come «nessun dialetto, nel Cinquecento, può competere con il bergamasco per precocità, continuità e intensità d’impiego letterario»,40 impongono di correggere per l’età di Bressani il precoce bilancio di Contini sulla povertà di quella tradizione.

La produzione dialettale del Bressani completa dunque perlomeno il ritratto che del poeta offrono i Tumuli del 1574, dove è sacrificato il piano più immediatamente naturalistico e realistico-giocoso documentato invece nei manoscritti che restano dell’autore. Chi ha stampato i Tumuli non deve aver voluto turbare l’immagine di un poeta che aveva esordito, in tutt’altra e più libera temperie, al tempo degli episcopati di Pietro Lippomano e di Vittore Soranzo. Al Lippomano e a Giovan Girolamo Albani, rappresentanti di due diverse aristocrazie cittadine, il Bressani indirizza del resto i suoi detrattori perché si accertino della stima in cui si teneva la sua musa dialettale.41 Curiosamente, una conferma viene anche dal Bembo, che, secondo Bressani, apprezzava quella poesia dialettale («che piasiva ac a lu per quel c’ho ’ntis»: ‘che piaceva anche a lui, per quel che ho inteso’), se pure ammetteva il poeta quel dialetto è idioma irto e ruvido e «quasi peggio del tedesco» («che sto parlà squas ch’al Todesch è pez»).42

Al clima della Controriforma conviene d’altra parte anche la sordina posta al nome di Erasmo, che compare nell’unico epitaffio a stampa con le sole iniziali e che Bressani difende in un testo rimasto invece manoscritto «contra st’ignoranc ch’a prosontiò / d’ biasmà Erasmo, chi lu sul piu sa / ch’a met insem squas tuc chi ’ntend / d’ savì d’ la letra e chi ’n fa profesiò» (‘contro questi ignoranti che presumono di biasimare Erasmo, il quale solo più sa che a mettere insieme quasi tutti quelli che si danno a intendere di sapere di lettere e ne fanno professione’). Cantella per primo ha ipotizzato rapporti dell’autore con il circolo erasmiano sorto a Brescia nei primi decenni del secolo interrogandosi sul significato di questa presenza e chiedendosi se, a fronte della innegabile vena moraleggiante e censoria di molti testi (non casuale è, del resto, la figura ricorrente di Pasquino), il suo dialetto non celi un più serio «programma di riforma morale» e insomma una simpatia erasmiana.43 La presenza di un vescovo come Vittore Soranzo, che a Bergamo succede a Bembo (1544-1550) finendo sotto processo per eresia,44 l’esempio di un Lorenzo Lotto per il quale, dagli anni Trenta in avanti, sono indubitalibili le frequentazioni eterodosse e riformate,45 ciò che si sa della penetrazione delle idee riformate a Bergamo, l’esistenza in città della biblioteca privata più ricca di opere erasmiane di tutta Italia46 e la presenza di simpatizzanti dell’umanista batavo (l’Emigli che allestisce, nella Padova della fine del secondo decennio, la traduzione dell’Enchiridion militis Christiani stampata poi a Brescia nel 1531) sono tutti elementi che non possono fare escludere una qualche influenza anche sul Bressani. Resta che, come ha osservato più in generale la Seidel Menchi nel solco di Renaudet, anche gli omaggi del Bressani sono in linea con la tendenza della cultura italiana del Cinquecento a separare l’aspetto letterario e filologico dell’Umanista batavo da quello religioso e morale riducendo così la complessa e polivalente sostanza della sua libera «philosophia Christi».47

Ridotta dunque ai suoi giusti termini la questione dell’erasmismo di Bressani, importa entrare nella sua vena didattico-edificante che dalla polemica contro «e maldicenc, ignoranc e ‘nvidios»48 trapassa con naturalezza alla narrazione satirico-morale. È il caso del sonetto caudato che ci consegna il ritratto del gaudente pre Giacomo da Iseo, affetto dal vizio della gola e al quale il poeta profetizza un facile destino infernale:49

Se per fa’ bona vita in paravis
     l’hom merita d’andà, costù gh’è ’ndag,
     che dol be viver semper ma l’è stag
     curios, e d’quest tutta sta terra ’n dis.4
Lu s’pasciva d’capò, quai, pernis
     e d’i otri cosi ch’i pias ac ai gag,
     e ’l dezunà per lù no fò ma fag,
     com al mossava in dol vetr fò tis.8
Lu magnà domà: levava su a bon’hora
     e ’n becaria o ’n pescaria prest andava
     per havì i mgnò bocó, ch’i’s ga troves.11
Ai scorbi de meló no me d’un hora
     stava d’intoren, gné a daner vardava,
     pur che gust, e la gola al contentes,14
          si ch’n so honor su ques
     poc vers ho fag ist’hora à confusió
     d’sti preig avar ch’ha ma’ sno strengoió17

«Se dopo aver vissuto una buona vita l’uomo merita il Paradiso, costui c’è andato sicuramente; che dal ben vivere è sempre stato attratto e di ciò tutta questa terra ne parla. Lui si pasceva di capponi, quaglie, pernici e di altre cose che piacciono anche ai gatti. E il digiunare per lui non esisteva come mostrava nel suo ventre teso in fuori. Lui mangiare e basta: si levava di buon’ora e in macelleria e pescheria andava presto per avere i migliori bocconi che vi si trovassero. Non stava attorno alle buccie dei meloni meno di un’ora, né si preoccupava del denaro pur di accontentare il palato e la gola, sì che in suo onore ho fatto or ora questi pochi versi, a scorno di questi preti avari che non hanno mai altro se non il stranguglione [per il troppo mangiare]».

Altri testi vanno nella medesima direzione. Un sonetto curiosamente bipartito tra italiano e bergamasco, datato 1523, ci presenta la figura di un moderno ‘Casanova’. Singolare non è, a quest’epoca, la mescidanza linguistica (anche di più dialetti), ma la chirurgica partizione degli idiomi tra quartine e terzine, che s’accompagna a una nota che dice la coscienza del trapasso («Cambié Regist.»). Forma ed esordio del sonetto («Qui giace quel famoso Sperandio / che delle donne fu trastullo e gioco / havendo sempre d’amoroso foco / acceso il petto, e ardente il desio») dichiarano il registro comico, che le terzine confermano invitando le donne a piangere l’inarrivabile cantore e a intercedere presso il Creatore perché gli abbuoni almeno i peccati d’amore. Il modello, lontano ma limpido è Petrarca in morte di Cino («Piangete, donne, et con voi pianga Amore / piangete, amanti, per ciascun paese, / poi ch’è morto collui che in tutto intese / in farvi, mentre visse, al mondo honore», Rvf 92), sicché lo scarto comico appare anche più evidente:

Pianzi’, vo’ Doni dalla Quarentia
     per chi ’l fava quei su stambog e vers
     chi s’intendeva ixi poc, con gna miga,11
che s’a’ circhesef tutta Lombardia
     ne sef trovà chi ’f vegnis dre xi vers
     e chi dures per vo’ tata fatiga;14
          sì che no ’f grevi à diga
     quac pater nos, e pregà e ’l Creator
     chi ’c cassi almè i pecag fac per amor.17

Piangete, donne della Quarentia, per colui che faceva quei suoi strambotti e versi che si intendevano così poco o proprio per niente, che se cercaste [per] tutta Lombardia non sapreste trovare chi vi venisse dietro così da vicino e chi durasse per voi tanta fatica; sì che non vi dia fastidio dirgli qualche Paternoster, e pregare il Creatore che gli cancelli almeno i peccati fatti per amore.

Neppure il ritratto di Petrarca che apre la sezione bergamasca (sempre 1523) è esente dal gioco. Le sofferenze per la mancata «compasiò» della donna e «ol freg» patito dall’amante sono un perrfetto equivalente delle sofferenze riservate al Gian dalla Togna in una «Maitinada» bergamasca fatta conoscere dalla Corti («So ol Gian ch’a t’ho servida fidelmet / quat che no’m habbi briecha compassiò»: ‘sono il Gianni che ti ha servita fedelmente / quantunque tu non abbia per me una briciola di compassione’; «tu ‘m vi che so brinàt chilò dol fret»: ‘mi vedi che sono brinato qui dal freddo’).50 Il Bressani vi aggiunge il particolare realistico del ‘naso gocciolante’ per il freddo («al tep che ’l nas gota a la zet», v. 4), che smorza di fatto l’elogio e prelude all’abbandono dell’impresa sancito in chiusa di sonetto. Così, se l’omaggio si voleva garbato, l’effetto è invece di grottesca parodia, parte ideata e parte involontaria, rivestendo una materia tanto sublime di una veste linguistica così poco confacente:

Al fo sotrat chilò in sto mulimet
     quel chi fè per amor tag bei soneg
     e chi sentiva a meza stat ol freg
     el cold al tep che ’l nas gota a la zet,4
e chi da lonz brusava, e da redet
     ghiazava ol volt vedied, la gola, e ’l peg
     de quela xi stinada chi n’haveg
     ma compasió per fal impò contet.8
Hivi pensat d’ volil a mi lodà
     e faga con sti vers impo d’honor
     ma vec cha i è più tost da fa grignà,11
ixi cha voi lagà sta imprisa a clor
     chi se delecta sno pa[r]lar zentilo
     che quest lenguag non è così sutilo.14

Fu sotterrato proprio qui in questa tomba [lett. ‘monumento’] colui che per amore fece tanti bei sonetti e che sentiva a mezza estate il freddo, il caldo al tempo che il naso goccia alla gente, e che da lungi bruciava, e da vicino ghiacciava, vedendo il volto, la gola e il petto di quella tanto ostinata che non ebbe mai compassione di farlo un po’ felice. Avevo pensato di volerlo anch’io lodare e rendergli con questi versi un po’ di onore; ma vedo che [i miei versi] fanno piuttosto sorridere, così che voglio lasciare questa impresa a coloro che si dilettano soltanto [con il] parlar ‘gentile’ chè questo linguaggio non è così sottile.

Il tema dell’insufficienza del dialetto bergamasco a onorare o celebrare che appare in vari testi bressaniani (dal ritratto del poeta estemporaneo Ventura Marenzio alla perorazione contro le guerre tra cristiani indirizzata a Carlo V e Enrico II di Francia),51 si accompagna nel Bressani alla rivolta per l’ipoteca negativa e caricaturale, che pesa sul bergamasco fin dal secolo precedente ed è, a quest’altezza, ormai diffusa nella tradizione teatrale dove darà a breve gli Zanni o gli Arlecchini culmine della derisione e oggetti di parodia. Sarà allora antropologicamente interessante registrare la difesa che della ‘vera’ identità bergamasca propone il sonetto «Ad uno forastiero chiamato...»,52 dove la tesi (di sapore erasmiano: Sileni Alcibiadis) è che, se anche la parlata «dura e grossa» induce a pensare il contrario, i bergamaschi non sono privi di ingegno e intelletto («ch’a no’ m’˛e in tüt senza ’nzign e ’ntel˛et») e sotto la scorza di un duro eloquio nascondono il loro «buon spirito», come i carciofi e le castagne il sapore sotto gli aculei. A chi ritiene che la terra orobica non sia in grado di produrre una lirica all’altezza delle città più rinomate («che in dol nost Berghem no’ s’ sa fa u sonet / chi si’ zentil e bo e chi s’ pos[i] met / a parengo de quei di cittadì“»), il poeta propone di riporre la presunzione e di giudicare il prossimo con maggior cognizione di causa (vv. 12-17):

No’ vardà che ’l parlà sia dur e gros,
    to se be che i maró e i articioc
    d’det è savrit se be i è d’ fò spinos;
e spęs ü pover hom per avì ‘ndos
    trist vestimet firà tegnut bacióc
    ch’ha po bo spirt sot ai pagn roc ascós.
        Sì che prosuntuos
    a m’par chi vul iudici fà d’la zet
    se allo no’ i la cognós e d’ fo e d’det.

Non badare se il parlare sia duro e grosso, sai bene che i marroni e i carciofi sono saporiti dentro sebbene siano spinosi di fuori e spesso un pover’uomo per avere indosso tristi abiti sarà tenuto gonzo, che [invece] nasconde sotto i panni rotti uno spirito fine. Sicché tengo per presuntuoso chi vuol far giudizio della gente se non la conosce e di fuori e di dentro.

La tastiera del Bressani dialettale comporta però anche altri temi più compromessi col registro giocoso, a partire da questo «scherzo» cortigiano che affida una sua qualche memorabilità al catalogo ornitologico cui è confrontato il poeta di corte:

I olcei de gabia, zové cantarì,
com’ e gazi, merloc, lodi, stornei,
lisingnui, ocanei, dure, ravarì,
calandri, lugarì, e asé otr olcei,4
a cantà gra’ fac be no’ sentarì
a pasei snoma d’ pa, panic o mei;
ma s’a c’ de sucher, caren, mandol fis
a i canta ilhura ch’a l’è u paradis.8
        Quel che di olcei a s’ dis,
a s’ po dì di poeti e di cantor:
a tratai be ch’a i canta be aca lór.11

Gli uccelli di gabbia, cioé canterini, quali le gazze, merlotti, allodole, storni, usignoli, fanelli, tordi, cardellini, calandre, lucherini e quant’altri uccelletti, non li sentirete cantare gran fatto a pascerli solo di pane, panico o miglio; ma se gli date zucchero, carne, mandorle molte, allora cantano che pare un paradiso. Quel che si dice degli uccelli, si può dire dei poeti e dei cantori, che a trattarli bene cantano bene anche loro.

Un ‘sermone nuziale’ in forma di sonetto caudato ci conduce invece decisamente verso l’arte veneto-pavana dei ‘mariazi’ che dal testo archetipico del Vannozzo (LXXVIII, ed. Medin), attraverso gli esempi tardo quattrocenteschi editi dal Lovarini,53 raggiunge l’apice nella Betìa di Ruzzante, contemporanea ai testi del Bressani (1523). Basti qualche segnale: la designazione esordiale del pubblico come brigata (‘bragada’ nel berg. del Ruzzante) è tipica dei ‘mariazi’ dal Vannozzo alla Betìa (IV atto), come lo sono i momenti delle cerimonia ricordati dall’officiante (non necessariamente un religioso, in accordo con le disposizioni tridentine: nella Betìa l’officiante è un oste). Le motivazioni (bibliche) del matrimonio ai vv. 5-8 trovano un analogo in quelle spiegate all’innamorato Zilio nella Betìa II 101-104: «a’ s’inamoron, / per cressire e smultiplicare, / e per osservare / quel che dize la Leza e ‘l Giesò» (‘ci innamoriamo / per crescere e multiplicare, e per osservare quel che dice la legge e la Chiesa’);54 tipica è anche la lode degli sposi (anch’essa nella Betìa) o la richiesta del reciproco consenso, ai vv. 15-20 (già in Vannozzo, 177-180 e 194-197). Naturalmente, la struttura del ‘mariazo’ («l’uvra dol santo matrimoni», come nella Betìa III 354 «el mariazo è cossa benedeta») è semplificata e altri elementi mancano: l’elenco degli invitati o la baruffa tra famigliari e amici che spesso lo chiude. Ma essa riaffiora evidente nel duplice sottointeso (dello sposo e della sposa) che chiude il discorso e che ritroviamo per es. nella Betìa III 321-322: «Laga pur l’impazo a mi, / che a’ farè ben el me debito»(‘Lascia pur l’impaccio a me, / che farò bene il mio debito’) e III 496-497: «Aldi, no me l’insegnare / che el saverè ben an fare» (‘Senti, non me l’insegnare / che lo saprei ben anche fare’):55

Brigada, a sî ch’a m’è chilò reduc
    per fà l’uvra dol santo matramoni:
    coza da fà ’n prezetia d’ testamoni,
    no’ fò per i cantó ind’ è sno’ quatr uc.4
Al fo ordenat (com’ de savì squas tuc)
    per smorsà i tentatió chi dà ’l damoni
    e la caren insem a homegn e doni,
    e fà sensa pecàt di puti e puc.8
A so be ch’a diref segond l’usaza
    lodà d’ la spoza e spos i antecessor,
    e xi ac a lor, ma g ’hef tegnì ina pesa11
cha l’ha forbe ac d’ n’ incres a fà ina dasa
    a tai – a c’ n’ e – ch’a’ pesi ch’habij fresa,
    es è ac onest, da fa un oter lavor.14
        Orsù, in nom dol Segnor,
    digam: – Madona tala, a’ ’f pias ol tal
    per marit, da stà sic al be e al mal?17
        Ol partit de es ingual
    per l’u e per l’otr. E vo volif spozala
    e n’hif bona sperasa d’ contentala?20
        Mi voi istà livrala:
    ol rest fel mo inter vo, che De f’ mantegni:
    e ’l savrì fà senza ch’oltru v’insegni.56

Brigata, sapete che siamo qui adunati per far l’opera del santo matrimonio: cosa da fare in presenza di testimoni, non fuori per luoghi nascosti dove non ci sono che quattr’occhi. E fu ordinato (come dovete sapere quasi tutti) per spegnere le tentazioni che il demonio e la carne danno a uomini e donne insieme e per fare senza peccato bambine e bambini. So bene che dovrei secondo l’usanza lodare gli antecessori della sposa e dello sposo, e così anche loro, ma andrei per le lunghe (lett. ‘vi terrei in pensiero’), che forse anche il fare un giro di danza, vien a increscere a tali – e ce ne sono – che penso abbiano fretta, ed è pur onesto, di fare altro lavoro. Orsù, in nome del Signore, diciamo: ‘Madonna tale, vi piace il tale per marito, da star seco al bene e al male? Il partito (‘la soluzione’) dev’esser uguale per l’uno e per l’altro. E voi volete sposarla e avrete buona speranza di contentarla? Voglio troncare qui: il resto fatelo un po’ tra voi, che Dio vi mantenga sani: e lo saprete fare senza che altri v’insegni.

Ritratto altrettanto realistico e ‘al naturale’ è quello di Paitello, compulsivo ‘giocatore di sbaraglino’ (sorta di moderno ‘tric trac’), anzi vero moderno ‘ludopata’ che, come accade anche altrove,57 il Bressani ritrae tanto intento al gioco da dimenticare cibo e sonno. Ecco i primi undici versi:

L’e mort colu chi ’l terz dol tep spendiva
    in zugà as sbaraij, e sì sen piava
    tat piasì che asé vulti nol perava
    a dà luc, se be ’l locom ac furziva.4
Lu cold gné freg, fam gné sit sentiva
    e se be l’era veg semperma’ stava
    in pè zughed, e quand a nol butava
    bo, pog per lu, so pader malediva.8
O qati vulti hal cenat senza caren
    che habiedla i mà, zughed l’ora passava
    ixi che cus a tep no las podiva:11
[...]

È morto colui che un terzo del tempo passava a giocare a sbaraglino, e così si prendeva tanto piacere, che molte volte non si risolveva a smettere58 sebbene l’allocco già fuggiva (cioè ‘il giorno s’annunciava’). Lui non sentiva né caldo né freddo, né fame né sete e se anche era vecchio stava sempre in piedi giocando, e quando non buttava bene, peggio per lui!, malediva suo padre; oh quante volte ha cenato senza carne che avendola in mano, l’ora passava giocando così che cuocerla in tempo non la [si] poteva [. ].

Nella chiusa di un altro poemetto, questo stesso profondo realismo produce un confronto tra un vecchio e la giovane nuora riuscendo in una vivace lezione di vita che si colora di un «naturale» quasi ruzzantiano. La singolare verve del testo (fatta di battute e discorsi diretti tra gli interlocutori) annuncia il genere, a questa altezza ancora inconsueto, della ‘novella in versi’ di particolare successo proprio in Lombardia.

De una che conciò a un suo suocero le calze sopra i calcagni con la braghetta59
U suser be furnit d’ daner e d’agn
     a una so cara nura comandé,
     o veramet a s’ pò dì ch‘ la preghé
     cha la c’ conçes i colci sui calcagn.4
E le, dnag cha la meti ’l cul al scagn
     per fà ’l lavor, di pez a c’ domandé;
     e lu a c’ respos: – va ‘mpo sgaruga, e s’ ve
     s’to troves ma’ vergot fo per i pagn –.8
Le dis: – no’ ’l gh’e negota dol fag me –.
     Lu respond (perché d’ nuf comprà non vul):
     – fa com’ tu pu, tu’ da co met da pe.11
Le no’ dis oter, snoma: – sia con De –;
     e n’habied d’oter pagn gna più u pezul
     la taié fo di colz ol bragarul;14
          e po, a ma ’l gogiarul,
     cacé talmet che con quel a i pecé;
     e xi la concé ’l rot e ’l bò guasté.17
          Quand ol bo suser ve
     sto bel lavor, al dis: – to m’è ciapat;
     finamo a l’ho molt be meritat,20
          che sied stag al mond tat,
     a n’habij impris che ma’ no’ s’ voraf dà
     e zovni cozi d’ veg da manezà;23
          che se be a i mostra d’ fà
     vontera quag servisi, no’ l ga tira
     perzò la voia quand i rap a i mira;26
          e cre che quest è vira,
     ch’a i serviraf più tost a u quac matò
     per negot che a u veg ric per su dopiò.29
          Pu’ voi tu tut per bò.
     No’ ‘l m’artarà almé ta[ti] string comprà
     e s porò mo più facilmet pisà.32

Un suocero ben fornito di danari e di anni comandò a una sua cara nuora, o veramente si può dire la pregò, di rattoppargli le calze sui calcagni. Ed ella, ancor prima di mettere il culo sulla seggiola per fare il lavoro, gli chiese delle pezze. Rispose: – vai un po’ a frugare e vedi se trovi mai qualche cosa là tra i panni. Ella dice: – non c’è nulla per il fatto mio. Egli risponde (perché non vuole spese nuove): – fa come vuoi, togli da capo e metti da piede. Non dice [altro] ella se non – sia con Dio! E non avendo d’altro panno nemmen più un pezzuolo, stagliò la braghetta dei calzoni e poi, posto mano all’agoraio, lavorò per forma in modo che con quella rattoppò le calze; e così conciò il rotto e guastò il buono. Quando il buon suocero vede questo bel lavoro dice: – M’hai colto!; me lo son proprio ben meritato; che essendo stato al mondo molti anni non abbia imparato che mai non si vorrebbero dar da maneggiare ai giovani robe da vecchi, che sebbene mostrano di far volentieri qualche servizio, non hanno perciò la voglia pronta quando vedono le rughe dei vecchi; e credo che sia vero questo, che servirebbero piuttosto per niente qualche giovanottone che non un vecchio ricco per tutti i suoi dobloni. Pure voglio prendere il tutto per buono; almeno non bisognerà comperare tante stringhe. E adesso potrò più agevolmente pisciare.

Ma forse la misura più convincente del Bressani la si ritrova in una serie di brevi componimenti, nessuno dei quali passato a stampa e appartenenti a un genere che ci riporta ai lusus frequentati dall’umanista. Sono testi scherzosamente accompagnatori di un dono, quasi classici xenia, in cui il senso del «naturale» che abbiamo visto essere una delle cifre della sua poesia si allea a un piano morale trovando una certa grazia, come in questo baratto scherzoso di vino e formaggi inteso a disinnescare la minaccia di nuovi versi:

Ho xi fac cunt, che sto formagél val
tri bocai d’ vi dolz chi no’ si’ dasiat,
a quel ch’i l’ vend i ostér; e xi ho pensat
ch’al sarà iguala la cura coi al4
se vo accepté vontera sto matel,
e pie d’ vi dolz a m’ remandé ’l me osdel.
          … Vôi fà u retornel,7
per dì che s’a m’ starà su n’ sti barac
ch’a no’ specié di vers a trac per trac,
          che com’a so za stac10
no’ so xi spert, gné men ve xi talet
da fan, che u gra’ contrast a’ seti d’ det.12

Così ho fatto conto che questa caciola vale tre boccali di vin dolce non daziato, a quello che lo vendono gli osti; e per tanto ho pensato che si ragguaglierà la coda con le ali se voi accettate di buon grado questoformaggino e mi rimandate pieno di vin dolce il mio recipiente Voglio fare un ritornello, per dire che se staremo a tali baratti, non dovete attendervi di volta in volta versi; non sono più così esperto come già fui, né mi viene così talento di comporne, ché sento dentro me un gran contrasto.

O come questo invito, che accompagna un omaggio floreale, ad assecondare il momento ‘giusto’: quasi una rustica ‘occasio’ pervasa, in chiusa, da una sicura anfibologia erotica:

I cozi vul da faci com sazó,
     s’a i de vi gratia e ch’a i debi piazì;
     e quest per esperiesa s’ po vedì,
     che u valrà quac vulta più cha do.4
Chi vul be rgoi si fi la sommazó
     quand è ’l so tep, e xi chi vul insrì
     a fezul o busnel, com’a volì,
     al bezugna circà che ’l tep si’ bo.8
Gné più gné me u fiur tat che l’è bel
     vul sì godut dinac ch’al vegni pas
     e che col suc al perdi p’à l’odor.11
Per quest a v’ho mandat ol garofél,
     perch’al no’ ’l vegnis magher s’a l’è gras,
     e ch’al va fes vergogna in scus d’onor;14
          e che forbé color
     a chi ’l mandè no’ ’f tres po sto calmó,
     dighed: – no’ l’ha più viur gna ’l so patró.17

Le cose vogliono esser fatte alla stagione loro, se devono aver grazia e piacere; e questo si può vedere per esperienza, che qualche volta uno varrà più di due. Chi vuol fare buon raccolto semini a suo tempo, così chi vuol inserire o fagiuolo o pastinaca, o non so che altro, bisogna cerchi tempo favorevole. Né più né meno, un fiore vuol essere goduto mentre è bello, prima che appassisca e perda colla linfa anche il profumo. Perciò v’ho mandato un garofano, perché non diventasse stento se è florido, e perché [non] vi facesse vergogna in luogo d’onore; e magari quelli a cui lo mandai non vi tirassero poi questa frecciata, dicendo: – non ha più vigore neanche il suo padrone!

E il poeta bergamasco è infine capace di una efficace brevitas in questo distico, che richiama una misura viva nel suo Valerius Maximus e accompagna l’invio di un ‘mazzetto di asparagi’. Un testo e che di nuovo potrebbe essere uscito dalla penna di un umanista:

     Perché so che no’ nn’ hi vo ind ol vost brul
     A’ ’f mandi di nos spares sto masül.

Perché so che non ne avete voi nel vostro brolo, vi mando questo mazzetto di nostri asparagi.

____________

1 Mina Gregori, Ritratto di Giovanni Bressani, in Pietro Zampetti (a cura di), Pittori bergamaschi dal XIII al XIX secolo. Il Cinquecento III, Bergamo, Bolis, 1979, pp. 154-156 (scheda n. 100). Prudente al riguardo Federica Pich, secondo la quale «nel Ritratto di Giovanni Bressani non compaiono testi poetici leggibili» (in Ead., Modi e motivi dell’‘ut pictura poesis’ nel “Ritratto di Giovanni Bressani” (1562) di Giovan Battista Moroni, «SigMA. Rivista di letterature comparate, Teatro e Arti dello Spettacolo», I, (2017), pp. 393-425: p. 417). Un riferimento al poemetto, tutt’altro che «noto» (e non identificabile nel quadro), è in Donato Calvi, Scena degli scrittori bergamaschi, Bergamo, 1664, p. 201 che lo cita come «Racconto in ottava rima de vano timore, et fuga de Loverino”. Girolamo Tiraboschi aggiunge che si tratta di un «poemetto bernesco» e si conserva in un codice posseduto dai discendenti del poeta, che contiene anche le quattro Novelle.

2 Rimasto ms. a Bergamo, Biblioteca Angelo Mai: ms. MA 145 (già ,w.II.41), c. 69r.

3 Ioannis Bressani Bergomensis Tumuli, tum latina, tum ethrusca, tum bergomea lingua compositi & temporis ordine collocati, Brixiae, Apud haeredes Damiani Turlini, MDLXXIIII (125 latini, 78 volgari e 25 in bergamasco). Alla Bibliotca «Angelo Mai» di Bergamo, esiste un codice dei Tumuli siglato MA 17 (già Σ III.18) unitario per occasioni e destinatari ma linguisticamente mescidato a differenza della stampa che procede per sezioni linguistiche.

4 Il rinvio è al bel saggio di Giovanni Parenti, L’invenzione di un genere, iI “tumulus” pontaniano, in «Interpres» VII, 1987, pp. 125-158, cui non era sfuggito questo emulo bergamasco.

5 Nell’ ed. veneziana del 1561 i tumuli sono 47 (libro IV). L’ed. lionese del 1568 (V libro) ne aggiunge in fine altri tre, arrivando a 50 e tutti intitolati a destinatari pastorali.

6 I tumuli bressaniani per maestri e umanisti (Bembo, Rapicio, Prestinari, Erasmo) corrispondono a quelli di Pontano per Marullo, Tifernate, Pomponio Leto o Panormita; si sparpaglia nel Bressani la compatta sezione dei condottieri pontaniani (libro I) e in entrambi gli autori sono epitaffi per medici, musici e personaggi di più modesta estrazione, che in Pontano arrivavano a includere prostitutite e ubriaconi.

7 Secondo quanto ha notato G. Parenti, Poëta proteus alter. Forma e storia di tre libri di Pontano, Firenze, Olschki, 1985, pp. 7-80.

8 La parte in dialetto, alle pp. 83-105, è poi a sua volta bipartita da una giunta di «Alcune altre compositioni dell’Autore» (p. 92). L’edizione fu nel complesso portata a termine con un certa fretta (come dicono le défaillances nella paginazione), ma in essa si segnala la bizzarria di un indice onomastico singolarmente elaborato per un volume tutto sommato assai venale.

9 Dedicati al Bembo, il De origine orobiorum sive cenomanorum ... libri tres dello Zanchi (Venezia 1531) raccoglie e illustra, nel terzo libro, molte antiche lapidi e iscrizioni della città e del territorio bergamasco. Meno note le collezioni epigrafiche di Bernardo Bembo, su cui Marta Martis dalle Fratte, L’avventura del priapeo 82 Buech, dal Feliciano agli orti di Bernardo Bembo, in Agostino Contò e Leonardo Quaquarelli (a cura di), L’«Antiquario» Felice Feliciano veronese tra epigrafia antica, letteratura e arti del libro. Atti del Convegno di studi, Verona, 3-4 giugno 1993, Padova, Antenore, 1995, pp. 117-140. Sugli interessi epigrafici dei Bembo, sullo sfondo di un rapporto con l’“Antico” iniziato probabilmente a Roma nel giro di Pomponio Leto e dell’Accademia romana, si veda Massimo Danzi, Bembo, le vie e l’attualità dell’«Antico», in «Schede umanistiche», n. s. XIX, (2005), pp. 29-45.

10 Tumuli pontaniani prima «incisi sulle lapidi sepolcrali» ricorda G. Parenti, Poëta porteus alter, cit., p. 29 e sgg. Nel Bressani, sono in prosa i tumuli per Polidoro Bressani (p. 22) Bernardino Casali (p. 28) per il medico Fermo Fatigato, per Bonetto Bellinchetti o Giovanni Maria Morandi (pp. 32-33) o anche per Elena, moglie del pittore Bernardino Licinio (p. 38) e per quella di Bartolomeo Colleoni e altri.

11 Per Pietro Cleri, il Tum. Petri Cleri architecti insignis. 1549, a p. 42.

12 Tumuli, pp. 37 e 33.

13 Com’è quella intitolata alla gazza e all’avvoltoio: Pica sermonem humanum edocta, à Marturello perempta, & ab Accipitre comesa, conqueritur (Tumuli, cit., p. 29).

14 Sul genere degli Heröes, cfr. M. Danzi, Appunti sulla cultura del Bandello lirico: l’influenza dei modelli neolatini, in Ugo Rozzo (a cura di), Gli uomini, le città e i tempi di Matteo Bandello. II Convegno internazionale di studi Torino-Tortona,-Alessandria-Castelnuovo Scrivia 8-11 novembre 1984, Tortona, Litocoop, 1985, pp. 31-60: pp. 42-45.

15 Sul Rapicio, morto a Venezia nel 1553, tornerò fra poco. Al Prestinari rinviano un epitaffio volgare e uno latino. Che lo ricorda «Inter Pastores, ut scripsit Musa Maronis,/ qualis erat Daphnis, famae decusque gregis:/ talis Bergomeos inter fuit iste poetas /...» (Tumuli, p. 16, vv. 1-3). Sul poeta, è fondamentale Giorgio Dilemmi, Le rime di Guidotto Prestinari in Id., Dalle Corti al Bembo, Bologna, CLUEB, 2000, pp. 99-170, che basandosi sul ms. di Bergamo, Biblioteca Civica «Angelo Mai» MA 17 (già S III 18) ricorda «sei componimenti dedicati a Guidotto (...) ugualmente distribuiti nell’alternanza delle due lingue, latina e volgare» (p. 141, nota 51). Dal manoscritto alla stampa, il numero degli epitaffi che gli sono dedicati si riduce dunque considerevolmente: quello in volgare si legge a p. 59.

16 Valerius Maximus in disticha redactus, Brescia, Eredi Turlini, 1574. Non identificabile nello Stoa, l’amico Quinzano ritratto in un tumulo bergamasco (p. 90). All’identificazione si oppongono la data di morte e l’assenza di qualsiasi accenno alla sua fluviale produzione latina.

17 Gianfranco Contini, Reliquie volgari della scuola bergamasca dell’Umanesimo [1934], ora in Giancarlo Breschi (a cura di), Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica (1932-1989), Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2007, 2 voll., II, p. 1214 e Claudio Ciociola, Attestazioni antiche del bergamasco letterario. Disegno bibliografico, in «Rivista di letteratura italiana», IV, 1 (1986), pp. 141-174: pp. 157-158.

18 In latino, Bergamo e Brescia s’uniscono, per esempio, nel pianto in morte di Elena Brembato Suardi («Unde urbes geminae maerent, hinc Bergomum et in / Brixia, in illa orta est namque; ad in ista obijt»: Tum. Egregiae mulieris Helenes Brembatae & Suardae. 1551 in Tumuli, p. 46); in bergamasco, nell’avventura di tre bergamaschi in visita a Monsignor Polidoro da Brescia: «Ai fo tri da Berghem as partì / per andà a Bresa incotra a Bonsegnur» (Tumuli, cit., p. 100: ‘Ci furono tre di Bergamo a partire / per andare a Brescia incontro a Monsignore’).

19 Si veda il contributo di Luca D’Onghia in questo in questo volume e in particolare il ricco elenco di edizioni alla nota 39.

20 Sempre L. D’Onghia alla nota 39. Altri testi bergamaschi o alla bergamasca sono segnalati in L. D’Onghia, Frotola de tre vilani bergamasca (1527), in «Nuova Rivista di Letteratura italiana» VIII, 1-2 (2005), pp. 187-206. Per la Commedia del Redrizzato, Andrea Comboni, Una commedia trilingue della prima metà del Cinquecento, in Simone Albonico et al. (a cura di), Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Milano, Mondadori, 2005, pp. 135-149 (che pubblica «l’Apologia di Amore pronunciata dal Rustico davanti ai giudici») che ritorna sulla parte bergamasca della commedia in un contributo apparso su «Letteratura e dialetti», 1 (2008), vedi nota 31.

21 Ciro Caversazzi, Giovanni Bressani poeta e umanista, «Bergomum», XXX (1936), pp. 201-258: pp. 233; 235-237 (lo studioso lo trae dal ms. MA 17 dell’Angelo Mai di Bergamo).

22 Galeazzo dagli Orzi, La massera da bé, a cura di Giuseppe Tonna, Brescia, Grafo edizioni, 1978, p. 41 (che si riteneva edita nel 1554: ma sposta ora la data al 1565 Luca D’Onghia, in questo volume, p. 138, nota 26). Sulla lingua di questo testo, si veda Piera Tomasoni, Nota sulla lingua della Massera da bé, in Pietro Gibellini (a cura di), Folengo e dintorni, Brescia, Grafo edizioni, 1981, pp. 95-118, che è poi ritornata sul tema in Ead., Nuovi appunti sulla «Massera da bé», «Letteratura e dialetti», 3 (2010), pp. 83-96.

23 Cfr. Ivano Paccagnella, Il fasto delle lingue. Plurilinguismo letterario nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1984 che avverte come «uno spoglio del materiale bergamasco manoscritto o a stampa è tutto da fare» (p. 219 n. 9). Per l’epoca in questione nuove acquisizioni sono tuttavia intervenute e Luca D’Onghia, capovolgendo la tesi dell’inopia di questa letteratura dialettale nel contributo di questo volume, notifica, per il Cinquecento, «circa centotrenta stampe contenenti testi bergamaschi».

24 Già il Varchi, nella Orazione funebre sopra la morte del reverendissimo cardinal Bembo, Firenze, s.n.t., 1546, c. C1r richiama che «a tedeschi paresse (vivente Erasmo) d’havere come il nome e la gloria dell’Impero, così tolto di mano a gli huomini italiani la palma et l’eccellenza delle lettere; la qual credenza (se così era) quanto fosse lontana dal vero, et come agevolmente si potesse abbattere et mandar per terra, non è hora tempo di ricordare. Baste che quegli che ciò difendevano non haveano né più saldo scudo né muro più forte da opporre loro che la grandezza et autorità del nome del Bembo. Et non altramente che fecero già (secondo che si racconta) non so quali ambasciatori Fiorentini, i quali a tutto quello che veniva lor detto dagli Avversari per mostrar ben grande et spaventosa la lor potenza non rispondevano altro se non “et noi havemo Pisa” così, né più né meno, quegli che stavano allora dalla parte d’Italia, a tutto quello che si allegava in pro et favore de’ Germani rispondevano solamente “et noi havemo il Bembo”».

25 Gli epitaffi latini in Tumuli, pp. 35-37; quello con la Colonna, unita nell’anno della morte, recita De Bembo & Victoria Marchionissima Piscariae eodem fere tempore defunctis; quelli in volgare e in bergamasco alle pp. 72 e 87. Il capitolo in bergamasco, intitolato, «Vers su la mort del Bembo cardenal che più de sententij che de paroi val», è alle pp. 90-91.

26 Nella prima metà del secolo, testi grammaticali di Erasmo come il De duplici copia verborum ac rerum e il De conscribendis epistolis erano per esempio diffusi presso umanisti e maestri bergamaschi attivi in città, come Bono de Mauris e Michele Manili, senza che in generale se ne sposassero le idee religose (ma il Manili, d’origine bresciana, benché processato due volte (e assolto) dalI’Inquisizione non pare estraneo a frequentazioni eterodosse e a possibili influenze erasmiane): cfr. Rodolfo Vittori, Le biblioteche di due maestri bergamaschi del Cinquecento, in «Bergomum», XCVI, 2001, n. 1-2, pp. 23-55.

27 Si pensa a Orazio, Carm. IV 8 e 9 e Petrarca di Rvf 186 e 187 (per limitarsi al poeta volgare).

28 «Ruzzante m’è riuscito un Platone: ma mettiamo che fosse stato un villano proprio, che avesse favellato nella sua lingua (ma egli fu un Tullio); l’avrei lodato similmente per questa professione». Il brano è ricordato ad altro fine in G. Contini, La poesia rusticale come caso di bilinguismo in La poesia rusticana nel Rinascimento. Atti del Convegno sul tema (Roma, 101-3 ottobre 1968), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1969, pp. 43-55 (ora in Id. Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), Torino, Einaudi, 1988, p. 6), che sottolinea nel Doni l’«interpretazione “filosofica” di Ruzzante, saggio (Platone) e stilista (Cicerone) egregio sotto veste di villano» suppondendo «una qualche proiezione biografica mediata dalla comune identità di programma». D’altra parte, Bressani lo rieccheggia nell’epitaffio in morte del padre, Tumuli, p. 54.

29 Secondo teorizza la Collatio laureationis X 11, da cui si cita.

30 Di «amor de sistess» è cenno nel sonetto, rimasto manoscritto, «A chi fa vers in Berghem a l’è xi» (lo si legge in C. Caversazzi, Giovanni Bressani poeta e umanista, cit., pp. 242-243). Classico-umanistico il tema della polemica «in obtrectatores», contro i quali il bergamasco leva vere e proprie minaccie di rappresaglia.

31 Non ne è traccia nell’informato studio di Luigi Boldrini, Della vita e degli scritti di messer Giovita Rapicio, Verona, Tip. Annichini, 1903, che pure dà ampio spazio agli scritti oratorî e pedagogici del Rapicio.

32 Ecco i versi che contano dell’epitaffio Doctissimi viri, Iovitae Rapicij Tumulus (Tumuli, p. 48, vv. 7-12):

Deberent Veneta urbs, Vicentia, Brixia, honorem
praestare eximium, Bergomea et patria,
empore ubi multo docuit cum laude bonisque
Excoluit pulcros moribus, et iuvenes:
Namque probos fieri cives Plato in urbibus illis
Inquit, ubi pueros recte alere est studium.

33 G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana..., Venezia, s.n.t., 1796, t. VII, p. 1474. Il v. 10, «Excoluit pulcros moribus, et iuvenes», pare alludere al trattato sull’istituzione dei fanciulli da lui edito a Venezia nel 1551.

34 Paolo Ramusio fu a sua volta umanista (sua l’edizione giuntina dell’Opera del Fracastoro: 1555). Testimonianza della raccolta in morte dà lo stesso Bressani nell’epitaffio In commendatione del S. Paolo Ramusio autore & collettore delli Epitaphij sopra lo Ecc. Iovita Rapicio composti 1553 (Tumuli, p. 78). La raccolta, diversa dall’Oratio in funere composta e letta dallo stesso Paolo a Venezia nel 1561, resta irreperibile.

35 Se pur non mancano, nei manoscritti, prove di testi «alla bergamasca» o poemetti in cui si confrontano idiomi diversi (bergamasco, bresciano, veneziano o anche volgare e latino).

36 Benedetto Croce, La letteratura dialettale riflessa. La sua origine nel Seicento e il suo uicio storico, poi in Id., Uomini e cose della vecchia Italia. Serie prima. Bari, Laterza, 1927 [il saggio era apparso nel 1926] e G. Contini, La poesia rusticale come caso di bilinguismo, pp. 5-21. Per la «funzione Gadda» il rinvio è al Saggio introduttivo di Contini premesso alla princeps (einaudiana) della Cognizione del dolore (1963).

37 «Si può dunque tracciare non una storia della poesia bergamasca, ma solo una storia della cultura bergamasca»: G. Contini, Reliquie volgari della scuola bergamasca dell’Umanesimo [1934] ora in Id., Frammenti di filologia romanza, cit., II, p. 1214.

38 Per i secoli antichi, il quadro più completo è in C. Ciociola, Attestazioni antiche del bergamasco letterario, cit. Varie le acquisizioni notificate sulle pagine degli Studi di filologia italiana: basti ricordare quelle di C. Ciociola (1979), di P. Tommasoni (1984), di Silvia Buzzetti Gallarati (1985) o di Luciana Borghi Cedrini (1987). Sui testi bergamaschi del tardo Quattrocento e primo Cinquecenteschi, è fondamentale il volume di I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., e i vari studi di L. D’Onghia che si sono ricordati.

39 Il quadro su questa letteratura primocinquecentesca in versi è fatto da I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., pp. 179-231: pp. 219-220 è un primo censimento dei testi poetici in dialetto (ma si veda ora il censimento di L. D’Onghia, in questo volume, alla nota 39). Per i travestimenti bergamaschi si veda in particolare L. D’Onghia, Due paragrafi sulla prima fortuna dialettale del Furioso, in Lina Bolzoni, Serena Pezzini e Giovanna Rizzarelli (a cura di), «Tra mille carte vive ancora». Ricezione del “Furioso” tra immagini e parole, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2010, pp. 281-298 e Federico Baricci, Un travestimento bergamasco dell’Orlandino di Pietro Aretino, «Rinascimento», LIII (2013), pp. 179-249 e Id., Ol prim cant de Orlandì. Un nuovo testimone del travestimento bergamasco dell’Orlandino di Pietro Aretino, «Studi di filologia italiana» LXXVI, (2018), pp. 421-431. Per gli inserti bergamaschi nella commedia, ricordo qui solo il caso del Ruzzante studiato da I. Paccagnella, «Insir fuora de la so buona lengua». Il bergamasco di Ruzzante, in «Filologia veneta» I (1988), pp. 107-212 e (con il Calmo della Spagnolas e della Fiorina) da L. D’Onghia, nell’introduzione a Ruzzante, Moschetta, edizione critica e commento a cura di L. D’Onghia, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 28-39. Dello stesso studioso, anche Pluridialettalità e parodia. Sulla «Pozione» di Andrea Calmo e sulla fortuna comica del bergamasco, «Lingua e stile» 1 (2009), pp. 3-40: pp. 18-21 e il contributo di questo volume.

40 I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., p. 219 e L. D’Onghia con «le più di 130 edizioni in versi in bergamasco» nel contribuito di questo volume, alla nota 39.

41 «tat più che refert m’ha cert me amis / che nesochì de mi parla ’ntrevers, / dighed che com sto scrif a’ fo vergogna / a Berghem, e per quest dre i me tacogna. / Mi gh’ho respos che i daghi a Bonsegnor / e al Cavaler d’Albà sta imputatiò / che l’ü e l’otr in quest a’ m’ dà favor/e s’ loda fis sti me compositiò» (‘tanto più che certi miei amici m’hanno rapportato [che] non so chi di me va sparlando dicendo che con questo mio scrivere [in dialetto] faccio vergogna a Bergamo, e per ciò mi bofonchiano dietro. Io ho risposto che imputino ciò a Monsignor [Lippomano] e al Cavalier d’Albano che l’uno e l’altro mi favoriscono e lodano assai le mie composizioni’): cfr. C. Caversazzi, Giovanni Bressani poeta e umanista, cit., pp. 210-211. Il tema degli «obtrectatores» è del resto frequente nel poeta dialettale, parallelo alla robusta rivendicazione dei suoi meriti in questo campo.

42 Così l’explicit del capitolo per il cardinal Bembo (Tumuli, p. 88, v. 43). Il giudizio, che spiega l’attrattiva del bergamasco in ambito comico, riprende l’esemplificazione che Dante ne faceva attraverso un testo «in improperium», cioè (così tutte le traduzioni) ‘di scherno’.

43 Mario Cantella, Aspetti della letteratura dialettale di Giovanni Bressano, in «Archivio storico Bergamasco», a. VI, 10 (1986), pp. 53-67: p. 58.

44 Massimo Firpo, Vittore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della Chiesa e inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Bari, Laterza, 2006. E Id., L’eresia del vescovo: il governo pastorale di Vittore Soranzo a Bergamo (1544-50), in La Réforme en France et en Italie. Contacts, comparaisons et contrastes. Études réunis par Philippe Bénédict, Silvana Seidel Menchi, Alain Tallon, Rome, Publications de l’École française de Rome, 2007, pp. 161-181. Resta ipotesi del Vaerini che il ms. dei Tumuli allora in possesso dei discendenti (oggi MA 17) recasse, oltre che la dedica al card. Ippolito II d’Este (che effettivamente contiene: «Da Bergamo alli XX di Dicembre MDL», c. 2r) anche una dedica a Vittore Soranzo del 7 settembre 1551, proprio il periodo dell’arresto, abiura e condanna del vescovo veneziano (Gli scrittori bergamaschi..., Bergamo, Stamp. di Vincenzo Antoine, 1788, p. 270). L’ipotesi è possibile, e la dedica certo rivolta a un religioso («riverentemente le bascio la sacrata mano»), ma essa non reca il nome del dedicatario.

45 M. Firpo, Artisti, gioiellieri, eretici, Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Contro-riforma, Bari, Laterza, 2001. Ma si veda, fin dal 1983, e pur con molte riserve sulla traducibilità di quelle idee e culture nella pittura del maestro veneziano, Augusto Gentili, Per Lorenzo Lotto e i suoi contesti storici: due episodi ri-documentati, tra polemica e progetto, in «Artibus et Historiae», vol. 4, n. 8 (1983), pp. 77-93: p. 92: «è impossibile dubitare di compromissioni personali del pittore, negli anni ’30 e ’40, fra Venezia e Treviso, con idee e situazioni eterodosse, che restano per altro da definire con la necessaria chiarezza».

46 Quella del giurista Ludovico Terzi, che alla sua morte (1579) lascia la biblioteca al figlio ricca di un centinaio di opere sospette o già all’indice, tra le quali ben 73 testi di Erasmo: cfr. Rodolfo Vittori, Libri in conflitto. Eterodossia e circolazione libraria nella società bergamasca del XVI s., in Giulio Orazio Bravi (a cura di), Il dissenso religioso a Bergamo nel Cinquecento, Bergamo, Centro studi e ricerche Archivio Bergamasco, 2018, pp. 55-124.

47 Silvana Seidel Menchi, Alcuni atteggiamenti della cultura italiana di fronte a Erasmo, in Albano Biondi (a cura di), Eresia e Riforma nell’Italia del Cinquecento, Firenze-Chicago, Sansoni, 1974, pp. 75-76 (e ora Ead., Erasmo in Italia 1520-1580, Torino, Bollati Boringhieri, 1987). Di Augustine Renaudet, il classico Erasme et l’Italie [1953], nella nuova edizione corretta, contenente la prefazione di Seidel Menchi, Genève, Droz, 1998, per il quale gli umanisti italiani «ne voulaient honorer en Erasme que le plus éminent des lettrés: tout ce que son oeuvre pouvait contenir de pensée religieuse, agissante et grave, leur échappait».

48 Tale quello del carme intitolato Poetas debere suas lucubrationes edere et pravos hominum mores carminibus prodere, edito da C. Caversazzi, Giovanni Bressani poeta e umanista, cit., pp. 240-241.

49 Correggiamo nel testo m’agna in magnà a 9 e avvertiamo che, per i testi rimasti manoscritti, il rinvio è all’eccellente edizione di C. Caversazzi che non abbiamo potuto ricontrollare sugli originali e i cui criteri di trascrizione sono in parte diversi dai nostri (c palatale in luogo di g nella stampa, dieresi ad indicare le turbate, ecc.).

50 Lo strambotto si legge, con l’intera ‘Mattinata’, in G. dagli Orzi, La massera da bé, cit., p. 265. Il tema dell’amante al freddo è tipico delle Mattinate: cfr. Mattinada dor Zavargna a la Rosetta, in Rabisch, ed. Isella, Torino, 1993, II 40, 37-38: «Deh abem piglietà, deh ra mia tosa, / no veghet che stò qui a crepò de freg» (‘Deh, abbi pietà di me, deh figliola mia, non vedi che sto qui a crepare dal freddo’).

51 Nel ritratto del Marenzio (da cui estrarremo questi versi felici: «Lu fava di soneg, e gros, e stij / Lu sciva mog, proverbi es beschizava / Con paroi da perai, coi dig di dog»: ‘Lui faceva dei sonetti grossi e sottili / lui conosceva motti, proverbi e bisticciava / con parole da appaiare coi detti dei dotti’ questo brano) si veda l’esordio: «Si be cognosci che sto nost parlà / bergamasc nos convé a lodà la zet / gné da fa piaz, perque chi el lez o set / al ga fa più tost gni voia d’ grignà» (‘se ben vedo che questo nostro parlare bergamasco non [si] conviene a lodare la gente né a far piangere, perché a chi lo legge o sente gli fa venir voglia piuttosto di ghignare’). Un analogo è nell’esordio della perorazione della pax christiana ai due grandi, che ha accenti petrarchesco-erasmiani: «Se be mi no so bo de consei / maximamet in sto parlà xi gros“» ‘se ben io non sia buono di dar consigli / particolarmente in questo idioma così grossolano’).

52 Edito di sull’autografo in C. Caversazzi, Giovanni Bressani poeta e umanista, cit., pp. 231-232, il testo è anche nei Tumuli, p. 104.

53 Emilio Lovarini, Antichi testi di letteratura pavana, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1969 (ed. orig. 1894).

54 Ruzzante, Teatro, testo, traduzione a fronte e note a cura di Ludovico Zorzi, Torino, Einaudi, 1967: le citazioni che seguono sono dal terzo atto, alle pp. 241, 314 e 317.

55 Su questo genere, si veda da ultimo Paolo Lagorio, Per una struttura tematica del mariazo, «Strumenti critici» 47-48 (1982), pp. 64-106.

56 Edito in C. Caversazzi, Giovanni Bressani poeta e umanista, cit., p. 232.

57 La stessa dipendenza ha un altro giocatore di sbaraglino, l’amico Quinzano, nel son. Sopra un mio compagno, per nome finto chiamato Quinzano. 1550: si veda l’esordio a confronto coi vv. 2-4 del sonetto riportato sopra: «Sa nol fos ma per otr cha perqué [m’ha] / zugat tat agn insem a sbaraij, / l’è forza a fa sti vers sul Quinzà / pense cham sen toliva tat piasì / da mez ol dì u la sira e la domà / cha no perava a mangià gné durmi / am sa metì p’ ac a zugà a sbaraia» (‘se non fosse per altro che perché [abbiamo]/ giocato tanti anni insieme a sbaraglino, / è forza fare questi versi sul Quinzano: /pensate se noi ci prendevamo tanto piacere / da mezzo il giorno, la sera e il mattino / che non andava a mangiare né a dormire / ci mettevamo poi a giocare a sbaraglino’) o in quello per Marentio: «A tuc i zug zugava / es stava spes dla domà a la sira / a zugà, xi d’ caluf com gna d’ davora» (‘a tutti i giochi giocava e stava spesso dalla mattina alla sera a giocare, così in burla (Tiraboschi, Vocabolario, ad v. caluf: d’ caluf’ di scherzo’. Nei mariazi del Lovarini, Antichi testi..., pp. 118 e 119 «l’è da Calefo» e «credi che calefa») come per davvero (‘sul serio’).

58 dà lug in G. degli Orzi, La massera da bé, cit., 1418 ‘cessare’.

59 Il titolo è solo nel ms. MA 17 dell’Angelo Mai di Bergamo, edito in C. Caversazzi, Giovanni Bressani poeta e umanista, cit., pp. 233-234 (che al v. 3 permette di correggere l’erroneo «a s’ po di di» dei Tumuli).