Revue Italique

La poesia dialettale del Rinascimento nell’Italia del Nord

OJ-italique-695

Facchini in Parnaso. Noterelle sui testi “alla bergamasca” tra Quattro e Cinquecento

Luca D’Onghia

Oltre a Massimo Danzi, che mi ha dato l’occasione di mettere per iscritto queste note e le ha signorilmente accolte a dispetto della loro esorbitante lunghezza, ringrazio per il loro aiuto prezioso e per il loro stimolo Federico Baricci, Nello Bertoletti, Luca Burzelli, Ida Campeggiani, Andrea Canova, Mauro Canova, Edoardo Colombaro, Daniele Iozzia, Lucia Lazzerini, Daniele Musto, Enea Pezzini e Carlo Ziano. Un ringraziamento particolare spetta a Claudio Ciociola, che ha generosamente messo a mia disposizione non solo le sue impareggiabili competenze bergamasche, ma anche i risultati ancora inediti di una importante indagine dedicata ad alcuni dei testi richiamati in queste pagine. Avverto preliminarmente che nella trascrizione di manoscritti e cinquecentine mi attengo di fatto ai criteri fissati da Maria Corti, poi riutilizzati con ritocchi da Ciociola, Paccagnella e Baricci nei loro lavori (vedi da ultimo Federico Baricci, Un travestimento bergamasco dell’Orlandino di Pietro Aretino, «Rinascimento», s. II, LIII (2013), pp. 179-249, alle pp. 215-216). Per nessuno dei testi riprodotti ho confezionato un commento vero e proprio; mi sono limitato piuttosto a poche osservazioni su parole o costrutti bisognosi di riscontri o chiarimenti supplementari.

Le fortune letterarie del bergamasco coincidono in certa misura con quelle della celebre maschera di Zanni-Arlecchino, grazie alla quale l’idioma proverbialmente ispido dei facchini (o qualcosa che gli somiglia) dilaga dalle valli orobiche a Venezia, per conquistare poi l’industria tipografica, le piazze e i teatri di corte di mezza Europa: tanto che dal tardo Cinquecento in avanti i fasti comici della maschera (che non sempre, però, parla davvero bergamasco) saranno amministrati da étoiles come Tristano Martinelli (1557-1630) o Giuseppe Domenico Biancolelli (1637/38-1688).1

L’associazione tra dialetto bergamasco e figura del facchino non è però originaria, e prende quota a inizio Cinquecento, come dimostrano con i loro camei bergamaschi la Calandra di Bibbiena (1513), la prima Cortigiana di Aretino (1525), il Bilora di Ruzante (1530 circa) e soprattutto la Veniexiana (metà anni Trenta), che al facchino Bernardus affida una parte tutt’altro che marginale. Ma prima che il tipo del servitore-acrobata affamato e sessualmente intraprendente giungesse a cristallizzarsi in maschera, il bergamasco faceva in tempo a fiorire sulle labbra dei più diversi personaggi della brulicante società comica: medici (maestro Francesco nella Pastoral di Ruzante), soldati spacconi (Tonin nella Moschetta di Ruzante), negromanti (Simon nella Rodiana di Calmo), rustici (nella Comedia nova d’Amore di Redrizzati), pedanti (Archibio nel Travaglia di Calmo), frati (Martino nella Fante di Baroncini), parassiti (Garganio nella Pozione di Calmo).2

Non è però della storia teatrale, già ben studiata nel suo insieme, che parlerò qui; né mi soffermerò sul peculiare problema linguistico posto dalla riproduzione talvolta approssimativa di un dialetto per lo più orecchiato e pregiudizialmente tacciato di rozzezza.3 Nei paragrafi che seguiranno proverò invece a toccare alcuni punti rappresentativi di una galassia per certi versi ancora poco esplorata: quella dei testi in versi bergamaschi, o “alla bergamasca”, scritti con intenzione inequivocabilmente riflessa tra metà Quattrocento e fine Cinquecento, e affidati in molti casi alle “stampe popolari” o cheap print.4

1. La nostra vicenda inizia da un’importante antologia quattrocentesca della lirica volgare, il codice Ottelio 10 ora alla Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi” di Udine, vergato in buona parte dallo squisito calligrafo Felice Feliciano (1433-1479).5 Tra i numerosi poeti antologizzati nell’Ottelio un ruolo non secondario spetta a Giorgio Sommariva (1435 ca.-1502 ca.), letterato e alto burocrate veronese in rapporti di amicizia con Feliciano. Autore di un coriaceo “canzoniere” d’ispirazione grossomodo petrarchista, oltre che di un paio di volgarizzamenti, di vari libelli antisemiti e di una pletora di parafrasi storiche verseggiate, Sommariva coltiva in gioventù anche la poesia in dialetto; ed è proprio merito dell’Ottelio se conosciamo – con datazione precisa al biennio 1461-1462 – un suo mazzetto di diciassette sonetti in veronese rustico e di tre sonetti in bergamasco.6 Al pari degli altri, questi ultimi recano didascalie spesso minuziose, che saranno da addebitare all’autore. Ecco il primo sonetto:7

Soneto in bergamasco composto per Zorzo Summaripa de una lamentation che fece una mugier de Antonel calzarero habitador in Zevio al deto suo marito: come maistro Thomaso barbero havea facto uno assalto a Bertolina sua figliola maridada – 1462.

Maister Thomas, chiluoga issà barber,
     sì havia mandat per la Bertolinà,
     perché la fomna soa voliva anquà
     un por farina le fà’ burater.4
El lo sa bé chilò Bethì ol carner
     se l’è lu vir quel ch’e’ vo’ mi quintà’,
     perché el la oldiva a bochafo’ sbraià’
     quant el la vos basar, quel bel miser.8
E sì ’g volìa tochà’ la posna e ’l chiul,
     ed ach i suo’ tetó; ma incontanet
     la ’g pris a dì’: «Ohè, bastart e mul,11
al cor’ de Dè, tu ’m fe’ vegnì’ talet
     de dirl al me’ Zoanel, che non è un sul,
     ch’el t’ha fà’ col fachì fo’ de preset!».14
          Ma se ol ser Bonamet,
     arsinich del Comù, no fos lu stat,
     in fe’ che in Çevj el cò el ghe haraf smoegat.17
          I gh’ha pur tat baiat
     entol cervel ch’el ghe l’ha perdonada,
     e ol bó graciul col vì sì l’ha conzada.20
          finis

Mastro Tommaso, barbiere qui da noi, aveva mandato a chiamare la Bertolina, perché oggi sua moglie voleva farle setacciare un po’ di farina. Lo sa bene qui Bettino il macellaio se è vero quel che voglio raccontare, perché la sentiva strillare a squarciagola quando quel bel messere [Tommaso] provò a baciarla. E in più voleva toccarle la potta [lett. ‘posna’] e il culo, e anche le sue tettone; ma lei di colpo prese a dirgli: «Ohè, bastardo che non sei altro [lett. ‘bastardo e mulo’], per il corpo di Dio, mi fai venir voglia di riferirlo al mio Giovannello, che non è da solo, che ti farà fuori in quattro e quattr’otto [lett. ‘al presente’] col coltellaccio!». Ma se il signor Bonamente, che è sindaco [lett. ‘arsenico’] del Comune, non ci si fosse messo in mezzo [lett. ‘non fosse stato lui’], in fede [credo] che a Zevio gli avrebbe spaccato la testa. Ma gli [a Giovannello] hanno tanto parlato e riparlato [let. ‘abbaiato nel cervello’] che alla fine gliel’ha perdonata, e quel bel tomo l’ha sistemata con il vino.

Il testo è tra i più antichi che provino un impiego riflesso del bergamasco, e in tal senso andrà notato che la riproduzione del dialetto è piuttosto accurata ma non naturalistica, date forme grammaticalmente abnorm garantite dalla rima – come Bertolinà (v. 2, accentato dallo stesso Feliciano), o l’infinito burater (v. 4) in luogo del buratà’ che ci si aspetterebbe.8 Con atteggiamento antimimetico, il dialetto è adoperato per mettere in scena non Bergamo o il suo territorio, bensì la campagna veronese (nei pressi di Zevio) che fa da sfondo alla salace vicenda di paese; il suo impiego inoltre non è ancora associato a facchini o servi, bensì ad alcuni piccoli artigiani: a parlare è la moglie del calzolaio Antonello, che chiama a testimone il macellaio Bettino per lamentarsi delle pesanti avances subite dalla figlia Bartolina a opera del barbiere Tommaso. Il secondo sonetto, che fa coppia con il primo, reca la «risposta que fece Antonel suo marito pur in bergamasco» (così la didascalia); mentre il terzo ha come protagonista «un Martin vacharo abitadoro in villa de l’Àlbaro che presentò una lettera a suo [del Sommariva] padre tunc temporis vichario de Zevio» (ancora la didascalia).

L’ultimo frammento di didascalia rievoca un’importante circostanza esterna: tra il 1461 e il 1462 il padre del Sommariva è nominato vicario di Zevio; il figlio lo segue in campagna e scrive una serie di venti quadretti spesso derisori, e talvolta osceni che mettono alla berlina i contadini, sottoposti agli arbitri crudeli dei signori e osservati nei loro ferini amorazzi con sguardo quasi entomologico. La serie è tanto più interessante perché il primo sonetto si presenta come proemio all’intera opereta, donata al cognato Giovanni Frisoni affinché impari «el bel rengare / [...] d’i boari ch’è agugiè / dal putel orbo che va sempro mè / nuo con gi aluoti e sa sì ben sitare» (‘il bel linguaggio dei bovari che sono trafitti dal bambino orbo che si aggira sempre nudo con gli alotti e sa colpire così bene con l’arco’, vv. 1-4).

Nessun intento realistico e nessuna empatia stanno dunque alla base di questo precoce e notevolissimo esperimento bidialettale, programmaticamente segnato da una forte vocazione metalinguistica (la corona si presenta nientemeno che come un anti-manuale di conversazione): qui il bergamasco gioca, ancor più del veronese rustico, il ruolo di lingua radicalmente ‘altra’ e per certi versi persino artificiale.9

2. Le bellezze di Bartolina concupite dal barbiere Tommaso – e prosaicamente enumerate da sua madre: posna, chiul, tetó – possono mettere sulla strada per fare qualche considerazione su un altro importante segmento della produzione “alla facchinesca”, quello degli strambotti e dei sonetti a tema amoroso. A occuparsi per prima del tema è stata Maria Corti, che in un importante contributo del 1974 ha pubblicato e studiato la mattinata bergamasca tramandata dal manoscritto Capponiano 193 della Biblioteca Vaticana, assemblato per mano di Nicolò Bozano da Voltri entro il 1504.10

Rispetto a quanto accade negli esperimenti di Sommariva, l’impiego del bergamasco appare qui già stabilmente connesso a un genere definito e a una precisa serie di situazioni e temi (non per nulla la Corti discorre di «codificazione rusticale»): il canto tocca di volta in volta la descrizione delle grazie della donna vagheggiata (spesso equiparate a cibarie), il lamento per la sua crudeltà (e la conseguente minaccia di suicidio da parte del corteggiatore), l’insistenza sulle sofferenze che fanno strazio delle carni dell’innamorato, e non ultime le profferte erotiche più sboccate (spesso messe avanti sotto il velame di tenui metafore agricole).

Se anche accettiamo l’ipotesi della Corti che l’autore della mattinata sia originario di Bergamo (ma non ne abbiamo le prove), andrà in ogni caso messo agli atti che l’allestimento del codice Capponiano non compete a un lombardo ma a un genovese, il quale copia i pezzi orobici insieme a molti altri testi di vario livello (incluso un capolavoro come l’Arcadia): anche questa volta il bergamasco sembra dunque percepito come lingua riflessa e letteraria a pieno titolo (ne è prova l’etichetta «a la bergamasca» nell’intestazione degli strambotti, imputata però dalla Corti al copista).11 In linea generale, testi come questi parodizzano le situazioni rarefatte dell’amore petrarchista, sfruttando immagini e topoi della tradizione nenciale e popolareggiante, cui l’opzione linguistica conferisce un sapore rude e ridicolo. Fin dal Quattrocento il bergamasco simboleggia infatti l’idioma incomprensibile e rozzo per eccellenza, come tale contrapposto da una lunga tradizione di folk-linguistics alle raffinatezze del fiorentino prima e dell’italiano poi;12 se ne può concludere che il valore o meglio disvalore linguistico basta da solo a dare sapore parodico a testi come questi.13

Diamo ora un’occhiata all’ultimo degli strambotti del Capponiano:14

Do, Suanina, voiet humilià’?
Se non che desperat e’ vo’ morì’!
Tu pores bé scorì’ el mot col plà,
tu no es trovà’ un xì gentil fachî.4
Oh Dè, che ’m caz ol budel e la corà’
a cantà’ i me’ strambog chol chitarì,
che quand e’ veg el vis e’ ’m tegn xì bó
ch’el me vé dur el nerf com un bastó.8

E allora, Giovannina, vuoi ammansirti? Altrimenti io voglio morire disperato! Tu potresti ben perlustrare [scorrere] il monte e il piano, ma non troverai un facchino così gentile [come me]. Oh Dio, che io butto fuori le budella e le viscere a cantare i miei strambotti sul chitarrino, perché quando vedo il [tuo] viso mi sento [lett. ‘mi ritengo’] così bene che il nervo mi viene duro come un bastone.

La donna altera non si concede, tanto che il corteggiatore vagheggia il suicidio, pur non tralasciando di vantare per l’ultima volta la propria ineguagliabile gentilezza (v. 4); dopo il protocollare «sciorinamento di frattaglie»15 del v. 5 e il cenno all’esecuzione materiale della serenata a suon di chitarrino (v. 6), il distico finale contrappone la visione rasserenante del volto dell’amata alle sue conseguenze fisiche sul menestrello, che allude senza cerimonie alla propria poderosa erezione.

Se per gli strambotti pubblicati dalla Corti ci atteniamo a una collocazione verso la fine del Quattrocento, va precisato che almeno vent’anni prima alcuni dei temi e delle movenze coagulatisi nella mattinata del Capponiano apparivano già nel notevole sonetto I’ sum inamorà de vu si fis (‘Sono innamorato di voi così tanto’), copiato sia nell’Ottelio 10, ma da mano diversa da quella di Feliciano, sia nel Vaticano Latino 4830, dov’è inverosimilmente attribuito a Francesco Accolti.16 Del testo, pubblicato nel 1955 da Michele Messina, mi limito a trascrivere la seconda quartina secondo la lezione del testimone udinese:17

Vostra stadura inamorà’ me fis:
quant ve vid chol veter sul balchó,
em fu avis ch’un grà pilot d’archó
el cor d’otra part tutt me trafis.

La vostra corporatura mi fece innamorare: quando vi vidi con la pancia sul balcone, mi sembrò che una gran freccia sparata da un grosso arco mi trapassasse tutto il cuore dall’altra parte [cioè da una parte all’altra].18

La situazione è quella topica della serenata: la donna si manifesta al balcone, e dal basso il corteggiatore vagheggia il suo veter (controparte eufemistica della posna di Sommariva), avvertendo seduta stante le trafitture dei dardi d’Amore.19

Ma torniamo alla corona di strambotti del Capponiano, che merita una sosta ulteriore non foss’altro perché una sua seconda copia non messa a frutto dalla Corti si trova nel manoscritto Marciano Italiano XI 66 (=6730), testimone capitale della letteratura plurilingue orbitante attorno a Venezia nel primo trentennio del Cinquecento. Esemplato con ogni probabilità almeno venticinque anni dopo il Capponiano, il Marciano è noto agli studiosi per essere il più importante latore di parecchie opere di Ruzante; e appunto dopo i fascicoli ruzantiani si addensa una serie di pezzi dialettali quasi sempre anonimi che documentano con grande varietà e, si direbbe, piena consapevolezza progettuale l’interesse dell’establishment veneto per la letteratura pavana e bergamasca dei decenni precedenti.20 È dunque del massimo interesse la circostanza che alle carte 238v-239r di questo importante manoscritto tornino i sette strambotti del Capponiano pubblicati dalla Corti, accompagnati però da due “fratelli” a tutt’oggi inediti i cui incipit suonano rispettivamente Sef domandas madona cet ducach (‘Se, signora, vi chiedessi cento ducati’) e Em so stentat Tognola es no mel chri (‘Mi sono dato una gran pena, Tognola, e tu non mi credi’).21

Per quest’ultimo testo sono in grado di indicare un nuovo testimone nel manoscritto 5.3.25 della Biblioteca Capitular y Colombina di Siviglia, anteriore sia al Marciano sia al Capponiano (circostanza da cui sembra di poter inferire che lo strambotto non vada aggregato alla mattinata del Capponiano).22 Ecco il pezzo, che riproduco come lo legge il codice di Siviglia:

Em só stentat, Tognola, es no me ’l cri’,
quest Carneval per fà’-t la maitinada:
s’tu non me aidi, e’ zuri al cor’ de Dì
che cun la folza em passi la corrada.4
Quat serò mort tu ’t voi po’ bé pentì’,
ma quest n’è mig lui at da inamorada!
Vié zò, vié zò, e no ’m fà’ plù stentà’:
mena zò el veter, che t’ l’ho fosbé tochà’.8

Mi sono dato una gran pena, Tognola – e tu non mi credi – per farti la serenata durante questo Carnevale: se tu non mi aiuti, giuro per il corpo di Dio che con la falce mi trapasso le viscere. Quando sarò morto tu vuoi poi ben pentirti, ma questo non è mica il modo [lett. ‘atto’] di comportarsi proprio di un’innamorata! Vieni giù, vieni giù, e non mi far più soffrire: porta giù il ventre, che forse te lo toccherò.23

Nel testo (ed è questa un’altra prova della sua indipendenza) in luogo della Suanina ‘Giovannina’ cantata negli strambotti cortiani s’incontra una Tognola – di Togne, Antonie e Tognole abbonderà tutta la produzione rusticale padana fino al tardo Cinquecento24la quale riceve le attenzioni dell’innamorato nel tempo festivo del Carnevale e nei modi tradizionali della maitinada: fanno da cornice le solite minacce autolesionistiche (la folza che trapassa la corrada) e le profferte sessuali più esplicite (la donna, che sta al balcone o chiusa in casa, è invitata a scendere in strada «vié zò» e a farsi toccare il ventre).

Il genere prospera per tutto il Cinquecento: oltre a una notevole e forse ancora quattrocentesca corona di cinque Sonetti alla bergamasca gentilissimi,25 mi limito a rammentare la mattinata bergamasca che si legge in calce a un importante testo bresciano, la Massera da bé di Galeazzo dagli Orzi (la cui più antica edizione datata risale al 1565).26 La stampa della Massera ha come piatto forte un lungo discorso in forma di frottola, scritto in bresciano, quasi tutto pronunciato dall’intraprendente Flor, che viene dal vicino paese di Collebeato e desidera farsi assumere come donna di casa da una signora di città. Pare notevole che, spentasi la tiritera autopromozionale di Flor, basti la prossimità linguistica (bresciano e bergamasco sono fin dal Medioevo varietà “gemelle”) a giustificare la presenza della successiva Maitinada, idest strambog, che fa el Gian alla Togna, che per forme e armoniche espressive è testo del tutto diverso.27 Non è implausibile che la Maitinada, probabilmente di altra mano, godesse di autonoma circolazione, e che sia stata cucita alla Massera solo per non lasciare in bianco l’ultima carta e mezzo della stampa, con fenomenologia che somiglia almeno di lontano a quella delle tracce medievali studiate da Armando Petrucci e Alfredo Stussi.28

Ecco il secondo strambotto della serie:29

Quat a’ ’f sguaiti, Madonna, quel bel mus –
ch’a’ gh’ì cazat ol cò fo dol balcó –
l’è xì luset, codsela, ch’a’ ’l sberlus
da la zelosia fina sul cantó.4
A’ ’l vé tamagn splendor fo per quei bus,
che manda quel vos pet cum quei tetó,
ch’a’ i m’ha pasat ol cur co li rais,
ch’a’ ’l par ch’a’ seghi in gloria in paradis.8

Quando vi guardo, Madonna, quel bel muso – dato che avete messo [lett. ‘cacciato’] la testa fuori dal balcone – esso è così lucente, canchero, che brilla attraverso la gelosia [della finestra] fin sull’angolo [della strada]. Promana fuori attraverso quelle fessure [lett. ‘buchi’ della gelosia] un tale splendore, che manda quel vostro petto con quelle tettone, che mi hanno trapassato il cuore nelle parti più profonde [lett. ‘con le radici’], a tal punto che sembra che io segga in gloria in paradiso.30

Varrà la pena di notare, infine, che i contrassegni e i topoi con cui abbiamo ormai preso confidenza possono manifestarsi anche fuori dei contesti metrici privilegiati del sonetto e dello strambotto: lo prova, tra l’altro, la Vilanela bergamasca leggibile in calce a una stampa recentemente riscoperta del rifacimento, anch’esso bergamasco, dell’Orlandino di Pietro Aretino.31 Eccone l’attacco:32

O Pedrolina, perqué em fe’-t morì’?
Dimel un po’,
fat al balcó,
e laghet mo’ vedì’, ch’a’ só chilò.4
     
Laghet parlà’, no ’m fà’ crepà’!
Deh, va’ al bordel,
no ’m dà’ martel,
e livrela incù, ch’a’ ’l me scopla ol budel! (+)8

O Pedrolina, perché mi fai morire? Dimmelo un po’, fatti al balcone e lasciati vedere una buona volta, che io sono qui. Lascia che ti parli, non farmi crepare! Doh, va’ al bordello, non mi tormentare, e finiscila una volta per sempre [lett. ‘oggi’], perché mi scoppiano le budella [lett. ‘il budello’].33

Nulla di nuovo, a riprova della vischiosità e della stabilità del nostro microgenere: anche qui l’amante che si chiama Zambó (lett. ‘Gian Buono’) batte sul tasto della propria frustrazione amorosa (il martel), implora la sdegnosa Pedrolina di apparire al balcone e di non farlo crepare, e insiste sullo sfacelo delle proprie viscere brucianti di passione («a’ ’l me scopla ol budel»). Le profferte matrimoniali del seguito, sboccate e audacemente “procreative”, non fanno che rinnovare le vecchie mosse dei corteggiatori quattrocenteschi.

3. Se l’uso letterario del bergamasco è relativamente ben studiato per il Quattrocento, passando al secolo successivo si ha l’impressione di addentrarsi in un territorio per buona parte inesplorato:34 la crescente fortuna teatrale della figura del facchino, il suo legame sempre più forte con l’ambiente veneziano e l’esplosione dell’industria tipografica determinano nel giro di pochi decenni una formidabile proliferazione di testi bergamaschi del più vario genere, quasi sempre tramandati anonimi da stampe popolari altamente deperibili e spesso prive di note tipografiche.35 Lo studio della produzione “alla facchinesca” durante il Ci quecento pone dunque anzitutto rilevantissimi problemi di censimento dei materiali e dei testi.36 In questo paragrafo proverò a ragionare molto sinteticamente su tre punti che mi sembrano rilevanti: a) quante sono, all’ingrosso, le stampe cinquecentesche che contengono testi bergamaschi?; b) con quale tipo di testi abbiamo a che fare?; c) che tipo di circolazione toccò alle stampe popolari, e in particolare alle nostre, in decenni di montante censura libraria?

Una risposta articolata a queste domande richiederebbe uno spazio cospicuo, e dovrebbe basarsi in via preliminare sullo studio e l’edizione di un congruo numero di pezzi. Dato però che le edizioni affidabili per testi di tal genere si contano più o meno sulle dita di una mano, le osservazioni radunate di seguito che spero non inutili non potranno che essere sommarie.37 Iniziamo dal corno quantitativo del problema: per dare una base concreta a questo lavoro è parso opportuno sfruttare a fondo lo Universal Short Title Catalogue imbastendo una prima, frammentaria ricognizione delle stampe contenenti testi bergamaschi (l’unica rassegna di questo genere resta quella meritoriamente tentata da Ivano Paccagnella più di trent’anni or sono).38 Escludendo i testi propriamente teatrali si raggranellano ma il risultato, lo ripeto, è del tutto provvisorio circa centotrenta stampe contenenti testi bergamaschi quasi sempre in versi.39

Va subito osservato che dal sondaggio restano fatalmente esclusi i testi la cui natura dialettale non sia richiamata dai frontespizi mediante le categorie linguistico-merceologiche del bergamasco, dei facchini e degli Zanni (Bergamo, bergamasco, facchino, Zan, Zanni sono state in tutte le possibili varianti le parole chiave adoperate per le ricerche automatiche). Dinanzi a questo pur imperfetto regesto chi frequenti la letteratura dialettale riflessa cinquecentesca è legittimamente indotto a formulare un’ipotesi di massima che potrà essere meglio precisata ma, credo, non smentita: nessun dialetto, nel Cinquecento, può competere con il bergamasco per precocità, continuità e intensità d’impiego letterario. Né il pavano, che pure conta tra i suoi utenti un genio come Ruzante, e fiorisce in una cospicua rimeria secondocinquecentesca; né il veneziano, pur sfruttatissimo, al cui impiego comico-parodico extrateatrale oppone una sottile resistenza il rango di “lingua imperiale”; né il bolognese, che deve aspettare l’instancabile canterino Giulio Cesare Croce (1550-1609) per arrivare a contare su una documentazione robusta ma certo non paragonabile a quella del bergamasco (genovese, torinese, astigiano, milanese, bresciano, mantovano, trevigiano, bellunese, coneglianese e romagnolo hanno tutti tradizioni più ridotte e talvolta tardive, esaminate in certi casi anche nei saggi di questo fascicolo). Soltanto il napoletano nel secolo successivo potrà vantare una diffusione analoga, legata però per una parte significativa a un progetto letterario più consapevole e a suo modo “classicistico”, con testi e promotori ben diversi per calibro e per impegno (basta pensare a Giulio Cesare Cortese e Giovan Battista Basile).

Rispetto agli altri dialetti usati a scopo letterario, la posizione eccezionale del bergamasco si rivela anche nella sua versatilità, ossia nella quantità di generi e di forme metriche cui si associa nel corso del secolo. Non è solo questione di quadretti comico-satirici alla Sommariva o della pur ramificata rimeria strambottisco-amorosa; oltre a questi tipi si incontrano, infatti, almeno: (a) testi dialogati di vario tipo, non tutti riconducibili alla maschera dello Zanni (inclusi i contrasti matrimoniali che sono un sottogenere autonomo); (b) testi, soprattutto frottole, di tipo narrativo-monologico; (c) canzonette e villanelle comico-amorose; (d) vite, lamenti, testamenti, ostensioni di virtù o ricette più o meno mirabili; (e) riscritture parodiche dei classici (Ariosto, Petrarca); (f) testi atteggiati ai toni del discorso pubblico dominante (come quelli contro le cortigiane fatti conoscere da Colombaro: vedi nota 37); (g) alfabeti proverbial-burleschi.

Non ha minor rilievo la circostanza che vari titoli ricorrano più volte nel nostro embrionale regesto: è la riprova di una diffusione che dovette essere assai più profonda e capillare di quanto non lascino immaginare i materiali a nostra disposizione. Se non per tutti, per molti dei testi fortunosamente sopravvissuti in una sola copia andrà ipotizzata l’esistenza di una o più edizioni diverse, e bisognerà tener ben presente, insomma, che quelli su cui lavoriamo sono frammenti, relitti di un enorme naufragio determinato dalla deperibilità dei supporti, dallo scarso prestigio riconosciuto ai testi e dall’atteggiamento via via sempre più occhiuto assunto dalla censura nei confronti della libellistica “popolare”.40

Su quest’ultimo punto varrà la pena di soffermarsi: non può essere un caso, infatti, che una percentuale altissima delle cheap print assegnabili al secondo Cinquecento sia priva di note tipografiche, recando solo ogni tanto l’indicazione del luogo ed eventualmente della data (e assai più di rado della tipografia). Il fatto non sembra imputabile soltanto alla confezione frettolosa degli opuscoli o alla modestia dei testi che tramandavano, bensì anche alla cautela con cui doveva procedere chi intendesse continuare a battere questo comparto del mercato, appetibile ma non privo di rischi. È da notare come già il primo indice promulgato a Venezia nel 1549 vietasse tutti i libri privi di indicazione d’autore, editore e luogo di stampa, dando prova di un’esplicita e onnicomprensiva diffidenza per i prodotti non chiaramente riconducibili alla responsabilità di un’officina o di una bottega;41 un paio di decenni più tardi una lista di «cose prohibite da vendere et da stampare» stilata a Modena metteva nel mirino in maniera ben più precisa la letteratura popolare e popolareggiante, includendo tra i libri vietati «orationi, historie, legende, frottole, commedie, lamenti, proverbi»: ossia quasi tutti i generi tipici della produzione di largo consumo (anche di quella in bergamasco).42

Nella stessa Venezia, epicentro della rimeria che stiamo esaminando, le autorità non restarono con le mani in mano e iniziarono ad agire sia pur con incertezze e conflitti tra i diversi organi competenti anche contro i fragili libelli di poche carte spacciati ogni giorno per le strade e sui ponti tra Rialto, la Frezzaria e San Marco. Succede così che nel 1558 lo stampatore bresciano Domenico De’ Franceschi venga convocato davanti al Sant’Uffizio per aver diffuso senza licenza una non meglio precisata Istoria nuova piacevole; per cavarsi d’impaccio De Franceschi risponde che «vedendo esser cosa de poco importanza, anzi cose da rider, mi per guadagnar e cavarne qualche bezo perché son povereto le ho fatto stampir», e aggiunge che «le ho trovato stampate per Agustin Bindon et Mathio Pagan [...], e quando fussero stà a penna et non stampiti io non l’averia fatti stampar senza licenzia».43 A quanto pare De Franceschi se la cava con una reprimenda, ma di lì a poco l’interrogatorio di uno degli editori da lui chiamati in causa si conclude altrimenti: a Matteo Pagan viene infatti comminata una multa di ben tre ducati, con l’accusa di aver diffuso «istorie e altre opere stampate contro la forma de le leze».44 Nessun dubbio come ha osservato in proposito da Rosa Salzberg che «these unspecified titles indicate the kinds of small pamphlets of secular songs and poems that were the staple of presses like those of Pagan and De’ Franceschi»; nessun dubbio potremmo aggiungere noi che tra quegli «unspecified titles» dovessero figurare anche opuscoli in dialetto, talvolta anche in dialetto bergamasco.45

È piuttosto difficile misurare con precisione l’impatto della censura sulla letteratura dialettale, tanto più su quella tramandata dagli opuscoli anonimi che inondavano il mercato sfuggendo talvolta, come s’è detto, al controllo delle autorità: è certo però che i testi più noti e più lunghi per esempio le commedie di Ruzante e di Calmo, che avevano goduto di una robusta diffusione a Venezia e poi nell’entroterra veneto furono sottoposti a ritocchi censorî più o meno invasivi.46 E vorrà forse dire qualcosa che una modesta stampina citata anche sotto, La piacevole astrologia di Ravanello (USTC 762931), si preoccupi di specificare nel frontespizio che la geneologia di Zanni, & de Zanul lì contenuta «non è disonesta». Più che una capillare riscrittura si deve ipotizzare che per testi brevi e talvolta rozzi come i nostri l’azione della censura abbia prodotto un generale effetto deterrente, contribuendo da un lato alla moltiplicazione delle stampe sine notis, e dall’altro alla scomparsa dal mercato di opere ritenute irriverenti o “rischiose”. La fragilità materiale e l’intensa usura – libelli di poche carte letti in pubblico, smerciati e passati di mano in mano, letteralmente consumati dall’utenza – fecero il resto: e così moltissimi dei nostri stampati sopravvivono in un unico esemplare, quasi sempre all’interno di miscellanee.

4. Esemplifichiamo su un caso concreto, prendendo in considerazione la miscellanea attualmente custodita alla Bibliothèque Municipale de Lyon sotto la segnatura Rés 366396-366422.47 Si tratta di ventisette opuscoli – tutti, a quanto è dato capire, secondocinquecenteschi – che offrono uno spaccato interessante della produzione popolare e popolareggiante diffusa nell’Italia del nord, e perciò stesso aperta allo sfruttamento letterario dei dialetti. Non stupirà constatare, dopo quanto abbiamo detto, che nella raccolta lionese il bergamasco abbia un ruolo di tutto rispetto; ma vediamo le cose da vicino, passando in rassegna l’intero volume in modo sintetico ma, credo, istruttivo.

Il pezzo 366399 è un altrimenti ignoto Instrumento del dotor Desconzo in lingua bergamasca, che contiene una lunga frottola in forma di strumento notarile dedicata alle gesta del dottore omonimo (inc. «Per questo scartabel / rogat per mi Rondel» ‘Per questo scartafaccio rogato da me, Rondello’; expl. «com el fu dotorat / el nos mesir Descon[z]» ‘come fu addottorato il nostro signor Disconcio’), seguita da una ricetta burlesca in terzetti (inc. «Sonza de bosch drovada da un vilà» ‘Sugna di bosco [ossia bastonate] adoperata da un villano’; expl. «e oter no ve digh per conclusió» ‘altro non vi dico in conclusione’).48

Poco appresso, sotto il no 366402, sta un Pronostico nuovo sopra l’anno presente composto in una specie di latino macaronico da Missier Ravanel Astrologo Bergamensis; inserti bergamaschi sono nel secondo testo della plaquette, la Desputa del Zanol ch’el fa con Missier Ravanel: qui Ravanel («adotorat nella mattafesica»), che si esprime nell’italiano macaronizzante del pronostico, parla d’amore con Zanol, il quale dichiara fin da subito le proprie origini bergamasche («mi son delle Vallade de mardabasca, della casada dei Troiani»), e sfoggia un mirabolante genealogia che, come quella di Enea, inizia nientemeno che da Troia:

[...] dol sangue dulc de Troia – perqué d’un porcelet è una troia – nasse ol Codeghì, dol Codeghì nassì ol Ravanel, de Ravanel vene Ravanelì, de Ravanelì nassì Ravanelet, de Ravanelet vene Zane, de Zane Zanol, de Zanol Zanin, de Zanin Zanolin, de Zanolin Zanolet, de Zanolet ol Gamber, dol Gamber ol Gambarì, dol Gambarì ol Gambarel, dol Gambarel ol Masenetta, dol Masenetta ol Grancella, dol Grancella ol Passarì, dol Passarì ol Sardun, dol Sardun la Sardella, della Sardella la Moleca, de madonna Moleca ol nassì ol Pedron, de Pedron Pedrol, de Pedrol Pedrolì, e de Pedrolì Pedrolet, de Pedrolet Zancagnin, de Zancagnin Zancagninet, de Zancagninet ol Fassina, dol Fassina ol Fassinel, dol Fassinel ol Fassinet, dol Fassinet la Scudella, della Scudella ol Boccal, dol Boccal ol Boccalet; el Boccalet fu me pader che tos per moier madonna Nespola, che fu zà me mader che m’ha fat mi che só Zanol. E me pader m’ha lassat in testament che doves guardà’ quando el piof e ch’el troneza con quei lampi de foc per l’aier, che se vede l’arco verzene; el dis che dentro de quel’arco sempre lu ga trovat bondantia de pan, de vin, de oio e de sal, e mi no ghe trov oter che calci e pugni, spoletti e mostazzoni, d’i piè indol cul e bastonadi [...]

[...] dal sangue dolce di Troia, perché una troia viene da un porcelletto, nacque il Cotichino, dal Cotichino nacque il Ravanello, da Ravanello venne Ravanellino, da Ravanellino nacque Ravanelletto, da Ravanelletto venne Zanni, da Zanni Zanol, da Zanol Zanin, da Zanin Zanolin, da Zanolin Zanolet, da Zanolet il Gambero, dal Gambero il Gamberino, dal Gamberino il Gamberello, dal Gamberello il Granchio, dal Granchio il Granchione, dal Granchione il Passerino, dal Passerino il Sardone, dal Sardone la Sardella, dalla Sardella la Moleca, da madonna Moleca nacque il Pedrone, da Pedrone Pedrol, da Pedrol Pedrolino e da Pedrolino Pedroletto, da Pedroletto Zancagnino, da Zancagnino Zancagnineto, da Zancagnineto il Fascina, dal Fascina il Fascinello, dal Fascinello il Fascinetto, dal Fascinetto la Scodella, dalla Scodella il Boccale, dal Boccale il Boccaletto; il Boccaletto fu mio padre, che prese in moglie madonna Nespola, che fu mia madre che mi ha fatto a me che sono Zanol. E mio padre mi ha lasciato per eredità via testamento che dovessi guardare quando piove e quando tuona con quei lampi di fuoco per l’aria, che si vede l’arcobaleno; disse che dentro quell’arco lui ha sempre trovato abbondanza di pane, di vino, di olio e di sale, e io non ci trovo altro che calci e pugni, bacchettate e schiaffoni, pedate nel culo e bastonate [...].49

Il brano documenta l’andamento da “tirata” cui il bergamasco può associarsi a Cinquecento inoltrato (si pensi, per avere un immediato termine di confronto, a certi pronostici e testamenti pubblicati da Piero Camporesi in appendice al suo La maschera di Bertoldo).50 Il Pronostico nuovo ha almeno tre edizioni: oltre alla stampa lionese (priva di note tipografiche), per ora non censita dallo USTC, se ne conoscono infatti altre due con titolo leggermente diverso e data esplicita 1581 e 1586 (USTC 805695 e 806144). Ma se si cercano invece tracce della disputa di Zanol e Ravanel che qui fa da appendice al Pronostico, ecco spuntare altre due edizioni prive di note tipografiche, che pubblicizzano la genealogia su cui ci siamo appena fermati: La ridiculosa gieneologia de Zani e del Zanul cum tug i so antecesur. Con una lettera de m. Benetto Cantinella, interlocutori Zane, Ravanello astrologo Bergomensis (USTC 762932) e La piacevole astrologia di Ravanello. Nella qual si dichiara a tutti gli huomini quello a che sono inclinati. Con la ridiculosa geneologia di Zanni, & de Zanul, cun tug i so antecessoribus. Questa pare recitandola una meza comedia, & si può dir in ogni loco, perché non è dishonesta (USTC 762931).51

Al no 366406 la miscellanea porge un Dialogo over contrasto d’amore del Fortunato e del Zani (ma Zanì sul frontespizio) noto allo USTC (833829) grazie a un esemplare ora a Yale, che parrebbe però rappresentare un’edizione diversa da quella conservata a Lione;52 qui il contrasto tra fiorentino e bergamasco viene svolto alla luce del tema amoroso. Questo l’attacco:

il Fortunato
Il ciel ti salvi e facia ogni favore
Zani mio caro e degno d’ogni onore.
Vorei che mi mostrasti nel cantar el tuo valore,
che anch’io ti farò scorta se tu vuoi cantar d’amore.
il Zane
A’ ve sconzuri, mesir me’ dolz e bel,
che de sto Amor no m’intrighé ol cervel,
perqué l’è una vergogna a lagà’-s rezer da un putel,
sì che tasì de gracia, overament andé al bordel!

Vi scongiuro, signore mio dolce e bello, che con questo Amore non mi confondiate il cervello, perché è una vergogna lasciarsi menare per il naso da un bambino, sicché per favore tacete o andatevene al bordello!

È quasi una variazione a parti invertite sullo stesso tema il Dialogo in sdruciolo (no 366410 della miscellanea), stampato con altri testi a Venezia nel 1578 (al Segno della Fede, da Giacomo Ghedini). Qui Zanni e un non meglio definito e italofono messere discorrono ancora d’amore, utilizzando le rime sdrucciole tipiche soprattutto della poesia pastorale (e adattate sia pur con fatica al bergamasco già dal Calmo delle Egloghe, apparse nel 1553 e scritte in versi sciolti):

[M:] Deh dimmi, Zani mio, perché sì taccito
ti veggio andar com uom che stia fra grotole,
che esser solevi in tutto allegro e placito?
[Z:] Mesir mio car, no pos cantà’ plù frotolle,
che Amor per dir ol ver me dà tal tedio
che ’m par che al cur abia serpenti e notole.

Messere mio caro, non posso più cantar frottole, perché Amore a dire il vero mi fa soffrire così tanto che mi sembra di avere serpenti e civette attaccati al cuore.

Al no 366411 s’incontrano Due canzonette nuove di un am[an]te seguite tra l’altro da un Capitolo in lingua bergamasca in disperata nel quale il lungo lamento per la fiducia tradita l’amata Flor ha sposato un vecchio piantando in asso il suo fedele corteggiatore lascia trapelare un po’ ovunque vecchi topoi, tra gli altri quello dell’esibizione delle budella:

A’ maladighi ol bé che ’t volsi mai,
a’ maladigh l’amor ch’a’ t’ho portat
che ’m dà mo’ ades a mi tat peni e guai.
A’ maladighi ol cur ch’ha t’ho donat,
ventri, budei, magó se l’è bé poch,
che se ghe ’n fus stat plù te l’arev dat!

Maledico il bene che ti ho mai voluto, maledico l’amore che ho nutrito per te che adesso mi dà tante pene e tanti guai. Maledico il cuore che ti ho donato, ventre, budella, stomaco anche se è poco, perché se ce ne fosse stato di più te l’avrei dato!

Segue, al no 366412, un Invito de alcuni pastori alle ninfe, cui tien dietro l’interessante Sonetto del viaggio del Zani a Venetia, & narra la confusione dei venditori del ponte di Rialto. Si tratta di una sonettessa in tutto analoga a certi testi-catalogo di Giulio Cesare Croce, sia per lo schema sia per l’argomento: in questo caso il rozzo visitatore bergamasco, sgomento dinanzi all’abbondanza del mercato sul Ponte di Rialto, cede la parola ai venditori che cantano le lodi delle proprie merci in veneziano (sono invece bergamaschi i versi di introduzione e di chiusa, dove a parlare è Zanni in persona):53

               E quant ol [il ponte] vid sì carc
de zent, e de boteghi e de banchet,
a’ restè ù turlulù senza intelet.17
               Es me conzè illò, dret,
a scoltà’ quest e quel, che i me stordiva,
ché a regata tug quag così desiva:20
                “Chi vol comprar sta piva?
Un stizaruol da lume de quei fini?
A chi servio d’esca e solfarini?23
               Chi vuol d’i aghi fini,
aghi dalla croseta e da Milan?”25

E quando lo vidi [il Ponte di Rialto] così carico di gente, e di botteghe e di banchette, restai lì come un minchione insensato. E mi sistemai lì, ritto, ad ascoltare questo e quello, che mi stordivano, perché a gara tutti quanti dicevano così: “Chi vuol comprare questa piva? Un ago da lucignolo di quelli fini? A chi posso servire esca e solfanelli? Chi vuole degli aghi sottili, aghi per il ricamo a punto croce e di Milano?

Il Sonetto del viaggio circola anche con il titolo di Viaggio de Zan Padella, noto a sua volta in almeno due edizioni (USTC 834397 e 834401) e segnalato da Pandolfi nella sua ricchissima silloge sulla commedia dell’arte.54 Ancor più interessante devo la preziosa segnalazione a Federico Baricci è poi il fatto che nell’elenco delle opere stampate di Giulio Cesare Croce figuri proprio un Viaggio del Zani, ritenuto disperso:55 non voglio spingermi a identificare il nostro Sonetto del viaggio del Zani con l’ignoto Viaggio del Zani di Croce il tentativo richiederebbe il debito agio ma certo la quasi perfetta coincidenza dei titoli e soprattutto la comunanza di schema tra Sonetto del viaggio e altre opere indubitabilmente crocesche lasciano spazio a un’ulteriore riflessione.

L’opuscolo successivo (no 366413), un’Opera nova dove troverai varie canzoni in lingua Tosca, Venetiana, & Bergamasca, tramanda tra gli altri pezzi una Barzelletta alla Bergamasca con ritornello «No ’f pensé de far l’amor / se no gh’ì la borsa plena, /fé a me’ sen, che l’è una pena / da crepar per gran dolor» (‘Non pensate di far l’amore se non avete la borsa piena, fate come vi dico io [lett. ‘a mio senno’], perché è una pena che fa crepare dal dolore’), invece la stampa no 366414 riconduce almeno formalmente al (vecchio) genere degli strambotti amorosi con una serie di Stancie amorose in lingua bergamasca del Zanul de Val Brambana.56 Le ventinove stanze che compongono l’opuscolo sono tuttavia molto diverse da quelle che costituivano grossomodo un secolo prima la mattinata del Capponiano. Qui, a parte la minor maestria formale, i temi e le immagini sono accostati alla bell’e meglio, puntando sulle trovate scatologico-carnevalesche quasi sempre affidate, con effetto di rozzo aprosdoketon, al distico finale delle ottave. Si prendano a esempio la stanza decima (a suo modo sgangheratamente “lucreziana”) e la stanza dodicesima (che inizia rievocando la situazione della serenata per virare rapidamente verso il basso):

[10]
Amor fa innamorà’ gat e gatei,
asegn, lof, castró, bufoi e cà,
paser, gazot, tavà, cuchi e fanei,
moschi, vespi, zanzai e barbagià,4
lumaghi, tartarughi e calcinei,
e tug quag i animai de tut i mà:
né val contra de lu targa o brochir,
che l’è forza che ognun sorba ol crestir.8

Amore fa innamorare gatti e gattini, asini, lupi, castroni, bufali e cani, passeri, gazzotti, tafani, cucchi e fanelli, mosche, vespe, zanzare e barbagianni, lumache, tartarughe e calcinelli [cioè le telline], e tutti quanti gli animali di tutti i tipi: né serve contro di lui scudo o brocchiere, perché tocca a ognuno sorbirsi il clistere.57

[12]
Talor tug la zanforgna o la rebeca,
e comenzi a sonà’ con smelord[ia]
per alegrà’-m ol cor con la museca,
e talor vaghi ancora a l’ostaria4
per confortà’ ol ventrù con la buseca:
ma tug quag i remedi è butag via,
che ol martel me trava[ia] e me fa stà’
sospis, che no ’m recordi de chigà’.8

Ogni tanto prendo in mano lo scacciapensieri o la ribeca, e comincio a suonare con smerlodia per allietarmi il cuore con la musica, e talvolta vado anche all’osteria per dar sollievo alla panza con la busecca: ma tutti quanti i rimedi sono sprecati, perché il tormento amoroso mi rode e mi fa stare sospeso, tanto che non mi ricordo neppure di cacare.58

L’opuscolo che segue (no 366415), non ancora raggiunto dalla schedatura dello USTC, ha come piatto forte un’altrimenti ignota Opera nova la qual nara per letere di alfabetto qual sia meglio o l’amor o ’l magnar, composta in lengua bergamasca. Data l’antichità del genere e la relativa rarità di alfabeti dialettali cinquecenteschi (un altro alfabeto bergamasco, dedicato alle lodi del formaggio, è stato segnalato di recente da Carlo Alberto Girotto),59 il testo meriterebbe di essere esaminato da vicino. Ecco qui le prime tre lettere, che rivelano subito il perdurante nesso tra paremiografia e forma alfabetica:60

Amor me dà martel e grà brusor,
     es no ’m lassa polsà’ né dì né not,
     ma ’l mangià’ po me dà mazor dolor.
Bartol scris un proverbiol iust e dot,
     che chi tend a l’amor e no al mangià’
      [e]l romà ilò destis come merlot.
Cicero dis che i gnoc informaià
     consola ol gargató, imp i budei
     e che l’amor ne fa [l]omà sbraià’.

Amore mi tormenta e mi fa ardere, e non mi lascia riposare né giorno né notte, ma il mangiare poi mi dà un dolore anche maggiore. Bartolo scrisse un proverbiuccio giusto e dotto, e cioè che chi si preoccupa dell’amore e non di mangiare resta lì stecchito come un merlotto. Cicerone disse che gli gnocchi informaggiati consolano il gargarozzo, riempiono le budella, e che l’amore ci fa soltanto strillare.61

Lo stampato no 366416 testimonia un caleidoscopico Pasto in lingua bergamasca nel qual si vede sedici linguaggi, che altro non è se non il testo meglio noto con il titolo di Nozze del Zane, attribuito a Giulio Cesare Croce da alcune stampe seicentesche (sulla questione è da vedere l’articolo di Federico Baricci pubblicato in questo fascicolo). Si noti che per la seconda volta dopo il Sonetto del viaggio del Zani – incontriamo un testo più o meno strettamente legato al nome o alle tecniche compositive di Giulio Cesare Croce, che dei materiali popolareggianti è stato il più instancabile riassemblatore a cavallo tra Cinque e Seicento, e che tende perciò ad attirare nell’orbita della propria firma una quantità di scritti anonimi la cui esatta attribuzione resta problematica (e c’è da dire in verità che il problema si porrebbe esplicitamente anche per altri testi citati qui: occorrerà tornare sull’argomento con calma).

Al no 366419 si incontrano le ottave burlesche della Vita e costum de mesir Zan Tripó, seguite da un capitolet de messir Francesch Petrarca trasmudat in lengua da Berghem. La Vita celebra l’iperbolica insaziabilità del protagonista (il cui nome è ovviamente tutto un programma); così le due ottave iniziali:

A’ stroleghi la nog, e scrif ol dì
li fantasii che m’intra indol cervel,
es m’ho pensat de fà’-f un po’ vedì’
– e chi no ’l vul vedì’ vaga al bordel –4
la vita d’un valent paladì, (-)
om chi è cercat dal mond e chi ha cervel:
el qual se domandava Zan Tripó,
che araf mangiat una vaca intun bocó.8
    
Costù fu un citadì tat generos:
chi ’l chiama da Comag, chi da Milà
– che dis che l’ha nasut fo d’una nos –
e chi ’g dis bergamasch, chi venetià.12
Diga chi voia, che ’l fu un om braos:
mi ’l credi da Cremona ovir bresà,
che dapo’ past l’aviva per usaza
da mangià’ un asen per impis la paza.16

Mi stillo il cervello la notte, e scrivo di giorno le fantasie che mi si ficcano in testa, e ho pensato di farvi un po’ vedere – e chi non vuol vederla se ne vada al bordello – la vita di un paladino coraggioso, uomo ricercato da tutti e che ha cervello: il quale si chiamava Gian Trippone, e avrebbe mangiato una vacca in un boccone.
Costui fu un cittadino tanto generoso: chi lo dice di Comacchio, chi di Milano – che dicono che è nato da una noce – e chi gli dà del bergamasco, chi del veneziano. Parli chi vuole, che fu un uomo coraggioso: io lo credo di Cremona oppure bresciano, che dopo i pasti aveva l’abitudine di mangiare un asino per riempirsi la pancia.62

Zan Tripó è una delle varie reincarnazioni del Carnevale: un Carnevale, però, potenziato ed eterno, che non troverà mai sulla propria strada la Quaresima in grado di processarlo e di metterlo al bando; tanto è vero che l’anonimo estensore delle stanze si è curato di descrivere la vita sua e dei suoi solerti servitori lungo tutte e quattro le stagioni dell’anno, secondo l’andamento cosmologico dei calendari e dei pronostici (generi a loro volta di larghissima circolazione anche popolare).63 Le gesta di questo eroe della crapula riflettono in controluce le paure più profonde degli utenti (ossia degli ascoltatori) dei nostri testi, cioè i membri di quel popolino urbano vieppiù esposto dal tardo Cinquecento in avanti a ristrettezze di vario genere, e perciò incline a rifugiarsi nel sogno compensatorio di una vita in cui non ci sia mai «oter da fà’ / se no mangià’ e bif e po chigà’» (‘altro da fare, se non mangiare, bere e poi cacare’: così la chiusa della terza ottava).64

Alle diciassette ottave su Zan Tripó fa seguito la riscrittura parodica di una decina di terzine del primo capitolo del Triumphus Cupidinis:

     Nel tempo che renova ol me’ sbraià’      Al tempo che rinnova i miei sospiri
per la dolza memoria de quel dìper la dolce memoria di quel giorno
ch’af de li bastonadi per maià’, che fu principio a sì lunghi martìri,
     scaldava ol sol la schena [a] l’asenì     già il sole al Toro l’uno e l’altro corno
de me’ pader, e la fiola de Titó scaldava, e la fanciulla di Titone
menava a pascolà’ i so’ porzelì.correa gelata al suo usato soggiorno.
     Quel fiul d’un bec d’Amor, merlot guerzó,      Amor, gli sdegni, e ’l pianto, e la stagione
el fu casó de fà’-m andà’ in cosina,ricondotto m’aveano al chiuso loco
ond a’ ’m vegn per li mà un bon capó, ov’ogni fascio il cor lasso ripone.
     e mi m’eg mis a cerc con gran ruina,     Ivi fra l’erbe, già del pianger fioco,
no stagand a guardà’ se vergù eg fus: vinto dal sonno, vidi una gran luce,
a’ ’l smaiazavi co’ ’l fus stag povina.e dentro, assai dolor con breve gioco,
     E ixì stagad ol vegn de det da l’us     vidi un vittorïoso e sommo duce
un om che crez de cert ch’el fus ol cug, pur com’un di color che ’n Campidoglio
ch’aviva in mà un gran bastó de bus.triunfal carro a gran gloria conduce.
     Mi, che non eri usà a stà’ in sto lug,      I’ che gioir di tal vista non soglio
a’ ’l mandì zos tut quat intun bocó,per lo secol noioso in ch’i’ mi trovo,
e sì em retirì a la volta dol fug.voto d’ogni valor, pien d’ogni orgoglio,
     A’ vardì questo pezo de poltró,     l’abito in vista sì leggiadro e novo
e lu no stè zà a dì’ “Que cosa fe’-t?”, mirai, alzando gli occhi gravi e stanchi,
me ol scomenzè a menà’ de quel bastó. ch’altro diletto che ’mparar non provo:
[...][...]

Nel tempo che rinnova il mio dolore [lett. ‘il mio strillare’] per la dolce memoria di quel giorno ch’ebbi bastonate per aver mangiato, il sole scaldava la schiena all’asinello di mio padre, e la figlia di Titone portava al pascolo i suoi porcellini. Quel figlio d’un cornuto di Amore, scioccone guercio [lett. ‘guercione’], mi fece andare in cucina, così che mi venne per le mani un buon cappone, e io mi ci misi sopra [lett. ‘attorno’] con gran strepito, senza stare a guardare se ci fosse qualcuno: lo mangiavo come fosse stata ricotta. E stando così arrivò dentro l’uscio un uomo che credo di certo che fosse il cuoco, che aveva in mano un gran bastone di bosso. Io, che non ero abituato a stare in questo luogo, lo mandai giù tutto quanto in un boccone, e mi ritirai verso il focolare. Guardai questo peggio che poltrone, e lui non stette già a dire “Che cosa fai?”, ma cominciò a picchiare con quel bastone.65

Di parodia vera e propria si può parlare solo per poche terzine: dal verso 9 in poi il testo bergamasco prosegue per conto proprio, mettendo in scena il lazzo comico dello Zanni saccheggiatore di cucine che finisce bastonato. La “trasmutazione” del capitolet, più volte ristampata, riesce istruttiva anche per la saldatura di parodia ‘esplicita’ (il ricalco vistoso di un ipotesto celebre) e parodia ‘implicita’ (l’impiego del bergamasco e la descrizione di una situazione ridanciana sono parodici a priori).66

Il pezzo no 366420 propone quella che parrebbe a tutta prima una variante del no 366406 (e tale sembrò anche a Francesco Novati: vedi nota 52): ecco infatti un Contrasto del Fortunato et del Zani, stavolta però in ottava rima, seguito da alcune stanze in lingua bergamasca del magnar del Zane e noto anche in un’altra edizione, esplicitamente datata al 1576, custodita in copia unica alla Marciana.67 A differenza del Dialogo over contrasto d’amore del Fortunato e del Zani, l’operina non è però dedicata all’amore e alle sue sofferenze, bensì alla diversità linguistico-antropologica che oppone il bergamasco al fiorentino (qui trattati entrambi come maschere che giocano a insultarsi senza esclusione di colpi). Si noti che Fortunato insiste fin da principio sull’alterità linguistica e persino fisica di Zanni:

Zani fachin, che vai di salto in salto
per exaltar tuo idioma rozo e nuovo,
ti faccio in versi un poetico assalto,
ché poesia da tutti i lati piovo;4
e portando questo stil mi exalto
in qualunque cittade i’ mi ritrovo,
e son per nome detto il Fortunato,
da ognun che mi conosce sempre amato.8
     
T’ho sentut, Fortunat, che no son sordo,
nemé son orbo, che te pos vardà’.
Respondi che no só mut né balordo,
es no parli todesco ma talià.12
Te pensi strapazà’-m, ma te recordo
che squas negot te pù meg guadagnà’:
me chiami ol Zan, nasut in Bergamasca,
e sì ho d’i amis e d’i daner in tasca.16

Ti ho sentito, Fortunato, che non sono sordo, e nemmeno sono orbo, che ti posso guardare. Rispondo che non sono muto né balordo, e non parlo tedesco ma italiano. Pensi di strapazzarmi, ma ti ricordo che con me non puoi guadagnare quasi niente: io sono lo Zanni, nato nella bergamasca, e ho amici e denari in tasca.68

Lo Zanni che va «di salto in salto» pare proprio la maschera acrobata già proverbiale per le capriole e l’«idioma rozo e novo». La sua altrettanto proverbiale (carnevalesca) voracità è descritta con lusso di esempi iperbolici nelle Stanze successive, che si chiudono così:

A sto Nadal vidi’ a mazà’
un porcel per metì’-l in la conca da salà’:
mangi’ ol porcel in quel che i lo raspava,
po’ sorbì l’aigua dond i lo pelava.

Questo Natale vidi ammazzare un porcello perché volevano metterlo nel calderone a salare: io mangiai il porcello mentre lo stavano raschiando, e poi mi sorbii l’acqua dove lo spellavano.

Poche osservazioni in margine a questa rassegna. Il caso della miscellanea lionese serve a confermare almeno per grandi linee la rilevanza quantitativa assunta dalla produzione “alla bergamasca” entro i ranghi della tipografia popolare tardocinquecentesca di area settentrionale (qui undici pezzi su ventisette contengono in tutto o in parte testi bergamaschi). I singoli opuscoli rivelano inoltre, anche a un esame rapido, la varietà di impieghi e di intonazioni di cui si diceva: uno dopo l’altro sfilano pronostici, dialoghi di vario tipo, stanze amorose, poemetti carnevaleschi, alfabeti, riscritture parodiche. In ultimo, chi abbia la pazienza di scorrere il regesto alla nota 39 non tarda ad accorgersi che alcune delle stampine legate nella miscellanea lionese conobbero più di un’edizione: talvolta due, talvolta tre o quattro (e non mancano esemplari perduti fino a prova contraria, come quelli della dispersa biblioteca di Francesco Reina studiata, per la sua sezione popolare, da Francesco Novati).

Si tocca così con mano anche la generale instabilità che caratterizza la trasmissione dei nostri testi: i medesimi pezzi possono in effetti ricorrere con titoli diversi in stampe sempre difficili da datare e spesso impossibili da attribuire; viceversa titoli analoghi o quasi identici possono indicare testi ben distinti tra loro, che solo un controllo diretto può sceverare volta per volta. Quasi sempre fantasmatica resta poi l’identità degli autori, nominati di rado e spesso nascosti dietro nom de plume come Ravanel Astrologo, Fortunato, Zanul da Val Brombana; o più spesso occultati dall’alluvione delle maschere zannesche coi loro variopinti soprannomi: Zan Bagotto, Zan Capella, Zan Cazamoletta, Zan Falopa, Zan Fritada (de Valpelosa), Zan Fritella da Val Luganega, Zan Muzzina, Zan Padella, Zan Panza di Pegora, Zan Panza de Vaca (da Cremona), Zan Piombana, Zan Polpeta, Zan Presutto, Zan Salciza, Zan Scarpetta, Zan Scarsella, Zan Sgrafigna, Zan Tabarì Canaia (a volte anagraficamente individuabili, e molte altre volte no). Dei sentieri, delle radure e soprattutto della macchia incolta e del sottobosco di questa autentica selva tipografica manca a tutt’oggi non si dirà un dettagliato foglio catastale, ma persino una provvisoria mappa per passeggiatori solitari: il lavoro da fare anzitutto filologico, storicotipografico e storico-linguistico è ancora moltissimo.69

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1 La bibliografia su Zanni/Arlecchino è vasta: vedi in sintesi, tenendosi a titoli italiani, Fausto Nicolini, Vita di Arlecchino, Bologna, il Mulino, 1993 (I ed. Milano-Napoli, Ricciardi, 1958); Lucia Lazzerini, Arlecchino, le mosche e le streghe e le origini del teatro popolare, «Studi mediolatini e volgari», 25 (1977), pp. 93-155; Ludovico Zorzi, La maschera di Arlecchino (1979), ora in Id., L’attore, la commedia, il drammaturgo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 154-166; Lucia Lazzerini, Preistoria degli zanni. Mito e spettacolo nella coscienza popolare, in Giancarlo Garfagnini (a cura di), Scienze, credenze occulte, livelli di cultura, Firenze, Olschki, 1982, pp. 445-475; Delia Gambelli, Il nudo nome di Arlecchino. Tentazioni etimologiche e fatali equivoci, in Ead., Arlecchino a Parigi. I. Dall’inferno alla corte del Re Sole, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 81-125; Alessandra Mignatti, La maschera e il viaggio. Sull’origine dello Zanni, Bergamo, Moretti & Vitali, 2007. Su Martinelli cfr. Siro Ferrone, Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, Roma-Bari, Laterza, 2006; su Biancolelli cfr. Delia Gambelli, Arlecchino a Parigi, cit., Roma, Bulzoni, 1993-1997, tre volumi. Prescindo, per ragioni di pertinenza e di spazio, dalla documentazione medievale, in specie laudistica, del bergamasco, sulla quale è da vedere Claudio Ciociola, Attestazioni antiche del bergamasco letterario. Disegno bibliografico, «Rivista di Letteratura Italiana», IV (1986), pp. 141-174 (spec. pp. 142-163 e pp. 171-174), rilevante anche per i testi rinascimentali di cui parleremo qui. Va ricordato infine il contributo di Alessandro Parenti, Un’altra storia per facchino, «Lingua nostra», LXXX (2019), pp. 65-96, che con solidi argomenti e amplissima documentazione respinge l’etimo sostenuto da Giovan Battista Pellegrini (ar. faq¯ıh ‘giureconsulto versato nel diritto canonico musulmano’) e propone di muovere dall’antroponimo Fachino (a sua volta da Lanfranchino < Lanfranco), tipico dell’area bergamasca e passato a designare per antonomasia uomini (e cose) provenienti da Bergamo.

2 Cfr. Luca D’Onghia, Pluridialettalità e parodia. Sulla «Pozione» di Andrea Calmo e sulla fortuna comica del bergamasco, «Lingua e Stile», XLIV (2009), pp. 9-39 (specie per il bergamasco di Calmo) e l’ampio quadro offerto da Emanuela Agostini, Il bergamasco in commedia. La tradizione dello Zanni nel teatro d’antico regime, Bergamo, Lubrina, 2012. Sul bergamasco di Ruzante cfr. Ivano Paccagnella, «Insir fuora de la so buona lengua». Il bergamasco di Ruzzante, in Gianfranco Folena (a cura di), Ruzzante, Padova, Editoriale Programma, 1988 («Filologia veneta», I), pp. 107-212; per la Veniexiana cfr. Lorenzo Tomasin, Lettura linguistica della «Veniexiana», «Per leggere», VII (2007), pp. 151-169: pp. 165-166. Sui casi meno noti (Redrizzati, Baroncini) vedi: Andrea Comboni, La parte del bergamasco nella «Comedia nova d’Amore» di Fausto Redrizzati, «Letteratura e dialetti», I (2008), pp. 97-106; Mauro Canova, Roberto Trovato, Teatro ed eresia a Bologna nel Cinquecento. Con edizione critica de «La Fante» e della «Tragedia» di Giuseppe Baroncini, Roma, Aracne, 2019, soprattutto pp. 193-351 (alle pp. 233-236 un paragrafo a firma di Daniele Pastorino intitolato Fra Martino: un personaggio scomodo. Nota linguistica).

3 Per alcuni rilievi linguistici vedi L. D’Onghia, Pluridialettalità e parodia, cit., pp. 18-39.

4 Adoperando l’aggettivo riflesso rinvio implicitamente al capitale saggio di Benedetto Croce, La letteratura dialettale riflessa. La sua origine nel Seicento e il suo uicio storico (1926), poi in Uomini e cose della vecchia Italia. Serie prima, Bari, Laterza, 1927, pp. 222-234, e in séguito in Filosofia Poesia Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’Autore (1951), ora con introduzione e apparati di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 1996, pp. 469-481.

5 Dell’Ottelio manca a tutt’oggi una descrizione approfondita: in attesa del lavoro di Elena Niccolai (che per la sua tesi di dottorato sta studiando organicamente le antologie poetiche di Feliciano), si può ricorrere a Giovanni Fabris, Il codice udinese Ottelio di antiche rime volgari, Cividale del Friuli, Stagni, 1911. L’autografia di Feliciano per gran parte del manufatto è stata dimostrata da Giovanni Mardesteig, Tre epigrammi di Gian Mario Filelfo a Felice Feliciano, in Charles Henderson Jr. (a cura di), Classical, Medieval and Renaissance Studies in honor of Berthold Louis Ullman, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1964, vol. II, pp. 375-383,a p. 378; per Feliciano in generale vedi Agostino Contò e Leonardo Quaquarelli (a cura di), Felice Feliciano veronese. Tra epigrafia antica, letteratura e arti del libro, Padova, Antenore, 1995.

6 Su Sommariva (1435 ca. – ante 1502) mi limito a rinviare a L. D’Onghia, voce Sommariva, Giorgio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2018 (in linea): da qui potrà ricavarsi la bibliografia pregressa, che va ora integrata con la tesi di laurea di Matteo Comerio, Ritorno alle «Antiche rime venete». Edizione e commento dei sonetti in pavano e in veronese rustico del secolo XV (con due inediti), relatore Vittorio Formentin, Università degli Studi di Udine, a.a. 2018/2019. I sonetti veronesi e bergamaschi – i primi tràditi, in parte, anche da un altro manoscritto di mano di Feliciano, il Vaticano Rossiano 1117 – si leggono in Marisa Milani, Antiche rime venete, Padova, Esedra, 1997, pp. 55-101, dove non si tiene conto però della testimonianza del Rossiano, su cui è tornato a più riprese Andrea Comboni: da ultimo in Testi in pavano e in veronese rustico nelle antologie di Felice Feliciano: proposte per una nuova edizione, in Ivano Paccagnella e Elisa Gregori (a cura di), Lingue testi culture. L’eredità di Folena vent’anni dopo, Padova, Esedra, 2014, pp. 385-394.

7 Il testo sta alla c. 276r del ms. Ottelio X della Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi” di Udine; qui lo cito, con alcuni ritocchi ai diacritici e una diversa proposta per la parafrasi dei vv. 13-14, da L. D’Onghia, I sonetti bergamaschi di Giorgio Sommariva, in Chiara Schiavon e Andrea Cecchinato (a cura di), «Una brigata di voci». Studi oerti a Ivano Paccagnella per i suoi sessantacinque anni, Padova, CLEUP, 2012, pp. 183-196: pp. 186-188, cui rinvio anche per la bibliografia e un abbozzo di commento letterale e linguistico. La parafrasi ‘che non è da solo, perché insieme al facchino ti farà fuori seduta stante’ lì dubitativamente proposta per i vv. 13-14 mi pare ora da respingere perché presuppone un’attestazione troppo precoce del significato poi divenuto corrente di facchino (vedi A. Parenti, Un’altra storia, cit., p. 91); al contesto parrebbe invece attagliarsi meglio facchino ‘coltellaccio’, documentato in area veneta già negli anni Trenta del Quattrocento (ivi, pp. 88-91). Caduto il facchino aiutante e instaurato il facchino coltello, riesce meno perspicuo sul del v. 13 (che non mi azzardo a toccare e che intendo qui ‘da solo’).

8 Segnalo, a parziale riscontro, l’amer ‘amare’ di uno dei frammenti poetici di mano notarile (metà XIV sec.) individuati e trascritti da Ciociola, Attestazioni antiche del bergamasco letterario, cit., p. 172 nota 92: ma in quel caso la forma risente quasi certamente dei modelli francesi evidentemente implicati.

9 Ha sostenuto la tesi dell’artificialità linguistica dei sonetti veronesi Anne Robin, Le sonnets rustiques véronais de Giorgio Sommariva (vers 1470-1490), «P.R.I.S.M.I. La Renaissance italienne. Images et relectures», III (2000): Mélanges à la mémoire de Françoise Glénisson-Delannée, p. 45-57. Il bergamasco sembra dunque presentare fin d’ora «disponibilità [...] ad una caratterizzazione di linguaggio villanesco ampliata al di là della credibilità» (I. Paccagnella, Il fasto delle lingue. Plurilinguismo letterario nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1984, p. 224).

10 Maria Corti, «Strambotti a la bergamasca» inediti del secolo XV. Per una storia della codificazione rusticale nel Nord (1974), ora in Ead., Storia della lingua e storia dei testi. Con una Bibliografia a cura di Rossana Saccani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1989, pp. 273-29. Per la tavola del manoscritto vedi Giuseppe Salvo Cozzo di Pietraganzili, I codici capponiani della Biblioteca Vaticana, Roma, Tipografia Vaticana, 1897, pp. 266-272. I primi tre strambotti sono attestati anche in due stampe quasi gemelle segnalate da Ciociola, Attestazioni antiche del bergamasco letterario, cit., p. 166 nota 79; se ne può aggiungere una terza (ammesso che non si tratti del frammento di una delle due precedenti), che consta di un solo foglio, nel quale i tre strambotti fanno da prologo al Contrasto del Fiorentino e del Bergamasco di cui alla nota 12: Strambotti alla Bergamascha, s.n.t., Sevilla, Biblioteca Capitular y Colombina, 4.1.4(13), per cui cfr. Klaus Wagner e Manuel Carrera, Catalogo dei libri a stampa in lingua italiana della Biblioteca Colombina di Siviglia, Modena, Panini, 1991, p. 431, no 820.

11 Si tratta di un’altra idea non dimostrabile, che discende – quasi giocoforza – dall’ipotesi che l’autore degli strambotti sia bergamasco; la condivide anche I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., p. 228, secondo il quale il «copista ignaro, in ossequio al genere», compie «un errore per così dire di ipercorrettismo».

12 Cfr. a questo proposito le osservazioni sul cinquecentesco Contrasto del Fiorentino e del Bergamasco in Ciociola, Attestazioni antiche del bergamasco letterario, cit., pp. 169-170 (con riscontri interessanti fino a Manzoni e al Gadda del Castello di Udine); nonché Mirko Tavoni, Il Quattrocento, Bologna, il Mulino, 1992, p. 149 (poi rist. anast., Padova, Libreria Universitaria, 2015). Per Gadda mi sia consentito riportare anche il bon mot tratto da un’intervista ad Arbasino del 1963: indugiando sui successori del latino vinum, dopo l’italiano vino, il milanese vin e il bresciano Gadda arriva al «bergamasco [...] ‘i’, spaventosa erosione della matrice ‘vinum’, opera dell’abominevole dialetto bergamasco, secondo i tromboni moraloni accademici della moralità linguistica... Senonché nella gloriosa e stupenda lingua del grande La Fontaine [...] per dire ‘agosto’ attraverso le successive erosioni di ‘augustus mensis’ si passa da ‘aoust’ a ‘août’; e finalmente alla fonazione ‘u’ che come erosione fonetica equivale allo ‘i’ dell’‘abominevole’ bergamasco...» (da ultimo in Alberto Arbasino, L’Ingegnere in blu, Milano, Adelphi, 2008, p. 50). All’altro capo dell’intervallo temporale qui considerato può essere ricordata – da uno dei Sermones de sanctis del predicatore Gabriele Barletta (morto dopo il 1480) – la «Facetia de Bergomensi Bononie, qui portam transire volebat non soluto precio. Cum vellet transire, facit se Florentinum dicens: “E’ só mi da Floreza”. Unde fuit cognitus» (si veda Lucia Lazzerini, «Per latinos grossos...». Studio sui sermoni mescidati, «Studi di filologia italiana», XXI (1971), pp. 219-339: p. 277).

13 Cfr. I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., p. 183.

14 Cito il testo da M. Tavoni, Il Quattrocento, cit., p. 275 (che si rifà, con qualche ritocco, alla Corti; avverto che qui e sempre ho usato le vocali con accento acuto invece che circonflesso per indicare la caduta della nasale: dunque e non , e così via).

15 L’espressione sta in Domenico De Robertis, Due altri testi della tradizione nenciale, «Studi di filologia italiana», XXV (1967), pp. 109-153: p. 124.

16 Il testo sta alla c. 302r dell’Ottelio e alla c. 196v del Vaticano (e lo cito qui con l’incipit più verosimile, secondo la proposta ricostruttiva di Michele Messina): sul secondo manoscritto vedi Claudio Ciociola, Reliquie di un’antica pastorella anglonormanna in un «bastardello» toscano del Quattrocento, «Studi Medievali», s. III, XXVI (1985), pp. 721-780: p. 730 e nota 26 (dov’è annunciata una nuova edizione del pezzo) e Id., Attestazioni antiche del bergamasco letterario, cit., p. 167. Dare un’edizione del sonetto non è semplice: la lezione del Vaticano è corrotta in senso toscaneggiante, e uno strappo alla porzione inferiore sinistra della carta ha mutilato i versi dal settimo in poi; l’Ottelio ha a sua volta segni di aggiunta o correzione, a testimonianza delle incertezze del menante, e in entrambi i testimoni l’incipit è ipermetro (V: I’ son di vo madon i(n)namorà sì fis; O: Madun i’ sum i(n)amorò de vu sì fis): per ora vedi Michele Messina, Le rime di Francesco Accolti d’Arezzo umanista e giureconsulto del sec. XV, «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXII (1955), pp. 173-233: pp. 223-225 (alla messa a punto del testo non dev’essere stato estraneo Gianfranco Contini, ringraziato da Messina e allora tra i direttori del Giornale).

17 Al secondo verso emendo barcho di O in balcho (attestato in V), perché di balcone e non di barcone si tratta (è pur vero che sporadici esempi bergamaschi di rotacizzazione di l sono documentati da Etienne Lorck, Altbergamaskische Sprachdenkmäler (IX-XV. Jahrhundert), Halle a. S., Niemeyer, 1893, p. 27, ma si tratta di contesti quasi sempre intervocalici); al terzo verso ritocco en in em (V ha qui una lezione sensibilmente diversa, mal leggibile per via della carta danneggiata); l’ultimo verso è ipometro (O reca, per la precisione, parte con e cassata: intervento ineccepibile dal punto di vista linguistico).

18 Per pilot cfr. il pavano piloto ‘dardo’ nei sonetti dello stesso codice Ottelio: cfr. I. Paccagnella, Vocabolario del pavano (XIV-XVII secolo), Padova, Esedra, 2012, p. 521.

19 Noto che anche un vocabolo come pilot ‘freccia’ è topicamente associato alla situazione dell’innamoramento nella produzione rusticale: si veda l’incipit del sonetto pavano quattrocentesco Amor con un carcasso de piluoti (‘Amore con una faretra di frecce’), per il quale cfr. I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., p. 212.

20 L’unica descrizione completa del codice è quella fornita da Maria Cristofari, Il codice Marciano It. XI, 66, Padova, Cedam, 1937; sulla sua fisionomia e il suo rilievo vedi le importanti osservazioni di I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., pp. 209-231. Qualche altro frustolo bibliografico sul manoscritto in Ruzante, Moschetta, a cura di L. D’Onghia, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 304-306; e va rammentata da ultimo la riedizione 2020, con ritocchi, degli Scritti di Pietro Aretino nel Codice Marciano It. XI 66 (=6730) curati da Danilo Romei per la Banca Dati “Nuovo Rinascimento” (anche sulla pagina Academia.edu dello studioso).

21 Vedi I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., p. 221. Il problema dei rapporti tra i due strambotti “nuovi” e i sette tramandati anche dal Capponiano è affrontato e risolto in un ampio studio di Claudio Ciociola sul Contrasto del Fiorentino e del Bergamasco di prossima pubblicazione.

22 Sevilla, Biblioteca Capitular y Colombina, ms. 5.3.25, sezione quinta, c. 34r (71r dell’intero codice). La sezione, che secondo il sommario iniziale contiene «Poesias varias en teutonico» – ma una mano successiva ha corretto «teutonico» scrivendo «(en italiano)» – contiene una serie di testi scritti da due mani su due tipi di carta diversa: alla prima mano (A), più posata e di modulo minore, pertengono le cc. 1-30; alla seconda mano (B), più mossa e più grande, che usa un inchiostro più scuro, pertengono le carte 31-38 (con due date identiche: sia a c. 31r che a c. 33r si legge «1495 adj 26 maço»). Il contenuto del codice è stato descritto, senza specifiche attenzioni per il nostro testo, in Pier Paolo Vergerio Jr., Comedia Vergeria, frammento inedito a cura di Paola Vecchi Galli, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1980, pp. XXIX-XXXVIII: pp. XXXII-XXXV per la sezione quinta; vedi della stessa studiosa anche Strambotti anonimi quattrocenteschi da un codice della Colombina di Siviglia, in Sandra Saccone, Tommasa La Spada e Renzo Rabboni (a cura di), Studi in onore di Raaele Spongano, Bologna, Boni, 1980, pp. 173-193.

23 Solo un paio di osservazioni: al v. 5 è problematica la lettura di voi (la lezione del Marciano – che posso citare grazie a Claudio Ciociola – è «quand sarò mort, ’t vorà fosbé pentì’»); al v. 6 stampo «ma quest n’è mig lui at da inamorada», ipotizzando un uso del pronome tonico in posizione postverbale analogo a quello testimoniato a più riprese fin dal blasone di Barletta (nota 12) e dai sonetti di Sommariva, per es. I.6 «l’è lu vir» ‘è vero’, II.9 «l’ha lu fà’ metì’» ‘lo farà mettere’, III.3 «l’era bé lu nona» ‘era l’ora nona’ etc. (altri esempi presso L. D’Onghia, I sonetti bergamaschi di Giorgio Sommariva, cit., pp. 195-196; il costrutto meriterebbe di essere studiato sistematicamente).

24 Togna è la bella cantata negli strambotti che si leggono in calce alla Massera da bé (cfr. nota 26); e più tardi Giulio Cesare Croce scriverà un Ciacciaramento o Chiacchiaramento che fa un contadino per amore della Togna di cui si conoscono almeno tre stampe diverse (http://badigit.comune.bologna.it/GCCroce/index.html, data dell’ultima consultazione: 27/06/2020).

25 Su cui cfr. C. Ciociola, Attestazioni antiche del bergamasco letterario, cit., pp. 166-169.

26 Cfr. Galeazzo dagli Orzi, La massera da bé, a cura di Giuseppe Tonna, Brescia, Grafo, 1978, pp. 251-268 per il testo della mattinata bergamasca. Tonna – seguito da tutta la bibliografia successiva – data la Massera al 1554 fidandosi di un colofone su cui torneremo, e assegnando a quell’anno la stampa custodita alla Queriniana di Brescia con segnatura Cinquecentine II 12 (la datazione al 1554 è accolta, pur dubitativamente, anche in EDIT16 CNCE 70432 e USTC 831367, oltre che da Edoardo Barbieri, Francesco Novati e l’editoria popolare bresciana tra Quattro e Seicento, in Valentina Grohovaz (a cura di), Produzione e circolazione del libro a Brescia tra Quattro e Cinquecento, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 133-164: p. 144). La stampa in questione non può tuttavia essere anteriore agli anni Ottanta del Cinquecento, dato che i suoi editori sono gli eredi di Giacomo Turlino (che non va confuso con lo zio Giacomo Filippo, attivo fino al 1582: vedi EDIT16 CNCT 6297), e dato soprattutto che il testo degli strambotti è toccato da vari interventi censorî (vedi già L. D’Onghia, Pluridialettalità e parodia, cit., p. 20 nota 55; spicca in tal senso la dicitura sul frontespizio Con Licenza de’ Superiori). L’edizione materialmente più antica, e testualmente poziore, è dunque quella stampata a Venezia senza indicazioni di editore con data 1565 (EDIT16 CNCE 52869, USTC 831368). Il colofone che contiene la data 1554, attestato in entrambe le stampe, pare burlesco e potrebbe riferirsi per altro alla sola mattinata bergamasca («Stampada [...] in laude della famosa & nobile madonna madonna [sic] Mandalozza delli Bettoli, in del mes de Bergamasca, sul merchat de Settember a dì 29. de sta settemana milli ccccc. e quaranta quatordes»); segue un secondo colofone che si riferisce invece all’intero libretto e a «Messer Galeazzo dagli Orzi», senza però alcuna indicazione di data.

27 Cfr. Piera Tomasoni, Nota sulla lingua della «Massera da be», in Pietro Gibellini (a cura di), Folengo e dintorni, Brescia, Grafo, 1981, pp. 95-118; e più recentemente Ead., Nuovi appunti sulla «Massera da be», «Letteratura e dialetti», 3 (2010), pp. 83-96, con particolare attenzione al lessico. Per la distinzione linguistica tra testo della Massera, bresciano, e testo della Maitinada, bergamasco, vedi anche Angelo Stella, Lombardia, in Luca Serianni e Pietro Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana, III. Le altre lingue, Torino, Einaudi, 1994, pp. 153-212: p. 173 nota 14.

28 Rinvio qui solo ad Alfredo Stussi, Tracce, Roma, Bulzoni, 2001.

29 La massera da bé, per dritta lom Flor da Coblat [...], Venezia, senza indicazioni di stampatore, 1565, c. Cvv.

30 Codsela (v. 3) indica la glandula (Antonio Tiraboschi, Vocabolario dei dialetti bergamaschi antichi e moderni, Bergamo, Bolis, 1873, p. 350) o l’emorroide (I. Paccagnella, Vocabolario del pavano, cit., p. 147), ma qui è usato come intercalare violento, secondo l’uso testimoniato da una glossa folenghiana («Cagasanguis, angonaia, giandussa, codesella, sunt rusticorum blasphemiae»: cito da Federico Baricci, Geosinonimi folenghiani nelle glosse della Toscolanense. Per un glossario dialettale diacronico del «Baldus», «Studi di Lessicografia Italiana», XXXIV (2017), pp. 167-205: p. 169 nota 6, e vedi anche Teofilo Folengo, Macaronee minori, a cura di Massimo Zaggia, Torino, Einaudi, 1987, p. 15 e nota). Egualmente rustico è il verbo sberlus ‘risplende’: vedi tra l’altro A. Tiraboschi, Vocabolario dei dialetti bergamaschi antichi e moderni, cit., p. 1147 s.v. sberlüsì, e I. Paccagnella, Vocabolario del pavano, cit., p. 646; nonché Baldus VI 137, dove la voce è riferita alla bellezza femminile: «has bellas cernis, Tognazze, reinas? / cur tam sberlucent? stellis incago daverum» (Teofilo Folengo, Baldus, a cura di Emilio Faccioli, Torino, Einaudi, 1989, p. 186; trad. del curatore: ‘Ma non vedi, Tognazzo, che belle regine? E com’è che sono così lustre? Al confronto, sulle stelle ci cago sopra’).

31 Cfr. F. Baricci, «Ol prim cant de Orlandì». Un nuovo testimone del travestimento bergamasco dell’«Orlandino» di Pietro Aretino, «Studi di filologia italiana», LXXXVI (2018), pp. 421-431 (il pezzo in questione non è anteriore al 1540: ivi, p. 423, nota 7); e prima, più in generale, Id., Un travestimento bergamasco dell’Orlandino di Pietro Aretino, cit.

32 Ol prim cant de Orlandì stramudat in buna lengua da Bergem [...], s.n.t., c. [4v] (New Haven, Yale University, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Commedia dell’arte 2; descrizione accurata dell’esemplare in F. Baricci, «Ol prim cant de Orlandì», cit., pp. 423-424).

33 All’ipermetria dell’ultimo verso si può porre rimedio espungendo la e iniziale. La distribuzione dei versi ipotizzata nella trascrizione diverge sensibilmente da quella della stampa (per qualche indicazione sul genere della villanella vedi Pietro G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, il Mulino, 1994, § 97, nota 151).

34 Prima di passare ai materiali tipografici su cui mi fermerò poi in via esclusiva, segnalo una notevole trouvaille merito di Luca Burzelli, che ha individuato cinque sonetti bergamaschi inediti (quattro dei quali riferibili al 1505) alle cc. 70r-71r del ms. Italien 2164 della Bibliothèque Nationale de France (si tratta dei pezzi numerati 6, 7, 8, 9 e 14). Mi auguro di poterli studiare (o far studiare) presto.

35 Sulle cosiddette stampe popolari o cheap print rinvio a pochi lavori recenti: Rosa Salzberg, Ephemeral city. Cheap print and urban culture in Renaissance Venice, Manchester, Manchester University Press, 2014, rist. 2016 (anzitutto il cap. I: ‘Every piece of rubbish given to the press’: defining and debating cheap print, pp. 18-46); Gabriele Bucchi, Paola Cosentino e Giuseppe Crimi (a cura di), L’editoria popolare in Italia tra XVI e XVII secolo. Testi, collezioni, mestieri, Manziana (RM), Vecchiarelli, 2019; David Atkinson e Steve Roud (a cura di), Cheap Print and the People. European Perspectives on Popular Literature, Newcastle upon Tyne, Cambridge Scholars Publishing, 2019 (in particolare il saggio di Laura Carnelos, Cheap Printing and Street Sellers in Early Modern Italy, pp. 324-353). Meritano una menzione a parte gli studi pionieristici compiuti su questa materia da Francesco Novati, ora riuniti in Edoardo Barbieri e Alberto Brambilla (a cura di), Scritti sull’editoria popolare nell’Italia di antico regime, Roma, Archivio Guido Izzi, 2004.

36 Si può senz’altro ripetere con I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., p. 219 nota 119 che «uno spoglio del materiale bergamasco manoscritto o a stampa è tutto da fare».

37 Se si escludono quelli teatrali, che qui non considero, i testi bergamaschi cinquecenteschi pubblicati con cure appropriate si riducono a una manciata: vedi in ordine cronologico la mattinata in G. dagli Orzi, Massera da bé, cit., pp. 251-268; I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., pp. 185-208 (due testi in versi tramandati dal Marciano XI 66, Le sentencie perse e La devota oratió del beat Cresimà); Id., Egloga interlocutori un bergamasco e un zentil homo venician dananti de monsignor Papa menestra, in Antonio Daniele (a cura di), Antichi testi veneti, Esedra, 2002 («Filologia veneta» VI), pp. 197-205; L. D’Onghia, «Frotola de tre vilani» bergamasca (1527), «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», VIII (2005: ma 2007), pp. 187-206; F. Baricci, Un travestimento bergamasco dell’Orlandino di Pietro Aretino, cit. e più di recente la tesi di laurea di Edoardo Colombaro, Una stampa popolare del XVI secolo: il «Dialogo de un zao e d’una ruiana». Con due testi alla bergamasca. Edizione critica, relatore Alessio Decaria, Università degli Studi di Udine, a.a. 2017/2018 (vi sono pubblicati l’Exortation di ser Pasqual Tetamozi e la Frottola di ser Comin da Bergamo che si leggono in appendice al Dialogo de uno zao e d’una ruiana conservato in copia unica alla Biblioteca Arcivescovile di Udine). Molti materiali preziosi sono ricavabili anche dal lavoro di Vito Pandolfi, La commedia dell’arte. Storia e testo, prefazione e bibliografia aggiornata di Siro Ferrone, Firenze, Le Lettere, 1988 (sei volumi, ed. or. Firenze, Sansoni, 1957-1961); ma l’omogeneità dei criteri editoriali e i problemi filologico-linguistici non erano – del tutto legittimamente – al centro degli interessi di Pandolfi.

38 Mi riferisco ai materiali radunati in I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., pp. 219-220, nota 119 anzitutto sulla base delle collezioni della British Library e della Marciana.

39 Questo regesto dipende quasi interamente dallo Universal Short Title Catalogue (https://www.ustc.ac.uk/, data dell’ultima consultazione: 27/06/2020). In assenza di altri dati oggettivi (autore, data e stampatore mancano molto spesso), seguo l’ordine dei numeri di scheda dello USTC, trascrivendo i frontespizi in maniera scorciata e semplificandone la grafia secondo l’uso moderno:

1. Un capitolo in lingua bergamasca. Nel quale si dimostra tutte le arte esser disgratiate. Nuovamente composto per Zan Presutto. Con alcune stanze sopra il mangiamento del Zanni [...], Firenze, s.n.t. (USTC 761979)

2. Consonancie di Eco. Molto belle sopra la bellezza di madonna Laura, s.n.t. (USTC 762058; contiene, giusta una segnalazione di Biondelli, il testo anche bergamasco Nozze del Zane: vedi qui Federico Baricci, Le sonettesse «di varii linguaggi» di Giulio Cesare Croce, § IV dell’Appendice e nota 77)

3. Frottole de un conza lavezzi con la sua donna. Con el contrasto de uno fachin e de un schiavon [...], s.n.t. (USTC 762101)

4. Frotula ala bergamasca con alcuni sonetti stampati ad istancia de Felis Bergamascho. Comedia de uno maistro da valli e tre done [...], [Venezia, Felice da Bergamo], s.d. (USTC 762103)

5. Frottola nuoua de uno villano bergamasco, il quale andette a uno monasterio per uolerse far frate per non uoler lauorare, cosa molto diletteuole. E una barceletta alla bergamasca [...], s.n.t. (USTC 762395)

6. Genologia di Zan Capella, fatta in una bellissima matinata [...], s.n.t. (USTC 762459)

7. Varie canzoni alla villotta in lingua pavana [...], s.n.t. (USTC 762466; il sesto componimento è un sonetto bergamasco)

8. Dui capitoli in lingua bergamasca, molto sententiosi, e di gran spasso, s.n.t. (USTC 762541)

9. Nuova scelta di vilanelle [...]. Con un dialogo del Patron, e del Zane, s.n.t. (USTC 762822)

10. Il lamento della femena di pre Augustino [...]. Con una frottola d’vn fachin che gli dà la bala, s.n.t. (USTC 762824)

11. Lamento di pre Augustino [...]. E in fine una barzelletta d’un fachino alla bergamasca, s.n.t. (USTC 762825)

12. Dialogo de un zao e d’una ruiana [...] Con una exortatione alla bergamasca che fa Ser Pasqualin tetamozi zao alle puttane che debino fare bene: E una frotola dove Ser Comin da Bergamo narra al populo [...], s.n.t. (USTC 762900; i testi bergamaschi sono pubblicati da Colombaro: vedi nota 37)

13. La piacevole astrologia di Ravanello. Nella qual si dichiara a tutti gli uomini quello a che sono inclinati. Con la ridiculosa geneologia di Zanni, e de Zanul, cun tug i so’ antecessoribus [...], s.n.t. (USTC 762931)

14. La ridiculosa gieneologia de Zani e del Zanul cum tug i so’ antecesur. Con una lettera de m. Benetto Cantinella, interlocutori Zane, Ravanello astrologo Bergomensis, s.n.t. (USTC 762932)

15. Opera nova nella quale si contiene la canzone del molinaro [...] e alcune vilanelle alla napolitana, e alla bergamasca, s.n.t. (USTC 762941)

16. Opera noua nella quale si contiene un lamento [...] Con un dialogo del Fortunato, e del Zanne [...], s.n.t. (USTC 762942)

17. Opera nuoua dove si contiene una caccia amorosa, tramutata alla bergamasca [...], s.n.t. (USTC 762944)

18. Vita e costum de mesir Zan Tripó om liberal e om che cercaua li comoditag, com un capitolet de mesir Francesc Petrarca trasmutat in lingua da Bergem opera ma plu sentida, Venezia, s.n.t. (USTC 762957)

19. Viaggio di Zan Menestrù. Opera nuva [...], Modena, s.n.t. (USTC 763058)

20. Opera nova dove si contiene un inuito de alcuni pastori [...] con un dialogo del patrone, e del Zani [...], s.n.t. (USTC 763088)

21. Opera nuova [...]. Con un contrasto de dui fachini alla bergamasca. E un capitolo petrarchesco alla bergamasca, s.n.t. (USTC 763253)

22. Capitolo in lingua bergamasca, qual narra un insonio delettevole, e come il povero Zanni dormendo, li parea esser all’inferno [...] con un lamento bellissimo. Composta nuovamente per Zan Fritella da Val Luganega, s.n.t. (USTC 763757)

23. Il sontuoso pasto fatto nelle nozze del Zacchagna di Val Pelosa [...], Macerata, Martellini, 1593 (USTC 763927)

24. Opera nuova dove si contiene madrigali, sonetti, canzoni [...] Tutte cose oneste [...] nuovamente da Zan Fritada [...] poste in luce, Venezia, ad signum Reginae, 1585 (USTC 764748)

25. Testamento del Gian ala Bergamasca composto novamente, Brescia, Turlino, 1534 (USTC 800783)

26. Desperata, testamento e transito de Gratios da Berghem per Venturina de Val Lugana. Composta per el dottor Farina [...], Venezia, Stefano Bindoni, 1551 (USTC 800973)

27. Dialogo in sdruciolo. Con un capitolo amoroso, Venezia, Ghedini, 1578 (USTC 801286; il Dialogo ha tra gli interlocutori uno Zanni che parla bergamasco)

28. Opera nova in lingua bergamasca, qual narra de tutti gli gradi della vita umana [...], Venezia, ad signum Reginae, 1585 (USTC 801411)

29. Opera nella quale si contiene il maridazzo della bella Brunettina, sorella de Zan Fritada de Valpelosa [...], Venezia, ad signum Reginae, 1585 (USTC 801413)

30. Opera nuova non più stampata, con un sonetto delle nozze di Zan Panza di Pegora [...] con molti lenguaggi di diversi paesi [...], Venezia, ad signum Reginae, 1585 (USTC 801414)

31. Desperata de un cestariol bergamasco [...], Venezia, ad signum Reginae, 1587 (USTC 801473)

32. Le malitie d’i vilani con alquanti stramotti alla bergamasca, e uno contrasto de uno fiorentino e uno bergamasco, s.n.t. (USTC 801824)

33. Il lamento d’Olimpia, con un capitolo del Petrarca in lingua bergamasca, con alcune stantie todesche [...] tradute e composte per Zane del Vecchio, s.n.t. (USTC 802530)

34. Frottula nova tu n’andarè col bocalon. Con altri sonetti alla bergamasca [...], Brescia, Turlino, s.d. (USTC 802791)

35. Barzelletta nova [...] con un’altra barzelletta de una bravaria composta per el facetto omo nominato Zan Tripon cosa da ridere, s.n.t. (USTC 802864)

36. Strambotti alla bergamasca, s.n.t. (USTC 802902)

37. Le laude de’ macheroni, e un capitolo di m. Francesco Pedarca. Con li secreti de Val Pelosa, tradotti in bona lingua da Berghem, Venezia, s.n.t. (USTC 802931)

38. Frottola nova: tu n’andarè col bocalon, con altri sonetti alla bergamasca [...], s.l., Paulo Danza, s.d. (USTC 802991)

39. Le ridiculosa canzone de mistro Pizin da le calde arost [...] cosa da far crepar da rider e morir da fame. Nuovamente composta, in lingua bergamasca, Venezia, Pagan, s.d. (USTC 803017)

40. Barzellette nuove ala bergamasca, Siena, Nardi, 1547 (USTC 803216)

41. El dialogo de un magnifico con Zani bergamasco, con una canzon alla bergamasca, s.n.t. (USTC 803402)

42. Dechiaratione di un salmo sopra la felicissima vittoria [...] e un sonetto alla bergamasca [...], s.n.t. (USTC 804848)

43. Dialogo di Caracosa, e Caronte [...]. Con due barzellette nove [...] e un sonetto in lingua bergamasca [...], s.n.t. (USTC 804854)

44. Dialogo di Caracosa, e Caronte [...]. Con una barzelletta nova [...] e dui sonetti uno in lingua bergamasca [...], s.n.t. (USTC 804855)

45. Successo della felice vittoria, che ha conseguito l’armata cristiana [...] E aggiuntovi di nuovo duoi sonetti, uno in lingua venetiana, & l’altro in bergamasco, s.n.t. (USTC 804941)

46. Opera nova dove si contiene madrigali, sonetti, canzoni [...] Novamente da Zan Fritada [...] posta in luce, s.n.t. (USTC 805028)

47. Contrasto del Fortunato, e del Zani in ottava rima. Con alcune stanze in lingua bergamasca del magnar del Zane [...], s.n.t. (USTC 805287)

48. Opera nuova [...] composta per Zan Bagotto (USTC 805323; contiene anche un Contrasto tra uno Zani poltron e Cortese bravo e un Contrasto del Padrone e del Zani)

49. Opera nuova nella quale si contiene un insonio, che ha fatto il Zanni Bagotto, in lingua bergamasca [...], s.l., s.n.t., 1576 (USTC 805324)

50. Opera nova dove troverai varie canzoni in lingua tosca, venetiana, e bergamasca [...], Venezia, Ghedini, 1578 (USTC 805435)

51. Frottola a piè d’un colle adorno. Con un viagio del Zane a Venetia, & narra la confusione dei venditori del ponte di Rialto, Venezia, Ghedini, 1579 (USTC 805483)

52. Comedia di Saltafosso, e di Madonna Marcolina. Aggiuntovi un dialogo in lingua bergamasca di Maifrì, e Tonul [...], Siena, s.n.t., 1581 (USTC 805656)

53. Pronostico nuovo sopra l’anno presente [...] Con una disputa del Zanol che ’l fa con missier Ravanel [...], Venezia, al Segno della Regina, 1581 (USTC 805695)

54. La laude d’i Macaroni, con un capitolo di m. Francesco Petrarca trasmutato in lingua bergamasca. Con li secreti del Zagagn`ı de Val Pelosa, tradotti in lingua da Berghem, Venezia, ad signum Reginae, 1584 (USTC 805907)

55. Le lod e onor de la chiaf, rexina di tug insavei e istromeg, cavata da tug i quaderegn dol dottor Bergamì [...] E per ol Zanol`ı Fritada recitata per sprolech in una comedia. E azont de nuf la nineta alla merdamastega, Venezia, ad signum Reginae, 1585 (USTC 806022)

56. L’Amoroso lamento fatto da Olimpia lasciata da Bireno nell’isola del Pianto. Composta da Zan Salciza in lingua bergamasca [...], Venezia, ad signum Reginae, 1586 (USTC 806084)

57. Pronostico nuovo sopra l’anno presente [...] con una desputa del Zanol che ’l fa con missier Ravanel [...], Venezia, s.n.t., 1586 (USTC 806144)

58. Dui bellissimi sonetti, in lingua bergamasca. Nel primo di quali si dichiara la bellezza di Venetia, e nel secondo la dottrina del Zani [...], Venezia, ad signum Reginae, 1587 (USTC 806204)

59. Stanze composte in lingua bergamasca nella morte di Ludovico e Hippolita [...], Bologna, Bonardo, 1587 (USTC 806265)

60. Le Bizarie ridiculose de zan Panza de Vaca da Cremona, Bologna, Vittorio Benacci, s.d. (USTC 806312)

61. Opera nova dove si contiene strambotti del Serafino, con una stanza [...] e una canzone [...] con un ragionamento [...] con un madrigale. Tutte cose honeste [...] novamente da Zan Fritada [...] poste in luce, Pesaro, Concordia, 1588 (USTC 806369)

62. Nuova scelta di villanelle [...] con la canzon de Caterinon con la Tognina. Raccolte da Zan Cazamolletta [...], Torino, Chiara Golito De’ Ferrari, s.d. (USTC 806577)

63. Canzone in sdrucciolo di doi pastori. E altre bizarie ridiculose. Opera di Zan Panza da Vacca, Milano, Pandolfo Malatesta, s.d. (USTC 806865)

64. Frottola nuova de doi vilani che vanno da la rasone. Con un Capitolet de messer Francesco Petrarca trasmudat in lingua da Berghem, Milano, Malatesta, s.d. (USTC 806876)

65. La laude d’i macaroni, con un capitolo di m. Francesco Petrarca, trasmutato in lingua bergamasca. Con li secreti del Zagagn`ı de Val Pelosa, tradotti in lingua da Berghem, Venezia, s.n.t., 1595 (USTC 806960)

66. Orland furius. De misser Lodovic ferraris, novament compost in buna lingua da Berghem, e de oter vocabul lombardi adornat, Venezia, Bindoni, 1550 (USTC 810533)

67. Orland furius. De misser Lodovic Ferraris. novament compost in buna lingua da Berghem indirizat dal Gobo da Venesia a M. Pasquì, Venezia, Bindoni, 1553 (USTC 810535)

68. Roland furius, stramudat in lengua bergamasca per il dottur Zanul da Milan, s.n.t. (USTC 810654)

69. Rolant furius stramudat in lengua bergamascha per ol Zambó de val Brombana, s.n.t. (USTC 810666)

70. Filippo Azzaiolo, Terzo libro delle villotte [...] con alcune napolitane e bergamasche [...], Venezia, Gardane, 1569 (USTC 811798)

71. Adriano Banchieri, La nobilissima, anzi asinissima compagnia delli briganti della Bastina [...], Vicenza, Eredi Perin, 1597 (USTC 812138; contiene vari testi bergamaschi, sia sonetti sia ottave)

72. Giovanni Bressani, Tumuli, tum Latina tum Etrusca tum Bergomea lingua compositi, Brescia, Turlino, 1574 (USTC 816851)

73. Canzone de santo Erculano in laude delle bellezze de una donna. E una Canzone alla Bergamasca ridiculosa, s.n.t. (USTC 820132)

74. Opera nuova de le Malitie che usa ciascheduna arte. Con un testamento bellissimo alla bergamasca [...], s.l., Paulo Danza, s.d. (USTC 820254)

75. Maridaz over sermó da fa in maschera a una sposa in lengua da Bergammasca, s.n.t. (USTC 822266)

76. Un viaggio c’ha fatto M. Pedrol, bergamasco [...], s.n.t. (USTC 822267)

77. Lamento d’un Bergamasco venuto in povertà per la carestia, con diverse altre canzoni alla Bergamasca [...], s.n.t. (USTC 822302)

78. Le mirabilissime virtù di Maestro Venturino Bergamasco [...], Venezia, s.n.t. (USTC 822331)

79. Ol prim cant de Orlandì stramudat in buna lengua da Berghem, Venezia, de Franceschi, s.d. (USTC 823485)

80. Giulio Cesare Croce, Il lacrimoso lamento che fe’ Zan Salcizza, e Zan Capella, invitando [...] tutti i fachì de le valade a pianzer la morte di Zan Panza di pegora [...], Venezia, ad signum Reginae, 1585 (USTC 824822)

81. Giulio Cesare Croce, Opera nova nella quale si contiene il maridazzo della bella Brunettina [...] e un sonetto di Fetone in bona lingua bergamasca [...], Modena, s.n.t. (USTC 824834)

82. Giulio Cesare Croce, Esordio che fa il patrone al suo servitore Zanni, esortandolo che vogli andar con lui alla guerra. Con la risposta del detto Zanni, fatta al suo patrone. Novamente composto, e stampato. Con un pasto in lingua bergamasca [...], s.n.t. (USTC 824850)

83. Un viazo che ha fatto misser Pedrol bergamasco, Modena, s.n.t. (USTC 827559)

84. Giovanni Francesco Ferrari, Le rime burlesche, sopra varii, e piacevoli soggetti [...], Venezia, Eredi Sessa, 1570 (USTC 829190; contiene testi con parti bergamasche alle cc. 72v-74r e 77r-79r)

85. Galeazzo dagli Orzi, La massera da bé [...], Brescia, Eredi di Giacomo Turlino, s.d. (USTC 831367; contiene una mattinata bergamasca)

86. Galeazzo dagli Orzi, La massera da bé [...], Venezia, s.n.t., 1565 (USTC 831368; contiene una mattinata bergamasca)

87. Contrasto d’uno Fiorentino, e d’uno Bergamasco, s.n.t. (USTC 832509)

88. Frottola del Formiga bergamasco, s.n.t. (USTC 833083)

89. Opera nova, nella quale se li contienne vilanelle alla napolitana, e alla bergamasca, s.n.t. (USTC 833569)

90. Cosa nuova, desperata de un cestarol bergamasco, Venezia, Pagan, 1554 (USTC 833732)

91. Capitolo in lingua Bergamasca, qual narra un insonio dilettevole [...], s.n.t. (USTC 833815)

92. Capitolo in lingua bergamasca molto bello [...], s.n.t. (USTC 833825)

93. Dialogo over contrasto d’amore del Fortunato e del Zani [...], s.n.t. (USTC 833829)

94. Due bellissimi sonetti in lingua bergamasca: nel primo di quali si nara la belleza di Venetia, e nel secondo la dottrina del Zani, s.n.t. (USTC 833830)

95. Erculana, in contrasto del Fortunato e del Zani [...], s.n.t. (USTC 833831)

96. Capitolo di Zan Sgrafigna a suo figliuolo in lingua Bergamasca, Pavia, s.n.t. (USTC834353)

97. Viaggio de Zan Padella, cosa ridiculosa e bela [...], s.n.t. (USTC 834397)

98. Viaggio de Zan Padella [...], Modena, s.n.t. (USTC 834401)

99. Frottole nuove de Lazaro de Cruzola. Con [...] due barzellette alla bergamasca [...], s.n.t. (USTC 837663)

100. Giovanni Paolo Lomazzo, Rabisch dra Academiglia dor compa Zauargna [...], Milano, Gottardo Da Ponte, 1589 (USTC 838470; è in bergamasco il sonetto II 55 di Bernardo Rainoldi)

101. Alcune ottave composte in dichiaratione di tutto l’Ariosto. E la tramutatione di esse alla bergamasca fatta da Zan Capella, Modena, s.n.t. (USTC 839539)

102. Frotola de Magagnò per la vittuoria dei nuostri signuore contra i Turchi, Venezia, Muschio, 1571 (USTC 839541; contiene un sonetto bergamasco dello Zambó di Val Brombana)

103. Tre canzoni, due in lingua Venetiana, e una in lingua Bergamasca, s.n.t. (USTC 839600)

104. Capitolo in lingva bergamasca, Qual narra vn insonio deletteuole e come il pouero Zanni dormendo li pareua esser a l’inferno [...] Composta nuouamente per Zan Fritella de Val Luganega, s.n.t. (USTC 839602)

105. Le Malitie de’ Vilani con alquanti Stramotti alla bergamasca. E uno contrasto de uno Fiorentino e uno Bergamasco, s.n.t. (USTC 839757)

106. Frotola nova de uno Bergamasco che domanda a certe donne se hanno debisogno de uno fameglio, s.n.t., 1527 (USTC 839782; contiene altri testi in bergamasco, tra i quali la frottola pubblicata in D’Onghia, «Frottola de tre vilani» bergamasca, cit.)

107. Il spasso della villa del Mantoano con una canzon tramutata in lingua bergamasca [...], s.n.t. (USTC 840156)

108. Antonio Molin, Sopra la presa di Margaritin. Con un dialogo piacevole di un greco e di un fachino, Venezia, Muschio, 1571 (USTC 843037)

109. Agostino Schiopi, Le allegre e ridiculose nozze di Zan Falopa da Bufeto. Con alcune stanze amorose [...], e due sonetti nella medesima lingua bergamasca, s.n.t. (USTC 855529)

110. Instrumento del dotor Desconzo in lingua bergamasca (USTC 870028)

111. Dialogo over contrasto d’amore del Fortunato e del Zani [...], s.n.t. (USTC 870035)

112. Due canzonette nuove [...] Con un capitolo in lingua bergamasca in disperata [...], s.n.t. (USTC 870039)

113. Invito de alcuni pastori alle ninfe [...] Con un sonetto di vn viaggio del Zani a Venetia [...], s.n.t. (USTC 870040)

114. Stancie amorose, in lingua bergamasca, s.n.t. (USTC 870041)

115. Un pasto in lingua bergamasca, s.n.t. (USTC 870043)

116. Contrasto del Fortunato e del Zani in ottaua rima [...], s.n.t. (USTC 870047)

117. Opera noua dove troverai varie canzoni in lingua Tosca, Venetiana e Bergamasca, s.n.t. (USTC 870262)

118. La pastorela con la stramutatione e la bustachina. Con un dialogo del Fortunato e del Zane [...], Venezia, al segno della Fede, s.d. (USTC 870266)

119. Invitto di alcuni pastori alle ninfe [...] Con un sonetto di un viaggio del Zani a Venetia, Venezia, al segno della Regina, 1592 (USTC 870294)

120. Strambotti d’ogni sorte. Sonetti alla bergamasca, Roma, Silber, 1500 ca. (USTC 999905)

121. Strambotti d’ogni sorte. Sonetti alla bergamasca, Roma, Besicken, dopo il 1500 (USTC 999906)

122. Strambotti d’ogni sorte. Sonetti alla bergamasca, Roma, Silber, dopo il 1500 (USTC 999907)

123. Vita e costum de Mesir Zan Tripó, om liberal [...] Con un capitolo de F. Petrarca, trasmudat in lengua da Berghem, Milano, s.n.t. (USTC 4041871)

Testi provenienti da biblioteche non coperte dallo USTC (all’aprile del 2020):

1. Alfabet bergamasch qual nara a lettera per lettera tre bei verseg sora ol formai [...]. Con o[t]ri stanzi in ottaua rima dol Zani Bergamasch [...], Modena, s.n.t. (Paris, Bibliothèque de l’Arsenal, 8-BL-6350-4; segnalato da Carlo Alberto Girotto, Due miscellanee di opuscoli cinquecenteschi presso la Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi, in Dentro il Cinquecento. Per Danilo Romei, Manziana, Vecchiarelli, 2016, pp. 163-207, a p. 184)

2. Frottola non più vista alla bergamasca, de un bergamascho ingenioso qual narra tutte le sue vertude [...], s.n.t. (Wolfenbüttel, HAB, A: 107.22. Eth 10, catalogo in linea)

3. Ol prim cant de Orlandì stramudat in buna lengua da Berghem [...], s.n.t. (New Haven, Yale University, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Commedia dell’arte 2: vedi Baricci, «Ol prim cant de Orlandì». Un nuovo testimone, cit.; contiene una Vilanela sempre bergamasca. Riproduzione integrale: https://brbl-dl.library.yale.edu/vufind/Record/4120041)

4. Opera nova dove troverai varie canzoni in lingua Tosca, Venetiana e Bergamasca, s.n.t. (Lyon, Bibliothèque Municipale, Rés. 366413; erroneamente raccolto sotto USTC 805435, che va riferito a un’edizione diversa; non si può escludere invece che coincida con USTC 870262)

5. Opera nova la qual nara per letere di alfabetto qual sia meglio o l’amor o ’l magnar composta in lengua bergamascaa [...], s.n.t. (Lyon, Bibliothèque Municipale, Rés. 366415)

6. Opera nuova nella quale si contiene un pasto in lingua bergamasca [...], s.n.t. (Paris, Bibliothèque Nationale de France, RES-YD-1300)

7. Pronostico nuovo sopra l’anno presente [...] Con vna desputa del Zanol che ’l fa con Missier Ravanel, s.n.t. (Lyon, Bibliothèque Municipale, Rés. 366402)

8. Vita e costvm de mesir Zan Tripó, om liberal [...], con un capitolet de messir Francesc Petrarca, trasmudat in lengua da Berghem [...], s.n.t. (Lyon, Bibliothèque Municipale, Rés. 366419)

40 Su questo specifico aspetto vedi R. Salzberg, Ephemeral city, cit., pp. 129-157 (cap. V: ‘Extreme disorder and confusion’: policing the ephemeral city) e, sia pure per testi diversi da quelli esaminati qui, Gigliola Fragnito, Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censori (secoli XV-XVII), Bologna, il Mulino, 2019, pp. 245-271 (cap. VIII: Roma tra libelli famosi, pasquinate, Avvisi e satire). L’interesse dei censori per la produzione popolare è documentato anche da Giorgio Caravale, Censura e pauperismo tra Cinque e Seicento. Controriforma e cultura dei “senza lettere”, «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 38 (2002), pp. 39-77: pp. 39-52, che si appuntano su una serie di barzellette relative al tema ideologicamente “incandescente” della carestia.

41 R. Salzberg, Ephemeral city, cit., pp. 133-134, con l’osservazione, a p. 134, che «slowly the censors realised that cheaper, more accessible works could be even more damaging than serious theology».

42 Ivi, p. 152, nota 32.

43 Ivi, pp. 138 e 153, nota 51 (con qualche ritocco a diacritici e punteggiatura nella citazione dagli atti dell’interrogatorio, che non ho potuto ricontrollare sugli originali). L’interesse di De Franceschi per la produzione di tipo popolare è testimoniato dai 66 titoli riferibili alla sua officina censiti in EDIT16: si notano tra l’altro operette devote, romanzi cavallereschi e cronache di guerra, villanelle e canzonette anonime, lamenti. G. Fragnito, Rinascimento perduto, cit., p. 266 rammenta anche una sua edizione delle rime e delle satire ariostesche apparsa nel 1570, che pur dichiarando i testi purgati non differirebbe dagli originali: ma stando a EDIT16 (CNCE 2772, con riproduzione del frontespizio) l’edizione in questione si limita a dichiarare le satire «con somma diligentia ristampate».

44 Vedi ancora R. Salzberg, Ephemeral city, cit., p. 139. Anche il catalogo di Matteo Pagan ricavabile da EDIT16 (102 titoli) testimonia la fedeltà dell’editore a generi e testi popolari: commedie, barzellette, canzoni ridicolose, strambotti, mariazi, lamenti e così via.

45 R. Salzberg, Ephemeral city, cit., p. 139; segue, non a caso, l’evocazione di un testo dialettale – il Pronostico alla villota sopra le putane – che potrebbe aver suscitato le attenzioni del Sant’Uffizio (per il testo vedi M. Milani, Antiche rime venete, cit., pp. 471-485 e l’Introduzione in Ead., Contro le puttane. Rime venete del XVI secolo, Bassano del Grappa, Ghedina e Tassotti, 1994, pp. 7-20).

46 Rinvio a due casi che mi è capitato di studiare da vicino: Ruzante, Moschetta, cit., p. 297, nota 73 (per questo testo parlare di censura è però quasi improprio, data la levità degli interventi); Andrea Calmo, Il Saltuzza, a cura di L. D’Onghia, Padova, Esedra, 2006, pp. 228-240 (dov’è documentata una serie di ritocchi più sostanziosa, in part. alle pp. 239-240; Calmo, specie per le Lettere, entra presto nei radar dei censori: cfr. G. Fragnito, Rinascimento perduto, cit., pp. 58, 62-63, 117, e per le Rime Gino Belloni, Per il testo delle «Bizzarre rime» di Andrea Calmo, «Studi di filologia italiana», XXXVI (1978), pp. 419-431). Un capolavoro anche dialettale come l’Opus macaronicorum di Folengo è tra i libri più sequestrati del secolo, ma non avrà mai una versione espurgata: vedi ancora G. Fragnito, Rinascimento perduto, cit., in part. pp. 119 e 144 nota 59 (il compito di castigare il testo era stato affidato ai benedettini cassinesi), ma soprattutto l’interessante caso fatto conoscere da Andrea Canova, Un tentativo di expurgatio per l’«Opus macaronicorum» di Teofilo Folengo, «Quaderni folenghiani», 5 (2004-2005), pp. 49-70.

47 Purtroppo non ho ancora potuto esaminare autopticamente la miscellanea lionese, e non sono in grado per ora di offrire notizie sulla sua storia e la sua provenienza.

48 A testimonianza della fortuna del personaggio andrà ricordato Il ridiculoso dottoramento di m. Desconzò de’ Sbusenazzi, Venezia, Alessi, 1552 (USTC 843549), che è una delle operette pavane dell’abate Giacomo Morello, tra i primi cultori e imitatori di Ruzante: su di lui vedi I. Paccagnella, La «Terza oratione» da Ruzante a Morello, in Id. (a cura di), «parole assasonè, paìe, slettrane». Omaggio a Marisa Milani, Padova, CLEUP, 2018, pp. 249-269.

49 Poche osservazioni lessicali (che mi pare rivelino il fondo veneto della prosa, il cui bergamasco è alquanto annacquato): la maseneta è la femmina del granchio di mare (Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Venezia, Cecchini, 1856, p. 401 s.v. masaneta); grancella vale ‘granchio femmina’ (Id., Dizionario del dialetto veneziano, cit., p. 315 s.v. granzo; Valentina Nieri, «I gran cridalesmi che si fanno in Bologna nelle Pescarie tutta la Quaresima», in L. D’Onghia (a cura di), Giulio Cesare Croce autore plurilingue. Testi e studi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2017, pp. 136-172: p. 163); passarì è la passera di mare di media taglia e senza uova (G. Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, cit., p. 478; V. Nieri, «I gran cridalesmi che si fanno in Bologna nelle Pescarie tutta la Quaresima», cit., p. 160); moleca è il granchio in fase di muta che, abbandonata la vecchia scorza, ha consistenza molliccia (G. Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, cit., p. 315 s.v. granzo); spoletti è tradotto dubitativamente con ‘bacchettate’ alla luce di spoletta ‘fuscello’, ‘pezzo di canna’ con varie accezioni tecniche in molti dialetti settentrionali (vedi per es. Id., Dizionario del dialetto veneziano, cit., p. 692; A. Tiraboschi, Vocabolario dei dialetti bergamaschi antichi e moderni, cit., p. 1282).

50 Piero Camporesi, La maschera di Bertoldo. Le metamorfosi del villano mostruoso e sapiente. Aspetti e forme del Carnevale ai tempi di Giulio Cesare Croce, Milano, Garzanti, 1993 (ed. rivista e aumentata di La maschera di Bertoldo. G. C. Croce e la letteratura carnevalesca, Torino, Einaudi, 1976), pp. 281-372.

51 Il primo frontespizio cita uno dei più apprezzati attori di medio Cinquecento, Benedetto Cantinella (che si esibì soprattutto a Firenzeea Roma vestendo i panni del Magnifico); il secondo – con mossa che dice qualcosa sul cambiamento culturale in corso – intende mettersi al riparo da possibili censori. Per Cantinella cfr. Francesca Bonanni, Alla ricerca di Benedetto Cantinella, comico del Cinquecento (1980), ora in Ead., Teatro a Roma. Studi e testi, Roma, Lucarini, 1982, pp. 7-14, che alle pp. 9-11 pubblica la sua lettera (un testo burlesco in terzine).

52 Un terzo esemplare del testo sta nella collezione Landau-Finaly, ora alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, di cui non ho potuto controllare il catalogo (Franz Roediger, Catalogue des livres manuscrits et imprimés composant la bibliothèque de M. Horace de Landau, Florence, Arte della stampa, 1885-1890): vedi Francesco Novati, La Raccolta di stampe popolari italiane della biblioteca di Francesco Reina (1913), poi in E. Barbieri e A. Brambilla (a cura di), Scritti sull’editoria popolare nell’Italia di antico regime, cit., pp. 207-326,a p. 230 (Novati confonde però il nostro Dialogo over contrasto d’amore con il Contrasto del Fortunato e del Zani in ottava rima, che è altra cosa, e di cui diremo più sotto). Per la probabile identificazione del Fortunato con Paris Mantovano vedi ivi, pp. 230-232.

53 Identico schema caratterizza il testo crocesco studiato da V. Nieri, «I gran cridalesmi che si fanno in Bologna nelle Pescarie tutta la Quaresima», cit.; per altri componimenti croceschi che presentano questa struttura vedi qui F. Baricci, Le sonettesse «di varii linguaggi», cit.

54 V. Pandolfi, La commedia dell’arte, cit., vol. V, pp. 416-417; secondo Pandolfi il Viaggio de Zan Padella sarebbe a sua volta una variante della sonettessa bergamasca La bellezza di Venetia da lui trascritta ivi, vol. I, pp. 198-201 sulla base di una stampa veneziana degli anni Ottanta (USTC 806204). Ma si tratta di testi diversi: il tema è comune ma lo svolgimento differente, visto che La bellezza di Venetia è un testo tutto bergamasco, nel quale lo Zanni non cede la parola ai venditori rialtini.

55 Cfr. Monique Rouch, Bibliografia delle opere di Giulio Cesare Croce, «Strada Maestra», 17 (1984), pp. 229-272: p. 265.

56 Non ho individuato per ora altri opuscoli attribuiti allo Zanul de Val Brambana; sono suoi parenti stretti lo Zambù de Val Brombana autore di alcune operette, anche crocesche (V. Nieri, «I gran cridalesmi che si fanno in Bologna nelle Pescarie tutta la Quaresima», cit., p. 138 e nota 13) e il dottor Zanul da Milan titolare di uno dei più antichi travestimenti bergamaschi del primo canto del Furioso (USTC 810654).

57 Intervengo sulla lezione della stampa al v. 2 («e ca» e non «ne ca») e al v. 8 («l’è forza» e non «la forza»; crestir e non crestier). Per i calcinei ‘telline’ del v. 5 cfr. GDLI II 526 e V. Nieri, «I gran cridalesmi che si fanno in Bologna nelle Pescarie tutta la Quaresima», cit., p. 161 con ulteriori rinvii.

58 Nella trascrizione ho indicato tra parentesi quadre le lettere da integrare.

59 C. A. Girotto, Due miscellanee di opuscoli cinquecenteschi presso la Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi, cit., p. 184. Occorrerà accertare l’eventuale identità dell’alfabeto segnalato da Girotto con l’Alfabett in lod dol buon Formai tramandato da un foglio volante bolognese della seconda metà del XVII secolo sottoscritto dallo stampatore Francesco Maria Sarti e custodito sia all’Archiginnasio di Bologna con segnatura G-140 (http://badigit.comune.bologna.it/GCCroce/index.html, data dell’ultima consultazione: 27/06/2020) sia alla Biblioteca Trivulziana di Milano (dove il foglio, privo di una segnatura autonoma, è incollato sul contropiatto alla fine della miscellanea Triv. L2490/IV).

60 Su questo tema resta fondamentale lo studio di F. Novati, Le serie alfabetiche proverbiali e gli alfabeti disposti nella letteratura italiana de’ primi tre secoli, «Giornale storico della letteratura italiana», XV (1890), pp. 337-401; Le serie alfabetiche proverbiali e gli alfabeti disposti nella letteratura italiana de’ primi tre secoli. Testi. Serie I e II, ivi, XVIII (1891), pp. 104-147; Le serie alfabetiche proverbiali e gli alfabeti disposti nella letteratura italiana de’ primi tre secoli. Testi. Serie III, ivi, LIV (1909), pp. 36-58; Le serie alfabetiche proverbiali e gli alfabeti disposti nella letteratura italiana de’ primi tre secoli. Testi. Serie IV, ivi, LV (1910), pp. 266-308.

61 Nella trascrizione ho indicato tra parentesi quadre le lettere da integrare.

62 Intervengo sulla lezione della stampa all’ottava 1, v. 6 («chi è cercat» e non «chi a cercat») e all’ottava 2, v. 1 («tat generos» e non «tal generos») e v. 5 (om e non omo).

63 Sul tema vedi Elide Casali, Le spie del cielo. Oroscopi, lunari e almanacchi nell’Italia moderna, Torino, Einaudi, 2003. Negli immediati paraggi (anche onomastici) del nostro Zan Tripó abita un altro di questi «uomini-trippa», Zan Trippaldo (P. Camporesi, La maschera di Bertoldo, cit., p. 240)

64 Sulla connessione tra mito della Cuccagna e mito del ‘mondo nuovo’, e sulle «profonde radici popolari delle utopie, sia dotte sia popolareggianti, troppo spesso considerate mere esercitazioni letterarie», ha riflettuto per tempo Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino, Einaudi, 1999 [I ed. 1976], pp. 96-101 (la citazione tra virgolette a p. 101); vedi poi anche P. Camporesi, Il paese della fame, Milano, Garzanti, 2000 [I. ed. 1978], e le considerazioni di G. Caravale, Censura e pauperismo tra Cinque e Seicento, cit., p. 50. Sulla crisi economica che colpisce dapprima l’agricoltura e poi la manifattura italiana a partire dagli anni Ottanta del Cinquecento mi limito a rinviare a Ruggiero Romano, La storia economica. Dal secolo XIV al Settecento, in Ruggiero Romano e Corrado Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, IV. L’economia delle tre Italie, Torino, Einaudi, 1974, pp. 1813-1931 (in particolare il capitolo I meccanismi, pp. 1841-1931).

65 Nella trascrizione ho indicato tra parentesi quadre le lettere da integrare.

66 Oltre a I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., per il problema della parodia nel Rinascimento rinvio a Nicola Catelli, «Parodiæ Libertas». Sulla parodia italiana nel Cinquecento, Milano, FrancoAngeli, 2011. Il capitolo petrarchesco-bergamasco è tramandato, oltre che da quella lionese, da almeno altre quattro edizioni (USTC 762957, 763253, 806876, 4041871).

67 F. Novati, La Raccolta di stampe popolari italiane della biblioteca di Francesco Reina, cit., p. 229-230 (da qui sembra trascrivere il testo V. Pandolfi, La commedia dell’arte, cit., vol. I, pp. 262-264); un terzo esemplare del testo, appartenente a chissà quale edizione, si trovava nella dispersa collezione del Reina: F. Novati, La Raccolta di stampe popolari italiane della biblioteca di Francesco Reina, cit., p. 229, al no 16.

68 Intervengo sulla lezione della stampa al v. 5 della prima ottava, correggendo «mio exalto» in «mi exalto».

69 Segnalo in nota, per chiudere, un paio di testi bergamaschi tardocinquecenteschi in cui mi sono imbattuto alla Biblioteca Civica di Verona e che spero di poter studiare da vicino in un altro lavoro. Il secondo dei due volumi manoscritti (segnato 1348II) che tramandano l’opera – italiana, latina e dialettale – del letterato veronese Giusto Pilonni contiene alle cc. 186r-200v una serie di Rustiche e Zanate (ossia di poesie pavane e bergamasche d’occasione): le zanate includono una frottola con intestazione «Misser Zan Medec da Morbegn e Montainbac eccellentissem» (cc. 188r-191r; incipit «Sel ve plas, i me brigadi» ‘Se vi piace, brigate mie’, explicit «A Dio m’aricomand» ‘mi raccomando a Dio’) e un sonetto (c. 193v; incipit «Quando ch’a’ me record dol me’ Simó» ‘Quando mi ricordo del mio Simone’, explicit «So chem lassi vegnir stanchi i budei» ‘So che mi lascio stancare le budella’). La tavola del manoscritto – che si apre con una dedicatoria datata 2 maggio 1599 (vol. 1348I, c. 5r) – è in Giuseppe Biadego, Catalogo descrittivo della Biblioteca Comunale di Verona, Verona, Civelli, 1892, pp. 64-81 (non mancano, inframmezzate agli oltre mille testi poetici, anche lettere, orazioni e persino una commedia).