Revue Italique

La poésie et les arts

OJ-italique-480

Nel nome del fratello: Pietro Vasari e la memorializzazione poetica dell’arte nell’Italia di fine Cinquecento

Diletta Gamberini

Il presente contributo è stato scritto durante la mia borsa di ricerca della Fondazione Alexander von Humboldt presso l’Università Ludwig-Maximilians di Monaco di Baviera. Ringrazio Frédérique Dubard de Gaillarbois per il gentile invito a prendere parte a questo volume, e Massimiliano Rossi per i preziosi commenti al testo.

Una delle prime lezioni che un ricercatore di ambito letterario è costretto a imparare in un’epoca di crisi globale delle discipline umanistiche, e della sconfortante contrazione delle possibilità di fare ricerca in cui essa si è tradotta, è la verica di quanto poco appeal gli scavi nei fondi manoscritti delle biblioteche possiedano agli occhi di chi oggi può nanziare i progetti di lavoro.

Argomentare che testi poco noti o del tutto inediti attendano di essere sondati solleva ad esempio immediatamente l’obiezione, per certi aspetti sottoscrivibile, che l’oblio cui tanti di questi materiali sono andati incontro sia spesso lo scotto che essi hanno pagato per la loro modesta qualità. Più che in passato, per giusticare la riesumazione di questi documenti risulta allora necessario dimostrarne il signicativo interesse storico e culturale e ciò forse vale non solo quando si tratti di cimentarsi nel genere del grant proposal writing. Considerato quanto gli studi registrino da decenni una forte attenzione nei confronti dei mutevoli aspetti del dialogo fra le cosiddette «arti sorelle», tra le fonti che oggi meritano di uscire dal cono d’ombra in cui sono per secoli rimaste si possono magari annoverare tante poesie in grado di gettare luce sulle modalità di ricezione di pittura, scultura e architettura del loro tempo. Probabilmente meglio degli scritti dei grandi protagonisti della coeva repubblica delle lettere, questo corpus di versi di autori minori e minimi può infatti rivelare quali fossero, entro determinate koinè intellettuali, le più condivise coordinate di giudizio in materia di arti gurative. Per giunta, simili materiali orono una specola privilegiata per registrare l’inuenza che i principali lavori di storia e critica artistica di una data epoca ebbero sull’ambiente letterario circostante. In tal senso, un esempio utile proviene dalla produzione poetica di ser Pietro Vasari (1526-1595). Fratello minore, amministratore duciario, oculato erede e devoto curatore della memoria di Giorgio (1511-1574), oltre che padre di un architetto e poliedrico funzionario mediceo quale Giorgio il Giovane, Pietro Vasari fu personalità intellettuale di un certo rilievo nella Firenze del secondo Cinquecento. Questa posizione non fu il frutto della sua professione: notaio ad Arezzo, sua terra natale, dal 1549, egli esercitò infatti la propria arte saltuariamente e soltanto per pochi anni. A garantirgli l’accesso ai circoli più esclusivi della vita culturale orentina fu invece lo stretto vincolo di solidarietà familiare con chi, a partire dalla metà degli anni Cinquanta del secolo, era riuscito a divenire il plenipotenziario ministro delle imprese artistiche di Cosimo I.1 Dopo aver raggiunto Giorgio nella sua dimora cittadina di Borgo Santa Croce, nel 1556, Pietro si dedicò in via pressoché esclusiva a curare gli interessi di famiglia (senza peraltro disdegnare di prestare aiuto pratico al fratello in qualità di macinacolori), a tessere una tta rete di rapporti con gure di primo piano di casa Medici e a prendere parte alla vita letteraria del capoluogo toscano.2 Quale documento di questo impegno restano oggi una lunga commedia, Il Sensale (databile al 1585 circa), e oltre centocinquanta poesie, perlopiù sonetti e capitoli in terzine, i cui principali testimoni noti sono i codici Ricc. 2897 e 2948 della Biblioteca Riccardiana di Firenze.3 Tutti scritti che, ad eccezione di alcuni stralci pubblicati oltre un secolo fa da Ugo Scoti Bertinelli e di una manciata di citazioni nel mare magnum della bibliograa vasariana, sono nora rimasti inediti.4 Oggetto del presente contributo è appunto una piccola serie di componimenti di argomento artistico che è conservata nei manoscritti Riccardiani e che in larga parte, a quanto mi risulta, viene qui pubblicata per la prima volta. Attraverso l’esame dei legami genetici che queste poesie hanno con la orente tradizione locale di rimeria sulle arti, delle strutture concettuali alla base di questi versi e dei loro addentellati ideologici con la celebrazione delle discipline del disegno messa a punto da Giorgio Vasari nelle Vite giuntine del 1568, l’articolo tenta di contestualizzare e illustrare l’attitudine critica che tale corpus rivela nel suo costante dialogo col mondo della pittura e della scultura contemporanee.

Le più antiche tracce di simile dialogo risalgono allo stesso torno di tempo in cui l’autore si trasferì a Firenze presso l’illustre congiunto: a questo periodo può essere infatti ricondotta una lunga epistola in terzine che Pietro indirizzò a Bernardetto di Ottaviano de’ Medici. Informata dal tono ciarliero tipico del genere, e da uno sguardo attento alle dinamiche più minute della vita municipale che ricorda quello della rimeria del Lasca o di Alfonso de’ Pazzi, la poesia contiene il seguente stralcio di cronaca familiare e artistica:

[...] Apelle attende alla vostra gura,
     et vi saluta con Lorenzo insieme,
     giorno et notte in servirvi ancho procura,
et se non fusse che molto gli preme
     servir il Duca, hora che l’Amannato
     è qui comparso, ond’il Bandinel freme,
anchor lui v’harebbe visitato [...].
5

Dopo aver gentilmente declinato l’invito a raggiungere il destinatario presso la sua residenza di campagna, luogo di delizie erotiche e culinarie, in questi versi il poeta narrava di come un moderno «Apelle» fosse alle prese con la realizzazione di un’opera gurativa per l’interlocutore.6 Il riferimento è qui quasi certamente a una di quelle due scene in chiaroscuro che Giorgio Vasari dipinse nel giardino di Bernardetto de’ Medici, suo amico e committente, nel 1555.7 A conferma di simile cronologia, la menzione delle responsabilità di servizio presso il duca Cosimo che gravavano su «Apelle» a seguito dell’arrivo a Firenze, nell’estate di quello stesso anno, di Bartolomeo Ammannati, accolto con palese insoerenza dal «Bandinel». Le allusioni si spiegano infatti ricordando come fosse stato proprio Giorgio Vasari a favorire il trasferimento orentino dello scultore settignanese e come l’elezione di questi a collaboratore del pittore presso il cantiere di Palazzo Vecchio avesse determinato un exploit di gelosie professionali da parte del notoria- mente intrattabile Baccio Bandinelli, già responsabile di importanti progetti in quegli stessi ambienti architettonici.8

Una diversa testimonianza della prima fase degli interessi per pittura e scultura del nostro autore è oerta dall’inedito sonetto che egli compose in omaggio a un’altra delle glorie artistiche di Arezzo, lo scultore Leone Leoni (1509-1590):

Al signor cavaliere Leone Leoni aretino scultore

Sì come del gran Giove il do augello
     trapassa tutti gli altri nel volare,
     il
er leon sotto di sé fa stare
     ogni
ero animal qual lupo agnello:
tal l’aretin Leon col suo scarpello
     fa co’ bronzi e co’ marmi alto mugghiare
     chi far vuol come lui cose sì rare
     e trapassar l’acuto suo cervello,
sì ch’ogni Fidia al cor n’ha preso sdegno,
     ch’Arizia, patria sua, ne vada altera,
     e che Milano hoggi lo tenga in seno,
Carlo Quinto e ’l
gliuolo entro lor regno
     l’habbin d’honori e premii colm’e pieno,
     mercé di sua virtù eterna e vera.
9

La menzione del cavalierato del dedicatario, assieme a quella dei gene- rosi doni che egli aveva ricevuto da Carlo V d’Asburgo e da suo glio, permettono di individuare nel 1549 un sicuro terminus post quem per la stesura della lirica. Fu infatti in quell’anno che, durante un soggiorno alla corte di Bruxelles, il Leoni ottenne dall’imperatore e da Filippo II di Spagna una serie di commissioni e riconoscimenti economici straordinariamente munici, cui si sommò il diploma con cui veniva attribuito allo scultore aretino, da anni di stanza a Milano, il titolo di eques auratus.10 Con migliore approssimazione, la genesi del sonetto è poi verosimilmente circoscrivibile al periodo compreso tra la metà degli anni Cinquanta e gli inizi del decennio successivo. Tra il 1554 e il 1562 una schiera di poeti attivi negli scenari italiani di dominazione asburgica, quali appunto Milano e Napoli, oppure gravitanti nel contesto lo-imperiale della corte medicea, diede vita a un’opera transregionale di celebrazione in versi dello scultore cesareo e dei suoi superbi bronzi dedicati alla casa d’Austria. Giuliano Gosellini, Giovanni Alberto Albicante, Giulio Cesare Caracciolo, Francesco Vinta, Lelio Bonsi e Lucio Oradini sono solo alcuni dei protagonisti di un’impresa encomiastica che, in area orentina, ebbe il suo corifeo in Benedetto Varchi, che nel primo libro dei suoi Sonetti (1555) pubblicò ben otto liriche dedicate all’elogio di Leone Leoni.11

Il componimento di Pietro Vasari sembra inserirsi a pieno titolo in questa produzione poetica. Del tutto coerente con le nalità propagandistiche di quei versi è ad esempio il forte accento lo-asburgico della celebrazione dello scultore, nel sonetto in esame declinato anche attraverso le similitudini iniziali dell’aquila, animale che campeggia al centro dello stemma imperiale, e del leone, eletto dall’artece a proprio simbolo araldico.12 Altrettanto topici risultano poi l’omaggio agli strumenti del mestiere del bronzista, il modulo encomiastico del confronto coi più grandi scultori dell’antichità e del superamento dei competitori nel moderno agone delle arti plastiche e fusorie, il motivo dello straordinario lustro che Leoni aveva dato alla propria terra natale:13 una tematica, quest’ultima, in cui senz’altro si esprimeva anche l’orgoglio campanilistico del rimatore aretino, e forse i suoi contatti diretti con la famiglia del conterraneo artista.14 Si può a tal riguardo osservare come questi ritornelli celebrativi congurino, a dierenza di quanto avveniva spesso nelle formule di elogio a pittori e scultori degli umanisti del secolo precedente, una topica dalla pertinenza specica in rapporto al soggetto della lode, segno del prestigio ormai ampiamente riconosciuto alle arti gurative nel sistema cinquecentesco dei saperi.

Se le più antiche testimonianze dell’attenzione di ser Pietro per il mondo delle arti contemporanee hanno un valore prevalentemente documentario e poco si discostano dagli accenti e dai temi tipici di alcuni dei poeti più in vista dell’ambiente orentino, maggiori motivi di interesse ideologico presentano tre componimenti risalenti a una fase più matura della sua attività di scrittore. In questi testi è infatti possibile registrare un confronto serrato con dei luoghi di grande rilievo concettuale del capolavoro letterario fraterno, in cui venivano ad essere discussi alcuni snodi critici del rapporto fra arti sorelle. Un valido punto di partenza per approfondire simile tratto distintivo della produzione del nostro autore è oerto dal sonetto, anch’esso per quanto mi risulta inedito, che egli compose in occasione del decesso del fratello (27 giugno 1574):

Nella morte del cavaliere Giorgio Vasari

Roppe Morte crudele un vaso degno
     che tenne di virtù chiaro liquore,
     ch’al par d’Apelle havrà gloria e honore
     per studio e arte, leggiadria e ’ngegno.
Era vago, copioso ogni disegno
     che veloce facea a tutte l’hore,
     che ’n l’arte messe spavent’e stupore,
     ch’a molti concitò grand’ira e sdegno.
Cede ’l pennel di tutti alla sua penna,
     per il poema che compose e scrisse
     d’ogni scultor, pittore e architetto,
che se ben Morte hora ha tronco l’oggetto,
     viverà quant’Enea, Achille e Ulisse,
     come chiaro la fama al mondo accenna.
15

Dopo l’immagine funebre del vaso spezzato, piegata a una forma encomiastica di interpretatio nominis,16 la lirica procede a una celebrazione delle doti artistiche del defunto, ancora una volta accomunato al supremo paradigma antico di Apelle. Le qualità di «studio», «arte», «leggiadria», ingegno, vaghezza, «copia» e velocità esecutiva che Pietro commemora nell’attività del fratello pittore costituiscono, in questo senso, un ventaglio di ideali che trova puntuale corrispondenza nell’estetica enunciata in molteplici passaggi delle biograe vasariane.17 In modo particolare, diversi dei termini di questa costellazione semantica sono alla base delle considerazioni autoapologetiche che l’aretino aveva inserito, nell’edizione giuntina delle Vite, all’interno del capitolo contenente la descrizione delle proprie opere.18 Il taglio difensivo di quel discorso diventa ancora più esplicito nell’epitaio poetico in esame. La seconda quartina del sonetto è in eetti tesa a gloricare, con riferimento particolare all’indefessa attività di disegnatore di Giorgio, proprio quel dato di straordinaria prestezza e facilità esecutiva su cui si erano concentrate tante delle critiche di artisti contemporanei al pittore aretino.19 Le osservazioni pungenti di cui egli era stato oggetto vengono allora da Pietro bollate come un’invidiosa forma di «ira e sdegno» nei confronti delle miracolose doti fraterne.

Ai ni della presente indagine, l’aspetto ideologicamente più rilevante del sonetto è però racchiuso dalle terzine. È infatti in questi versi che l’autore recepisce e mette a sistema molteplici spunti di una riessione teorica intorno al rapporto tra letteratura e arti gurative che il fratello aveva aidato alle pagine delle Vite. Una riessione che verteva sull’idea che le opere della penna fossero destinate a più duratura fama di quelle di pennello, squadra e scalpello, e che per questo motivo alla scrittura spettasse la funzione di sottrarre all’oblio le imprese dei più grandi artisti. Erede di una linea di pensiero che aondava le sue radici nei pronunciamenti di auctoritates classiche quali Orazio e Plinio,20 tale motivo aveva goduto di signicativa fortuna letteraria nel Rinascimento italiano. Oltre ad essere declinato in alcune poesie umanistiche sulle arti, esso aveva ad esempio informato l’ottava d’apertura del trentatreesimo canto dell’Orlando Furioso, che preludeva alla celebre galleria dei più grandi artisti contemporanei con dei versi dedicati al tema della sopravvivenza tutta letteraria dei massimi pittori e scultori dell’antichità.21 Aermando che la raccolta biograca scritta da Giorgio, «poema» in prosa dedicato ai protagonisti della rinascita delle discipline del disegno, aveva garantito al defunto una vittoria sull’attività pittorica di ogni concorrente e la conquista di una gloria duratura come quella degli eroi dell’epica classica, Pietro sviluppava dunque un topos caro a non pochi scrittori del suo secolo. Al contempo, però, le sue parole riconoscevano il peso specico e il carattere fondativo che simili ideali avevano avuto per l’opus magnum del fratello.

Giorgio Vasari aveva dichiarato la propria fede nelle lettere come eicace strumento di commemorazione dei più transeunti prodotti di pittura, scultura e architettura in diversi luoghi delle Vite. In un passaggio-chiave del Proemio di tutta l’opera, dopo aver registrato il virtuoso desiderio di gloria e il tenace sforzo di conseguire l’eccellenza che aveva guidato tanti «spiriti egregii» sulla strada della rinascenza delle arti, l’autore aveva ad esempio così illustrato la missione alla base del proprio lavoro di storico:

Et ancora che di così laudabile studio e desiderio fussero in vita altamente premiati dalla liberalità de’ principi e dalla virtuosa ambizione delle republiche, e dopo morte ancora perpetuati nel cospetto del mondo con le testimonanze delle statue, delle sepulture, delle medaglie et altre memorie simili, la voracità del tempo nondimeno si vede manifestamente che non solo ha scemate le opere proprie e le altrui onorate testimonanze di una gran parte, ma cancellato e spento i nomi di tutti quelli che ci sono stati serbati da qualunque altra cosa che dalle sole vivacissime e pietosissime penne delli scrittori. La qual cosa più volte meco stesso considerando, e conoscendo non solo con l’esempio degli antichi ma de’ moderni ancora che i nomi di moltissimi vecchi e moderni architetti, scultori e pittori, insieme con innite bellissime opere loro [...], si vanno dimenticando e consumando a poco a poco e di una maniera, per il vero, che ei non se ne può giudicare altro che una certa morte molto vicina, per difenderli il più che io posso da questa seconda morte [...] ho giudicato conveniente, anzi debito mio, farne quella memoria che il mio debole ingegno et il poco giudizio potrà fare.22

Tali idee trovavano esatto riscontro visuale nella xilograa allegorica eletta a controfrontespizio della Giuntina del 1568. In quella scena di arteci morti e sepolti che, sotto lo sguardo delle personicazioni delle arti del disegno, tornavano in vita grazie al suono della tromba della Fama si trasfondeva infatti il credo nel ruolo eternatore della scrittura.23 Nella stessa edizione, Pietro poteva peraltro trovare un illustre precedente di omaggio in versi alla straordinaria impresa memorialistica delle Vite: un modello poetico che poteva anzi per lui risultare tanto più evocativo in quanto anch’esso informato dal convincimento che quello della penna fosse impegno più nobile e destinato a più durevole fama dell’esercizio artistico. Mi riferisco al sonetto che Michelangelo, dopo aver letto la Torrentiniana del 1550, aveva inviato a Vasari, e che questi aveva riportato nella biograa di Buonarroti del 1568:

     Se con lo stile o coi colori avete
          Alla natura pareggiato l’arte,
     Anzi a quella scemato il pregio in parte,
     Ché ’l bel di lei più bello a noi rendete,
Poi che con dotta man posto vi sete
     A più degno lavoro, a vergar carte,
     Quel che vi manca a lei, di pregio parte,
     Nel dar vita ad altrui tutta togliete.
Che se secolo alcuno mai contese
     In far bell’opre, almen cedale, poi
     Che convien c’al prescritto
ne arrive.
Or le memorie altrui, già spente, accese
     Tornando, fate or che
en quelle e voi,
     Mal grado d’esse, eternalmente vive.
24

Anche in altri luoghi della sua produzione poetica Pietro Vasari avrebbe sviluppato gli snodi concettuali alla base dell’articolata riessione delle Vite sul rapporto fra letteratura e arti gurative. Si consideri, in tal senso, l’inedito sonetto che egli scrisse intorno a un non meglio identicato ritratto che di lui realizzò Francesco Morandini, alias «il Poppi» (1544 ca.-1597):25

A messer Francesco da Poppi pittore

Poppi gentil, che con raro pennello,
     con studio, con sapere, arte e disegno
     fatto m’havete vivo in ogni segno,
     ch’ogni part’è la mia sino al capello,
ritratto non fu mai simil a quello,
     talché d’andarne al pari sète degno
     di quei che con fatica, amor, e ’ngegno
     hann’Andrea imitato, e Ra
aello.
Duolmi la penna mia non esser tale
     qual fu del Molza, Varchi, Anibal Caro,
     per poterv’illustrar con dotto inchiostro
e la front’arricchir di perle e d’ostro
     per farvi, come sète, hoggi immortale,
     e che ne gite con gli antichi al paro.
26

Il testo è diicilmente databile a causa dell’assenza di informazioni sull’opera gurativa cui esso fa riferimento. Il sonetto è in ogni caso una testimonianza importante sul ruolo storico di patrocinatore che Pietro Vasari risulta aver avuto nei confronti del Poppi, da lui fatto arrivare giovanissimo a Firenze e messo a studiare presso il fratello.27 Se, conformemente alla topica del genere della poesia rinascimentale sul ritratto, il componimento omaggia l’impressionante somiglianza dell’eigie realizzata dall’artista,28 la notazione in merito ai modelli che questi andava imitando dà prova di una sensibilità stilistica tutt’altro che banale. Il riferimento ad «Andrea», al v. 8, costituisce infatti un richiamo alla matrice sartesca che i più avvertiti contemporanei riconobbero nel linguaggio pittorico del Morandini.29 Oltre a individuare nell’artista uno degli esponenti di rilievo di quella che John Shearman avrebbe denito la stagione di «Sarto revival» del secondo Cinquecento italiano, la lirica certica l’appartenenza del destinatario alla schiera dei più devoti imitatori viventi di Raaello: un giudizio che trova riscontro nei molteplici soggetti di imitazione raaellesca delle scene allegoriche dipinte dal casentinese nel Tesoretto di Palazzo Vecchio.30

Come nel sonetto in morte di Giorgio Vasari, all’elogio artistico delle quartine segue nelle terzine la riaermazione dell’idea che solo la letteratura possa conferire una fama davvero durevole agli arteci. In questo senso si spiega il rammarico espresso dal rimatore di non poter commemorare degnamente il destinatario. A suo dire, soltanto alcuni fra i più grandi poeti del secolo e in modo particolare gli autori di illustri versi celebrativi sull’arte, come le stanze molziane sopra il ritratto di Giulia Gonzaga e i sonetti varchiani di encomio ad artisti contemporanei avrebbero potuto cantare il pittore casentinese, conferendogli in questo modo l’immortalità che il suo talento meritava. A tali argomenti soggiace allora la convinzione che la massima fortuna per chi esercita la pittura sia, per mutuare le parole con cui il fratello di Pietro aveva chiosato il riconoscimento ottenuto da Simone Martini grazie ai versi dedicatigli da Petrarca, vivere «al tempo di qualche famoso scrittore, da cui, per un piccolo ritratto o altra così fatta cortesia delle cose dell’arte, si riporta premio alcuna volta mediante gli loro scritti d’eterno onore e nome».31

Il tema del valore memorialistico delle lettere nei riguardi dell’esercizio delle arti attraversa più decenni della produzione in versi del nostroautore. L’ultima notevole testimonianza in questo senso è oerta da una sonettessa inedita che egli compose in omaggio al gruppo marmoreo del Ratto delle Sabine del Giambologna, collocato nella Loggia dei Lanzi alla ne dell’agosto del 1582 e rivelato allo sguardo dei orentini nel gennaio successivo:32

Davit gigante dice alla Sabina del signor Giovan Bologna scultore

Son re, come tu vedi, in questo loco:
     temei, nel venir qui, Ercole e Cacco,
     di non haver da lor matto lo scacco,
     over dal
er Nettunno un simil gioco;
Juditta al volto mio accese il foco:
     paura hebb’io, ma non già fregio o smacco;
     Perseo pensai che mi mettesse a sacco,
     e restar infra lor tremante e
oco.
Pensoso stavo, e pien di meraviglia
     nel veder la Juditta esser rimossa,
     né penetrar potevo la cagione;
quando vidd’in suo loco quel campione,
     dissi infra me, alzando al ciel le ciglia:
     – Ecco chi mi farà la guancia rossa!
Ei m’ha dato tal scossa
     che s’io non ero tanto ben fondato,
     in dubbio hoggi starei del principato.
Basta che da un lato
     n’ha fatto andar molta gente da parte,
     per l’eccellenza del suo mastr’e arte,
onde sempre le carte
     chiara fede faranno a tutto ’l mondo
     ch’io sono stato per andarne al fondo. –
33

Facendo propria una delle convenzioni tipiche del genere delle pasquinate, dotato di signicativa fortuna nella Firenze del Cinquecento,34 il testo si presenta come una prosopopea in versi di una statua. A parlare è qui il David di Michelangelo, che si rivolge a un ipotetico spettatore di quella straordinaria galleria delle arti plastiche e fusorie rinascimentali che è Piazza della Signoria. Oggetto di tale allocuzione è la rassegna dei «paragoni» estetici in cui si era tradotta ogni aggiunta di un pezzo a quel museo a cielo aperto: il «gigante» michelangiolesco35 registra così la storia delle proprie trepidanti reazioni alla comparsa di opere quali l’Ercole e Caco di Baccio Bandinelli (portata a termine nel 1534), la Fontana del Nettuno di Bartolomeo Ammannati (completata nel 1575)e il Perseo di Benvenuto Cellini (svelato al pubblico cittadino nel 1554). Uscita vittoriosa da questi confronti, in questi versi l’eigie del re ebreo riconosceva che il proprio primato era stato inne messo seriamente in discussione dal nuovo, esemplare modello di statuaria realizzato dal Giambologna.36 Dopo aver spodestato la Giuditta di Donatello dalla prestigiosa sede dell’arcata occidentale della Loggia dei Lanzi,37 il Ratto delle Sabine minacciava infatti di ouscare la fama del David. A dimostrarlo, il fatto che un pubblico sempre più ampio disertasse la statua di Michelangelo perché irresistibilmente attratto dall’eccellenza della dirimpettaia opera del ammingo, immortalata peraltro dalle «carte» di numerosi scrittori.

Dando simile rivestimento letterario allo spirito emulativo che aveva animato gli artisti alla prova dell’agone di piazza, oltre che all’estetica dei non pochi contemporanei che preferivano ormai gli artici del linguaggio plastico del Giambologna rispetto alla sobria concentrazione espressiva di quello michelangiolesco, Pietro Vasari dimostrava una conoscenza approfondita della rimeria orentina in lode di sculture. Nell’ambito di tale produzione, la messa in scena del confronto tra i marmi e i bronzi antistanti Palazzo Vecchio aveva infatti più volte preso le forme del dialogo tra statue e della loro apostrofe diretta agli spettatori.38 Già attestato in alcuni sonetti composti in occasione dell’entrata trionfale di Leone X a Firenze del 1515,39 questo motivo del «paragone» dialettico tra sculture aveva poi goduto di particolare fortuna presso i poeti di epoca cosimiana che cantarono le lodi del Perseo. Rappresentative sono soprattutto alcune poesie toscane e latine sopra il bronzo celliniano che gurano tra quelle pubblicate in appendice ai Trattati sull’oreceria e sulla scultura dell’artista (1568).40 Il sonetto inaugurale di quella silloge, a rmadi Benedetto Varchi, poteva così riportare i lamenti dell’Ercolemarmoreo del Bandinelli, umiliato dal confronto col capolavoro del Cellini, e registrare al contempo la soddisfazione della Giuditta di Donatello e del David di Michelangelo per aver nalmente trovato un degno vicino nel contesto di piazza.41 Né il favore che questo topos conobbe si esaurì con l’antologia di liriche dedicate al Perseo. Nella celebre raccolta di Alcune composizioni di diversi autori in lode del ritratto della Sabina scolpito in Marmo dall’Eccellentissimo M. Giovanni Bologna, edite a Firenze da Bartolomeo Sermartelli nell’autunno del 1583, il motivo informava ad esempio un epigramma latino di Sebastiano Sanleonini.42 Il riferimento di Pietro Vasari a quelle scritture che testimoniavano l’eccellenza dell’opera del Giambologna induce d’altronde a ritenere che l’autore avesse ben in mente il orilegio pubblicato da Sermartelli, e probabilmente anche altre iniziative orentine di encomio poetico del gruppo marmoreo.43

Ciò che qui in special modo interessa è l’uso cui viene piegata l’allusione alla contemporanea oritura di liriche per il Ratto delle Sabine. Tale richiamo serve infatti al rimatore per suggerire, ancora una volta, l’idea che i capolavori artistici potessero ottenere una fama durevole soltanto grazie agli scrittori. Possiamo qui inoltre registrare una certa radicalizzazione delle idee che Giorgio Vasari aveva esposto nelle Vite. Nel citato brano che discuteva come il nome di Simone Martini fosse stato eternato da Petrarca, il fratello di ser Pietro aveva sostenuto che, più di altri artisti, fossero i pittori a necessitare della commemorazione della scrittura, «poiché l’opere loro, essendo in supercie e in campo di colore, non possono avere quell’eternità che dànno i getti di bronzo e le cose di marmo allo scultore o le fabbriche agl’architetti».44 Pietro Vasari obli tera invece simile distinzione circa il destino a lungo termine dei prodotti delle tre discipline del disegno: ai suoi occhi, la vera immortalità che il marmo del Giambologna aveva ottenuto era quella accordatagli dai poeti che ne avevano cantato l’eccellenza. Il convincimento che soltanto attraverso la letteratura dipinti e sculture riuscissero a sconggere il potere distruttivo del tempus edax veniva in questo modo a essere sistematizzato in un senso che rimarcava il primato ontologico della parola sull’immagine. Alla luce della presente rassegna testuale, è possibile anzi concludere che tale fede costituisse il vero nucleo generatore della produzione poetica di argomento artistico del nostro autore, intesa come opera di memorializzazione di imprese che egli, come letterato, aveva tutto l’interesse a presentare come altrimenti destinate all’oblio.

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1 Il prolo qui cursoriamente delineato è debitore delle indicazioni sul personaggio ricavabili da Ubaldo Pasqui, La famiglia del Vasari e la casa dove nacque lo scrittore delle «Vite», Arezzo, Cooperativa Tipograca, 1911, pp. 17-20; Karl Frey et al. (a cura di), Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, München, Georg Müller, 2 voll., 1923-30, passim; Alessandro Del Vita, L’origine e l’albero genealogico della famiglia Vasari, «Il Vasari», III.1 (1930), pp. 51-75: 70-71; id. (a cura di), Inventario e Regesto dei Manoscritti dell’Archivio Vasariano, Roma, Reale Istituto d’Archeologia e Storia dell’Arte, 1938, pp. 14-15, 31-32 e passim; ma soprattutto Loredana Olivato, Prolo di Giorgio Vasari il Giovane, «Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte», n. s. XVII (1970), pp. 181-229: 182-183 e 211-213.

2 Sulle circostanze del trasferimento di Pietro a Firenze si veda Claudia Conforti, Giorgio Vasari architetto, Milano, Electa, 1993, p. 105; la stessa studiosa (p. 121, n. 82) riporta il documento delle Provanze di Nobiltà dell’Ordine di Santo Stefano che testimonia l’attività di macinacolori che egli svolse per il fratello. Per quel che riguarda i rapporti col potere mediceo, particolarmente importante per l’autore fu il legame con il cardinale Alessandro di Ottaviano de’ Medici, poi brevemente papa (nel 1605) col nome di Leone XI. Esso viene testimoniato dal carteggio pubblicato in A. Del Vita, Di alcune lettere di Leone XI, «Rivista di Biblioteche e Archivi», n. s. II, 1924, pp. 220-236.

3 Anche il manoscritto della commedia è preservato nella stessa biblioteca: Firenze, Biblioteca Riccardiana, cod. Ricc. 1818, n. 8. Il cod. Ricc. 2948 (d’ora in avanti R1) è una copia, realizzata nella prima metà del Seicento, di una raccolta di poesie che Pietro Vasari allestì dopo aver compulsato scritture già appartenute al fratello Giorgio. Oltre ad essere il principale testimone della produzione poetica del pittore aretino, la silloge accoglie i testi di numerosi altri autori. Talvolta si tratta di versi che i contemporanei indirizzarono all’artista, talaltra si tratta di poesie di letterati del calibro di Giovanni della Casa, che Giorgio Vasari aveva trascritto tra le proprie carte. Sui problemi attributivi che tale scelta determinò si vedano la nota al testo di Giorgio Vasari, Rime, Enrico Mattioda (a cura di), Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012, pp. 9-14, con una puntuale descrizione del codice, e il contributo dello stesso studioso, Le poesie di Vasari dal ms. Riccardiano 2948, in Silvia Baggio et al. (a cura di), Giorgio Vasari. Giorgio Vasari, la casa, le carte, il teatro della memoria, Atti del Convegno Firenze-Arezzo, 24-25 novembre 2011, Firenze, Olschki, 2015, pp. 203-214. All’interno di questa eterogenea congerie di materiali Pietro inserì anche una manciata di suoi componimenti, divisi fra sonetti di corrispondenza e capitoli in terzine (a cc. 37v, 39re 127r-138r). Diversi i problemi imposti dal ms. Ricc. 2897 (d’ora in avanti R2). Il codice è un volumetto in ottavo di ottanta carte, contenente una raccolta di 154 sonetti. Ad eccezione degli ultimi due, vergati da uno scrivente del sedicesimo secolo, tutti i componimenti sono trascritti a pulito dalla stessa mano che appone, al centro del primo foglio di guardia, la nota di possesso «Questo libro è del Cavaliere Ridolfo Vasari», seguita dalla data «1640» (in alto, sulla stessa carta, i nomina sancti «Jh[esu]s M[ari]a» e l’anno «1644»). È stato il contributo della L. Olivato (Prolo, cit., p. 210, n. 2) a suggerire che la paternità delle poesie attestate dal manoscritto non sia da ascrivere a Ridolfo, glio di Giorgio Vasari il Giovane, bensì a suo nonno Pietro. Gli elementi addotti dalla studiosa permettono di accoglierne senza margini di incertezza le conclusioni, secondo cui il nipote si sarebbe limitato a trascrivere le rime dell’avo. Decisive, nella sua analisi, quelle indicazioni cronologiche che risultano incompatibili con l’attribuzione a Ridolfo poiché presuppongono un autore vissuto nella seconda metà del Cinquecento. Simili indicazioni provengono dalla lettera di dedica della raccolta, datata «primo di gennaio 1589», e dagli stessi contenuti dei testi, che in molti casi fanno riferimento al Granduca Francesco de’ Medici (1541-1587) come a una persona vivente. Dirimente è poi un altro indizio richiamato dalla stessa studiosa. Mi riferisco all’esistenza, all’interno del codice (c. 78v), di un sonetto per Anna Pagni in cui la dedicataria è designata col titolo di «consorte mia»: la Pagni fu infatti seconda moglie di Pietro Vasari. A questi elementi segnalati dalla Olivato è possibile aggiungere la considerazione che la lettera di dedica della raccolta, sottoscritta dall’autore con lo pseudonimo di «Maestro Languido Pescinali», è indirizzata «All’illustrissimo e reverendissimo [...] Cardinal di Fiorenza», ovvero a quell’Alessandro di Ottaviano dei Medici che fu a lungo patrono di Pietro. Il nom de plum sembra inne potersi mettere in rapporto col motto «Andate pur languendo», che Pietro appose in esergo al cod. R1.

4 Ugo Scoti Bertinelli, Un fratello di Giorgio Vasari commediografo e poeta, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XLVIII.2 (1906), pp. 145-165. Più volte menzionato negli studi vasariani è ad esempio lo scambio di versi burleschi tra Pietro e Gabriele Giolito (R1, cc. 38v-39r): si veda da ultimo C. Conforti, Giorgio Vasari, cit., p. 95.

5 R1, c. 130v (capitolo S’e’ piacque a ser Giovanni Conti, vv. 55-61). Qui e in seguito si avverta come, nel pubblicare i componimenti poetici dei codd. R1 e R2, siano stati adottati i seguenti criteri di trascrizione: le abbreviazioni, tutte di uso corrente nei due manoscritti, sono state sciolte tacitamente; accenti, apostro e punteggiatura sono stati conformati all’uso moderno; segue criteri moderni anche l’alternanza fra lettere maiuscole e minuscole. Per il testo integrale della poesia in questione si rimanda a U. Scoti Bertinelli, Un fratello, cit., pp. 161-163.

6 Insussistente l’ipotesi di U. Scoti Bertinelli, cit., passim che scorgeva nel nome «Apelle» un riferimento a Bernardo Minerbetti.

7 L’opera cui il testo fa riferimento è perduta, ma documentata da Giorgio Vasari, Ricordanze (consultate nell’edizione elettronica della Fondazione Memo fonte: www.memofonte.it): «Ricordo come nel medesimo anno [1555] si fecie nel giardino di Messer Bernardetto de’ Medici in un canto due storie di chiaro e di scuro». Il pittore aretino aveva nel 1549 realizzato il ritratto di Bernardetto (oggi al Bode Museum di Berlino), ed era stato, per alcuni mesi dalla ne del 1554, ospite della dimora orentina di quel committente, situata in via Larga: cfr. C. Conforti, Giorgio Vasari, cit., p. 105.

8 G. Vasari, Ricordanze, cit.: «Ricordo come a dì 15 di dicembre del medesimo anno io tornai a Fiorenza e si diede principio alle stanze del Palazzo dello Illustrissimo Duca Cosimo e si cominciò la prima la sala degli Elementi e particolarmente i quadri del palco». Per le circostanze cui la poesia allude, cfr. Anche G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, Rosanna Bettarini et al. (a cura di), Firenze, SPES già Sansoni, 1966-1997, V, pp. 269-270: «Giorgio Vasari dipoi l’anno seguente condusse da Roma, et acconciò col Duca, Bartolommeo Ammannati scultore per fare l’altra facciata dirimpetto all’Udienza, cominciata da Baccio in detta sala, et una fonte nel mezzo di detta facciata; e sùbito fu dato principio a fare una parte delle statue che vi andavano. Conobbe Baccio che ’l Duca non voleva servirsi più di lui, poi che adoperava altri: di che egli avendo grande dispiacere e dolore, era diventato sì strano e fastidioso, che né in casa né fuora non poteva alcuno conversare con lui, et a Clemente suo gliuolo usava molte stranezze e lo faceva patire d’ogni cosa» (si avverta, qui e in seguito, che tutte le citazioni dalle Vite provengono dall’edizione giuntina del 1568). Ai lavori dell’Ammannati per Palazzo Vecchio, e in modo particolare alla fontana per la facciata dell’Udienza, sono dedicati i contributi di Emanuela Ferretti et al., nel catalogo Beatrice Paolozzi Strozzi et al. (a cura di), L’acqua, la pietra, il fuoco. Bartolomeo Ammannati scultore, Firenze, Giunti, 2011.

9 R2, c. 49r.

10 Giorgio Vasari intrattenne cordiali rapporti con lo scultore (presso la cui dimora milanese egli ebbe peraltro modo di soggiornare nel 1566), e così ne registrò la carriera fulminante nelle Vite (cit., VI, p. 201): «Per le quali opere donò l’imperatore a Lione un’entrata di cento cinquanta ducati l’anno in sulla Zecca di Milano, una comodissima casa nella contrada de’ Moroni, e lo fece cavaliere e di sua famiglia con dargli molti privilegii di nobiltà per i suoi descendenti. E mentre stette Lione con sua Maestà in Bruselles, ebbe le stanze nel proprio palazzo dell’imperatore, che talvolta per diporto l’andava a vedere lavorare [...]. Nel tornare Lione di Spagna se ne portò due mila scudi contanti, oltre a molti altri doni e favori che gli furono fatti in quella corte». Sulla straordinaria ascesa sociale dello scultore si veda Kelley Helmstutler Di Dio, Leone Leoni and the Status of the Artist at the End of the Renaissance, Farnham, Ashgate, 2011, con bibliograa precedente.

11 Ai nomi richiamati possiamo aggiungere quello di Giovan Paolo Lomazzo, che nella sua raccolta poetica dei Grotteschi, Milano, Paolo Gottardo Ponzio, 1587, avrebbe inserito ben cinque componimenti di encomio dello scultore aretino. Questo insieme di testi è analizzato e raccolto in K. Helmstutler, Leone Leoni, cit., pp. 46-52 e 193-208; per un approfondimento del contesto culturale e letterario entro cui questa serie si situa, importanti i lavori di Simone Albonico, Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 258-259, e Silvio Leydi, «Sub umbra imperialis aquilae». Immagini del potere e consenso politico nella Milano di Carlo V, Firenze, Olschki, 1999, p. 220. Le liriche varchiane si leggono nell’edizione De Sonetti di m. Benedetto Varchi, Parte prima, In Fiorenza apresso m. Lorenzo Torrentino, 1555, pp. 262-266 (si avverta però come le citazioni da questa antologia siano tratte dall’edizione moderna di B. Varchi, Opere di Benedetto Varchi ora per la prima volta raccolte [...], Antonio Racheli [a cura di], Trieste, Dalla sezione letterario-artistica del Lloyd Austriaco, 1859, II, pp. 831-912). Su questa serie, e sui suoi rapporti con la produzione celebrativa di area milanese, si veda poi oggi l’eccellente studio di Antonio Geremicca, Il «cavaliere inesistente». Benedetto Varchi su Leone Leoni e la statua bronzea di Filippo II di Spagna (1554-1555), «Marburger Jahrbuch für Kunstwissenschaft», XLV (2018), pp. 161-184.

12 Il leone è ad esempio uno dei soggetti delle metope e dei fregi allegorici della Casa degli Omenoni, la dimora milanese dell’artista e il più articolato manifesto delle sue aspirazioni intellettuali e sociali: K. Helmstutler, Leone Leoni, cit., pp. 106-123, con bibliograa precedente.

13 Questi temi sono particolarmente ricorrenti nel primo libro dei Sonetti del Varchi. Cfr. ad es. A. Racheli (a cura di), Opere di Benedetto Varchi, cit., p. 909, son. DXV, vv. 1-4: «Lattanzio, se ’l mondo ha nuovo Filippo / A quell’antico ed al gran glio eguale, / Egli ha bene anche un altro nuovo, quale / Fu quell’antico, anzi maggior Lisippo»; dxvi, vv. 1-4: «Quella che ’l secol nostro altero e bello / Rende sì vera e quasi viva immago, / Lodar del maggior re ch’abbia Indo o Tago,/E del miglior che suone oggi martello»; dxvii, vv. 1-8: «Leon, s’al vostro ispano, anglico rege / Ogni altrui primo o bronzo, o marmo e sezzo, / Degno è, ch’al par d’Atene e Smirna, Arezzo / Da ogni Alma gentil s’onori e prege: // E ’l gran nome di voi non pur lei sprege / Ch’ogni cosa mortal vince al da sezzo, / Ma di gloria miglior, di maggior prezzo / Di dì in dì, d’ora in or più s’orni e frege». In merito al motivo della gloria che Leone aveva fatto risplendere sulla propria patria, si tenga a mente che lo scultore aveva ricevuto la cittadinanza onoraria di Arezzo nel 1555: cfr. Walter Cupperi, voce Leoni, Leone, in Dizionario Biograco degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, LXIV, 2005, pp. 594-598: 595.

14 Nella raccolta del codice R2 sono numerosi i testi indirizzati da Pietro ad altre personalità originarie di Arezzo. Fra questi contatti si inserisce il duraturo legame con la casata di Leone, quale viene comprovato dal sonetto di c. 39r, indirizzato All’eccellente signor Giovan Battista Leoni aretino pittore. Nulla si sa, per quanto mi risulta, dell’attività artistica di questo glio legittimato di Pompeo e nipote di Leone Leoni, oggi ricordato quasi solo come colui che nel 1613 provò invano a vendere al granduca Cosimo II de’ Medici parte della ricca collezione paterna di disegni leonardeschi (cfr. ad es. Kenneth Keele, Leonardo da Vinci’s Elements of the Science of Man, New York, Academic Press, 1983, p. 3). Poiché il sonetto è inedito, non è forse inutile trascriverlo: «Se bramate del padre et avo ancora / Seguir con la virtù i gran concetti / De’ lor svegliati e purgati intelletti, / Che fan ch’ogni mortal gl’ama e honora, // Sciogliete dalla sera inn l’Aurora / Di Bartolo e di Cino i gruppi stretti / Da che per vostr’Iddii gl’havete eletti / in avocare e dar consigli ancora, // Acciò si vegga che voi siate glio / Del gran Pompeo, e di Leon nipote / Per l’intelletto, che tant’alto sale / Onde dica la Fama, aprendo l’ale: / ‘Quest’è un nuovo Decio nel consiglio, / Ch’illustra col suo dir cattedr’e ruote’».

15 R2, c. 15v. Pietro diede notizia della morte del fratello in una lettera al Granduca Francesco I de’ Medici dello stesso 27 giugno 1574. Nel documento egli dichiarava la propria «amaritudine» per la perdita, raccomandando al contempo sé e i propri gli alla benevolenza del signore di Firenze: cfr. K. Frey et al., cit., II, p. 840.

16 Per la fortuna rinascimentale della metafora, si veda Ute Davitt-Asmus, Corpus quasi vas: Beiträge zur Ikonographie der italienischen Renaissance, Berlino, Mann, 1977. È noto come il cognome «Vasari», dal mestiere di vasaio del nonno di Giorgio, fosse stato più volte sfruttato in senso denigratorio dagli avversari dell’artista, primo fra tutti quel Benvenuto Cellini che si era riferito all’aretino come a «Giorgetto Vassellario»: cfr. Benvenuto Cellini, La Vita, Lorenzo Bellotto (a cura di), Parma, Fondazione Pietro Bembo / Guanda, 1996, p. 312 e cfr. Philip Sohm, Giving Vasari the Giorgio Treatment, «I Tatti Studies in the Italian Renaissance», XVIII.1 (2015), pp. 61-111: 76-78.

17 Ciascuno dei termini associati a questi ideali conosce svariate centinaia di occorrenze nelle Vite, come dimostra una ricerca sul database del lemmario artistico dell’opera (http://vasariscrittore.memofonte.it/lemmario, ultima consultazione 13 luglio 2019). Vasari mutuava simili categorie critiche da un’illustre tradizione umanistica, per cui si vedano almeno i lavori di Anthony Blunt, Artistic Theory in Italy, 1450-1650, Oxford, Clarendon Press, 1940, e di Michael Baxandall, Giotto and the Orators: Humanist Observers of Painting in Italy and the Discovery of Pictorial Composition, 1350-1450, Oxford, Clarendon Press, 1971.

18 Cfr. ad es. G. Vasari, Le vite, cit. VI, p. 369: «voglio anco nel ne di queste mie fatiche raccorre insieme e far note al mondo l’opere che la divina Bontà mi ha fatto grazia di condurre; perciò che, se bene elle non sono di quella perfezzione che io vorrei, si vedrà nondimeno, da chi vorrà con sano occhio riguardarle, che elle sono state da me con istudio, diligenza et amorevole fatica lavorate», e p. 381:«Dirò ben questo, però che lo posso dire con verità, d’avere sempre fatto le mie pitture, invenzioni e disegni, comunche sieno, non dico con grandissima prestezza, ma sì bene con incredibile facilità e senza stento». Queste categorie sono peraltro alla base del discorso critico contemporaneo sull’arte dell’aretino: si veda, a tal riguardo, Alessandro Cecchi et al. (a cura di), Giorgio Vasari disegnatore e pittore: «istudio, diligenza et amorevole fatica», Milano, Skira, 2011.

19 Il continuo e instancabile esercizio del disegno da parte dell’aretino è da lui ricordato in molti passaggi dello stesso medaglione autobiograco della Giuntina. Vedi ad es. G. Vasari, Vite, cit., VI, p. 371: «non rimase cosa notabile allora in Roma, né poi in Fiorenza et altri luoghi ove dimorai, la quale io in mia gioventù non disegnassi», e p. 377: «Né lasciai cosa alcuna d’architettura o scultura che io non disegnassi e non misurassi; intantoché posso dire con verità che i disegni ch’io feci in quello spazio di tempo furono più di trecento». Sull’ideologia della «prestezza» nella riessione teorica dell’autore delle Vite è illuminante il lavoro di Renzo Bragantini, Topoi e gure della prestezza, in Chiara Cassiani et al. [a cura di], Festina lente. Il tempo della scrittura nella letteratura del Cinquecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014, pp. 15-30. Giova rammentare come questa caratteristica del Vasari pittore risultasse famigerata tra i suoi contemporanei già all’altezza degli anni Quaranta del secolo. In una lettera del 1548 Annibal Caro poteva così rivolgersi all’amico pittore (cfr. Annibal Caro, Lettere familiari, Aulo Greco [a cura di], Firenze, Le Monnier, 1959, II, pp. 62-63): «Il mio desiderio d’avere un’opera notabile di vostra mano, è così per vostra laude, come per mio contento, perché vorrei poterla mettere innanzi a certi, che vi conoscono più per ispeditivo ne la pittura che per eccellente. [...] È ben vero che ’l mondo crede che, facendo voi manco presto, fareste meglio». Per le critiche di artisti coevi a questo tratto dell’arte vasariana, si considerino almeno la velata polemica del Bronzino poeta (su cui cfr. Deborah Parker, Bronzino and the Diligence of Art, «Artibus et Historiae», XXV.49 [2004], pp. 161-174), gli espliciti attacchi celliniani (su cui cfr. Piero Calamandrei, Benvenuto Cellini, il pittore e il frate, in id., Carlo Cordié [a cura di], Scritti e inediti celliniani, Firenze, La Nuova Italia editrice, 1971, pp. 99-123; Frédérique Dubard de Gaillarbois, Le cagnaccio et le botolo. Dialogue d’artistes ou portrait croisé de Cellini et de Vasari, «Chroniques Italiennes», XVI, 2009 [http://chroniquesitaliennes.univ-paris3.fr/numeros/Web16.html ultima consultazione 13 luglio 2019]; B. Cellini, Rime, Diletta Gamberini [a cura di], Firenze, SEF, 2014, passim e le osservazioni polemiche di Federico Zuccari, cfr. lettera sine data del pittore marchigiano ad Antonio Chigi in Giovanni Bottari et al. (a cura di), Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, scritte da’ più celebri personaggi dei secoli XV, XVI e XVII, Milano, Giovanni Silvestri, 1822, VII, p. 511.

20 Si considerino i celebri versi con cui il Venosino riconosceva nella propria poesia un «[...] monumentum aere perennius / Regalique situ pyramidum altius, / Quod non imber edax, non Aquilo inpotens / Possit diruere [...]» (cfr. Orazio, Carmina, Lucian Müller [a cura di], Lipsia, Teubner, 1877, p. 82 [III.30], vv. 1-5). Ancora più decisive le considerazioni pliniane intorno alla fama vicaria che un artista del calibro di Mirone aveva potuto conquistare in virtù delle tante celebra- zioni poetiche di cui era stata oggetto la sua Vacca di bronzo (cfr. Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, Antonio Corso et al. (a cura di), Torino, Einaudi, 1988, V, pp. 176-177 [XXXIV.57]): «Myronem Eleutheris natum, Hageladae et ipsum discipulum, bucula maxime nobilitavit celebratis versibus laudata, quando alieno plerique ingenio magis quam suo commendatur».

21 Sulla presenza di questo motivo nei componimenti latini di umanisti quali Basinio da Parma e Filippo Angeriano cfr. Federica Pich, I poeti davanti al ritratto da Petrarca a Marino, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2010, pp. 103 e 131; cfr. poi Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, Lanfranco Caretti (a cura di), Torino, Einaudi, 1992, p. 984, XXXIII. 1: «Timagora, Parrasio, Polignoto, / Protogene, Timante, Apollodoro, / Apelle, più di tutti questi noto, / e Zeusi, e gli altri ch’a quei tempi fôro; / di quai la fama (mal grado di Cloto, / che spinse i corpi e dipoi l’opre loro) / sempre starà, n che si legga e scriva, / mercé degli scrittori, al mondo viva». Sul legame tra questo luogo ariostesco e la riessione vasariana cfr. la scheda di Julian Kliemann in Giorgio Vasari: principi, letterati e artisti nelle carte di Giorgio Vasari, Firenze, Edam, 1981, pp. 238-242: 239, e id., Su alcuni concetti umanistici del pensiero e del mondo gurativo vasariani, in Giancarlo Garfagnini (a cura di), Giorgio Vasari tra decorazione ambientale e storiograa artistica, Firenze, Olschki, 1985, pp. 73-82.

22 G. Vasari, Le vite, cit., I, pp. 9-10. Il fatto che Pietro denisse le Vite un «poema» sarà del resto stato condizionato anche dall’idea, ribadita in più luoghi delle biograe vasariane, che fosse soprattutto la poesia a elargire l’immortalità agli arteci. Per la declinazione di questo tema nell’opera dell’aretino si vedano le illuminanti considerazioni di Lina Bolzoni, Citazioni letterarie nella Giuntina: per una mappa delle loro funzioni, in Alessandro Nova, et al. (a cura di), I mondi di Vasari: accademia, lingua, religione, storia, teatro, Venezia, Marsilio, 2013, pp. 141-159; 146 e 152.

23 La gurazione è incorniciata dal motto «Hac sospite nunquam / hos periiisse viros, victos aut morte fatebor», il cui legame con l’opera vasariana venne così motivato da don Vincenzio Borghini: «Il concetto è cavato dal luogo di Virgilio nel VIII, quando Euandro parla con Enea, et dice, mentre vedrà Enea sano et salvo, non gli parrà mai poter dire, che le cose et il segno de Troiani sia ito totalmente in rovina, perché restando lui in piè, par che ancor quel regno duri et non sia veramente superato: “Maxime Teucrorum ductor quo suspite nunquam / Res equidem Troiae victas aut regna fatebor” [...]. Si accomodassi il resto, che esprimessi questo senso, che mentre viverà questa Historia et questa fatica, che ha fatto m. G(iorgio), non si potrà con ragione dire, che tanti nobili arteci habbin veramente gustato morte, o rimanghin sepolti, anzi, che vivino et eglino et l’opere loro» (il testo è citato dalla menzionata scheda di J. Kliemann in Giorgio Vasari: principi, cit., pp. 238-242, che dedica pertinenti notazioni alla xilograa). Sulle idee espresse dall’immagine cfr. anche Patricia Rubin, Giorgio Vasari: Art and History, New Haven, Yale University Press, 1995, p. 222; Deborah Cibelli, Images of Fame and Changing Fortune in the First and Second Editions of Vasari’s «Vite», «Explorations in Renaissance Culture», XXV.1 (1999), pp. 113-138 e Joan Stack, Artists into Heroes: The Commemoration of Artists in the Arts of Giorgio Vasari, tesi di PhD, Washington University in St. Louis, 2000, pp. 1-11, con ulteriori rimandi bibliograci. Sulle matrici gurative del controfrontespizio delle Vite si veda Massimiliano Rossi, Rosso, Pontormo, l’inferna fossa. Todesmeditation vasariana, in Carlo Falciani et al. (a cura di), Pontormo e Rosso orentino. Divergenti vie della «Maniera», Firenze, Madragora, 2014, pp. 329-337.

24 G. Vasari, Le vite, cit., V, pp. 83-84. Per un’esegesi puntuale del sonetto cfr. Michelangelo Buonarroti, Rime e lettere, Antonio Corsaro et al. (a cura di), Milano, Bompiani, 2016, pp. 253 e 1014-1015.

25 Si tenga a mente come del Poppi si conservino oggi diversi ritratti di ignoti gentiluomini, come ad esempio il suo quadro della Galleria di Palazzo degli Alberti a Prato (cfr. Alessandra Giovannetti, Francesco Morandini detto il Poppi, Firenze, Edir, 1995, p. 99) o quello della Collezione Martelli a Firenze (ibid., p.109): possibile, quindi, che l’eigie di Pietro Vasari sia da cercare in questo novero di opere. Non si può tuttavia escludere che il dipinto in questione debba invece essere aggiunto alla serie di ritratti che furono realizzati dall’artista e che risultano oggi dispersi (si veda al riguardo l’appendice di id., Francesco Morandini detto il Poppi: i disegni, i dipinti di Poppi e Castiglion Fiorentino, Poppi, Edizioni della Biblioteca Comunale Rilliana, 1991, p. 176).

26 R2, c. 29v

27 Queste vicende sono documentate da Raaello Borghini, Il Riposo [...] in cui della Pittura, e della Scultura si favella [...], Firenze, Giorgio Marescotti, 1584, p. 640:«Francesco di Ser Francesco Morandini da Poppi, eccellente pittore [...], fu dal padre, che era notaio da piccolo mandato a imprendere la grammatica con intenzione d’introducerlo nell’arte sua; ma egli, che da natura era inchinato al disegno, andava da se stesso ritraendo hor una cosa, et or altra, nche hebbe occasione di ritrarre alcune stampe, che furon mandate a un suo parente, le quali egli contrafece così bene che ciascuno si maravigliava, che le vedea: di queste ne portò alcune a Firenze un suo Zio, le quali havendo vedute Piero Vasari, et inteso che l’havea fatte un fanciullo operò che Francesco fosse mandato a Firenze, et il ricevette in casa sua, et il mise ad imprender l’arte con Giorgio Vasari suo fratello [...]».

28 Il motivo è uno dei più ricorrenti all’interno di questo genere, per cui si vedano soprattutto gli studi di Lina Bolzoni, Poesia e ritratto nel Rinascimento, Roma, Laterza, 2008, e di F. Pich, I poeti, cit., passim.

29 Il nome «Andrea» per designare Andrea del Sarto è attestato anche nel Lasca; cfr. madrigalessa seconda sopra la dipintura della cupola in Antonfrancesco Grazzini, Le rime burlesche edite ed inedite, Carlo Verzone (a cura di), Firenze, Sansoni, 1882, p. 328, v. 61: «Lionardo, Andrea, o Pontormo, o Bronzino». Tra coloro che all’epoca dimostrarono di riconoscere e apprezzare la matrice sartesca dell’arte del Poppi gura Vincenzio Borghini. In una lettera al Vasari a proposito delle decorazioni pittoriche per lo Studiolo di Francesco I, l’erudito così commentava la Fonderia dei Bronzi del Morandini: «pure io non me ne intendo, ma ha un colorito molto ero et è fra quelle d’Andrea et del Frate [Fra’ Bartolomeo]» (testo in K. Frey et al., cit., II, p. 567). Sul ruolo dell’imitazione sartesca nella pittura dell’artista cfr. A. Giovannetti, Francesco Morandini (1995), cit., p. 30, e Alessandra Baroni Vannucci, L’artista Francesco Morandini, detto il Poppi, nella sua terra d’origine, in Liletta Fornasari (a cura di), Il Seicento in Casentino dalla Controriforma al tardo Barocco, Firenze, Pagliai Polistampa, 2001, pp. 99-104.

30 La denizione proviene da John Shearman, Andrea del Sarto, Oxford, Clarendon Press, 1965, I, p. 170. Sulla presenza di soggetti raaelleschi nella pittura del Poppi si veda Paola Barocchi, Appunti su Francesco Morandini da Poppi, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», XI. 2/3 (1964), pp. 117-148:118. La studiosa segnalava come nelle gure della volta stuccata del Tesoretto di Palazzo Vecchio l’artista avesse ad esempio imitato l’Eraclito, l’Euclide e il Tolomeo della Scuola di Atene.

31 G. Vasari, Le vite, cit., II, p. 191. La considerazione a carattere gnomico apre la biograa dell’artista senese, che secondo l’autore doveva molta della sua fama ai sonetti 77 e 78 del canzoniere petrarchesco.

32 Cfr. Agostino Lapini, Diario orentino dal 252 al 1596, Giuseppe Odoardo Corazzini (a cura di), Firenze, Sansoni, 1900, p. 218: «A’ dì 28 di detto agosto 1582 [...] si messono e conlocorno e posorno le tre gure di marmo, sotto l’arco della loggia grande di piazza, allato et accanto al Chiasso di messer Bivigliano; e si disse per le persone intelligente delle storie, che rappresentano il ratto de’ Sabini [...]. Et a dì 14 di gennaio 1582, in venerdì mattina, si scopersono le dette 3 gure di marmo sopradette, condotte per opera di maestro Giambologna, scultore eccellente».

33 R2, c. 23r.

34 Su questo genere si vedano almeno Giorgio Masi, Le statue parlanti del cavaliere e altri prodigi pasquineschi orentini (Bandinelli, Cellini, Michelangelo), in Chrysa Damianaki et al. (a cura di), Ex marmore. Pasquini, pasquinisti, pasquinate nell’Europa moderna. Atti del Colloquio internazionale di Lecce-Otranto, 17-19 novembre 2005, Manziana, Vecchiarelli, 2006, pp. 221-270; id., Un sonetto inedito sull’«Ercole e Caco» di Baccio Bandinelli, con ipotesi attributive (e il topos burlesco del dimissionario),«Italique», XVI (2013), pp. 79-109, e Maddalena Spagnolo, Poesie contro le opere d’arte: arguzia, biasimo e ironia nella critica d’arte del Cinquecento, in C. Damianaki et al. (a cura di), Ex marmore, cit., pp. 321-354.

35 La designazione di «gigante», nella rubrica della sonettessa, corrisponde al termine antonomastico che nel Cinquecento indicava la statua michelangiolesca tanto in documenti uiciali quanto in testi letterari. Cfr. ad es. la deliberazione dei Signori e Collegi del maggio 1504 in Francesco Caglioti, Donatello e i Medici: storia del «David» e della «Giuditta», Firenze, Olschki, 2000, I, p. 329.

36 Tale il senso che pare di dover assegnare al sostantivo «campione», al v. 12, qualora non si tratti piuttosto di un riferimento metonimico alla sola gura del giovane e atletico rapitore al centro del gruppo.

37 Si tenga a mente come il bronzo di Donatello, che nel 1504 aveva già lasciato il posto al David sull’arengario di Palazzo Vecchio, avesse occupato la campata occidentale della loggia dal giugno del 1506 all’estate del 1582, quando l’opera fu spostata sul lato stretto della stessa struttura architettonica (cfr. F. Caglioti, Donatello e i Medici, cit., I, p. 341). Sullo «sfratto» della Giuditta da parte del marmo del Giambologna si veda anche A. Lapini, Diario orentino, cit., p. 217: «A’ dì 30 di luglio 1582 [...] si levò quella gura di bronzo detta e chiamata la Judetta, di mano et opera di Donatello, uomo famosissimo e scultore nomatissimo. Qual gura era sotto l’arco della loggia grande di piazza, accanto et allato al Chiasso di messer Bivigliano, che nel 1505 [...] fu messa nel proprio luogo donde è stata oggi levata, che viene a esservi stata anni 77».

38 Lo studio fondativo su questa produzione in versi e sui suoi più ricorrenti topoi è quello di John Shearman, Only Connect...: Art and the Spectator in the Italian Renaissance, Princeton, Princeton University Press, 1992, pp. 44-58. Su tali testi si soerma brevemente anche Sefy Hendler, La guerre des arts: le paragone peinture- sculpture en Italie XVe-XVIIe siècle, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2013, 205-207.

39 Uno dei sonetti composti in questa occasione aveva ad esempio dato voce all’ostilità dello stesso David michelangiolesco nei confronti di una statua eimera di Ercole che, realizzata dal Bandinelli, avrebbe ambito a oscurare la fama del gigante buonarrotiano. Il componimento (preceduto dalla rubrica La statua di Davit in laude di Papa Leone contro a quello Hercole che vi fu posto, e in dialogo con la Risposta di Hercole a Davit) è pubblicato nel libro di Ilaria Ciseri, L’ingresso trionfale di Leone X in Firenze nel 1515, Firenze, Olschki, 1990, pp. 312-313. Particolarmente rilevanti, per la loro connessione tematica con la sonettessa di Pietro Vasari, sono i vv. 5-10 della poesia: «Hor tu vuoi far la mia gran fama morta / Et reputarmi vile et negligente / [...] // Se bene un marmo duro, gelido et sordo / Sono: apetisco gloria, pregio et fama».

40 B. Cellini, Due trattati uno intorno alle otto principali arti dell’oreceria. L’altro in materia dell’arte della scultura [...], Firenze, Valente Panizzi e Marco Peri, 1568, cc. non numerate. In special misura rilevanti sono i testi di B. Varchi (vd. infra), Miniato Busini, Antonio Allegretti, Niccolò Mochi e Paolo Mini.

41 Si tratta del sonetto inaugurale della silloge (ibidem), Tu che vai ferma ’l passo e ben pon mente, che in merito all’eetto pietricatore della bellezza di Perseo recita (vv. 5-14): «onde colui che per ira, et ardente / invidia di Giunone, e d’Euristeo / in terra Cacco uccise in aria Anteo / Sospirar tristo et lamentar si sente, // Ma ’l Pastorel che fra sì cruda e tanta / Turba nemica, in Dio sperando solo / Con picciol sasso il gran Gigante uccise, // E quella casta che tra l’empio stuolo / l’horribil teschio al er busto precise / d’haver degno vicin [vicio nel testo] si pregia et vanta».

42 Alcune composizioni di diuersi autori in lode del ritratto della Sabina [...], Firenze, Bartolomeo Sermartelli, 1583, p. 46 (In raptum Sabinarum a Ioanne Bolonio marmore expressum. Sebastiani Sanleonini), vv. 1-6: «Hactenus Hebraeum Regem; Cacique superbum / Ultorem; et magnum Persea rumor habet; / Multaque in ore fuit Iuditta Olopherne perempto; / Aut potius primas urbe favente tulit. / Nunc vero in raptas (veterum sit pace) Sabinas / Urbs merito linguas, oraque versa tenet».

43 Il Ratto delle Sabine venne infatti celebrato anche dalla plaquette di Grazio Maria Grazi, Rime, e versi latini di Gratiamaria Gratii, sopra il ratto delle Sabine scolpito in marmo dall’eccellente Giambologna, Firenze, Marescotti, 1584, oltre che da numerosi componimenti rimasti all’epoca manoscritti. Sui contenuti delle raccolte a stampa di versi in lode del gruppo marmoreo si vedano soprattutto Michael Bury, Bernardo Vecchietti, Patron of Giambologna, «I Tatti Studies in the Italian Renaissance», I (1985), pp. 13-56 e 267-273: 27-30, e Michael Cole, Giambologna and the Sculpture with No Name, «The Oxford Art Journal», XXXI.3 (2008), pp. 337-359: 344-345. Tra i testi rimasti all’epoca manoscritti si segnalano quelli oggi editi in Tommaso Rimbotti, Rime, Dario del Puppo et al. (a cura di), Firenze, Olschki, 2005, pp. 170-171.

44 G. Vasari, Le vite, cit., II, p. 191.