Revue Italique

La poésie et les arts

OJ-italique-480

Disegnare con le parole. La doppia creatività di Benvenuto Cellini

Giovanna Rizzarelli

Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova.
Purg. X, vv. 94
-96

Nel corso ormai di più di cinque lustri la critica letteraria ha riservato grande spazio alla relazione, tutta speciale, che lega le arti e la poesia nel corso del Rinascimento. Tale cospicua messe di studi ha indagato non soltanto lo straordinario peso che ebbe la cultura visiva nella produzione poetica di molti dei più noti autori dell’età rinascimentale, ma ha fatto luce altresì sui complessi meccanismi di interferenza tra codice verbale e visivo nella produzione poetica del XVI secolo.1 In altra direzione si è guardato, infatti, osservando la reciproca inuenza tra parole e immagini in presenza di testi poetici, per lo più riconducibili al genere della poesia narrativa, accompagnati da incisioni;2 e per contro si sono scandagliate quelle zone testuali nelle quali visualità e scrittura vanno a braccio mediante lo strumento secolare dell’ékphrasis.3

In modo assai meno sistematico, e spesso privo di uno sguardo critico d’insieme, è stato analizzato invece il cosiddetto fenomeno del «doppio talento».4 Benché il Rinascimento veda il orire di numerosi casi di duplice, o molteplice, creatività artistica si pensi anche soltanto a Michelangelo , dando l’avvio a un fenomeno di lunghissima durata nella tradizione letteraria italiana, ancora isolati restano gli studi che si pongono l’obiettivo di indagare con attenzione e in modo coerente la compresenza di più modalità espressive nell’opera di artisti che non si sono limitati a un solo codice comunicativo per manifestare la propria creatività. La mutualità espressiva presente nella produzione di molti artisti-scrittori e scrittori-artisti del Cinquecento si presta, infatti, a essere intesa quale via eccellente per comprendere il modo in cui poesia e arti entrarono in dialogo nel corso del Rinascimento. Si tratta di «un’epoca calda» per tale fenomeno non soltanto perché numericamente si possono contare molti artisti-scrittori (basterà ricordare almeno i casi più noti: il già menzionato Michelangelo, ma anche Leonardo, Alberti, Ghiberti, Raaello, Vasari, Pontormo, Bronzino, Cellini, Lomazzo), ma soprattutto perché la scelta di essere scrittori per questi artisti rientra in quel più complesso processo di self-fashioning,5 volto alla conquista di un posto di maggior prestigio nel sistema culturale, che cancellasse le tracce di una visione ben più riduttiva dell’artista-artigiano, privo della dignità intellettuale alla quale tali personalità aspiravano con forza e a ragione.

Esemplare in tal senso appare l’opera letteraria di Benvenuto Cellini, il quale si adoperò con grandi energie a costruire di sé l’immagine non soltanto di nobile cultore delle arti plastiche, in particolar modo della oreceria e della scultura, ma che si servì consapevolmente della scrit- tura, in prosa e in versi, per orire ai contemporanei, e non soltanto, un proprio autoritratto letterario di artista-scrittore.6

In queste pagine si proverà a dar conto di questa consapevole forma di self-fashioning a partire da un’espressione, «disegnare con le parole», presente nella Vita celliniana, che diviene spia delle doti doppiamente creative che Benvenuto si auto-attribuisce e può essere intesa quale chiave di lettura non esclusivamente della autobiograa, ma altresì in generale del suo «doppio talento».

In mentre che io gnene disegnavo con le parole

In uno dei capitoli più noti e più commentati della autobiograa celliniana, ovvero quello della visione infernale che nel libro I accompagna la «quasi-morte» di Benvenuto,7 l’artista orentino si trova alle prese con un minaccioso Caronte pronto a traghettarlo nell’aldilà, ed è in grado di descriverlo a parole con grande icasticità (Vita, I, LXXXIV, p. 302):8

Misser Lodovico mi dimandava quel che mi pareva vedere, e come gli era fatto. Inmentre che io gnene disegnavo con le parole bene, questo vechio mi pigliava per un braccio, e per forza mi tirava a sé; per la qual cosa io gridavo che mi aiutassino, perché mi voleva gittar sotto coverta in quella sua spaventata barca.

L’eicacia descrittiva di Cellini, che corrisponde alla reicazione del personaggio «disegnato a parole», deriva come viene chiarito da uno degli astanti dalla competenza letteraria dell’artista; non si tratta di un moribondo qualsiasi, bensì di un esperto conoscitore dell’Inferno dantesco: «Gli ha letto Dante, e in questa grande infermità gli è venuto quella vigilanza» (Vita, I, LXXXIV, p. 301), commenta Matteo Franzesi assistendo al delirio del malato.

Il passo è carico di signicato non solo per la pregnanza con cui Cellini tratteggia e ricorda il delirio febbrile, la scampata morte e la gura perturbante che vuole trascinarlo con sé, ma anche per l’espressione che marca in modo specico questa zona del testo e al contempo può essere intesa come perfetta denizione per la narrazione autobiograca in generale. Benvenuto «disegna con le parole» il temibile traghettatore dantesco e in senso lato con la Vita ore un «disegno» alternativo, fatto di parole, della propria personalità e produzione artistica. Tale espressione si presta infatti a divenire rappresentativa delle moltissime zone ecfrastiche dell’autobiograa, ampiamente esplorate dagli interpreti dell’opera celliniana,9 e merita di essere analizzata di per sé per la ricaduta che essa ha rispetto al consapevole progetto di costruzione di una personalità artistica doppiamente creativa, saldamente fondata sul dialogo tra arte e poesia.

L’espressione «disegnare con le parole» ritorna ancora nel libro II con un signicato quasi tecnico, come azione attribuita a Luigi Alamanni e a Gabriele Maria Cesano (Vita, II, II, p. 469):10

Aveva misser Luigi con le parole disegnato che io facessi una Venere con un Cupido, insieme con molte galanterie, tutte a.pproposito; misser Gabbriello aveva disegnato che io facessi una Amtrite moglie di Nettunno, insieme con di quei Tritoni di Nettunno e molte altre cose assai belle da dire, ma non da fare. Io feci una forma ovata di grandezza di più d’un mezzo braccio assai bene, quasi dua terzi, e sopra detta forma sicondo che mostra il Mare abbracciarsi con la Terra, feci dua gure grande più d’un palmo assai bene, le quale stavano a sedere entrando colle gambe l’una nell’altra, sì come si vede certi rami di mare lunghi che entran nella terra; e in mano al mastio Mare messi una nave ricchissimamente lavorata: inn–essa nave accomodatamente e bene stava di molto sale; sotto al detto avevo accomodato quei quattro cavalli marittimi: innella destra del ditto Mare avevo messo il suo tridente.

Al principio del libro II, per la maggior parte dedicato al soggiorno parigino alle dipendenze di Francesco I, Cellini riceve due inventiones alternative per la ben nota saliera. A «disegnare con le parole» il rainato oggetto da orire al sovrano francese sono l’Alamanni e il Cesano: è chiaro, dunque, che qui il sintagma allude a una prassi ben nota, ovvero ai progetti iconograci di letterati e loso ai quali gli artisti erano soliti ispirarsi. Anche se qui lo si aerma in modo implicito ma netto, Benvenuto non prende in considerazione «i disegni a parole» dei due e, invece, procede autonomamente traendo libera ispirazione dal progetto del Cesano, tacciato di aver «molte altre cose assai belle da dire, ma non da fare». In ciò sembra misurarsi la distanza tra i semplici scrittori, che si muovono in un territorio riservato solo al dire (e non al fare), e Benvenuto che come dichiara in più luoghi dell’autobiograa si muove a suo agio su entrambi i fronti.11 Del resto, al breve accenno al «disegno a parole» dei due intellettuali presenti alla corte parigina di Francesco I segue un minuto «disegnare a parole» della saliera, così come l’artista decise di realizzarla. L’implicito disprezzo per i progetti iconograci per la saliera richiama altri luoghi della autobiograa nei quali Cellini sostiene la propria superiorità rispetto alla maggioranza degli ora in grado soltanto di eseguire, come vili «meccanici», i disegni ricevuti da altri.12 Si pensi almeno a due momenti della Vita in cui a Cellini viene riconosciuta tale capacità da personalità artistiche di grande rilievo (Vita, I, XL, p. 153):

Subito il ditto misser Iulio con molte onorate parole parlò di me al Duca; il quale mi comesse che io gli facessi un modello per tenere la reliquia del sangue di Cristo, che gli hanno, qual dicono essere stata portata quivi da Longino; dipoi si volse al ditto misser Iulio, dicendogli che mi facessi un disegno per detto reliquiere. A questo, misser Iulio disse: «Signore, Benvenuto è un uomo che non ha bisogno delli disegni d’altrui, et questo Vostra Eccellenzia benissimo lo giudicherà, quando la vedrà il suo modello». Messo mano a far questo ditto modello, feci un disegno per il ditto reliquiere da potere benissimo collocare la ditta ampolla; dipoi feci per di sopra un modelletto di cera.

Per bocca di un artista di genio indiscusso, Giulio Romano, a Benvenuto viene riconosciuta pubblicamente una dote non comune. In tal modo l’autore della Vita ribadisce la distanza tra i comuni «arteci» in grado soltanto di cesellare gioie e vasellami, e l’«artista» Benvenuto Cellini. Non a caso, il secondo episodio che giova menzionare ha per coprotagonista insieme a Benvenuto l’artista-scrittore al quale, in modo più o meno esplicito, egli si ispira: il divino Michelangelo Buonarroti (Vita, I, XLI, pp. 159-60):

Questo giovane era stato a Napoli molti anni, et perché gli era molto bello di corpo e di presenza, se era innamorato in Napoli di una principessa; così, volendo fare una medaglia inella quale fussi un Atalante col mondo addosso, richiese il gran Michelagnolo che gnene facessi un poco il disegno. Il quale disse al ditto Federigo: «Andate a trovare un certo giovane orece, che ha nome Benvenuto; quello vi servirà molto bene, e certo che non gli accade mio disegno; ma perché voi non pensiate che di tal piccola cosa io voglia fuggire le fatiche, molto volentieri vi farò un poco di disegno: intanto parlate col detto Benvenuto, che ancora esso ne faccia un poco di modellino; dipoi il meglio si metterà in opera». Mi venne a trovare questo Federigo Ginori, et mi disse la sua voluntà, a presso quanto quel maraviglioso Michelagnolo mi aveva lodato; et che io ne dovessi fare ancora io un poco di modellino di cera, inmentre che quel mirabile uomo gli aveva promesso di fargli un poco di disegno. Mi dette tanto animo quelle parole di quel grande uomo, che io subito mi messi con grandissima sollecitudine a fare il detto modello; et nito che io l’ebbi, un certo dipintore molto amico di Michelagnolo, chiamato Giuliano Bugiardini, questo mi portò il disegno de l’Atalante. Inel medesimo tempo io mostrai al ditto Giuliano il mio modellino di cera, il quali era molto diverso da quel disegno di Michelagnolo; talmente che Federigo ditto et ancora il Bugiardino conclusono che io dovessi farlo sicondo il mio modello.

Qui non solo il Buonarroti aerma che Cellini non ha bisogno dei suoi disegni, ma l’eccesso auto-apologetico fa sì che perno il «maraviglioso Michelangelo»13 debba arrendersi di fronte alla superiorità del modello di Benvenuto, che è preferibile al disegno michelangiolesco.14 Al di là della narcisistica rappresentazione delle proprie doti che emerge dai due episodi appena ricordati, in entrambi i casi tali racconti sembrano riconducibili alla capacità di Benvenuto di creare autonomamente le proprie opere, senza la necessità di disegni d’altri, e al contempo anticipare la sua disposizione a «disegnare con le parole» le opere d’arte che ha realizzato.

Sulla propria natura artistica «anbia» Cellini insiste, del resto, diusamente in molte delle Rime.15 Si pensi, ad esempio, alla terzina che chiude il sonetto 12 (XVII) composto durante la prima carcerazione: «consacro a quel (scil. il gran Fattore) lo ’ngegnio, l’alma e ’cuore, / la lingua, i marmi, e metalli e concetti, / d’oprar poi sempre in tüo (scil. Vergine Madre) e in süo honore».16 L’artista-poeta pone i frutti del proprio «doppio talento» sullo stesso piano mediante il chiasmo del verso 13: da un lato, dunque, «la lingua e i concetti», e dall’altro «i marmi e i metalli», che qui vengono oerti alle due supreme autorità che dovrebbero liberarlo dalle pene della reclusione. Nel quartetto che sintetizza le doti celliniane potrebbe scorgersi, inoltre, una più profonda consapevolezza da parte di Benvenuto in merito alle proprie capacità espressive e doti creative; come, infatti, egli sente di essere orece (attraverso il riferimento ai metalli) ma anche scultore (con la menzione dei marmi), così le sue doti letterarie possono anch’esse denirsi duplici mediante la vena poetica (sintetizzata con la lingua) e attraverso le composizioni in prosa, i molti «concetti» descritti nella Vita. Come è stato osservato, «concetti» potrebbe alludere, infatti, alle ideazioni delle opere d’arte come del resto accade nel sonetto di Michelangelo Non ha l’ottimo artista alcun concetto.17 Benvenuto potrebbe aver dunque voluto riferirsi proprio alla capacità, che si auto-riconosce, di «disegnare con le parole» e di rinvenire i concetti necessari per le proprie creazioni artistiche.

La consapevolezza con la quale Cellini si autorappresenta quale doppio, se non addirittura triplice, talento riaiora ancora nel sonetto 15 (XXII):

In carcere
Porca Fortuna, s’ tu scoprivi prima
che ancora a
.mme piacessi ’l ganimede!
Son puttaniere hor mai, com’ogni uom vede,
né avesti di me la spoglia hopima.
Dinanzi ai tuoi bei crin così si stima,
né chi ’l merta gli dai né chi te i chiede:
gli porgi a tal che no
.gli cerca o vede;
ciecha, di te hor mai non fo più stima.
Che val con arme, lettere o schultura
a
aticarsi in questa parte o ’n quella,
poi che tu se’ sì porca, impia
gura?
Vengha ’l canchero a
.tte, tuo ruote e stella:
t’ài vendicata quella prima ingiuria,
che non facevi nell’età novella.
18

Al di là della violenta invettiva contro la «porca Fortuna»,19 giova rimarcare il modo in cui Cellini si denisce quale uomo d’armi, di lettere e di scultura, con chiaro riferimento all’esperienza di soldato, scrittore e naturalmente orafo e scultore.

Emerge dunque chiaramente il consapevole desiderio da parte dell’autore della Vita e delle Rime di costruire di sé un’immagine doppiamente creativa; quanto, però, tale consapevolezza si riette nella capacità di «disegnare con le parole», ovvero in una speciale creatività che mette a frutto la natura «anbia» dell’artista-scrittore?

Dipinta e posta avanti a lo intelletto con le parole

Nella seconda occorrenza nella Vita, come si è già sottolineato, l’espressione «disegnare con le parole» ricorda le inventiones o «invenzioni», ovvero i progetti iconograci che intellettuali e letterati erano soliti mettere a disposizione degli artisti. Il termine prescelto per indicare tale prassi alludeva chiaramente alla prima delle cinque parti della retorica, l’inventio, ossia al reperimento degli argomenti del discorso. Si potrebbe quindi aggiungere che agli artisti spettava poi la parte deputata nella retorica all’elocutio, all’abbellire con le «gure» le descrizioni/prescrizioni ricevute.

A cosa corrisponde, quindi, a livello elocutivo, l’espressione impiegata da Benvenuto e attribuita a sé stesso in n di vita? Ci aiuta a rispondere a questo interrogativo un’opera composta da un autore non distante da Cellini: Le regole della lingua orentina di Pierfrancesco Giambullari.20 Nell’ottavo libro del trattato vengono enumerate le Figure della sentenzia; l’autore ne fornisce una breve denizione e poi porta un esempio emblematico dell’impiego della gura in questione. Così egli denisce l’ipotiposi o evidentia:

La innanz’agli occhi, dai Greci ὑποτύπωσις, et da’ Latini chiamata evidentia, disegna sì bene con le parole quello che ella ti vuole dimostrare: che tu lo vedi come | presente. Esemplo, Dante

Et un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno; et tutto a lui si appiglia,
Co’ piè di mezzo gli advinse la pancia;
et con gli anterior le braccia prese:
poi gli addentò et l’una et l’altra guancia.
[...].
21

Lungi dal voler sostenere che Cellini avesse letto il trattato di Giambullari, importa notare che l’espressione «disegnare con le parole» nel trattato indica un altro tecnicismo che coinvolge in modo stringente, a livello retorico, parole e immagini. Il mettere innanz’agli occhi del Giambullari chiarisce l’obiettivo del disegnare con le parole: mediante la gura dell’evidentia, il testo entra in competizione con le immagini, e aspira a raggiungere l’eicacia e la pregnanza di ciò che si pone alla conoscenza attraverso lo sguardo.22 Certamente molte delle pagine della Vita mirano ad avere la forza espressiva delle immagini, a far vedere con un altro mezzo la grandezza delle opere di Benvenuto, a porle sotto gli occhi dei suoi lettori così come i committenti e i suoi contemporanei poterono ammirarle con la propria vista. Inoltre, non andrà trascurato l’esempio scelto nelle Regole; Giambullari, da esperto conoscitore e commentatore della poesia dantesca, impiega in molti casi passi esem- plari tratti dalla Commedia ma, al di là della sua specica competenza, il maestro del «visibile parlare» appare come esempio quasi obbligato per la gura dell’ipotiposi. Pochi poeti come Dante hanno saputo, con pari eicacia, «porre sotto gli occhi» dei lettori i protagonisti delle loro opere: nessuno è stato in grado di disegnare in modo così potente con le parole il paesaggio dei regni ultraterreni e i ritratti degli abitanti di tali luoghi.

La conferma, se necessaria, dello stretto legame tra la poesia dantesca e l’evidentia, può giungere inoltre grazie all’occorrenza dell’espressione che ci sta guidando come un lo rosso attraverso le immagini e le parole celliniane in alcuni dei più noti commenti alla Commedia.

Giunto a illustrare il XXXII canto dell’Inferno, là dove Dante, dinanzi al nono cerchio popolato dai traditori, confessa la diicoltà a descrivere il «tristo buco» e richiede l’intervento delle Muse «sì che dal fatto il dir non sia diverso»,23 Cristoforo Landino si serve ancora della stessa espressione per descrivere quanto il sommo poeta si appresta a fare:

[...] la vera laude del poeta è che ’l verso sia accomodato alla materia, perché non solamente s’appartiene a llui a narrare, ma debba quasi dipignere con le parole la chosa in forma che la facci apparire a gl’occhi della mente chome quelle chose che si veggono con gl’occhi corporali. Onde molti hanno diinito poesia essere una vana pictura che parli. Il che maximamente si conosce in Virgilio. Per la qual chosa poi che lui ha a tractare delle chose horrende et terribili et aspre che sono in questo ultimo cerchio, conosce che si richiede rime, cioè versi, aspri et chiocci, cioè rochi, pe’ quali si dimostra merore et tristitia, che chosì si conviene al tristo buco, a questo ultimo cerchio el quale è un buco nel centro della terra [...].24

Anche Landino, dunque, lega l’ipotiposi o evidentia, ovvero il far apparire a gl’occhi della mente, al disegnare, qui dipingere, mediante le parole. Recuperando il tòpos dell’ut pictura poësis, il commentatore di Dante attribuisce ai versi della Commedia la capacità di conquistare una perfetta aderenza tra la cosa descritta e la parola che la descrive, così da rendere concreto e visibile, come un quadro dipinto a parole, il cerchio dei traditori.

Landino non è il solo tra i commentatori danteschi a servirsi dell’espressione «dipingere con le parole», che ricorre più volte nelle Letture sopra la Commedia di Dante di un contemporaneo di Cellini, Giovan Battista Gelli.25 Le sue lezioni o letture dantesche tenute presso l’Accademia Fiorentina insistono, in più luoghi, sulla relazione tra la poesia dantesca e le arti visive.

La prima occorrenza dell’espressione che stiamo seguendo, però, non viene riferita a un passo della Commedia, bensì autoriferita al commentatore, che dedica una lettura preliminare alla descrizione della struttura dell’Inferno dantesco:26

                   Poi chi pinge gura,
                   se ei non può esser lei, non la può porre,
che tutti gli arte
ci, e particoularmente di quelle arti nelle quali si ricerca disegno, come sono la pittura, la scultura e la architettura, quando ei voglion fare qualche opera bisogna che si faccin prima nella mente e nella immaginativa un modello o uno exempio nel modo che ei vogliono che ella stia, e di poi la fabbrichino e la faccino secondo quella idea e quel modello, ritraendola appunto da quello, in quel proprio modo che ritraggono i disegnatori e i pittori le gure o da altre gure dipinte o da ’l vivo e da il proprio. Questa dottrina e questo ordine, per parermi molto bello e molto utile, e essere, oltre a di questo, dello autore stesso che io espongo, volendo io seguitare, mi son resoluto [...] farvi prima col mio ragionamento ancora io un modello e una certa bozza di quello. Laonde vi sarà di poi molto più facile lo intender come lo ponga il Poeta, il sito e la gura che egli gli dia [...].27

Misinterpretando in parte il concetto espresso nel Convivio,28 Gelli qui si paragona all’artista che prima di realizzare la propria opera, in una di quelle arti «nelle quali si ricerca il disegno», ha bisogno di un modello, di una bozza, di una immagine mentale che servirà ai lettori/ascoltatori per comprendere meglio l’esposizione del pellegrinaggio di Dante lungo i gironi infernali.29 Segue dunque una dettagliata descrizione del regno degli inferi; e in conclusione Gelli riassume quanto ha esposto in questi termini:

E questo basti aver detto, acciò che voi possiate farvi quel modello della forma di questo Inferno di Dante, che io vi ho detto di sopra. La gura universale del quale, perché ella si imprima ancor meglio nelle vostre menti, così come io ve la ho dipinta e posta avanti a lo intelletto con le parole, vi porgo ancora avanti a gli occhi con questo disegno.30

Il modello tratteggiato a parole non serve tanto all’artista-interprete quanto al lettore per vedere «dipinto a parole» il regno nel quale sta per addentrarsi. L’ipotiposi giova dunque quale mappa verbale per l’aldilà dantesco, del quale, tuttavia, Gelli preferisce fornire non pago del dipinto a parole anche un disegno reale che contribuisca a porre «avanti a lo intelletto» e agli occhi reali dei lettori i gironi infernali. Gelli impiega nuovamente l’espressione «dipingere con le parole» per una delle tante icastiche descrizioni infernali. Siamo nel girone in cui viene punito il peccato della gola:

Nel qual luogo egli pone ancora, come egli ha fatto nel
cerchio di sopra, un demonio come guardia e ministro
della punizione dell’anime che vi sono, dicendo:
Cerbero,
era crudele e diversa,
Con tre gole caninamente latra
Sovra la gente che quivi è sommersa.
Gli occhi ha vermigli, la barba unta ed atra,
Il ventre largo, e unghiate le mani;
Gra
ia gli spirti, scuoia e gli disquatra.
Urlar gli fa la pioggia come cani;
Dell’un de’ lati fanno all’altro schermo;
Volgonsi spesso i miseri profani.
[...]

E detto ch’egli ha questo, egli descrivendolo più particularmente, lo dipinge in modo altrui con le parole, ch’ei non lo farebbe meglio un pittore ben esperto co’ colori. Onde incominciandosi da gli occhi, i quali sono la principal parte del volto e donde si cava più indizii dell’animo, che di alcuno altro luogo, dice ch’egli gli ha vermigli, cioè infocati e sanguigni; il che denota l’ira e la rabbia sua [...]; la barba unta, come si vede avere spesse volte i golosi, ed atra, e sudicia per la qualità del luogo e della piova brutta; il ventre largo e ampio, come avviene a’ gran mangiatori, e le mani unghiate, e atte a poter pigliare e tener facilmente ogni cosa, e potere oltre a di questo continovamente oendere e tormentare quegli spiriti [...].31

Le doti ecfrastiche di Dante, il suo uso magistrale dell’evidentia, lo rendono capace di dare concretezza alle parole superando la potenza espressiva delle immagini reali. Ad ogni elemento della dettagliata descrizione di Cerbero corrisponde un signicato ben preciso dell’icona verbale dipinta dal pennello delle parole di Dante. Il ritratto del mastino infernale dalle tre bocche, il cui senso è puntualmente illustrato dall’esegesi di Gelli, si fa imago agens, per ssarsi così in modo indelebile prima nella fantasia e poi nella memoria del lettore della Commedia.32

Si potrebbe osservare che Gelli, come del resto già Landino, impiegano al posto di «disegnare con le parole» l’espressione quasi sinonimica «dipingere con le parole». Tuttavia, in altri luoghi della esegesi dantesca gelliana emerge chiaramente che, in accordo con molti passi in cui Gelli sostiene la complementarietà tra disegnare e dipingere, anche per questo commentatore Dante è un maestro in primo luogo capace di tratteggiare memorabili disegni a parole:

Questa lode, che dà il Trissino a Omero dello avere, per le cagioni dette, superato tutti gli altri poeti, pare a me e a tutti gli uomini litterati [...], che si possa dare meritissimamente a Dante, e dire ch’egli abbia superati tutti i poeti volgari in rappresentare vive ed efficaci le azioni ch’egli descrive a’ lettori. E perchè tale energia e tal forza, per usar le parole del Trissino, non può darsi a le cose se non, come noi dicemmo di sopra, descrivendo ogni minima particularità di quelle, senza lasciare indietro nulla, egli gli è convenuto usare molte parole e molti modi di dire, che paion bassi a questi che attendon solamente a la bellezza e a la leggiadria delle parole; non si curando, per tal cagione, di scrivere altre cose e altri concetti, che quei che si posson dire con parole belle e scelte, e attendendo nelle poesie solamente quello ch’è bello e diletta, e non quel ch’è utile e giova. I quali pare a me che faccino (per darne uno esempio in una arte similissima a la poesia, e questa è la pittura), come quei che si dilettono e cercon nelle pitture solamente il ben colorito, e non il disegno; e nientedimanco il fondamento e il nervo della pittura è il disegno, e di far che le cose apparischino più tosto vive e vere, che belle e leggiadre. Per il che fare il nostro Poeta, se voi avvertite bene, non lascia mai, in azione alcuna ch’ei descriva e racconti, cosa alcuna, ancor che minima e bassa, che la possa fare apparir viva e vera a la mente dei lettori [...].33

Dante, come Omero, è maestro dell’evidentia e dell’enargeia: la descrizione minuta delle pene infernali, che richiede il ricorso anche a un lessico talvolta basso, mira all’eicacia edicante e non al mero diletto. Per riusare la metafora di Gelli, le descrizioni dantesche hanno la stessa potenza didattica dell’arte del disegno, alla quale si oppone lo sterile diletto del «bel colorito»: il disegnare con le parole gli consente di tratteggiare immagini verbali «vive e vere».

Molto aine a questo passo, per l’elogio delle doti di disegnatore di Dante, è il commento del Gelli alla bufera infernale, che ci consente di riavvicinarci ai «disegni a parole» di Cellini:

La bufera infernal, che mai non resta,
mena gli spirti con la sua rapina,
volando e percotendo gli molesta,

ei vi parrà propiamente veder realmente e in fatto quelle infelici anime esser menate, volando, dalla rapina di quella bufera e di quel vento così impetuoso a percuotersi miserabilmente, senza aver mai posa, l’una né l’altra. Onde voi sarete nalmente forzati a confessare, che in questo Poeta sia, oltre a la dottrina e alla grandezza de’ concetti, tanto grande l’arte nel sapere exprimergli, che questi ai quali piacciono più quegli altri poeti (che cercando molto più dilettare che giovare, scrivon con più leggiadria e più eleganza che ei sanno concetti e pensieri dolci d’amore) che non piace Dante, si possono assomigliare a quegli ai quali piaccion più, per la vaghezza de’ colori e per la varietà de’ paesi, che sono in quelle, le pitture andresche (per darvi uno esempio nella pittura, la quale è tanto simile alla poesia [...]), che non farebbe un quadro di Michelangelo, ove fussero in un campo scuro, e d’un color solo, che gure si volessero, che mostrassero, come egli è solito fare, [...] che l’arte, se ella potesse dare alle cose che ella fa la vita e il moto, come fa la natura, ella non arebbe da vergognarsi punto da lei; senza considerare, oltre a di questo, quanto ei sia maggiore arte il fare uno uomo, che è una delle più belle cose che facesse mai la natura, [...] che non è il fare un paese o un arbore o un prato orito. Nè sia alcuno che si maravigli che io abbia così detto di Michelangelo più tosto che d’uno altro; che io lo ho fatto per parermi che ei tenga quel luogo fra i pittori, che tiene Dante fra i poeti.34

Qui le doti dantesche nel maneggiare l’evidentia, che gli consentono di porre sotto gli occhi dei lettori le infelici anime dei dannati, conducono Gelli a servirsi di un’altra metafora legata alle arti e a porre Dante al anco di Michelangelo. La poesia del «sommo poeta» infatti viene letta come antitetica rispetto ai paesaggi «andreschi», ancora legati meramente al colore, e avrebbe invece le stesse doti della pittura michelangiolesca, la quale, in ragione dell’implicito dominio del disegno, è in grado di descrivere il capolavoro della natura, ovvero l’uomo.

Chi col parlar dipinge, altri con carte

Il Commento dantesco di Gelli al quinto canto dell’Inferno ci consente di ritornare al passo della Vita dal quale siamo partiti: al nostro Benedetto in n di vita che ha letto così bene Dante da riuscire a vedere e toccare Caronte in carne e ossa, pronto a trascinarlo via sulla sua «spaventata barca». Il magistero dantesco nell’autobiograa celliniana si mescola in più occasioni a quello michelangiolesco e il «quasi morto» Cellini riesce a disegnare ben bene con le parole la creatura infernale che lo minaccia anche in virtù della grande lezione appresa dai due maestri orentini. Nel saper mettere a frutto questo duplice insegnamento starebbe dunque l’eccezionalità del genio di Cellini, almeno nella auto-rappresentazione che egli costruisce nelle pagine della Vita ma anche nelle Rime.

Ed è proprio nei suoi versi che ritroviamo, con una lieve variante, e in una accezione ben diversa, l’espressione che sin qui ci ha guidato:

Questi colori àn tante fraulde sparte
che ne traboccha hormai tutta la terra,
et sotto questi ’l ver s’asconde e serra
d’ogni santa virtù, d’ogni bell’arte.
Chi col parlar dipingie, altri con carte,
et così ’l falso al ver fa sempre guerra:
gran mal fa a chi e’ piacie, ché troppo erra
per nutrir Vener, Baccho e ’l crudel Marte.
Questi falsi color fan vari eetti:
chi trionfa, chi tribola e chi stassi,
et io senza arte attendo a
.ar sonetti.
Son oggi i mia pensieri humili e bassi,
perché bisognia aver troppi rispetti:
â ’l n di me quel che degli altri fassi.35

Il sonetto 127 (CVII) appartiene a quel nutrito gruppo di componimenti che Cellini dedica alla perentoria presa di posizione contro la pittura, a favore naturalmente della scultura, in risposta all’inchiesta di Varchi sul Paragone tra le arti (1547).36 Ci condurrebbe lontano dall’obiettivo di queste pagine riassumere anche soltanto a grandi linee le argomentazioni di Cellini all’interno dell’animata querelle suscitata da Varchi; piuttosto vorrei provare a osservare come in questo sonetto l’espressione celliniana «disegnare con le parole» cambia bruscamente di signicato con il semplice passaggio dal disegno alla pittura. Si può infatti comprendere con maggiore sicurezza il signicato dell’incipit della seconda quartina («Chi col parlar dipingie, altri con carte») proprio alla luce di alcune delle osservazioni di Gelli nel suo Commento, che consentono di chiarire come Benvenuto mai avrebbe voluto «dipingere con le parole», ma che consapevolmente sceglie di «disegnare» al pari di Dante e Michelangelo.

Come nel commento alla Commedia il colore e il colorire conducono non a chiarire, a dare evidenza al reale, quanto piuttosto a nascondere con qualcosa di fatuo e ingannevole, il cui unico obiettivo è lo sterile diletto, così nel sonetto di Cellini «i falsi colori» hanno vari eetti dannosi, celano e serrano la verità, facendole guerra. In tal senso «chi col parlar dipingie» compie un’azione opposta al «disegnare con le parole»: mente e nasconde37 quella realtà che la parola poetica di Benvenuto, nutrita dagli insegnamenti dei due maestri orentini, vuole disvelare e rendere vivida, presente e visibile come i capolavori dell’oreceria e della scultura che ha prodotto il suo genio.

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1 Penso ad esempio agli studi che hanno indagato il rapporto tra arte e ritratto nel corso del Rinascimento, cfr. Édouard Pommier, Il ritratto: storia e teorie dal Rinascimento all’età dei lumi, Michela Scolaro (a cura di), Torino, Einaudi, 2003; Franco Pignatti, Il ritratto dell’amata nella lirica del Cinquecento, in Harald Hendrix et al. (a cura di), Oicine del nuovo. Sodalizi fra letterati, artisti ed editori nella cultura italiana fra Riforma e Controriforma, Manziana, Vecchiarelli, 2008, pp. 267-307; Lina Bolzoni, Poesia e ritratto nel Rinascimento, Roma, Laterza, 2008; ead., Il cuore di cristallo. Ragionamenti d’amore, poesia e ritratto nel Rinascimento, Torino, Einaudi, 2010; F. Pich, I poeti davanti al ritratto. Da Petrarca a Marino, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2010.

2 Si guardi al caso esemplare della fortuna gurativa dell’Orlando furioso, ampiamente investigata nel corso degli ultimi decenni. Cfr. almeno gli studi più recenti: L. Bolzoni et al. (a cura di), «Tra mille carte vive ancora». Ricezione del Furioso tra immagini e parole, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2011; L. Bolzoni et al. (a cura di), Donne cavalieri incanti e follia. Viaggio attraverso le immagini dell’Orlando Furioso, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2013; Michel Paoli et al. (a cura di), L’Arioste et les Arts, Paris, Éditions du Louvre, 2012; Massimiliano Rossi et al. (a cura di), Le sorti di Orlando, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2014; L. Bolzoni (a cura di), Il «Furioso» nello specchio delle immagini, Roma, Treccani, 2014 e L. Bolzoni (a cura di), Galassia Ariosto. Il modello editoriale dell’Orlando furioso dal libro illustrato al web, Roma, Donzelli, 2017.

3 Gli studi sull’argomento sono oramai assai vasti e articolati, mi limito quindi a ricordare dei testi di riferimento: Murray Krieger, Ekphrasis. The Illusion of the Natural Sign, Baltimore-London, The John Hopkins UP, 1991; James A. Heernan, Museum of Words. The Poetics of Ekphrasis from Homer to Ashbery, Chicago-London, University of Chicago Press, 1993; Ruth Webb, Ekphrasis ancient and modern: the invention of a genre, «Word & Image», 15 (1999), pp. 7-18; Gianni Venturi et al. (a cura di), Ecfrasi. Modelli ed esempi fra Medioevo e Rinascimento, Roma, Bulzoni, 2004; Sonia Maei, I limiti dell’ekphrasis: quando i testi originano immagini, «Studi di Memofonte», 15 (2015), pp. 120-146.

4 L’articolo di Michele Cometa, Al di là dei limiti della scrittura. Testo e immagine nel «doppio talento», in M. Cometa et al. (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale, Macerata, Quodlibet, 2014, rappresenta un primo tentativo di denizione delle tipologie che uno studio teorico sul «doppio talento» dovrebbe prendere in considerazione. Si veda anche un primo inquadramento della questione fornito da Christian Bec, Artisti scriventi e artisti scrittori in Italia (secondo Trecento primo Novecento), in Antonio Franceschetti (a cura di), Letteratura italiana e arti gurative, 3 voll., Firenze, Olschki, 1988, I, pp. 81-100.

5 In merito al concetto di self-fashioning nel Rinascimento rimane imprescindibile Stephen Grenblatt, Renaissance Self-Fashioning. From More to Shakespeare, Chicago & London, The University of Chicago Press, 1980.

6 Cfr. Victoria C. Gardner, Homines non nascuntur, sed guntur: Benvenuto Cellini’s Vita and the Self-Presentation of Renaissance Artist, «Sixteenth Century Journal», 38 (1997), pp. 447-465; e Marcello Ciccuto, Il pregiudizio dell’alterità. Per Benvenuto Cellini biografo «in gura», in Maria Pia Sacchi et al. (a cura di), Scritti autobiograci di artisti tra Quattro e Cinquecento. Seminari di letteratura artistica, Pavia, Edizioni Santa Caterina, 2017, pp. 89-100; Giovanna Rizzarelli, Vita di un artista scrittore. Self- fashioning di un doppio talento nella biograa di Cellini, in Lorenzo Battistini et al. (a cura di), Atti del XX Congresso dell’ADI (Napoli, 7-10 settembre 2016), Roma, Adi Editore, 2018. Più in generale sulle scritture autobiograche degli artisti cfr. Marziano Guglielminetti, Memoria e scrittura. L’autobiograa da Dante a Cellini, Torino, Einaudi, 1977, pp. 101-158 e Massimo Lollini, L’autobiograa dell’artista «divino» tra sacro e secolarizzazione, «Annali d’italianistica», 25 (2007), pp. 275-310.

7 Si veda almeno Luigi Scorrano, «Gli ha letto Dante». Occasioni dantesche nella Vita del Cellini, «Rivista di Letteratura italiana», 18 (2000), pp. 29-45 e in particolare le pp. 85-85 (per l’episodio di Caronte). Cfr. inoltre Diletta Gamberini, The Artist as a Dantista: Francesco da Sangallo’s Dantism in Mid-Cinquecento Florence, «Dante Studies», 135 (2017), pp. 169-191, che ha sottolineato con eicacia il ruolo che Dante ebbe per la «self-promotion» di molti artisti-scrittori orentini.

8 Tutte le citazioni sono tratte da Benvenuto Cellini, La vita, Lorenzo Bellotto (a cura di), Parma, Ugo Guanda Editore, 1996.

9 Sulla funzione dell’ékphrasis nella Vita cfr. almeno i più recenti Angela Biancoore, Benvenuto Cellini artiste-écrivain: entre le dire et le faire, «Chroniques italiennes web», 15 (1/2009) e Cécile Terreaux-Scotto, Benvenuto Cellini, sculpteur de mots et conteur d’images: la Vita, manifeste à la gloire de l’art, «Cahiers d’études italiennes», 12 (2011), pp. 95-123.

10 Su quest’ultimo si veda la voce di Franca Nardelli per il Dizionario biograco degli italiani, XXIV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1980, pp. 129-132.

11 Mi limito a ricordare il noto episodio narrato nel libro II, cap. XXII, nel quale Benvenuto mostra a Francesco I il bozzetto della fontana di Fontainebleau, e alla richiesta di un’esplicazione dell’iconograa prescelta, sostiene che «essendo piaciuto col fare, volevo bene che altretanto piacessi il mio dire» (Vita, II, XXII, p. 530). In quel passo il «disegno a parole» è indispensabile per spiegare ciò che le immagini non riescono a comunicare a prima vista. In merito all’opposizione tra «dire» e «fare» rimando ancora a A. Biancoore, Benvenuto Cellini artiste-écrivain, cit., passim.

12 A dispetto dei molti passi della Vita nei quali Cellini menziona le proprie doti nell’arte del disegno, come ricorda anche Gamberini nel suo commento alle Rime celliniane, due avversari del Nostro, Baccio Bandinelli e Vincenzio Borghini, lo accusarono di non padroneggiare aatto quell’arte del disegno (cfr. B. Cellini, Rime, Diletta Gamberini (a cura di), Firenze, SEF, 2014, p. 18).

13 In merito all’aggettivazione, estremamente elogiativa, che accompagna le numerose menzioni del Buonarroti e la sua chiara derivazione vasariana cfr. Margherita Orsino, Divino Michelangelo, Cellini diabolico: la Vita come mitizzazione capovolta, in Pérrette-Cécile Buaria et al. (a cura di), Benvenuto Cellini artista e scrittore, Atti della giornata di studi (14 novembre 2008), Parigi, Istituto italiano di cultura, 2009, pp. 59-75.

14 Questi due episodi dell’autobiograa andrebbero letti anche alla luce della posizione del Nostro in merito alla superiorità della scultura rispetto alla pittura, e di conseguenza alla sua denizione del disegno quale ombra del modello plastico, del rilievo. Sulla questione assai complessa, che ci allontanerebbe dall’argomento di queste pagine, cfr. Benedetto Varchi, Vincenzio Borghini, Pittura e scultura nel Cinquecento, Paola Barocchi (a cura di), Livorno, Sillabe, 1998.

15 Per la produzione in versi del Nostro si veda l’ampia Introduzione di Diletta Gamberini contenuta nella recente edizione di Benvenuto Cellini, Rime, cit., pp. IX-LXX.

16 B. Cellini, Rime, cit., p. 33.

17 Cfr. ibid., pp. 33-34, note 12-13.

18 Ibid., p. 40.

19 Espressione debitrice delle Rime burlesche del Lasca (madrigale XLIV); si veda il puntuale commento di D. Gamberini in B. Cellini, Rime, cit., p. 40.

20 Il Giambullari (Firenze 1495-ivi 1555) fece parte dell’Accademia degli Umidi e poi dell’Accademia Fiorentina, di cui fu console nel 1546 (cfr. la voce di Franco Pignatti per il Dizionario biograco degli italiani, LIV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 306-312).

21 Pier Francesco Giambullari, Regole della lingua orentina, Ilaria Bonomi (a cura di), Firenze, presso l’Accademia, 1986, p. 303. La princeps del trattato, con il titolo De la lingua che si parla et si scrive in Firenze, venne impressa nel 1552 da Lorenzo Torrentino (CNCE 20912), benché il colophon sia privo di anno e di editore. La citazione dantesca è tratta da Inf. XXV, 50-57.

22 Si ricordi che l’origine etimologica di ipotiposi/ ὑποτύπωσις rimanda al verbo greco ὑποτύποω, ovvero «disegnare, abbozzare». Il modo in cui la denisce Giambullari rispecchia fedelmente tale etimologia.

23 Si noti la possibile allusione dantesca contenuta nella Vita, II, XXII, cfr. nota 10.

24 Cristoforo Landino, Comento sopra la Comedia, Paolo Procaccioli (a cura di), Roma, Salerno, 2001, tomo II, pp. 984-985.

25 Giovan Battista Gelli (Firenze 1498-ivi 1563) fu membro dell’Accademia Fiorentina, della quale fu anche console nel 1548, e dal 1553 e sino alla morte fu lettore pubblico di Dante e Petrarca (cfr. la voce di Angela Piscini in Dizionario biograco degli italiani, LII, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2000, pp. 12-18). Sulle sue lezioni su Dante si rimanda a Gianfranco Mazzacurati, G.B. Gelli: un «itinerario della mente» a Dante, in Stefano Jossa (a cura di), L’albero dell’Eden. Dante tra mito e storia, Roma, Salerno Editrice, 1969, pp. 92-133; Maria Pia Ellero, Aristotele tra Dante e Petrarca. La ricezione della Poetica nelle lezioni di Giambattista Gelli all’Accademia Fiorentina, «Bruniana & campanelliana», 13 (2007), pp. 463-476; Massimiliano Corrado, Lettori cinquecenteschi dell’«Ottimo Commento» alla «Comedia» (Giambullari, Gelli, Vasari, Borghini, Salviati, Piero del Nero), «Rivista di studi danteschi», 8 (2008), pp. 394-409.

26 Alla descrizione della struttura dell’Inferno in quegli anni si era dedicato, insieme a molti altri, proprio il già menzionato Giambullari, sodale del Gelli (cfr. Pierfrancesco Giambullari, Pierfrancesco Giambullari accademico or. De ’l sito, forma, et misure, dello Inferno di Dante, Firenze, Neri Dortelata, 1544). Sull’«attualità» della denizione della struttura del regno infero nella Firenze cosimiana cfr. Ancora D. Gamberini, The Artist as a Dantista, cit., pp. 180-182.

27 Giovan Battista Gelli, Opere, Danilo Maestri (a cura di), Torino, Utet, 1976, p. 636.

28 Per un commento più puntuale dei versi tratti dall’ultima canzone del Convivio, «Le dolci rime d’amor ch’i’ solia» rimando a Dante Alighieri, Opere, Marco Santagata (a cura di), Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2014.

29 Per il potere edicante che Gelli riconosce alle «immagini» nella sua esegesi del poema dantesco cfr. M.P. Ellero, Aristotele tra Dante e Petrarca, cit., passim.

30 G. B. Gelli, Opere, cit., p. 645.

31 G. B. Gelli, Letture edite e inedita di sopra la commedia di Dante, Carlo Negroni (a cura di), 3 voll., Firenze, Fratelli Bocca Editori, 1887, I, pp. 367-368.

32 Sull’importanza dell’evidentia e dell’enargeia nel Commento di G. B. Gelli, cfr. G. Mazzacurati, G.B. Gelli, cit., pp. 92-133; e M.P. Ellero, Aristotele tra Dante e Petrarca, cit., pp. 471-473.

33 Letture edite e inedita, cit., II, pp. 372-373; su questo passo e le sue ricadute sulla difesa di Dante (in chiave antibembesca e antipetrarchesca) si vedano le osservazioni di G. Mazzacurati, G.B. Gelli, cit., pp. 120-121, nota 18.

34 G. B. Gelli, Opere, cit., pp. 682-683. Su questo passo rimando ancora a G. Mazzacurati, G. B. Gelli, cit., pp. 111-112; e M.P. Ellero, Aristotele tra Dante e Petrarca, cit., pp. 463-464.

35 B. Cellini, Rime, cit., pp. 332-333.

36 Sulla posizione di Cellini all’interno di questa querelle, anche attraverso i componimenti in versi, rimando al puntuale commento di D. Gamberini in B. Cellini, Rime, cit., passim.

37 Il verbo dipingere può avere il signicato gurato di «rappresentare in modo diverso dal reale, dare apparenza ingannevole», cfr. D. Gamberini in B. Cellini, Rime, cit., p. 333, nota 5, che giustamente parafrasa: «alcuni dicono il falso con le parole, altri con gli scritti».