Revue Italique

Varia

OJ-italique-552

Un sonetto di Giovanni Muzzarelli (Me freddo il petto e de nodi aspri e gravi), il testo Beccadelli e la Raccolta Bartoliniana

Maria Camboni

1. Nei tre decenni e mezzo intercorsi dall’edizione critica delle rime di Giovanni Muzzarelli,1 uno dei primi imitatori (nonché amico perso- nale) di Pietro Bembo,2 sono stati rintracciati diversi nuovi testimoni delle sue poesie.3 Dato lo stato degli studi, non è sorprendente scoprire che ve ne siano altri: lo è un po’ di più constatare che, in virtù della loro testimonianza, un sonetto di Giovanni Muzzarelli si è inltrato tra le«rime disperse» di Francesco Petrarca pubblicate nell’edizione del 1909 a cura di Angelo Solerti.4

Si tratta di Me freddo il petto e de nodi aspri e gravi, il sesto componimento dell’edizione pubblicata nel 1983 da Giuseppina Hannüss Palazzini. Così come l’editrice di Muzzarelli non conosceva il manoscritto alla base dell’edizione Solerti, era ignoto a Solerti l’unico codice che attribuisce il sonetto a Giovanni Muzzarelli: vale a dire il II.i.60 (già MagliabechianoVII.724) della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, il testimoneprincipale (e il più copioso) delle rime del cinquecentista (d’ora in avanti FiNaz).

Grazie alle nuove testimonianze è possibile apportare alcuni ritocchi al testo di Me freddo il petto, con un paio di netti miglioramenti. Per quel che riguarda l’attribuzione, invece, rimane quella al Muzzarelli. L’inclusione del sonetto in Solerti (e, prima ancora, in alcune stampe ottocentesche)5 par dipendere infatti da un fraintendimento. Nel manos- critto 1289 della Biblioteca Universitaria di Bologna (Bo) il testo viene trascritto a c. 153r, adespoto come il precedente e il successivo (rispettivamente alle cc. 152ve 153v), ma di seguito a un sonetto (c. 152r) attribuito a «M. F. P.», cioè «M(esser) F(rancesco) P(etrarca)», Quand’Amor, sua mercede e mia ventura. I quattro sonetti sono stati tutti copiati dalla stessa mano, ma dato che la rubrica pare valere solo per il primo testo, e non anche per quelli che lo seguono, per Me freddo il petto non si può che confermare l’unica attribuzione esplicita.

Oltre che da Bo e FiNaz, il sonetto è tramandato dalla Raccolta Bartoliniana (Bart: c. 151r) in una sezione di poesie di «authorj inciertj». Il testo copiato subito dopo è tratto «Del libro di Mons(igno)re M(esser) Pietro bembo», mentre non viene dichiarato da dove provengano né Me freddo il petto né il sonetto che lo precede (anch’esso entrato nell’edizione Solerti), Dal loco dov’è sol guerra e tormento. Vista la modalità usuale di procedere del copista della raccolta, l’abate Lorenzo Bartolini, dobbiamo supporre che li abbia tratti o da una fonte di proprietà di Ludovico Beccadelli o da un manoscritto di Giovanni Brevio. Com’è noto, le diverse sezioni che costituiscono il Bolognese 1289 e altre unità codicologiche ancora conservate nella stessa sede nella seconda metà del XVI secolo facevano parte di un unico oggetto librario, in mano appunto a Ludovico Beccadelli, e proprio Dal loco dov’è sol guerra e tormento precede immediatamente Me freddo il petto anche nel Bolognese 1289. Sorge quindi il dubbio che la testimonianza della Bartoliniana dipenda da quella del Bolognese 1289, e che la prima sia di conseguenza da scartare. Lo sono sicuramente il Bolognese 2448 (noto descriptus della Bartoliniana) e tutti i codici che ne sono copie (ad esempio il manoscritto it. IX. 292 (6097) della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia).6 Prima di esaminare meglio la questione, si fornisce qualche dato in più sui diversi testimoni non sicuramente descripti e una nuova edizione del sonetto del Muzzarelli, con apparato.

2. Bologna, Biblioteca Universitaria, 1289, c. 153r(Bo)

Cartaceo, composito, vari formati (sempre in-quarto e la variazione è contenuta: mm. 214 × 156 al f. 1r, 215 × 148 f. 152r, 210 × 145 f. 173r, 216 × 150 f. 180r). Sec. XVI seconda metà, ma composto da materiali in parte già trascritti in epoca anteriore. Di . III, 48 + 48 + 52 + 27 + 39 (in totale 214), I’, bianchi i . 8v, 96v, 123v, 129v, 134v, 140r-147v, 151r-v, 158v, 162v, 164v, 166v, 168v-169v, 173r, 174r-v, 176v, 186v-187v, 212v-213v. Numerazione antica unitaria per tutto il codice 1-213 in altro a destra, che ripete per errore due volte il numero 130 (130 bis corretto modernamente a penna): 1-48 in inchiostro bruno, poi 49-213 a penna rossa in prosecuzione sulle unità codicologiche successive. La numerazione in penna rossa è stata apposta nel momento in cui i fogli e codicetti che compongono il manufatto sono stati riuniti assieme da Antonio Giganti (1535-1598), segretario di Ludovico Beccadelli (1501-1572), e continua nei fascicoli che originariamente erano associati a questo stesso codice ma ne sono stati in seguito separati, ora conservati nella stessa sede e segnati 177 III, 1072 XI 9, 401 I. Si aianca a due diverse numerazioni più antiche, una prima 1-48 ai . 49-96 (seconda unità codicologica) e una seconda 1-39 ai . 97-134 (terza unità codicologica). I fascicoli XIII-XX (. 148-174) sono composti da materiali eterogenei, compresi fogli singoli piegati a metà a costituire un bifolio; per praticità li si considera in maniera unitaria. Formula di collazione dei fascicoli: I-VI (8) + VII-IX (16) + X (24), XI (12), XII (16) + XIII (4), XIV (2), XV (6-1), XVI (4), XVII-XIX (2), XX (10-4) + XXI (8-3), XXII-XXIV (8), XXV (10). È stato tagliato un f. tra gli attuali 158 e 159 (fasc. XV). Vi sono tracce di piegatura su praticamente tutti i . dal 149 al 169, il XVI fascicolo in particolare sembra essere stato spedito come lettera (oltre a quelle di piegatura, tracce di ceralacca al f. 162v). Gli ultimi 4 . del fascicolo XX (tra gli attuali . 174 e 175) sono stati tagliati e il bifolio centrale, di formato ridotto, pare essere stato inserito in un secondo momento (così forse anche il f. 169, bianco e con tracce di piegatura). Al fasc. XXI sono stati tagliati la seconda metà del bifolio centrale (tra 178 e 179) e gli ultimi due . (tra 179 e 180), mentre il bifolio II dall’esterno, di cui rimane il solo f. 176, sembra essere stato aggiunto dopo ed è di formato lievemente inferiore. Nessun richiamo. Non rigato, versi in colonna. Una decina di mani, tra cui quelle di Antonio Giganti e Ludovico Beccadelli, attive in momenti dierenti dal sec. XV ex.-XVI in. no alla seconda metà del sec. XVI: mano a (sec. XVI metà) . 1-48, . 148r-150v (in questi ultimi e al fasc. VI in più tempi e con variazioni); mano b (sec. XVI secondo quarto) . 49r-93v, . 97r-139v; mano c, Antonio Giganti (seconda metà XVI), alcuni versi a f. 63v, copia i . 94r-96re 158r; mano d (sec. XV ex. XVI in.) . 152r-153v; mano e . 154r-157v, 159r-162r, 163r-164r, 165r-166r e forse 167r-168r; mano f . 170-172; mano g f. 173v; mano h (mano principale del ms. 2448 della stessa biblioteca, in parte di mano di Giganti) 175r-212r; mano i f. 176r. Postille e varianti di mano di Ludovico Beccadelli. Legatura moderna in cartone; sulla costola, «RACCOLTA DI RIME». Dopo Ludovico Beccadelli e Antonio Giganti giunse alle mani di Giovanni Giacomo Amadei (1686-1767; f. IIr, a lapis: «Prov. G. G. Amadei»), canonico di Santa Maria Maggiore di Bologna, che poco prima di morire vendette la sua biblioteca alla Biblioteca dell’Istituto delle Scienze, poi diventata la Biblioteca Universitaria di Bologna.

«Raccolta di Rime di Guido Guinicelli | di Dante di Guido Orlandi di Cino di | Lapo Giani, di Guido Cavalcanti di Dino | Compagni, di Frate Guittone. M. S. | del 1500 in carta (et) in 4°» secondo la descrizione del cartiglio incollato sul f. IIr, contiene una ricchissima miscellanea di rime duee trecentesche, che va dai Siciliani a Petrarca e corrispondenti. Interamente dedicato a Petrarca è in particolare il codicetto che costituisce la seconda unità codicologica del manoscritto (fascicoli VII-IX).

I
...
48vRisp. del Petr. ad un sonecto | che gli gli fu mandato da Parigi. Piu uolte ildi mi fo uermiglio et fosco
 
II («codicetto» petrarchesco)
 
49rQuand’amor sua mercede et mia uentura
49vQuella girlanda che la bella fronte
...
 
IV (sezione frammentata)
 
148rDi m(esser) F. Petrarcha. S ala deuota fede e ai pensier cari
...
152rM. F. P. Quand’amor sua merced’e mia uentura. (A margine, «supra 49»).
152vDal loco doue e sol guerra è torme(n)to
153rMe freddo il petto, e di nodi aspri e grauj
153vL’alma mia Giulia il or de l’altre belle
...

Bibl.: tavola completa del codice Amadei (esclusi i . che costituiscono l’attuale 1072 XI 9, per cui cfr. Frati Lodovico, Un frammento del codice di rime antiche di G. G. Amadei, in «Giornale storico della letteratura italiana», XXIV (1894), pp. 300-301), con qualche inesattezza, e notizie sulla storia del manufatto in Lamma Ernesto, Il codice di rime antiche di G. G. Amadei, «Giornale storico della letteratura italiana», XX (1892), pp. 151-185; per il compilatore v. Violi Cesarina, Antonio Giganti da Fossombrone, Ferraguti

G. & C, Modena 1911; descrizioni recenti in AlighierI Dante, Rime, a cura di Domenico De Robertis, Firenze, Le Lettere, 2002 (Le opere di Dante Alighieri. Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana, vol. II), vol. I* pp. 48-53; Piccini Daniele, Una “dispersa” da sottrarre a Petrarca: «Il lampeggiar degli occhi alteri e gravi» e le rime di Matteo di Landozzo degli Albizzi, «Studi petrarcheschi», n.s., XVI (2003), pp. 49-129, pp. 57-58 (da vedere anche per ulteriore bibliograa); descrizione e tavola analitica a cura di Anna Maria Bettarini Bruni nella base di dati Mirabile http://www.mirabileweb.it/manuscript-rom/bologna-biblioteca-universitaria-1289-manoscript/LIO-110213.

Firenze, Accademia della Crusca, 53, c. 151r (Bart)

Cartaceo, mm. 299 × 198, in-folio. Copiato tra il 1527 e il 1533, di cc. I, 261, I’ (più un foglio piegato in due con un indice degli autori, di mano moderna, incollato sul contropiatto posteriore), di cui bianche le cc. 4r-10v, 16v-21v, 47r-54v, 57r-59v, 80v-91/92v, 99r-100v, 109r-110v, 146r-149v, 155r-179v, 186r-192v, 195v-202v, 204r-212v, 220r-267v. Numerazione moderna a lapis 1-261, in cui la stessa c. è numerata 91 e 92, cancellata e praticamente non leggibile da c. 156 a c. 179 (probabilmente perché erronea: 153-176) e dopo c. 220; non applicata alle cc. 191-192 e 209 dove è visibile la numerazione antica originale, in gran parte asportata dalla rilatura (ma ancora ben leggibile anche alle cc. 226- 228, 247-257), che andava da 1 a 267 o 268 (l’ultima c. dell’ultimo fascicolo è caduta; idem l’originaria c. 43, così come una non numerata tra 83 e 84 e altre quattro tra 220 e 225). Formula di collazione dei fascicoli I (14); II (12); III (14); IV (12-1); V-VI (12); VII (12-1); VIII-XIV (12); XV (14); XVI-XVII (12); XVIII-XIX (12-2); XX-XXI (12); XXII (10-1). Non rigato; il margine sinistro è delimitato a lapis sul recto di ogni c., e tramite piegatura della stessa sul verso. Versi in colonna (salvo che a c. 46r-v, a coppie). Una mano principale, dell’abate Lorenzo Bartolini, di cui sono anche le varianti riportate a margine e le sottolineature in inchiostro di diversi colori; postille di Vincenzio Borghini. Legatura antica (XVIII sec.) in cuoio; sulla costola «DANTE | EDALTRI | POETI» (cartiglio molto consu- mato); sulla coperta anteriore «Alla R. Accademia | della Crusca». Già codice Alessandri (all’inizio del sec. XVIII apparteneva a padre Alessandri della Badia Fiorentina), poi dell’abate L. M. Rezzi (metà secolo XIX), inne in mano a Giuseppe Cugnoni che lo ha lasciato alla sede attuale: sul contropiatto anteriore è incollato un cartiglio che legge «Questo Ms. appartiene | alla Eredità di L. M. Rezzi | e dopo la mia morte | va alla R. Accademia della Crusca | Giuseppe Cugnoni».

Raccolta di rime due-trecentesche, copiate a integrazione della Giuntina di rime antiche del 1527. I testi sono organizzati in sezioni in base agli autori, lasciando un ampio numero di carte bianche per ulteriori aggiunte, indicando la successione delle fonti in ogni sezione (testo Beccadelli, testo Brevio, testo Bembo, in un caso testo Buonarroti), annotando a margine le varianti e segnalando le concordanze di lezione per le rime comuni a più fonti.

...
40rM(esser) francesco Petrarcha
Quant’era amata d’Acontio Cidippe
Io son si uago della bella aurora
40r-vA francesco da meleto de rossi da furlj. Perche l’Aeterno moto sopraditto
40vAntonio cosa ha facto la tua terra
40v-41rS’alla diuota fede et ape(n)sier charj
41rA Sennuccio benuccj Stampato a 202. Quella ghirlanda che la bella fronte
Sostenne con la spalla hercole il cielo
41vQuand’amor suo merzede et mia ue(n)tura
O, Montj alpestri o, cespugliosi maj
41v-42rSarà pietà ’n sylla ’n Mario et nerone
42rPer litj (et) selue, per campagnie et collj
42r-vVergine pura et sol’vnica lucie
44rLasso s’io mi lame(n)to io ho ben onde
Risposta a M(aestro) antonio da ferrara elcui sonetto è in q(uest)o a 55.
Perche non caggie nell’obscure caue
44r-vRisposta al co(n)te ricciardo ... el cui sonetto è in q(uest)o a 55. Conte Ricciardo quanto piu ripenso
44vRisposta a m(esser) ant(oni)o da ferrara elcui sonetto è in q(uest)o a 55.
Per util, per dilecto, et per honore
<Risposta al co(n)te Ricciardo>. Ne per quante gia maj lagrime sparsi
45rStampato a 200. Nuova bellezza in habito celeste
Risposta aun sonetto mandatolj da parigi. Piu uolte il di mi fo uermiglio et fosco
45r-vQuando tal hor da giusta ira commosso
45vPrincipio duna canzone. Amor’ in pianto ogni mio riso è uolto Scripto in q(uesto) a 41. <Quand’Amor sua mercede et sua ue(n)tura>. (Biato).
45v-46rDun texto molto anticho. In ira al ciel’ al mondo et allage(n)te
46rScripto disopra in q(uest)o a 42. <Per littj et selue, per campagne et <boschj>[Collj]>. (Biato).
46r-vAccorri Accorri io muoio
...
  
Authorj Inciertj
151rDal loco doue è sol guerra et torme(n)to Il pecto freddo et di nodi aspri et grauj
...

Bibl.: Alighieri, Rime cit., vol. I* pp. 89-92; DEGLI UBERTI Fazio, Rime, edizione critica e commento a cura di Cristiano Lorenzi, Pisa, Edizioni ETS, 2013, p. 46 (anche per ulteriore bibliograa); descrizione e tavola analitica a cura di Alessio Decaria nella base di dati Mirabile, http://www.mirabileweb.it/manuscript-rom/firenze-accademia-della-crusca-53-manoscript/LIO-42324.

Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.i.60 (già Magl. VII.724) (FiNaz)

Cartaceo, mm. 330 × 235, in-folio, prima metà del sec. XVI, di cc. I, 144, I’, bianche le cc. Iv, IIv, IIIv, VIIIv. Numerazione moderna a lapis I-VIII nel fascicolo iniziale, in alto a destra; altra numerazione a penna 1-136, sempre in alto a destra. Un quaderno iniziale (di mano di Vincenzo Follini) che contiene il titolo, notizie sulle segnature precedenti del manoscritto, una tavola e una tavola alfabetica; seguono un quinione (1-10), un decanione (11-29) che ha perso una carta, probabilmente tra le attuali 28 e 29, un novenione (30-47), sei ottonioni (48-63, 64-79, 80-95, 96-111, 112-127, 128-136: a quest’ultimo sono state tagliatele ultime sette carte). Non rigato, versi in colonna. Una mano principale della prima metà del sec. XVI, autrice anche della maggior parte delle correzioni; giunte di mano più tarda (seconda metà del XVI secolo) a c. 28v, 41v, 94v, 117v, 136v; quest’ultima mano è respon- sabile anche di alcune correzioni e integrazioni a c. 98v, 109r, 110r; altre integrazioni di mano seicentesca a c. 34r. Legatura moderna (XIX sec.) in cartone ricoperto di pergamena. Sulla costola «Giovanni | MVZZA|RELLI | Poesie | &c. | 60» e il cartiglio incollato con l’attuale segnatura. Proveniente dalla biblioteca Gaddi, dove era segnato 329 (segnatura riportata nell’angolo in alto a sinistra di c. 1r e in basso a destra di c. 136v, ricordata anche a c. IIr); passato alla sede attuale nel 1755 (v. cc. IIr, VIv); segnatura precedente Magliabechiano «Cl. VII. P. 1. Cod. 724» (c. IIIr). Le vecchie segnature sono riportate assieme all’attuale anche in un cartiglio incollato sul contropiatto anteriore.

Miscellanea di poesie tardo-quattrocentesche e cinquecentesche: Giovanni Muzzarelli (due diverse sezioni, alle cc. 1r-7v e 81v-94v), Pietro Bembo, Iacopo Sannazaro, Andrea Navagero, Cesare Gonzaga, Pietro Aretino, Gerolamo Verità, Giuliano de’ Medici, Ludovico Ariosto, Pietro Barignano, Giangiorgio Trissino, Niccolò Amanio, Alessandro Reloio, Episcopo Volterrano, Marco Cavallo, Gerolamo Cittadini, Baldassar Castiglione, Niccolò Tiepolo, «mo... Cosmo», adespote.

1r Oppere vulgare dello Ex.mo Poeta m(esser) Giouane muzarello ma(n)tuano son(etto) primo. Mio sempre amarui. Et uostro havermi asdegno
1vSonetto ij. O desir de questi occhi almo mio sole
2rSon(etto) iij. Vaghj dolcj fiorettj (et) ben nate herbe
2vSon(etto) iiij. I dolci bas[c]i et repplicatj spesso
3rSon(etto) v. Per tener uerde in me l’alto desio
3vSon(etto) vj. Deh perche adir de vuoi quagiu no(n) ue(n)ne
4rSon(etto) vij. Me freddo il pecto et de nodi aspri (et) graui
4vSon(etto) viij. Dal cibo onde io viuea si dolcem(en)te
...

Bibl.: I manoscritti italiani della Biblioteca Nazionale di Firenze descritti da una società di studiosi sotto la direzione del prof. Adolfo Bartoli, Firenze, Tipograa e litograa Carnesecchi, 1879-1883, I, pp. 31-51 (con tavola); Muzzarelli Giovanni, Rime, a cura di Giuseppina Hannüss Palazzini, Mantova, Arcari, 1983, pp. 21-22 (tavola parziale); Bembo Pietro, Le rime, a cura di Andrea Donnini, Roma, Salerno, 2008, II, pp. 588-589 (da vedere anche per ulteriore bibliograa).

Bo c. 153r; Bart c. 151r; FiNaz C. 4r

Sonetto di schema ABBAABBA;CDE,CDE. Il testo è interamente giocato sulle due immagini dell’ardore interiore e dei duri e pesanti vincoli che tormentano l’innamorato, il quale, inizialmente liberato da essi (vv. 1-4), vi viene nuovamente sottoposto ad opera dei begli occhi dell’amata, che ne rinnovano il desiderio (vv. 5-8). Il fuoco e i legami d’amore straziano l’amante ancor più di quanto non facessero prima (vv. 9-10), tuttavia egli non si sforza di sfuggirvi (v. 11), prega anzi la donna il cui desiderio lo inamma e che gli ha imposto il peso delle catene d’amore di mantenere nel suo petto le amme (face) e i lacci ben stretti attorno a lui (12-14; ritegno con l’accezione di «legame» è in rima anche in RVF 307 11 «volò, tessendo il mio dolce ritegno»).

     Me freddo il petto e de nodi aspri e gravi
libero il collo avea lasciato Amore,
e dicea meco: «Or hai spento l’ardore
e scarco il peso onde legato andavi».
Ma, lasso! In van, ch’i begli occhi soavi
di donna in cui s’anida ogni valore
scorgon speme e disio cocente al core,
che m’arda dentro, e fuor leghi e agravi.
     Tutto quel che m’accese un tempo, e strinse,
vie più che pria me scalda e tiene a freno;
né sciolto dell’incendio uscir m’ingegno.
     Pur lei che m’arde, e questo incarco cinse,
priego ch’a me d’intorno e chiuse in seno
tenga sue face e suo forte ritegno.

1 Me freddo il petto] Il pecto freddo Bart 2 il collo avea] il col<lo> [m’]ha Bart (ultime due lettere di collo espunte e m’ aggiunto in interlinea) 3 meco] seco FiNaz hai] ho FiNaz 4 il peso onde legato andavi] il laccio onde mi tormentaui FiNaz 7 scorgon] mandan FiNaz 9 strinse] stinse Bart 12 pur] purre FiNaz arde] arse Bart Bo cinse] tiense FiNaz 14 sue face] sua face Bart FiNaz sue facj Bo (i nale di faci sovrascritta su un’originaria e, e nale di sue anch’essa esito di una correzione).

3. I due testimoni non presi in considerazione dall’editrice del Muzzarelli sono tra loro evidentemente imparentati, e potrebbero tramandare una versione del testo lievemente dierente. A far sospettare la presenza di varianti redazionali7 è soprattutto la diversa lettura del v. 4: FiNaz legge «e scarco il laccio onde mi tormentaui», mentre gli altri testimoni hanno «et scarco il peso onde legato andauj». Quella del v. 4 di FiNaz potrebbe però anche essere una variante deteriore introdotta dalla tradizione, che avrebbe nito col ripercuotersi sulla lezione del secondo emistichio del precedente v. 3, il quale costituisce assieme al 4 un unico discorso riportato: qui FiNaz presenta infatti il verbo alla prima persona singolare («hor ho spento l’ardore») dove gli altri hanno la seconda («hor hai spento l’ardore»).

Sembra invece una banalizzazione di FiNaz «ma(n)dan speme (et) desio» al v. 7 (soggetto «i begli occhi soavi» della donna): «scorgon» di Bo e Bart, cioè «guidano», è chiaramente diicilior, e scorgere con questa accezione si trova due volte nell’Amorosa opra,8 il prosimetro di Muzzarelli a imitazione degli Asolani di Bembo che ci è pervenuto in un manoscritto autografo con minime varianti d’autore (scorgere per «guidare» si trova inoltre più volte nei Rerum Vulgarium Fragmenta, con soggetto gli occhi nel sonetto 316, v. 7). A fronte di «cinse» di Bo e Bart risulta poi abbastanza palesemente erroneo «tiense» al v. 12. Dall’altro lato, il passato remoto al v. 7 di Bo e Bart («pur lej che m’arse») appare meno congruente con il senso complessivo del testo rispetto al presente di FiNaz, dal momento che l’ardere è per l’io lirico una condizione che continua nel presente: il tempo verbale deve essere meccanicamente stato pareggiato a quello del verbo della coordinata, che chiude il verso.

Contrasta con l’ipotesi di una doppia redazione la presenza di un errore comune a tutti e tre i testimoni nell’ultimo verso del sonetto:«chiuse in seno / tenga sua face», dove Bo corregge in seguito facj sull’originario face e sue su un precedente sua. Potrebbe trattarsi di un fenomeno poligenetico: la forma face infatti è più normalmente singolare, ma può essere anche plurale9di conseguenza, non è da correggere chiuse in chiusa (come sceglie di fare la Hannüss Palazzini), ma è il possessivo che deve accordarsi al plurale. Davanti a una forma di norma considerata singolare usata come un plurale, è possibile che più copisti abbiano autonomamente deciso di rendere singolare il possessivo ad essa adiacente, senza preoccuparsi della mancata concordanza con il chiuse del v. 13 (tranne il copista di Bo, che corregge come visto, riportando il sostantivo plurale alla forma per esso più corrente e accordando il possessivo di conseguenza); non è escluso insomma che l’errore del v. 14 si sia vericato indipendentemente in più testimoni. Tuttavia non è nemmeno escluso che si tratti di un errore d’archetipo e che in uno stesso testo si siano prodotte varianti tali da far indebita- mente pensare a una doppia redazione. Data la limitata estensione delle lezioni discordanti, è parso più economico assumere come ipotesi di partenza quella che siano state introdotte dalla tradizione e costituire il testo un’unica volta.

FiNaz è indipendente rispetto a Bo e Bart: non può esserne una copia (un copista capace di introdurre così tante mende rispetto al suo esemplare ben diicilmente sarebbe arrivato a recuperare una lezione buona come il verbo al presente del v. 12), né gli altri due possono discendere da esso (non è possibile ricostruire la forma corretta davanti ai due errori dei vv. 7 e 12). Bo non può essere copia di Bart (è impossibile recuperare per congettura la costruzione assoluta dell’incipit del sonetto a partire dalla lezione del primo verso di Bart, «Il freddo pecto et di nodi aspri et grauj»). Bart potrebbe essere copia di Bo solo se ne fosse stata tratta prima che vi venissero apposte le sopra ricordate correzioni all’ultimo verso.

Come è noto, l’abate Bartolini ha trascritto il manoscritto ora conservato all’Accademia della Crusca dopo il 1527 (data di pubblicazione della Giuntina di rime antiche,10 di cui la sua raccolta è un’integrazione) e prima del 1533 (data della sua morte).11 Il codice cosiddetto «Amadei», di cui Bo era la sezione iniziale, viene datato alla seconda metà del XVI secolo. Parrebbe che l’ipotesi che Bart sia copia di Bo sia da scartare per palese incongruenza cronologica: ma la datazione del Bolognese 1289 e delle altre unità codicologiche che erano ad esso solidali è questione più complessa.

Il «codice Amadei», e quindi anche Bo, viene infatti datato alla seconda metà del XVI secolo perché è stato assemblato da Antonio Giganti (nato nel 1535) quando quest’ultimo era al servizio di Ludovico Beccadelli, e il primo incontro dei due risale al 1550.12 Il Giganti ha trascritto alcuni dei testi nel manoscritto, che presenta inoltre postille del Beccadelli, ed è con tutta probabilità di mano sua (e comunque sicuramente cinquecentesca) la numerazione unitaria in inchiostro rosso che ha permesso di ricostruire di quali unità codicologiche, oltre a Bo, si componesse il libro di Beccadelli e poi del canonico Giovanni Giacomo Amadei, dopo che questo è stato smontato e alcuni dei fascicoli che in origine vi appartenevano sono stati associati ad altri di diversa provenienza.13 Il manoscritto messo insieme da Giganti era d’altra parte un composito, e lo è tuttora la sua sezione iniziale, la più ampia che ci rimane, appunto Bo. Il segretario di Beccadelli ha riunito assieme fascicoli o singoli fogli trascritti da copisti dierenti in momenti diversi, e alcuni di questi dovevano essere in mano al Beccadelli da molto tempo. Secondo Teresa De Robertis la scrittura delle cc. 152r-153v di Bo è databile al massimo al primo quarto del sec. XVI (se non addirittura alla ne del secolo precedente).

È ben possibile quindi, e pare anzi probabile, che nel momento in cui Bartolini lo consultava il «texto di messer Lodovico Beccadelli» da cui dichiaratamente provengono parte dei testi di Bart non fosse un codice rilegato, ma un insieme di materiali più o meno eterogeneo. Ulteriormente arricchita e rielaborata, almeno una parte di questi materiali deve essere conuita nel manoscritto assemblato dal Giganti decenni dopo.

Come già osservato, se Bartolini ha copiato il testo di Me freddo il petto dalla trascrizione dell’attuale c. 153r di Bo, lo ha fatto prima che venissero apposte le correzioni all’ultimo verso. Per il resto, le lezioni dei due manoscritti sono pressoché identiche: la trascrizione nel volume ora alla Crusca semplicemente aggiunge errori, nella parola in rima del v. 9 (salta la r di strinse) e soprattutto ai primi due versi, dove viene obliterata la costruzione assoluta. Quest’ultima modica potrebbe essere intenzionale, come suggeriscono le correzioni al secondo verso, chiaramente apposte in un momento successivo: Bartolini insomma avrebbe modicato il primo emistichio, cambiando l’ordine dei componenti e togliendo il pronome personale (Me freddo il pecto > Il pecto freddo), per rendersi conto solo in un secondo tempo di aver così fatto sparire qualsiasi riferimento alla persona oggetto delle azioni di Amore. A quel punto però, anziché tornare sui suoi passi, avrebbe deciso di reintegrare il pronome personale in altra posizione, e per la precisione al secondo verso, modicando anche quello: ha aggiunto la «m’» in interlinea, e per non ritrovarsi con un endecasillabo ipermetro ha espunto le due lettere nali di collo (libero il collo havea > libero il col m’havea). Il Bartolini copista insomma talvolta sembra operare sui testi delle manipolazioni non da poco.

4. Dato che la trascrizione bartoliniana di Me freddo il petto di Giovanni Muzzarelli sembra ragionevolmente essere copia di quella di Bo, con tutta probabilità lo sarà anche quella di Dal loco dov’è sol guerra e tormento, che allo stato attuale delle ricerche è tramandato unicamente da questi due manoscritti, in entrambi i casi in posizione immediatamente precedente a quella del sonetto di Muzzarelli. Come si può vedere dall’edizione del testo, anche in questo caso in eetti a parte le varianti formali14 (che tendono a rendere la veste linguistica del testo più toscana) Bart aggiunge errori: ivi al v. 5 (contrapposto al quivi del v. 7) diventa un incongruo in cui, le voci interrotte del v. 6 diventano voce interrotti. D’altro canto, Bartolini evita di trascrivere il titulus sovrapposto per errore a nocer in Bo (v. 10), mentre la variante da lui introdotta al v. 13 (men anziché me) lascia con il dubbio che possa in eetti essere preferibile a quella della sua fonte. Anche in questo caso inoltre in Bart si trovano ritocchi successivi alla copia: le lettere nali di «angoscie et pene» (v. 2) sono correzioni, non è del tutto chiaro se ecorrette in a, o viceversa.

Bo c. 152v; Bart c. 151r

Sonetto di schema ABBAABBA;CDC,DCD

     Dal loco dove è sol guerra e tormento
e d’un miser’amante angosie e pene,
liber mi cava amor, e meco viene
ove non è se non pace e contento.
Ivi non s’ode mai se non lamento,
voci interrotte de singulti piene;
quiv’un bel lauro in fra le piaggie amene
mosso da l’aura fa divin concento.
     Ch’io faccia nido in te mia sorte vole,
beata pianta, a cui nocer non lice
sdegno del ciel o luntanar dil sole.
     Quanto sia fra gli augelli il più felice
veder si può, né già però me duole
d’esser per tanto ben stato infelice.

1 e tormento] et tormento Bart 2 angosie e pene] angoscia et pene Bart (le lettere nali dei due sostantivi sono state ritoccate, non è del tutto chiaro se per far diventare una a la e nale o viceversa) 3 amor e] amore et Bart 4 e] et Bart 5 ivi] in cui Bart 6 voci interrotte] voce interrotti Bart 7 quiv’un] quiuj Bart (che omette in) 10 nocer] no(n)cer Bo 11 luntanar dil] lontanar del Bart 12 il più] el piu Bart 13 me duole] men’ duole Bart.

5. Il sonetto che segue Me freddo il petto nel Bolognese 1289, L’alma mia Giulia il or de l’altre belle, allo stato attuale delle conoscenze è tramandato solo da questo manoscritto, quindi è inutile prenderlo in considerazione per chiarire i rapporti tra il «testo del Beccadelli» e la Raccolta Bartoliniana.15 Il sonetto attribuito a «M. F. P.» che apre la serie dei quattro copiati dalla stessa mano alle cc. 152r-153v di Bo, Quand’Amor, sua mercede e mia ventura, è invece trascritto due volte sia in quest’ultimo che in Bart, e ore quindi l’occasione di precisare meglio da un lato i rapporti tra i due manoscritti e dall’altro lato quelli tra le diverse sezioni (e almeno alcune delle molte doppie trascrizioni) presenti nel codice Amadei.

Partendo dalle due diverse trascrizioni di questo sonetto in Bart, rispettivamente alle cc. 41v e 45v, va innanzitutto ricordato che la seconda è stata biata. La cancellatura viene così giusticata nella rubrica (successiva e in inchiostro bruno dalla tonalità diversa rispetto a quello del testo, ma sempre di mano del Bartolini): «scripto in q(uest)o a 41». Il sonetto viene cancellato proprio perché era già stato copiato: e la stessa sorte per l’identica ragione tocca a un altro sonetto della sezione petrarchesca di Bart, Per liti e selve, trascritto una prima volta a c. 42r e una seconda a c. 46r (ad essere biata è di nuovo la seconda trascrizione, e troviamo di nuovo in rubrica «scripto disopra in q(uest)o a 42»).

La cancellatura non sembrerebbe un’operazione su cui riettere, se non apparisse in qualche modo in contrasto con il comportamento usuale del copista di Bart. Questa è infatti una raccolta «messa assieme a integrazione della Giuntina del 1527; ordinata per sezioni d’autore, con indicata per ciascuna sezione la successione delle fonti (testo Beccadelli, testo Brevio, testo Bembo, e in un caso testo Buonarroti), e con riportate le varianti e segnalate le concordanze tra i vari testi per le rime comuni a più fonti (varianti in nero, con sottolineatura del testo corrispondente in nero, quelle del testo Brevio sul Beccadelli, in rosso, con analoga sottolineatura rossa, quelle del Bembo sul Beccadelli e sul Brevio; sottolineature in nero o in rosso rispettivamente per le concordanze del Brevio col Beccadelli e per quelle del Bembo con le altre fonti)».16 Viene da chiedersi perché un copista così attento a tener traccia delle diverse fonti da cui attinge i testi che copia e delle varie lezioni che vi trova cancelli senza esitazioni un intero sonetto: e la ragione più plausibile sembra essere perché lo ha già copiato dalla stessa fonte.

Le discrepanze tra la prima e la seconda trascrizione di Quand’Amor, sua mercede e mia ventura in Bart sono infatti di poco conto: la seconda trascrizione legge erroneamente sua ventura anziché mia ventura al v. 1, il si perse del v. 7 sembra l’esito di una correzione su un originario erroneo s’aperse, al v. 9 c’è scritto questo e non questi; le altre varianti sono puramente graco-formali (suo merzede nella prima trascrizione contro sua mercede nella seconda, ’l anziché il). Che Bartolini abbia copiato questo testo due volte dalla stessa fonte è quindi plausibile, e nisce con l’essere un elemento a favore dell’ipotesi che i materiali messi a disposizione dal Beccadelli fossero fascicoletti e fogli sparsi, non un volume rilegato: una situazione del genere spiega infatti come sia stato possibile copiare due volte lo stesso identico esemplare senza rendersene conto.

Venendo ora alle due trascrizioni del Bolognese, quella di c. 152r e quindi della mano primocinquecentesca è di nuovo la più antica: l’altra, a c. 49r (secondo la numerazione unitaria in inchiostro rosso), sempre in base all’expertise di Teresa De Robertis risale piuttosto al secondo quarto del sec. XVI. Anche in questo caso le discordanze sono minime e perlopiù meramente formali:17 i due testi si dierenziano l’uno dall’altro in due soli punti, al v. 8 e al v. 9.

Bo c. 49r (Bo2), 152r (Bo1); Bart c. 41v (Bart1), 45v (Bart2)

Sonetto di schema ABBAABBA;CDE,CDE

     Quand’Amor, sua merced’e mia ventura,
col colpo de vostr’occhi il cor m’aperse,
incontinenti in altro mi converse
tutto fuor de le leggi de natura.
Da indi in qua non ho de cibi cura,
né me notricon più cose diverse:
sol per gli occhi, onde pria l’alma si perse,
da i vostri sguardi il mio la vita fura.
     Di questi pasco l’a
anato core,
e de l’alta dolceza ch’indi libo
mi nutro, sì ch’a morte non arrivo.
     Per ch’io non esca d’esta vita fore
Donque non ricercate un altro cibo,

che questo basta a mantenermi vivo.

1 sua merced’e] sua mercede et Bo2 Bart2, suo merzede et Bart1 mia] suo Bart2 2 vostr’occhi il] vost’occhi il Bo1 uostri occhi ’l Bo2 vostr’occhi ’l Bart1 3 incontinenti] incontinente Bart1 Bart2 4 de le... de] delle... di Bo2 Bart1 Bart2 6 me notricon] me nutricon Bo2 Bart2 mi nutrico(n) Bart 1 6 si perse] Bart2 corretto, apparentemente su un originario s’aperse 8 mio] Bo1 <cor> [mio] (cor sottolineato e mio sovrascritto) 9 questi] questo Bo2 Bart2 aanato] aannato Bo2 Bart1 Bart2 10] e] et Bo2 Bart1 Bart2 dolceza] dolcezza Bo2 Bart1 Bart2 13 donque] dunque Bo2 Bart1 Bart2.

Nella trascrizione più antica di c. 152r infatti al v. 8 c’è un probabile errore di anticipo, cor anziché mio (core è in rima al successivo v. 9, e funziona abbastanza bene come soggetto logico dell’azione di furare la vita dagli sguardi dell’amata, soprattutto dato che è di questi che il poeta pasce appunto l’aanato core). Viene apparentemente subito corretto: cor è sottolineato e la lezione da ripristinare – mio – vi viene sovrascritta. Tutti gli altri testimoni del sonetto leggono appunto mio (non è neppure una vera divergenza). Al v. 9 invece nella trascrizione più recente di Bo (così come nella seconda trascrizione di Bart) si trova un chiaramente deteriore questo al posto di questi (cioè gli sguardi). Tutto considerato, l’ipotesi più plausibile è che tutte e tre le altre trascrizioni del sonetto dipendano da quella a c. 152r di Bo.

6. La questione che si pone ora è per quale ragione in Bo vi siano due trascrizioni dello stesso sonetto, una copia dell’altra. Lo si può intuire osservando attentamente l’unità codicologica del manoscritto in cui si trova la più recente delle due. Da c. 49r a c. 96v (corrispondenti ai fascicoli VII-IX) di Bo si trova infatti una compatta sezione «petrarchesca», composta da «disperse», poesie di altri autori a cui accade di essere attribuite a Petrarca, o rime di corrispondenze in cui Petrarca sarebbe coinvolto. Queste carte, che presentano una numerazione da 1 a 48 preesistente a quella in inchiostro rosso, possono essere considerate «un nuovo codicetto pur di 48 carte».18 Fino alla c. 93 (45 della numerazione più antica) sono state copiate da una stessa mano; da c. 94r no alla ne dell’unità codicologica interviene invece una mano posteriore, identicata con quella dello stesso Antonio Giganti.

Ciò che sembra essere accaduto è che prima dell’operazione di riordino e sistemazione dei materiali di Beccadelli in un unico manoscritto ad opera di Giganti ve ne siano state altre. Una di queste avrebbe avuto come risultato la trascrizione ordinata delle «disperse» petrarchesche nelle prime 45 carte del codicetto ad esse dedicato e poi diventato l’attuale seconda unità codicologica di Bo «disperse» che prima si trovavano probabilmente sparse in fogli volanti.19 Un elemento a supporto di questa ipotesi può essere trovato nel confronto tra la serie delle prime «disperse» copiate nella sezione petrarchesca di Bart, provenienti con tutta probabilità dal «testo di Beccadelli»,20 e l’ordine in cui le stesse si trovano nelle cc. 48-96 di Bo: si constata facilmente che in più casi le stesse poesie si trovano vicine in entrambi i manoscritti, ma in ordine diverso. Il copista del «codicetto petrarchesco» di Bo deve aver attinto, in un momento di poco successivo a quello in cui Lorenzo Bartolini ha trascritto la sua raccolta, alle stesse carte già utilizzate come fonte da quest’ultimo: tuttavia, dato che queste non erano legate, la successione di lettura e copiatura delle poesie non è stata la stessa (quello che era il recto per uno è stato il verso per l’altro, il foglio trascritto per primo dall’uno lo è stato dopo dall’altro, eccetera).

Incipit (secondo Bart)n. carta Bartn. carta Bo21
Quant’ era amata d’ Acontio Cidippe40r52v (4v)
Io son si uago della bella aurora40r52r (4r), 177v
Perche l’Aeterno moto sopraditto40r-v51v (3v), 94v (46v)
Antonio cosa ha facto la tua terra40v50v (2v)
S’alla diuota fede et ape(n)sier charj40v-41r51r (3r), 148r
Quella ghirlanda che la bella fronte41r49v (1v), 133v
Sostenne con la spalla hercole il cielo41r50r (2r), 134r
Quand’ amor suo merzede et mia ue(n)tura41v49r (1r), 152r
O, Montj alpestri o, cespugliosi maj41v38r, 57v (9v)
Sarà pietà ’n sylla ’n Mario et nerone41v-42r38v, 82v (34v)22
Per litj (et) selue, per campagnie et collj42r39r, 80r (32r)
Vergine pura et sol’vnica lucie42r-v41v-43r, 80v-82r (32v-34r)
Lasso s’io mi lame(n)to io ho ben onde44r85r (37r)
Perche non caggie nell’ obscure caue44r85v (37v)
Conte Ricciardo quanto piu ripenso44r-v86r (38r)
Per util, per dilecto, et per honore44v87r (39r)
Ne per quante gia maj lagrime sparsi44v86v (38v)
Nuova bellezza in habito celeste45r87v
Piu uolte il di mi fo uermiglio et fosco45r48v, 88r (40v)
Quando tal hor da giusta ira commosso45r-v40v
Amor’ in pianto ogni mio riso è uolto45v23
<Quand’Amor sua mercede et sua ue(n)tura>45v49r (1r), 152r
In ira al ciel’ al mondo et allage(n)te45v-46r79v (31v)
<Per littj et selue, per campagne et <boschj>[Collj]>46r39r, 80r (32r)

In seguito, quando il Giganti ha riunito in un unico oggetto librario i materiali ora di nuovo sparsi negli attuali manoscritti 1289, 177 III, 1072 XI 9 e 401 I della Biblioteca Universitaria di Bologna, in alcuni casi come chiaramente per Quand’Amor, sua mercede e mia ventura – ha fatto rilegare sia la trascrizione più antica che la copia in ordine; in altri invece solo quest’ultima è rimasta, perché la prima era nel frattempo andata persa o perché è stata volutamente scartata (è insomma possibile che la prima trascrizione di Quand’Amor, sua mercede e mia ventura si sia salvata solo perché il testo copiato sul v. della carta non è stato altrove copiato nel codice). In questo caso, le relazioni tra Bart e Bo si danno nei termini già indicati da Barbi: entrambi «derivano da un originale comune».24

In conclusione, altre doppie trascrizioni del «codice Amadei» potrebbero essere l’una copia dell’altra,25 e altri testi di Bart potrebbero essere descritti dalla più antica di esse: per determinare se sia così o meno occorre tuttavia analizzare la situazione caso per caso, tenendo presente il fatto che anche in base agli elementi venuti fuori dal presente studio abbiamo a che fare con copisti che non sembrano peritarsi di intervenire sui testi che copiano.

____________

1 Giovanni Muzzarelli, Rime, Giuseppina Hannüss Palazzini (a cura di), Mantova, Arcari, 1983.

2 Per maggiori informazioni e una bibliograa sull’autore si può partire da Emilio Russo, Muzzarelli, Giovanni, in Dizionario biograco degli italiani, 77, 2012 (in linea all’indirizzo http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-muzzarelli-(Dizionario-Biograco)/ ultima consultazione 13 luglio 2019).

3 Cfr. Emanuela Scarpa, Per l’edizione di un poeta cinquecentesco: sulle «Rime» di Giovanni Muzzarelli, in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro, Atti del convegno di Lecce, 22-26 ottobre 1984, Roma, Salerno, 1985, pp. 531-560; Ead., Postilla minima su Giovanni Muzzarelli, «Filologia e critica», XI (1986), pp. 446-454; Ead., Ultimi appunti sulle «Rime» di Giovanni Muzzarelli, «Quaderni di lingue e letterature», XVIII (1993), pp. 607-628.

4 Francesco Petrarca, Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite, Angelo Solerti (a cura di), Firenze, Sansoni, 1909, pp. 171-172.

5 Francesco Zambrini (a cura di), Sonetti d’incerti autori dei secoli XIII e XIV, Bologna, Fava e Garagnani, 1864; F. Petrarca, Rime, Domenico Carbone (a cura di), Torino, Beuf, 1874; F. Petrarca, Raccolta di rime attribuite a Francesco Petrarca che non si leggono nel suo Canzoniere, colla giunta di alcune n qui inedite, Padova, Prosperini, 1874.

6 Cfr. Michele Barbi, Studi di manoscritti e testi inediti. 1. La raccolta bartoliniana di rime antiche e i codici da essa derivati, Bologna, N. Zanichelli, 1900, p. 6 e ss. Ricordo che il Bolognese 2448 è anch’esso da ricondurre all’ambiente di Ludovico Beccadelli: copiato «dalla mano del copista che vergò la maggior parte dei volumi conservati nel fondo Beccadelli della Palatina di Parma, fu rivisto, completato nei titoli e negli indici dal Giganti» (Giuseppe Frassio, Studi sui «Rerum vulgarium fragmenta»ei «Triumphi». I. Francesco Petrarca e Ludovico Beccadelli, Padova, Antenore, 1983, p. 132). Normalmente in questo codice «non fu copiata nessuna di quelle poesie che nel codice Bartolini provenivano dal testo del Beccadelli», perché «avendo in loro mano l’originale, bastò al Beccadelli o al Giganti aver copia delle poesie che l’abate orentino aveva tratto dai testi del Bembo e del Brevio» (M. Barbi, Studi sul canzoniere di Dante, Firenze, Sansoni, 1915, p. 214): come risulterà dal seguito di questo articolo, l’unica eccezione a questa regola è la trascrizione di Me freddo il petto a c. 96r.

7 Da notare che il sospetto si pone anche per altre rime del Muzzarelli: cfr. G. Muzzarelli, Rime, cit., pp. 46-48, 50, 52, 61.

8 Cfr. G. Muzzarelli, Amorosa opra, E. Scarpa (a cura di), Verona, Libreria universitaria editrice, 1982 pp. 31-32 (cap. XV): «senza n mi piace, d’esser fatto una nuova Clicie a questo mio sole, ché né più luce, né più leggiadria, né maggior beatitudine arrei potuto ritrovar al mondo, né che meglio mi scorgesse per il celeste camino»; p. 90, vv. 1-4 (cap. XLVII): «La donna ch’al camin d’il ciel mi scorge / e cossì dolcemente / a me rape la mente / e seco in paradiso ne la porta».

9 V. ad esempio Alessandro Braccesi, Soneti e Canzone, 26 v. 110, «vinta da tuo face ardenti», e 33 v. 82, «spento ha l’amorose antique face» (ma «medesma face» 35 v. 6); oppure Giovanni Pico della Mirandola, sonetto 23 v. 6 «come sì certe manda le sue face» (ma in altri tre casi l’autore usa face come singolare); o anche «le face ardenti» nelle rime volgari di Remigio Nannini (27, v. 6, a fronte di dieci esempi in cui la forma è singolare).

10 Cioè SONETTI E CANZONI DI DIVERSI ANTICHI AVTORI TOSCANI IN DIECI LIBRI RACCOLTE. Impresso in Firenze per li heredi di Philippo di Giunta nell’anno del Signore. M.D.XXVII. Adi VI. del mese di Luglio.

11 M. Barbi, Studi sul canzoniere, cit., pp. 122-123.

12 Francesco Mozzetti, Giganti, Antonio, in Dizionario biograco degli italiani, 54, 2000, in linea all’indirizzo http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-giganti-(Dizionario-Biograco) (ultima consultazione 13 luglio 2019).

13 Questi fascicoli, rilegati come codicetti a parte, sono oggi conservati alla Biblioteca Universitaria di Bologna dentro più capsule dalle segnature dierenti, per cui v. supra la descrizione del manoscritto.

14 Per consentire una verica completa, contrariamente all’uso corrente sono state riportate in apparato tutte le varianti, anche quelle semplicemente gracoformali.

15 Il testo è stato anch’esso pubblicato in F. Petrarca, Rime disperse, cit., p. 286; si trova tra le «rime d’altri autori», dal momento che pare a Solerti «di tempo assai posteriore al P.». In eetti il sonetto si presenta con varianti interlineari tali da far pensare a varianti d’autore: e quindi identicare il copista delle attuali cc. 152-153 del Bolognese 1289 potrebbe permettere di individuare l’autore di almeno questo componimento.

16 D. Alighieri, Rime, cit., p. 90.

17 Di nuovo, al ne di consentire di valutare con precisione la minima distanza tra le diverse trascrizioni sono state riportate in apparato tutte le varianti; si può notare che anche in questo caso la tendenza sembra essere a una maggiore toscanizzazione nella trascrizione più recente.

18 M. Barbi, Studi sul canzoniere, cit., p. 208: il primo «codicetto» è quello composto dalle prime 48 cc. del manoscritto.

19 Malgrado il fatto che all’inizio di questo «codicetto» non si trovi nessuna attribuzione esplicita, tutte le poesie che vi sono contenute vanno quindi considerate (implicitamente) attribuite a Petrarca.

20 Per quanto «Bartolini di solito non mise in testa al primo strato di ciascuna sezione l’indicazione “dal testo del Beccadelli”» perché «non aveva sul principio da distinguere le poesie che traeva da questo testo da altre provenienti da fonte diversa» (M. Barbi, Studi sul canzoniere, cit., p. 131), spingono a pensare che Bartolini abbia preso le «disperse» petrarchesche dal «testo Beccadelli» il fatto che è da esso che normalmente provengono le poesie che aprono le diverse sezioni e il fatto che (come ricordato qui sopra alla n. 6) nella copia di Bart del manoscritto bolognese 2448 non ne sia stata trascritta nessuna: Giganti doveva sapere o aver capito che le poesie della sezione petrarchesca della Bartoliniana dovevano provenire tutte dagli «originali» in suo possesso.

21 Tra parentesi, la numerazione originaria del «codicetto» petrarchesco; ven- gono riportati i numeri di carta di tutte le trascrizioni di Bo.

22 Questo testo è inoltre copiato in un altro dei codicetti che originariamente facevano parte del manoscritto messo assieme dal Giganti, l’attuale Bologna, Biblioteca Universitaria, 401 (sec. XV), a c. 258v (secondo la numerazione cinquecentesca: attualmente 9v).

23 Il testo apparentemente non si trovava nel manoscritto assemblato da Giganti: forse è stato tralasciato perché si tratta chiaramente di un frammento (v. supra la rubrica della Bartoliniana).

24 M. Barbi, Studi sul canzoniere cit., p. 165.

25 In molti altri saranno invece entrambe copia di una trascrizione andata persa, come pensava già M. Barbi, Studi sul canzoniere, cit., pp. 211-212: solo che questo «testo del Beccadelli» da cui discendono le trascrizioni di Bart e diverse sezioni di Bo non era un «codice», ma un insieme di materiali molto meno coerente e coeso.