Revue Italique

Varia

OJ-italique-552

La guerra d’Oriente e la minaccia turca nella lirica di metà Cinquecento

Chiara Natoli

Nel saggio dedicato all’eco letteraria della guerra d’Oriente nella poesia veneziana, Carlo Dionisotti scriveva della grande attenzione che questa ricevette per tutto il Cinquecento no alla battaglia di Lepanto. Un evento, quest’ultimo, che come nessun altro fatto storico di quel secolo scrive ancora lo studioso riuscì a commuovere i letterati italiani contemporanei tanto da risultare successivamente un’oasi feconda per la critica post-risorgimentale, intenta a raccogliere quanto in letteratura riguardasse la storia politica e militare nazionale:

Gli studiosi del secolo scorso che faticosamente collezionavano i rari quadrifogli della poesia storico-politica qua e là sparsi negli interminabili viali della poesia cinquecentesca, latina e volgare, giunti a quell’aiuola isolata e tarda, del 1571-72, si trovavano a un tratto con le mani piene. Ma proprio da questa inaspettata e strepitosa abbondanza di rime e carmi ispirati alla battaglia di Lepanto, risultava confermata piuttosto che attenuata l’insoddisfazione e delusione di una raccolta per tutto il resto del secolo così scarsa.1

Per quanto minoritario, il genere della poesia di argomento politico non rimane tuttavia del tutto sconosciuto alla lirica cinquecentesca. Sfogliando le raccolte di rime dei poeti petrarchisti, non è poi così raro, infatti, imbattersi in componimenti di natura civile che dialogano con la tradizione fondata dal Petrarca di Italia mia, Spirto gentil e O aspectata in ciel, tanto da rendere riconoscibile un vero e proprio codice formale e retorico della lirica politica petrarchista. Un genere esemplato, appunto, sull’imitazione del trittico del Canzoniere: dalla ripresa di palinsesti metrici e stilistici alla riproposizione di motivi e gurazioni.2

Come rilevato da Dionisotti, il conitto contro il Turco determina una ricchissima proliferazione di rime di materia storico-politica tra i lirici petrarchisti. Ma già prima della battaglia di Lepanto e della sua grande risonanza in letteratura, la lunga guerra con l’Impero ottomano, costellata di scontri e spedizioni militari, ispira la produzione di numerose rime di carattere storico e politico. Sulla scorta di Dionisotti non sono mancati gli studi critici che si sono confrontati con la ricca letteratura lepantina e più in generale con la grande fortuna che la battaglia ebbe nell’immaginario culturale di ne secolo.3 Minore attenzione invece è stata riservata al periodo immediatamente precedente Lepanto. La forte eco letteraria della guerra d’Oriente, infatti, può essere misurata anche lungo la prima metà del secolo.

Le città maggiormente interessate da questa produzione sono Venezia e Napoli. Dalla Serenissima, oltre a Bembo, autore del sonetto La nostra e di Giesù nemica gente,4 è soprattutto Bernardo Cappello, come ricordava già Dionisotti, a rivolgere numerose rime allo scontro con i turchi. Nella sua raccolta si incontrano vari sonetti dedicati al motivo e in particolare due canzoni esortanti alla pace tra le monarchie cattoliche in vista di un’unione contro gli ottomani: Signor, che solo alto valor tenete, dedicata a Carlo V, e Poi che la nostra fe mesta, et exangue in cui il poeta si rivolge prima a Francesco I e poi ancora all’imperatore, invocandone la concordia.5 L’attenzione alla guerra d’Oriente in ambiente veneto trova riscontro anche nella prima antologia giolitina del 1545, le Rime diverse di molti eccellentissimi autori,6 dove il gruppo di testi dedicati allo scontro con i Turchi è prevalentemente riconducibile a esponenti dei circoli letterari veneziani quali Giulio Camillo, Fortunio Spira e Bernardino Daniello.

Sul versante meridionale si rintracciano invece le canzoni di Sandoval de Castro, di Minturno e di Ferrante Carafa.7 E numerosi sono i componimenti dedicati al motivo del conitto tra Oriente e Occidente da Lodovico Paterno nel Nuovo Petrarca.8 La vastissima raccolta di questo autore infatti comprende alcuni componimenti dedicati allo scontro con i Turchi collocati all’interno della sezione di «vari soggetti». Spicca tra questi la canzone Sacro Pastor, che con la grave soma indirizzata al pontece per esortarlo alla guerra contro gli infedeli9 e che, come vedremo, si contraddistingue per la forte dipendenza dalla petrarchesca O aspectata in ciel. Tra i poeti napoletani è però forse Luigi Tansillo a dedicare maggiore spazio al motivo. L’insieme delle sue rime eroiche ed encomiastiche è ricchissimo di riferimenti alle spedizioni che, tra la metà degli anni Trenta e Cinquanta del Cinquecento, vedono gli spagnoli fronteggiare gli ottomani nel Mediterraneo. Tansillo, cortigiano del viceré Pietro di Toledo che nel ’37 mise in fuga i turchi in assedio a Otranto, ed egli stesso impegnato nelle battaglie in Africa settentrionale e ad Algeri, celebra i propri signori invocando continuamente i successi ottenuti contro i nemici della cristianità.10

Componimenti consacrati al conitto con l’Impero ottomano si levano tuttavia da tutta la penisola e non necessariamente sono motivati da coinvolgimenti diretti nelle evoluzioni militari del conitto. Anche Giovanni Muzzarelli,11 Gian Giorgio Trissino12 e Bernardo Tasso13 esortano nelle proprie canzoni i Papi Leone X e Clemente VII a intraprendere la nuova crociata, e poco più tardi dalla corte ponticia Francesco Maria Molza scrive numerosi sonetti in lode delle imprese di Ippolito de’ Medici contro i Turchi in Ungheria,14 mentre dalle la delle corti farnesiane Anton Francesco Raineri loda il Duca Pier Luigi immaginandone un glorioso, quanto utopico, trionfo in battaglia nel sonetto Mentr’arma il Trace, e navi orna, e raccoglie.15 In maniera simile, in area settentrionale la bresciana Veronica Gambara invoca in diversi componimenti la vittoria denitiva di Carlo V sugli infedeli,16 mentre il mantovano Lelio Capilupi si scaglia in invettive contro la «era fucina d’Oriente» che insanguina il mondo occidentale e cristiano, in un gruppo di sonetti che esortano l’Europa cristiana all’unità contro la minaccia turca.17

A ispirare la proliferazione di questa produzione, sono innanzitutto alcuni fatti storici che rimangono impressi nelle rime cinquecentesche. Bembo dedica il sonetto La nostra e di Giesù nemica gente alla battaglia di Mohacs del 1526, Minturno e Sandoval de Castro consacrano le proprie canzoni alle spedizioni dell’imperatore a Tunisi e Algeri, Tansillo accompagna con la poesia le missioni dei Toledo in Africa settentrionale. Anche la dominazione ottomana in Grecia, la cui oesa dovette essere avvertita come rinnovata a seguito della presa di Rodi nel 1522, trova spazio nelle rivendicazioni poetiche. Lo stesso Bembo, nel suo sonetto che vale la pena riportare, cita la presa dell’isola accanto ai fatti di Ungheria (v. 8):

La nostra e di Giesù nemica gente,
c’or lieta, come fosse un picciol varco,
l’Istro passando, in parte ha l’odio scarco
sovra quei, che la fer già sì dolente;

di cui trema il Tedesco, e ‘n van si pente,
ch’al ferro corse pigro, a l’oro parco,
e vede incontro a sé riteso l’arco,
ch’ha Rodo et l’Ungheria piagate e spente;

tu, che ne sembri Dio, ra
rena e doma
l’empio furor con la tua santa spada,
sgombrando ‘l mondo di sì grave oltraggio,

e noi di tema, che non pera e cada
sopra queste Lamagna, Italia e Roma:
e direnti Clemente e forte e saggio.

Il richiamo a Rodi si trova anche nella canzone che Trissino dedica a Clemente VII, Signωr, che fωsti εtεrnamente εlεtto, in cui il poeta fa esplicito riferimento alla «infelice Grεcia» ed esorta alla riconquista delle città di «Bεlgradω ε Rodi; εt altre tεrre assai che habbiam perdute».18 E ancora ritorna nella canzone di Francesco Maria Molza Sacri pastor, perché a la vostra cura19 e in quella di Minturno Padre del ciel che tutto movi e reggi,20 che in maniera simile rinnovano l’appello alla liberazione della Grecia, la cui soggezione all’Impero ottomano doveva essere dunque avvertita come una profanazione della tradizione culturale alle origini delle radici europee. Anche Capilupi, inne, fa riferimento a «quella fera crudel, che sì possente / varcò mare, et predò Rhodi».21

Ma più che da singoli episodi storici, il nutrito insieme di componimenti dedicati allo scontro con i Turchi dai petrarchisti trova la propria ragion d’essere nella lunga durata del conitto e nell’immaginario culturale da questo determinati. E se una nalità di carattere specicatamente storico-politico si può individuare con certezza, questa può essere rintracciata nei risvolti encomiastici che tale produzione chiama in causa. Molto spesso questo genere di componimenti, infatti, è occupato da invocazioni a ponteci e sovrani ainché essi sferrino il colpo decisivo agli infedeli, soccorrendo l’Italia e l’Europa dalla rovina. Tra i testi e gli autori citati, nel sonetto La nostra e di Giesù nemica gente, dopo aver descritto l’avanzare della minaccia turca sul fronte dell’Europa orientale, Bembo si rivolge a Papa Clemente VII invitandolo a condurre la difesa cristiana, domando «l’empio furor» che rischia di travolgere «Lamagna, Italia e Roma» (vv. 9-14). Così anche Muzzarelli nella canzone Terreno Giove, a cui l’alto governo invoca il Pontece auspicando una nuova guerra santa. Alla stessa maniera, Daniello chiama in causa rispettivamente l’imperatore e il Papa nei sonetti Sacro di Giove augel, ch’irato scendi e Santo Signor, che ‘l grand’uizio avete contenuti nelle Rime diverse di molti eccellentissimi autori del ’45,22 e ancora al Papa si rivolge Paterno nella canzone Sacro Pastor, che con la grave soma per esortarlo a guidare la guerra d’Oriente.

Quello della guerra contro i Turchi, insomma, può anche diventare un argomento topico incastonato nei moduli della poesia celebrativa. E ciò, soprattutto nella misura breve del sonetto, può comportare lo sposta- mento del testo dai motivi della canzone morale e politica di stampo petrarchesco, ai dettami sfarzosi dello stile encomiastico. Come nel componimento seguente di Annibal Caro, nel quale la contrapposizione tra la «bella Europa» e l’«Oriente» è nalizzata alla lode di Carlo V. L’assoggettamento delle terre orientali ne sancirebbe infatti il denitivo trionfo sul mondo intero:

Dopo tanti trion e tante imprese,
CESARE invitto, e ’n quelle parti e ’n queste,
Tante e sì strane genti amiche e infeste
Tante volte da voi vinte e difese,

Fatta l’Africa ancella e l’armi stese
Oltra l’occaso, e poi che ’n pace aveste
La bella Europa, altro non so che reste
A far vostro del mondo ogni paese,

Che domar l’Oriente, e incontra il sole
Gir tant’oltra vincendo, che d’altronde
Giunta l’Aquila al nido ond’ella uscio,

Possiate dir, vinta la terra e l’onde,
Quasi umil vincitor che Dio ben cole:
«Signor, quanto il sol vede è vostro e mio».
23

Il motivo dello scontro con i Turchi si presta dunque a un ampio raggio di possibilità formali che spaziano dal registro della celebrazione a quello della preghiera delle rime spirituali, no alla rappresentazione metaforica che si serve di apparati semiotici di derivazione araldica, mitologica e classicistica. Sono numerosi, infatti, i testi che mettono in scena il conitto mediante metaforici combattimenti animaleschi che vedono la Spagna imperiale trasgurata nelle vesti dell’aquila, la Francia rappresentata dal gallo, Venezia dal leone e i turchi dal serpente.

Sfogliando l’antologia giolitina del 1545 di Rime diverse di molti eccellentissimi autori ci si imbatte in tre testi accomunati da tale raigurazione. Nel sonetto Re de gli altri superbo altero Augello di Giulio Camillo, il poeta esorta l’Aquila imperiale e il Gallo francese (il «Nunzio del giorno») a scagliarsi contro il Turco, «serpe empio e rubello».24 Il motivo della battaglia tra l’aquila e il serpente ritorna anche nel sonetto Sacro di Giove augel, ch’irato scendi25 e nella canzone Santo Signor, che ‘l grand’uizio avete di Bernardino Daniello.26 Ma simile è anche un sonetto compreso nelle Rime di Lodovico Domenichi in cui il poeta si rammarica delle ostilità tra l’«Aquila imperiosa» e «l’invitto Gallo», impegnati a rivolgere i «becchi» e il «ero artiglio» contro se stessi, insanguinando gli «italici umi», piuttosto che a combattere «’l Serpe oriental rapace» che minaccia Venezia.27

Al netto di queste osservazioni, tuttavia, il modello segnato dal Petrarca politico non manca di farsi sentire. Alla lirica cinquecentesca che vuole occuparsi della guerra d’Oriente, i Fragmenta28 orono l’archetipo ideale della canzone O aspectata in ciel accompagnata dal sonetto aine che nel Canzoniere immediatamente la precede, Il successor di Karlo, che la chioma. La memoria della canzone con cui Petrarca invoca la crociata chiedendo ai popoli europei di unirsi contro il nemico infedele, infatti, riemerge diusamente in testi dalla forte ainità tematica come quelli ispirati dallo scontro con i turchi.

In tal senso, si riconoscono innanzitutto alcune formule ricorrenti che, derivate da Rvf 28 e riprese nelle rime dei petrarchisti, assumono la funzione di spie testuali che immediatamente azionano la memoria dell’archetipo. Nel lessico di O aspectata in ciel, la crociata è l’«alta impresa» per denizione e in maniera simile la guerra santa è «sì lodata impresa» nella canzone di Bernardo Tasso Principe sacro, il cui gran nome suona dedicata a Francesco I;29 «santa impresa» nell’ode pindarica Qual semideo, anzi qual novo Dio di Minturno;30 «alta impresa» nel sonetto di Fortunio Spira Poiché l’ingorda e travagliata voglia, contenuto nella giolitina del ’45;31 «onorata impresa» nella canzone Santo Signor, che l’grand’uizio avete di Daniello32 e «felice impresa» in Sacri pastor, perché a la vostra cura di Molza.33

Un altro esempio di ripresa testuale comune a molti testi è poi quello dell’esortazione alla liberazione dal «giogo» degli infedeli contenuta nei versi 61-62 di O aspectata in ciel («Dunque ora è ‘l tempo da ritrarre il collo / dal giogo antico»). Spesso utilizzata per far riferimento alla dipendenza d’Italia dai popoli stranieri, la metafora si trova nella canzone di Trissino che invita Clemente VII a liberare l’Oriente stesso dal dominio musulmano («torre il giωgω a tuttω l’Ωriεnte»),34 ed è ancor più testualmente riportata da Minturno nella canzone Padre, del ciel che tutto movi, e reggi («or dunque è ‘l tempo, là ‘ve ‘l ciel ti chiama, / da seguir l’alte imprese, e belle, e sante; / da liberar del giogo antico, e ero/ la Grecia tutta, e ‘l misero Levante»).35

Di O aspectata in ciel si riscontrano inoltre alcune riprese che estendono la liazione ben oltre la misura del singolo sintagma o verso. Il caso maggiormente emulativo è quello di Lodovico Paterno che, nella canzone Sacro Pastor, che con la grave soma,36 trae da Rvf 28 anche il raro schema metrico, variando esclusivamente il congedo.37 Il testo esorta il Papa a intraprendere la guerra «contra’l bugiardo oriental profeta» (v. 18) riunendo i popoli cristiani d’occidente.

Paterno apre la sezione di «vari soggetti» del suo ipertroco Nuovo Petrarca con il componimento Italia mia, benchè ’l tuo lungo aanno che costituisce quasi una riscrittura di Rvf 128 per argomento e che ne riprende lo schema metrico.38 Con la canzone Sacro Pastor, dunque, il poeta continua ad esperire nella propria raccolta le possibilità tematiche e formali consentite dal Canzoniere. Il suo rifacimento di O aspectata in ciel attinge, infatti, a piene mani dall’originale. Per sollecitare l’impresa, il poeta evoca gli stessi esempi addotti da Petrarca: la vittoria greca sul persiano Serse a Salamina e la battaglia delle Termopili guidata da Leonida, integrandoli con quelli degli eroi «moderni» della prima crociata Goredo di Buglione e Ugo di Vermandois (vv. 49-60):

Ma quel di Salamina allhor cangiato
In rosso, ove l’eterna strage sorse,
Qual
ne può dirti haurà si giusta guerra.
Thermopile anco, ov’in
niti a terra
Gittò con pochi il gran Leon, può dirti
Cio, quando co suoi vinto
Fu vincitor per esser poscia estinto.
Ne questi sol, ma quei moderni spirti
Gottifredi, e’l grande Ugo, da cui tinto
D’Asia ogni pianto fu, tal che ben puoi
Aspettar Lauri, et Mirti,
Securamente à i bianchi crini tuoi.

Nei testi cinquecenteschi dedicati alla materia della guerra d’Oriente, l’imitatio petrarchista non si limita tuttavia alla ripresa diretta di Rvf 28, estendendosi a un più composito rimescolamento di tessere provenienti da luoghi diversi del Canzoniere. Analizzando alcune canzoni che attingono al repertorio petrarchesco pur non rinunciando a sperimentare forme capaci di forzare il modello 39si osserva infatti una fusione di motivi derivati dall’insieme delle tre canzoni civili dei Fragmenta che rappresenta forse la vera e propria cifra stilistica del petrarchismo politico.

Tra queste, la canzone di Trissino in onore di papa Clemente VII Signωr, che fωsti εtεrnamente εlεtto.40 Il componimento rappresenta l’esito di una prima fase di produzione del vicentino e assume una funzione signicativa nell’ambito della sua proposta di riforma ortograca. Composta e stampata già prima dell’allestimento della raccolta del 1529, infatti, è la prima attestazione dell’introduzione trissiniana delle lettere greche nell’alfabeto latino.41 Clemente, nella canzone, è il

«Signωr» eletto per volere divino a guidare le sorti del mondo, invitato a «torre il giωgω a tuttω l’Ωriεnte» e a propiziare la pace tra i popoli cristiani (vv. 1-13). Esortato a spegnere la guerra tra «i dui gran Re» (v. 47) che tormenta l’Italia, dovrà condurre l’Europa in soccorso dell’«infelice Grεcia» (v. 57) per far «l’armi insanguinate ε rωsse/ del turcω sangue» (vv. 71-72). Gli studiosi hanno spesso messo in evidenza la generale vena narrativa della produzione poetica di Giangiorgio Trissino, che ben si confà a contaminazioni dantesche.42 Gli appelli alla sottomissione dell’Oriente e alla riconquista greca si situano eettivamente all’interno di un componimento che mostra a tratti un’intonazione prosastica, ottenuta tramite lessico e sintassi che poco si addicono alla selettiva lirica di matrice petrarchesca. Eterodossia che si intravede anche nei versi che insistono sulla rappresentazione dei nemici turchi e che invitano a farne strage, riconducibili probabilmente più a reminiscenze dantesche che all’equilibrio del Canzoniere (vv. 44-46) e (vv. 71-73):

muovi ‘l prωfωndω tuω cωnsiliω muovi,
ε da la scabbia ria, ch’ognihor fa pεggiω,
l’inf
εtta gεnte ε miζera risana.
ε farà l’armi insanguinate ε rωsse
del turc
ω sangue; ε pria vωrrà che l’osse
restin di là, ch
ε la vittoria rεsti.

Ma nonostante tali violente incursioni espressive, anche in questo caso la materia dello scontro tra mondo occidentale e orientale trascina con sé numerosi richiami petrarcheschi. Si vedano i passi in cui il poeta si augura che il Papa riesca a condurre alla pace il re di Francia e l’imperatore, spingendoli verso la conquista turca. Versi in cui non vi è bisogno di isolare singoli elementi per sentir risuonare l’esempio dei Fragmenta nell’appello a superare le discordie in nome dell’unità cristiana (vv. 46-52):

Poi la grave discordia ε l’inhumana
volja de i dui gran Re, sì d’ira acce
ζi,
che a
ligge Italia εt altri bε’ paeζi,
mitiga
ε spegni, cωn la tua grandeza.
Fa’ che la lor
fiεreza,
ε l’odiω lωr, si sparga cωtra quelli
ch’al n
ωme di Ieζù furωn ribεlli.

Le citazioni testuali dalla canzone che Petrarca aveva dedicato alla crociata dell’Europa cristiana contro l’oriente musulmano dunque non mancano e si estendono all’intero corpus politico del Canzoniere. Dal lessico rimante («oese»: «imprese», vv. 8-9, come in Rvf 53,vv. 85-59; la serie «terra»:«serra»:«guerra», vv. 16-20, comune a Rvf 53 e 128) a interi segmenti argomentativi («εt hai del mωndω l’una ε l’atra kiave» v. 6, «e ‘l vicario de Cristo colla soma / de le chiavi» Rvf 27, vv. 5-6; «per torre il giωgω a tuttω l’Ωriεnte» v. 10, «dunque ora è ‘l tempo da ritirare il collo / dal giogo antico» Rvf 28, vv. 61-62; «ε farà l’armi insanguinate ε rωsse / del turcω sangue», vv. 70-71; «del barbarico sangue si depinga» Rvf 128, v. 22).

Sempre sul versante di un’ardita sperimentazione interna al sistema petrarchistico si muove Antonio Minturno con la restaurazione del genere classico dell’ode pindarica in lirica volgare43 nei due componimenti in onore delle spedizioni di Carlo V a Tunisi nel 1535: Qual semideo, anzi qual novo Dio e Alma et antica madre. Limitandoci qui a una lettura del primo testo,44 osserviamo come la struttura di tripartizione stroca tra «volta», «rivolta» e «stanza» si accompagni a ulteriori scelte di tipo classicistico e tardo umanistico: dall’invocazione alle Muse contenuta nella volta I alle digressioni mitologiche di natura eziologica. Il motivo encomiastico diventa, nelle mani di Minturno, un argomento congeniale alla resa dell’articio lirico tipico della poesia di ambiente meridionale, che accumula lodi su lodi e rappresenta le guerre di Carlo V quali esiti dell’ira di Giunone, che gli muove incontro il «Gallo» Francesco I e il «drago» turco, indicati dalle metafore zoomorfe consuete. All’interno di questo impianto classicheggiante non mancano i recuperi citazionali dal Petrarca di O aspectata in ciel che, anche in questo caso, fornisce l’apparato discorsivo per la rappresentazione dello scontro tra l’Europa e l’Oriente: v. 25 «vendicar l’oesa» (Rvf 28, v. 86 «a vendicar le dispietate oese»); v. 207 «l’alta impresa onesta» (Rvf 28, v. 42 «a l’alta impresa caritate sprona»); v. 188-189 «Turchi, Arabi e Caldei / e quanti speran ne’fallaci dei» (Rvf 28 vv. 54-55 «turchi, arabi et caldei, / con tutti quei che speran nelli dèi»). Si riconoscono così altri calchi esemplati sull’intero repertorio civile petrarchesco, e soprattutto su Italia mia: v. 88 «latino almo paese» (Rvf 128, v. 74 «latin sangue gentile»; Rvf 128, v. 9 «Tuo dilecto almo paese»); v. 126 «l’altere voglie de’ Roman divise» (Rvf 128 v. 55 «vostre voglie divise»).

Su un più fedele petrarchismo bembiano si attesta invece la canzone di un altro poeta di area meridionale: il barone Sandoval de Castro. Il componimento 48 Alma reale e di maggiore impero,45 dedicato all’Imperatore, sugella il piccolo canzoniere amoroso del nobile di origine spagnola, assumendo una posizione di preminenza, in penultima sede prima della serie di 95 stanze alle quali, probabilmente sulla scorta della struttura delle Rime di Bembo del 1530 e del 1535, è aidato il ruolo di epilogo eettivo della silloge. La canzone, a lungo falsamente attribuita a Tansillo, invoca Carlo V per esortarlo a non interrompere la guerra contro i Turchi, nonostante la scontta di Algeri.46 Il testo è un’ottima sintesi del petrarchismo canonico di quest’autore, che risente dell’esperienza di Sannazaro e che guarda a Bembo come modello ideale di imitazione petrarchesca, da emulare a sua volta. Lo schema metrico scelto per questa canzone civile è quello di Spirto gentil,47 mentre la materia trae elementi da O aspectata in ciel. Se una delle fonti di Sandoval de Castro sembra essere il Bembo del sonetto Felice imperador, ch’avanzi gli anni,48 il ruolo giocato dalla canzone 28 dei Fragmenta nel fornire materiale è ancora una volta attestato dalle numerosissime riprese disseminate nel componimento: «onde s’adira/ Europa e ne sospira» vv. 25-26 (Rvf 28, v. 27: «Sì che molti anni Europa ne sospira»); «convien che per Gesù la lancia pigli» v. 42 (Rvf 28, v. 72: «Tanto che per Iesù la lancia pigli»); «Pon mente al gran Profeta» v. 57 (Rvf 28, v. 91: «Pon mente al temerario ardir di Xerse»); «E se con teco è Dio/ contra ‘l tiranno, che ‘n sue forze spera, / temer non dei de la contraria schiera» vv. 82-84 (Rvf 28, vv. 88-90: «Che dunque la nemica parte spera / ne l’umane difese / se Cristo sta da la contraria schiera?»); «ma molt’altri assai / che tu ancor letti ed ascoltati avrai. / Onde a Dio ti convien inchinar l’alma» vv. 93-95 (Rvf 28,103-104: «Ed altre mille ch’ài ascoltate et lette / perché inchinare a Dio molto convene / le ginocchia et la mente»).

Anche in questo caso, l’imitazione petrarchista si compone di una continua selezione di tasselli prelevati dal repertorio e ricomposti in maniera nuova, ma conforme ai parametri dettati dal codice. Le com- binazioni più interessanti sono quelle in cui versi provenienti da testi diversi sono ricuciti dall’autore in passaggi che si congurano quasi come piccoli ipertesti del Canzoniere, come in questo passo estratto dalla terza stanza:

La buona gente, e a te fedel, di Spagna,
che t’ha già dato in mille parti onore,
e ‘l buon popol di Marte, ov’ancor morto
non è l’antico e gemino valore,
l’insegne felicissime accompagna,
et il Tedesco, a viver poco accorto,
che qual legno che i venti sprezza in porto,
non curando de’ colpi acerbi e rei,
st’a le percosse de’ nemici saldo
dietro ti corre ancor ardito e baldo.
49

Qui ogni verso rimanda a dierenti ipotesti, sapientemente amalgamati dalla mano petrarchista. Il «buon popol di Marte» è citazione diusissima tratta dal Trionfo della Fama (II, 2, v. 2) e da Spirto gentil (v. 26); mentre l’unità sintattica introdotta dall’emistichio seguente e spezzata dall’enjambement «ov’ancor morto / non è l’antico gemino valore» riprende Italia mia («Ché l’antiquo valore / ne l’italici cor non è ancor morto» vv. 95-96). Sempre da O aspectata in ciel è invece recuperato il verso «l’insegne felicissime accompagna» («Le ‘nsegne cristianissime accompagna» Rvf 28, v. 33) con la sostituzione dell’aggettivo petrarchesco originale probabilmente per evitare il riferimento alle armate del re Francesco I, nemico degli spagnoli. E anche il riferimento al «Tedesco» si può leggere quale eco proveniente dalla stessa canzone (Rvf 28, v. 53). La capacità di produrre riscritture originali ispirate dal modello si compie inne nel congedo della canzone di Sandoval de Castro. Qui il poeta recupera il triplice appello nale alla pace di Italia mia, rovesciandolo in funzione delle esigenze di un testo che, ancora in linea con Rvf 28, invoca piuttosto l’unione nella battaglia cristiana: «che gli sia caro / tôrre al fero Ottoman la santa terra. / Poi va gridando: Guerra! Guerra! Guerra!».

Nel Cinquecento, il motivo dello scontro tra il mondo occidentale e quello orientale, tra cristiani e musulmani, ha alle spalle la lunga tradizione letteraria originatasi nelle forme popolari del Medioevo europeo e conuita nel genere epico-cavalleresco. La ricchissima materia narrativa che a inizio secolo risorge rielaborata dalle mani di Ariosto nel Furioso non sembra però irrompere nelle tante poesie sulla guerra d’Oriente che aollano antologie e raccolte cinquecentesche.50 Come suggeriscono i testi analizzati, le caratteristiche del genere lirico impongono di guardare decisamente in altra direzione, verso il modello petrarchesco.51

Accanto alle citazioni dirette, la via tracciata da O aspectata in ciel sembra esser ripresa dai poeti cinquecenteschi soprattutto nel suo contenuto più profondo. Il componimento petrarchesco esorta alla crociata e invita l’Europa a unirsi contro la Babilonia infedele denendo, in antitesi al nemico orientale, un’identità culturale che accomuna popoli dalla fede cristiana ed è delimitata da geograe e appartenenze territoriali. Alla stessa maniera, anche i versi petrarchisti chiedono alla comunità cristiana occidentale di unirsi contro il nemico turco. Proprio l’individuazione di tale minaccia comune determina la denizione di una proto-identità europea e occidentale fondata sulla cristianità, nel momento in cui invece in Europa imperversano le ostilità tra Francia e Spagna. Tanti tra i componimenti cinquecenteschi inneggianti alla nuova crociata trovano, infatti, la propria ragion d’essere più impellente nell’esigenza che la guerra tra i potentati europei, combattuta per lo più in Italia, giunga a conclusione. Invece di insanguinare il bel paese e arrecare soerenza all’Europa intera sembrano dire in molti i sovrani cristiani farebbero meglio a impegnarsi nella guerra contro l’infedele. Ed è questo il legame più profondo che la ripresa di O aspectata in ciel instaura con la citazione diusa di Italia mia nelle rime petrarchiste.52 La frantumazione politica causata dalle «voglie divise» dei signori degli stati italiani di Rvf 128 è evocata nei testi cinquecenteschi dedicati al conitto d’Oriente per far riferimento alla disunione dei re cristiani, dediti alle devastanti guerre d’Italia e incapaci di arontare compatti il nemico comune infedele. L’unione cristiana della canzone 28 può dunque essere contrapposta alla guerra fratricida che l’Europa conduce sul suolo italiano. Così Bernardo Tasso nella canzone Gran Padre, a cui l’augusta e sacra chioma53 si rivolge al Papa, chiedendo di condurre alla pace i popoli cristiani e di pacicare le «voglie divise» volgendo guerra al tiranno d’Oriente:

Vedete d’Oriente il gran Tiranno
Ch’aspetta che ’n noi stessi il ferro crudo
Volgano gli odii accensi e le nostr’ire,
E l’armi e ’l foco di pietate ignudo
Va apparecchiando a commun nostro danno,
Per far le nostre guancie impallidire.
Da noi li vien, da noi li vien l’ardire,
Da le voglie divise! né sì tosto
Udrà il romor de le cristiane spade.
54

L’unione tra i sovrani francesi e l’imperatore sembra star particolar- mente a cuore anche a Lodovico Paterno che, nel Nuovo Petrarca, dedica all’argomento anche alcuni sonetti contenuti nella sezione in «vari soggetti». Qui, ugualmente le petrarchesche «voglie divise» dei Signori di Italia mia, si tramutano nelle «voglie avare» di chi governa l’Europa e rende l’Italia «meschina et grama», non curandosi dell’avvicinarsi del nemico orientale.55

E ancora la citazione del componimento di Petrarca che invocava un’Italia libera dalle lotte intestine e dalle ingerenze straniere, è utilizzata da Carafa nell’appello all’Italia a chiamare in soccorso Carlo V per ribellarsi al tentativo di assoggettamento francese: Italia mia, poi che ’l destin fatale. La coalizione del sovrano francese Enrico II con l’Impero Ottomano, in funzione anti-spagnola nel Regno di Napoli, spinge anche Carafa a realizzare nella canzone una fusione di argomenti tratti da Italia mia e O aspectata in ciel. Il motivo dell’Italia dominata da «barbari», vittima del tentativo del «Gallo» di porle «doppie salme / di servitù» (vv. 9-10) e quello del conitto contro le «turchesche squadre» alleate del re francese si fondono al ne di descrivere la contemporanea situazione storica italiana ed europea, e di encomiare l’imperatore esortandolo alla guerra santa. Lacanzone politica contempla così al proprio interno le consuete rappresentazioni celebrative del conitto, invocando il successo di Carlo V sui francesi e sui turchi, mediante le solite metafore zoomorfe dell’Aquila, del Gallo e del Serpente:

Vedi che per soccorrerti sù l’ali
stasi il sovrano Augel del sommo Giove,
sì per amarti tanto, come ancora,
per far’al Gallo i danni aspri, e mortali,
che suole ogn’hor, e via più nel tuo grembo.
Sì, che havendo con te l’Aquila ogn’hora
del rio Serpe vedrai far quello scempio.
56

Ma accanto alle ragioni formali e alle necessità encomiastiche, la proliferazione di rime dedicate al motivo non si spiega se non alla luce delle forti suggestioni che la guerra d’Oriente porta con sé e dell’immaginario culturale che questa determina nella società cinquecentesca. Il senso più profondo dei testi dedicati alla guerra contro gli ottomani va dunque probabilmente cercato nelle forti dicotomie che essi mettono in scena: Cristiani/Infedeli, Occidente/Oriente, Pace/Guerra, Bene/Male. La paura di un crollo del mondo occidentale sotto la minaccia di una devastante invasione, così come la corrispettiva ansia di aermazione della società cristiana ed europea trapelano con forza dalla massiccia produzione poetica che da tutta la penisola si scaglia unita contro il nemico che, più d’ogni altro, incarna l’alterità.

La rappresentazione del Turco pertanto ricorre continuamente al medesimo apparato di immagini. Il gran nemico della cristianità è spesso trasgurato nei tratti di una violenta bestia: è un serpente, un cane o un lupo. Eppure l’immagine del Turco elaborata dalle corti italiane sem- brerebbe essere molto più straticata di quanto lascerebbero pensare questi componimenti. La variegata letteratura turchesca d’età moderna, infatti, fornisce un ritratto contraddittorio del nemico che accanto al timore lascia emergere l’ammirazione per un avversario impavido, forte e modello di soldato obbediente.57 Nella lirica petrarchista, la sfera semantica del Turco è invece sempre quella della violenza, della ferocia e del sangue. Egli è il «mostro d’Oriente»;58 è la minacciosa «turba a’ nostri danni intenta»59 che, insaziabile, incombe sull’Europa per impossessarsene; è il cane «ingordo» e «rabbioso» che azzanna il «pié d’Italia», descritto da Tansillo nel sonetto seguente, compreso tra le rime del codice Casella e composto in occasione dell’attacco dei Turchi a Otranto nel 1537:

Quel cane ingordo che latrando, corse
da l’oriente a depredare il nido
de l’aquila vittrice, et all’Au
do
non pur diede terror, ma al Tebro, forse;

quando rabbioso il piè d’Italia morse,
del venir vostro a pena intese il grido,
signor, che l’onde del calcato lido
gli sembrar
amma e il piè timido torse.

Di che fronda l’Ibero e il Tago, chiaro
via più per voi che per l’arena d’auro,
coroneran vostre onorate chiome?

Quanti mai capi invitti onor di lauro
ebber dal Tebro vinsero e fugaro
con l’arme l’avversari, e voi col nome.
60

Ma soprattutto il Turco è sempre empio, ingiusto, bugiardo e ribelle, il suo popolo è l’«infetta gente»,61 che venera divinità false e che pertanto va arontata in nome di Cristo. La guerra contro di questi, di conseguenza, è presentata come una guerra santa ed è evocata come irrevocabilmente giusta. L’insistenza sugli ottomani come popolo non cristiano e quindi infedele comporta così la rappresentazione del conitto nei termini di uno scontro di civiltà che colloca da un lato l’«Occidente» e l’«Europa», deniti in base alla propria cristianità, e dall’altro l’«Oriente» musulmano. Il risultato è quello di un continuo aiorare del motivo delle crociate, e del ricordo del Santo Sepolcro ancora non riscattato. Nella narrazione discorsiva costruita dai versi cinquecenteschi, se l’Europa è terra della cristianità, il Turco è l’alere di Babilonia e raggruppa in sé un insieme vasto di eredità che ne fanno la rigida gura dell’«Altro» per eccellenza. La sua stessa esistenza è continuamente rappresentata come una pericolosa minaccia che opprime il mondo occidentale, mai attenuata dalla fascinazione per terre lontane o da slanci di umanizzazione del nemico, né tantomeno da quella leggerezza nel ricomporre dicotomie e diversità che la letteratura rinascimentale dispiega altrove.

____________

1 Carlo Dionisotti, La guerra d’Oriente nella letteratura venenziana del Cinquecento, in id., Geograa e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 201-226, p. 202.

2 A proposito delle implicazioni politiche proprie di certa poesia cinquecentesca cfr. Domenico Chiodo et al., Le muse sediziose. Un volto ignorato del petrarchismo, Milano, Franco Angeli, 2012; Roberto Fedi, Una repubblica letteraria. I lirici del Rinascimento, in Rosaria Iounes-Vona et al. (a cura di), Il discorso della nazione nella letteratura italiana, Firenze, Cesati, 2012, pp. 21-34. Per alcune osservazioni sul genere del petrarchismo politico rimando anche a Chiara Natoli, «Et pongon man ne le tue treccie sparte»: appunti sulla ricezione del Petrarca politico nella lirica cinquecentesca, in Beatrice Alfonzetti et al. (a cura di), L’Italianistica oggi: ricerca e didattica, Atti del XIX Congresso ADI, (Roma 9-12 settembre 2015), Roma, Adi editore, 2017.

3 Per alcuni studi di carattere complessivo sulla poesia lepantina cfr. Simona Mammana, Rime per la vittoria sul Turco. Regesto (1571-1573) e studio critico, Roma, Bulzoni, 2007; Daniela Ambrosini, Letterati in battaglia: uomini d’armi e di penna nella battaglia di Lepanto, in Stefania Rossi Minutelli (a cura di), Il bibliotecario inattuale. Miscellanea di studi di amici per Giorgio Emanuele Ferrari bibliotecario e bibliografo marciano, Padova, Nova Charta, 2007, vol. 1, pp. 53-86; Cecilia Gibellini, L’immagine di Lepanto. La celebrazione della vittoria nella letteratura e nell’arte veneziana, Venezia, Marsilio, 2008.

4 Pietro Bembo, Prose e Rime, C. Dionisotti (a cura di), Torino, Utet, 1966, p. 596.

5 Le canzoni si leggono nell’edizione cinquecentina in Bernardo Cappello, Rime di m. Bernardo Cappello, Venezia, Guerra, 1560 p. 83; p. 89. Ma è di recente pubblicazione l’edizione critica B. Cappello, Le rime di Bernardo Cappello, Irene Tani (a cura di), Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2018.

6 Franco Tomasi et al. (a cura di), Rime diverse di molti eccellentissimi autori (Giolito 1545), San Mauro Torinese, Edizioni Res, 2001.

7 Cfr. Diego Sandoval De Castro, Alma reale e di maggiore impero, in Tobia Raaele Toscano (a cura di), Diego Sandoval de Castro e Isabella Morra. Rime, Roma, Salerno, 2007, pp. 98-102; Antonio Sebastiano Minturno, Padre, del ciel che tutto movi, e reggi, in id., Rime et prose, Francesco Rampazzetto, Venezia 1559, vol. II, pp. 91-99; id., Qual semideo, anzi qual novo Dio; in ibid., vol. III, pp. 166-175; id., Alma et antica madre, in ibid., vol. III, pp. 176-184; Ferrante Carafa, Italia mia, poi che ’l destin fatale in Il sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, nuovamente raccolte, et mandate in luce. Con un discorso di Girolamo Ruscelli, Venezia, al segno del Pozzo, 1553, pp. 17v-21r. Alla poesia di Minturno ha dedicato un contributo Stefano Carrai, Sulle rime del Minturno. Preliminari di indagine, in Marco Santagata et al. (a cura di), Il libro di poesia dal copista al tipografo, Modena, Panini, 1989, pp. 215-230.

8 Lodovico Paterno, Nuovo Petrarca, Venezia, Valvassori, 1560.

9 Ibid., pp. 352-356. Ma sullo stesso argomento si vedano anche i sonetti Felice Re, c’hor la remota parte, p. 356; Poi ch’al Padre Oceano Hibero, et Sena, pp. 362-363; la canzone Spirti Reali, che salire al cielo, pp. 422-430.

10 Cfr. la raccolta dei 29 Sonetti per la presa d’Africa, unica silloge pubblicata in vita dall’autore, oggi edita in Luigi Tansillo, Rime, Tobia R. Toscano (a cura di), Roma, Bulzoni Editore, 2011, pp. 441-493.

11 Giovanni Muzzarelli, Terreno Giove, a cui l’alto governo, in id., Rime, Giuseppina Hannüss Palazzini (a cura di), Mantova, Arcari, 1983.

12 Gian Giorgio Trissino, Signωr, che fωsti εtεrnamente εlεtto, in id., Rime 1529, Amedeo Quondam (a cura di), Vicenza, Neri Pozza, 1981, pp. 171-174.

13 Le canzoni di Bernardo Tasso dedicate al motivo della guerra cristiana in Oriente sono Principe sacro, il cui gran nome suona (II,12), in cui l’invito è rivolto al re di Francia Francesco I e Gran Padre, a cui l’augusta e sacra chioma (II, 76), in cui il poeta si rivolge a papa Clemente VII. Cfr. Bernardo Tasso, Rime, Domenico Chiodo et al. (a cura di), Torino, Res, 1995.

14 Cfr. il gruppo di sonetti I 37, I 53, I 54, I, 148, I 149, in Francesco Maria Molza, Delle Poesie volgari e latine di Francesco Maria Molza, illustrate ed accresciute colla vita dell’autore scritta da Pierantonio Serassi, Bergamo, Lancellotti, 1747-55, vol. I. In merito alla gura di Ippolito de’ Medici e al circolo di sodali intorno a questi radunato a seguito della spedizione in Ungheria si rimanda agli studi di Domenico Chiodo, «E viva amore e muoia soldo». Il magistero molziano alla corte di Ippolito de’ Medici, in id., Più che stelle in cielo. Poeti nell’Italia del Cinquecento, Roma, Vecchiarelli Editore, 2013, pp. 63-70; Rossana Sodano, La morte di Ippolito de’ Medici: nuovi documenti dall’Archivio Gonzaga, «Lo Stracciafoglio», n. 1, 2000, pp. 30-36; id., Gandolfo Porrino, dalle Rime, «Lo Stracciafoglio», n. 4, 2001, pp. 15-24; Franco Pignatti, Carlo V, Ippolito de’Medici e una caduta da cavallo. Un sonetto di Francesco Maria Molza (ed. Serassi, I 148), «Filologia e critica», XXVII, 2012, pp. 269-288.

15 Anton Francesco Raineri, Cento sonetti, Rossana Sodano (a cura di), Torino, Res, 2004, p. 22.

16 Si vedano i sonetti Cantin le ninfe co’ soavi accenti (44), Mira ‘l gran Carlo con pietoso aetto (45), Là dove più con le sue lucid’onde (46), Quel che di tutto il bel ricco oriente (47), in Veronica Gambara, Le rime, Alan Bullock (a cura di), Firenze, Olschki, 1995.

17 Si vedano i sonetti De la era fucina d’Oriente; Quella fera crudel che sì possente; Voi ch’avete d’Europa in mano il freno, in Lelio Capilupi, Rime, secondo l’edizione di Francesco Osanna, Mantova, 1585, Gian Carlo D’Adamo (a cura di), Mantova, Padus, 1973 pp. 35-36.

18 G. G. Trissino, Signωr, che fωsti εtεrnamente εlεtto, in id., Rime 1529, cit., vv. 57-61.

19 «Or non vedemo innanzi a nostri piedi / pianger la Grecia di Corinto ogn’ora, / mostrando, che di le poco ne doglia? / Ma quel paese, onde ’l Soldan ci spoglia, / di noi si duol più giustamente ancora». F. M. Molza, Sacri pastor, perché a la vostra cura, in id., Delle Poesie volgari e latine, cit., vol. I, pp. 101-103, vv. 49-53.

20 «Or dunque è ‘l tempo, là ‘ve ‘l ciel ti chiama, / Da seguir l’alte imprese, e belle, e sante; / da liberar del giogo antico, e ero / La Grecia tutta, e ‘l misero Levante». A. S. Minturno, Padre, del ciel che tutto movi, e reggi, in id., Rime et prose, Venezia, Francesco Rampazzetto, 1559, vol. II, pp. 91-99, vv. 180-183.

21 L. Capilupi, Quella fera crudel che sì possente in id., Rime, cit., p. 36, vv. 1-2.

22 I testi si leggono nell’edizione di F. Tomasi et al. (a cura di), Rime diverse di molti eccellentissimi autori (Giolito 1545), cit., p. 278, pp. 280-284.

23 Ibid., p. 219.

24 Giulio Camillo, in Rime diverse, cit., p. 56.

25 Bernardino Daniello, in Rime diverse, cit., p. 278.

26 Ibid., p. 280-284, vv. 71-77: «Che per far or di noi crudele scempio / Quasi serpe di nuove spoglie adorno, / Più che mai fosse di furor ripieno, / Gli occhi di amma rivolgendo intorno / Con tre lingue vibranti alz’il collo empio, / E sparger tenta ‘l suo mortal veneno / Ne’ nostri dolci campi e nel mio seno».

27 Lodovico Domenichi, Rime, Roberto Gigliucci (a cura di), Torino, Res, 2004, p. 121.

28 Tutte le citazioni dal Canzoniere sono tratte da Francesco Petrarca, Canzoniere, M. Santagata (a cura di), Milano, Mondadori, 2004.

29 B. Tasso, Principe sacro, il cui gran nome suona, cit., v. 21.

30 A. S. Minturno, Qual semideo, anzi qual novo Dio, cit., v. 19.

31 Fortunio Spira, Poiché l’ingorda e travagliata voglia, in Rime diverse, cit., p. 185, v. 9.

32 B. Daniello, Santo Signor, che l’grande uizio avete, cit., v. 8.

33 Francesco Maria Molza, Sacri pastor, perché a la vostra cura, cit., v. 55.

34 G.G. Trissino, Signωr, che fωsti εtεrnamente εlεtto, cit., v. 10.

35 A.S. Minturno, Padre, del ciel che tutto movi, e reggi, cit., vv. 180-183. Si noti anche il solito riferimento alle guerre d’Oriente come «alte imprese, e belle, e sante».

36 L. Paterno, Sacro Pastor, che con la grave soma, in Nuovo Petrarca, cit., pp. 352-356.

37 Lo schema metrico ABCBAC CDeEDEFdF 7 st + congedo 9 vv. ABcCBCDbdD di Rvf 28, è ripreso da Paterno nella canzone Sacro Pastor e variato esclusivamente nel congedo di 5 vv. ABCaC. Cfr. Guglielmo Gorni et al., Repertorio metrico della canzone italiana dalle origini al Cinquecento (REMCI), Firenze, Cesati, 2008. Sulla scarsa ripresa dello schema metrico di Rvf 28 tra Quattrocento e Cinquecento, cfr. l’osservazione di G. Gorni, Metrica e analisi letteraria, Bologna, il Mulino, 1993, p. 51.

38 Lo schema metrico di Italia mia AbCBaC cDEeDdfGfG 7 st + congedo aBCcBbdEdE ritorna identico in Italia mia, benché ’l tuo lungo aanno. Cfr. G. Gorni et al., Repertorio metrico, cit. Nel Nuovo Petrarca, Paterno dispone i componimenti in tre sezioni alla maniera del Canzoniere petrarchesco edito da Alessandro Vellutello nel 1525. Le prime due sezioni in vita e in morte della donna amata, la terza occupata dalle rime non amorose e aperta dalla canzone politica chiaramente ispirata a Rvf 128.

39 Sulla pluralità formale interna al sistema petrarchistico si veda almeno: Stefano Jossa et al., Petrarchismo e petrarchismi. Forme, ideologia, identità di un sistema, in Luigi Collarile et al. (a cura di), Nel libro di Laura, Basel, Schwabe 2004, pp. 91-115; R. Gigliucci, Appunti sul petrarchismo plurale, «Italianistica», XXXIV, 2, 2005, pp. 71-75; id., Antipetrarchismo interno o petrarchismo plurale?, in Antonio Corsaro et al. (a cura di), Autorità, modelli e antimodelli nella cultura artistica e letteraria tra Riforma e Controriforma, Manziana, Vecchiarelli Editore, 2007, pp. 91-101; Giorgio Forni, Pluralità del petrarchismo, Pisa, Pacini, 2011.

40 G. G. Trissino, Signωr, che fωsti εtεrnamente εlεtto, cit., passim.

41 La composizione della canzone è successiva al 18 novembre 1523, cfr. la sezione dedicata a Trissino in G. Gorni et al. (a cura di), Poeti del Cinquecento. I. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, pp. 271-288, p. 273. A proposito della proposta trissiniana di riforma ortograca del volgare italiano cfr. G. G. Trissino, Epistola del Trissino de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, in id., Alberto Castelvecchi (a cura di), Scritti linguistici, Roma, Salerno, 1986, pp. 3-16.

42 Sulla poesia di Trissino, cfr. C. Dionisotti, L’Italia del Trissino, in Neri Pozza (a cura di), Convegno di studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza 31 marzo – 1 aprile 1979, Odeo del Teatro Olimpico, Vicenza, Accademia Olimpica, 1980, pp. 11-22; Amedeo Quondam (a cura di), Introduzione, in G. G. Trissino, Rime 1529, cit., pp. 9-41.

43 La restaurazione dell’ode pindarica in lirica volgare praticata da Minturno, ma anche da Trissino e Alamanni, va inquadrata nell’ambito delle sperimentazioni formali alternative alla proposta bembiana conosciute dalla lirica petrarchista della prima metà del secolo. A questo proposito cfr. Mario Martelli, Le forme poetiche italiane dal Cinquecento ai giorni nostri, in Alberto Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, vol. III, Le forme del testo, t. I, Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 519-620; Italo Pantani, Ragioni metriche del classicismo, in A. Quondam (a cura di), Classicismo e culture di Antico regime, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 239-286.

44 A.S. Minturno, Qual semideo, anzi qual novo Dio, cit. Il componimento si legge anche antologizzato in Giulio Ferroni et al., La «locuzione articiosa». Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 315-322.

45 D. Sandoval de Castro, Alma reale e di maggiore impero, in T. R. Toscano (a cura di), Diego Sandoval de Castro e Isabella Morra. Rime, cit., pp. 98-102.

46 La canzone probabilmente servì a Sandoval de Castro anche per riabilitarsi agli occhi dell’Imperatore, ricordandogli la propria partecipazione alla battaglia, a seguito di una condanna in contumacia ricevuta nel Regno di Napoli che gli era costata l’esilio. Cfr. Benedetto Croce, Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro, Palermo, Sellerio, 1983, pp. 23-34. Sul poeta si rimanda agli studi: T. R. Toscano, Introduzione, in id. (a cura di), Diego Sandoval de Castro e Isabella Morra. Rime, cit.,pp. 11-58; id., Un cavaliere inesistente: don D. S. de C. e una raccoltina di rime dimenticata, in id., Letterati, corti, accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loredo, 2000, pp. 121-143.

47 Lo schema metrico di Rvf 53, ripreso da Sandoval de Castro, è ABCBAC CDEEDdFF 7 st. + congedo 8 vv. ABCCBbDD. Cfr. G. Gorni et al., Repertorio metrico della canzone italiana, cit. passim.

48 P. Bembo, Felice imperador, ch’avanzi gli anni, in id., Prose e Rime, cit., p. 576.

49 S. De Castro, Alma real, cit., vv. 29-37.

50 Sulla rappresentazione dell’Oriente in Ariosto e nei poemi cavallereschi cfr. Reto Raduolf Bezzola, L’Oriente nel poema cavalleresco nel primo Rinascimento, «Lettere italiane», XV, 1963, pp. 385-398; Sergio Zatti, Dalla parte di Satana, in id. (a cura di), La rappresentazione dell’altro nei testi del rinascimento, Lucca, Pacini Fazi, 1988, pp. 146-182; Emanuella Scarano, Guerra favolosa e guerra storica nell’ «Orlando furioso», in Lucio Lugnani et al. (a cura di), Studi oerti a Luigi Blasucci dai colleghi e dagli allievi pisani, Lucca, Pacini Fazzi, 1996, pp. 497-517.

51 È signicativo che lo stesso Ariosto, in una delle rare digressioni politiche dell’Orlando Furioso, in XVII, 73-79, abbandonando momentaneamente il registro ironico e l’atteggiamento bonario sempre riservato anche alla rappresentazione dei saraceni, attinga a piene mani al repertorio petrarchesco di O aspectata in ciel, per evocare l’unità cristiana contro l’Impero ottomano: «Se cristianissimi esser voi volete, / e voi altri Catolici nomati, / Perché di Cristo gli uomini uccidete? / Perché de’ beni lor son dispogliati? / Perché Ierusalem non riavete, / che tosto e stato a voi da’ rinegati, / perché Costantinopoli e del mondo / la miglior parte occupa il Turco immondo?», cfr. Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, Cesare Segre (a cura di), Milano, Mondadori, 1976.

52 D’altronde nello stesso Canzoniere può rilevarsi una circolarità semantica che vede Italia mia rappresentare il rovesciamento negativo delle premesse ideologiche positive di O aspectata in ciel. Se infatti la canzone 28 inneggia ad un’Europa unita nel segno della cristianità e pertanto disegna un progetto di salvazione politica e civile, la patria lacerata e divisa di Italia mia ne rappresenta invece la regressione. Così secondo Gabriele Baldassari, Unum in locum. Strategie macrotestuali nel Petrarca politico, Milano, Led, 2006.

53 B. Tasso, Gran Padre, a cui l’augusta e sacra chioma, in id., Rime, Domenico Chiodo et al. (a cura di), Torino, Res, 1995, vol. II, pp. 191-197.

54 Ibid., vv. 81-89.

55 L. Paterno, Se frenate l’Europa, e’l ciel vi chiama, in id., Nuovo Petrarca, cit., p. 387.

56 F. Carafa, Italia mia, poi che ’l destin fatale, cit., vv. 145-151. L’intesa tra i francesi e i turchi dovette avere un impatto molto forte su Carafa, che sperò sempre in un’alleanza di principi cristiani per la liberazione dell’Oriente dagli infedeli. Impresa che il poeta invocò a più riprese nelle missive inviate a Papa Pio V e all’Imperatore Filippo II, e che fu celebrata nell’Austria a seguito della vittoria riportata a Lepanto dalla Lega che aveva unito l’Impero, il Papato e Venezia. Cfr. Claudio Gigante, «Maria, madre della vittoria». Ferrante Carafa e l’epopea di Lepanto, in Maria Luisa Doglio et al. (a cura di), Rime sacre tra Cinquecento e Seicento, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 19-51.

57 A proposito della narrazione cinquecentesca sul Turco e dell’immaginario discorsivo legato alla rappresentazione del nemico cfr. Paolo Giovio, Commentario delle cose de’ Turchi, Lara Michelacci (a cura di), Clueb, Bologna, 2005, di cui si veda l’introduzione della studiosa: La nostalgia dell’altro, pp. 8-67. Sull’argomento cfr. anche Marina Formica, Lo specchio turco. Immagini dell’Altro e riessi del Sé nella cultura italiana d’età moderna, Roma, Donzelli, 2012.

58 L. Domenichi, Mentre la desiosa aquila ingorda, in id., Rime, cit., p. 80, v. 9.

59 F. Raineri, Mentr’arma il Trace, e navi orna, e raccoglie, cit., v. 7.

60 L. Tansillo, Quel cane ingordo che latrando, corse, in id., Rime, cit., passim.

61 G.G. Trissino, Signωr, che fωsti εtεrnamente εlεtto, cit., v. 46.