La poésie et les arts
OJ-italique-480
Petrarca nei trattati d’arte del Cinquecento: due riflessioni
Il ruolo del Petrarca volgare nella trattatistica d’arte del Cinquecento può apparire relativamente marginale, a fronte dell’imponente diffusione di citazioni dal Canzoniere nei coevi trattati di poetica e retorica, senza contare l’incidenza di lemmi e versi petrarcheschi nei vocabolari, nei commenti a Dante e nelle lezioni accademiche dedicate ad altri poeti. Le citazioni esplicite dai Fragmenta e dai Triumphi mancano del tutto, ad esempio, nel Dialogo di pittura (1548) di Paolo Pino, oppure non arrivano alla decina per opera, come in Gilio, in Comanini e in Lomazzo e perfino nelle Lezzioni (1549) di Varchi e nel Dialogo della pittura (1557) di Lodovico Dolce, dove pure le considerazioni in materia di poesia sono centrali. Nel ragionare su questo dato è opportuno superare l’aspetto meramente quantitativo, interrogandosi sulla collocazione, sul rilievo e sulla funzione dei riferimenti espliciti a Petrarca nei vari contesti.
Da una simile indagine si possono escludere tanto le occorrenze più generiche, dove la menzione di versi petrarcheschi è del tutto occasionale e non ha implicazioni argomentative o concettuali di rilievo, quanto la ripresa in funzione meta-pittorica, troppo comune per risultare caratterizzante, di usi metaforici che la poesia fa del linguaggio artistico, come il «pinger cantando» di Rvf 308, 7, citato ad esempio da Lomazzo.1 All’opposto, è per la marcata specificità del suo contesto che bisogna lasciare da parte il passo in cui Benedetto Varchi segnala la genealogia poetica che porta dai sonetti petrarcheschi sul ritratto di Laura a quelli di Bembo su un ritratto dipinto da Giovanni Bellini, e di qui alle Stanze di Gandolfo Porrino e Francesco Maria Molza su un ritratto di Giulia Gonzaga realizzato da Sebastiano del Piombo.2 Nel discorso di Varchi, infatti, questi esempi di omaggio poetico al ritratto vengono elencati come argomento a favore della superiorità della pittura sulla scultura, mentre Vasari ricorre a un’analoga genealogia, che muove da Petrarca a Giovanni Della Casa attraverso Bembo, in chiave metadiscorsiva, per riconoscere e affermare il ruolo dei poeti – e più latamente degli scrittori – nella fama degli artisti; in questo senso, nella Vita (1568) dei Bellini, come già in quella di Simone Martini (fin dall’edizione del 1550), la poesia di Petrarca e la sua eredità lirica non sono messe al servizio di un discorso sull’arte quanto di un discorso sul discorso letterario sull’arte.3 Se si escludono, dunque, i poli opposti della «lessicalizzazione» del dettato petrarchesco e dell’uso della poesia sull’arte in chiave autoriflessiva, che cosa contraddistingue i rinvii a Petrarca in trattati e scritti sull’arte del Cinquecento? Per cominciare a rispondere a questa domanda, mi soffermerò su due celebri passi del Dialogo della pittura, intitolato l’Aretino (1557) di Lodovico Dolce, esaminandone la complessa stratigrafia alla luce dell’esegesi rinascimentale del Canzoniere e delle poetiche cinquecentesche.
Nel Rinascimento la tradizione retorica classica e umanistica, insieme alla riscoperta e allo studio della Poetica di Aristotele, ha esercitato un’influenza decisiva anche sulle riflessioni sull’arte, sempre più evidentemente esemplate sulle coeve discussioni letterarie in materia di poetica, all’insegna dell’«ut poesis pictura».4 La limitata presenza di Petrarca nei trattati d’arte, a fronte dei più frequenti rinvii alla poesia epico-narrativa di Virgilio e di Ariosto, si potrebbe allora spiegare con la centralità dell’imitazione di azioni nelle interpretazioni cinquecentesche della Poetica e con le conseguenti difficoltà incontrate dai teorici nel giustificare il genere lirico su basi aristoteliche.5 Tuttavia, il quadro è complicato dal graduale affermarsi, specie nelle poetiche di tardo Cinquecento, di una nozione più ampia di imitazione, che può riguardare anche la sfera interiore, avendo per oggetto «affetti», «passioni» e «costumi», e può esprimere «concetti» di ordine non narrativo: una nozione che permette di ricondurre Petrarca nell’orizzonte di una prospettiva normativa di impianto aristotelico. Come vedremo, è soprattutto per questa duplice via, interiore (§1) e non diegetica (§2), che il Petrarca volgare e più in generale la poesia lirica conquistano uno spazio, per quanto non dominante, nel discorso teorico sull’arte.
«Ma spesso ne la fronte il cor si legge»
FAB. Questa diffinizione [della pittura e della poesia come imitazione rispettivamente «per via di linee e di colori» e «col mezzo delle parole»] facile e propria; e similmente è propria la similitudine tra il poeta et il pittore, avendo alcuni valenti uomini chiamato il pittore poeta mutolo, et il poeta pittore che parla.
ARET. Puossi ben dire che, quantunque il pittore non possa dipinger le cose che soggiacciono al tatto, come sarebbe la freddezza della neve, o al gusto, come la dolcezza del mele; dipinge non di meno i pensieri e gli affetti dell’animo.
FAB. Ben dite, signor Pietro, ma questi per certi atti esteriori si comprendono; e spesso per uno inarcar di ciglia, o increspar di fronte, o per altri segni appariscono i segreti interni, tal che molte volte non fa bisogno delle fenestre di Socrate.
ARET. Così è veramente. Onde abbiamo nel Petrarca questo verso:
E spesso ne la fronte il cor si legge.
Ma gli occhi sono principalmente le fenestre dell’animo et in questi può il pittore isprimere acconciamente ogni passione: come l’allegrezze, il dolore, l’ire, le teme, le speranze et i disideri. Ma pur tutto serve all’occhio de’ riguardanti.6
Nel Dialogo della pittura, questa parte della conversazione tra Fabrini e Aretino muove dalla tradizionale definizione della pittura come poesia muta e della poesia come pittura parlante per esaminare più dettagliatamente le eccezioni che sfumano questa distinzione, già in parte affrontate da Varchi nella Disputa terza della seconda delle Lezzioni (1549 [1550]).7 Alla netta differenziazione tra pittura e poesia, Aretino comincia a contrapporre l’estensione del dominio accessibile alla rappresentazione pittorica:8 se non è possibile rendere in pittura ciò che soggiace al tatto e al gusto, il pittore è però in grado di rappresentare «i pensieri e gli affetti dell’animo». Pur concordando con questo parere, Fabrini, quasi a ribadire la forza del legame tra la pittura e il corpo, precisa che la possibilità di dipingere l’interiorità dipende dal modo in cui gli affetti si manifestano fisicamente all’esterno: attraverso «atti» e «segni» esteriori. Già Leon Battista Alberti nel De pictura (1435) aveva fatto riferimento alla possibilità di conoscere i «moti» dell’animo «dai moti del corpo» e il tema era presente, oltre che in Leonardo, anche nel Dialogo di pittura (1548) di Paolo Pino, a partire dalla possibilità di esprimere in pittura «effetti amorosi».9 Tuttavia, ciò che distingue la battuta che Dolce affida a Fabrini da questi precedenti è la contigua menzione delle «finestre di Socrate», ovvero della possibilità di aprire il petto e mostrare l’anima, annullando la barriera fisica che il guscio del corpo oppone all’accesso diretto all’interiorità degli individui. Il riferimento allude al fortunato topos della finestra aperta sul cuore, immagine tradizionalmente associata a Socrate attraverso Vitruvio (De Architectura, III, 1), forse per influenza del paragone che, nel Simposio (215a-b) di Platone, Alcibiade stabilisce tra Socrate e i Sileni, che, se dischiusi, rivelano di avere all’interno statuette degli dei.10 Secondo il ragionamento di Fabrini, spesso le finestre auspicate da Socrate sarebbero rese inutili dalle manifestazioni corporee e visibili della vita interiore; Aretino è pronto a confermarlo, adducendo a riprova proprio un verso di Petrarca («E [Ma] spesso ne la fronte il cor si legge»), ma subito puntualizza che delle «finestre dell’animo» in effetti esistono, ed esse sono gli occhi, attraverso i quali la pittura può esprimere tutte le passioni.11 Il verso è tratto dal sonetto dialogato Liete et pensose (Rvf 222, 12), nel quale è riferito non al poeta-amante ma a Laura assente, la cui bellezza oscurata e i cui occhi «rugiadosi» di lacrime ne hanno rivelato il turbamento alle donne cui solitamente si accompagna. Pur con esiti interpretativi a volte divergenti, alcune osservazioni dei commentatori cinquecenteschi su questo verso possono aiutarci a spiegare la scelta della citazione e più in generale il passo del dialogo, per il quale Paola Barocchi richiamava Cicerone, Tusculanae Disputationes, I, 46 («[...] facile intellegi possit animum et videre et audire, non eas partis [i.e. occhi e orecchie] quae quasi fenestrae sint animi [...]») e Leonardo («L’occhio, che si dice finestra de l’anima [...]»).12
Per restare ai commenti che Dolce poteva conoscere, per «spesso ne la fronte il cor si legge» Alessandro Vellutello e Bernardino Daniello rinviano a due versi di Ovidio, Amores I.11, 17-18 («aspicias oculos mando frontemque legentis: / et tacito vultu scire futura licet»), dove Nape è invitata a osservare gli occhi e la fronte di Corinna intenta a leggere il messaggio del poeta-amante, dato che è possibile intuire ciò che accadrà anche in un volto silenzioso;13 nel passaggio dal luogo ovidiano al testo petrarchesco, il contesto di decifrazione della condizione emotiva dell’amata da parte di una figura femminile («donne che ragionando ite per via» in Petrarca) viene mantenuto, ma il verbo «leggere» muove dal piano letterale a quello metaforico. Più rilevante per il contesto dolciano è il commento ad locum di Giovanni Andrea Gesualdo, che affronta l’immagine in termini più generali e allude ad altri luoghi petrarcheschi che la variano:
Ma spesso si legge il cuore nella FRONTE, perch’è la fronte chiarissimo segno delli affetti dell’animo e specchio del cuore, secondo che dice Plinio, et il poeta l’ha detto in diece luoghi, sì come in quel verso, A chi sa legger ne la fronte il mostro [...].14
Nella citazione da Triumphus Cupidinis III, 120 («e, chi sa legger, ne la fronte il mostro»), il volto oggetto di decifrazione è quello del poeta-amante che rievoca l’innamoramento per Laura e la continua alternanza di timore e di speranza che ne è conseguita. Oltre a lemmi che si ritroveranno in Varchi e in Dolce («segno», «affetti»), Gesualdo propone l’immagine della fronte come «specchio del cuore», che attribuisce a Plinio anche nel commento al sonetto S’una fede amorosa, un cor non finto (Rvf 224), a proposito del verso 5 («se ne la fronte ogni penser depinto»):
[...] perché come nel precedente sonetto et in altri luoghi s’è detto, la fronte è specchio de l’anima secondo Plinio et in lei si conoscono li affetti del cuore. I pensieri adunque ivi si dipingevano, dimostrando che ’l cuore era doglioso, ma non già questo era cagione ch’elli si distemprasse, per ché nella fronte dipinti li havea [...].15
Il luogo pliniano a cui si fa riferimento è Naturalis Historia XI. 54, 145,16 che Gesualdo richiama per esteso nel commento alla settima strofa di Rvf 71 (Perché la vita è breve), per chiarire quello che a suo parere è un grossolano errore degli interpreti riguardo ai vv. 91-92:
[...] dicono l’amoroso pensiero, ch’alberga dentro in voi occhi, imitando Plinio, il quale disse Profecto animus in oculis inhabitat. Ma la particella dentro apo il Poeta significa il cuore, onde il detto di Plinio ha tanto a fare con questo quanto, secondo il proverbio, Marzo con bacile. Alcuni altri, seguendo la detta oppenione già molti anni addietro fissa nella mente di molti, così leggono: l’amoroso pensiero ch’alberga dentro, cioè nel cuore di Madonna Laura, in voi occhi mi si discopre e mi si mostra, quando io vi miro. Questa spositione è più ragionevole e potrebbevisi acconciare di quello modo che secondo i Platonici detti leggerete nell’Academia del Minturno; e questo è quello che Plinio forse dire volea, che l’animo per gli occhi, come per le sue fenestre ne si discopre, havendo egli detto poco addietro, de gli occhi parlando, Neque ulla ex parte maiora indicia animi cunctis animalibus [...].17
Alcuni (tra i quali è verosimile identificare Vellutello, che ad locum cita lo stesso passo di Plinio),18 collegano l’«amoroso pensero / ch’alberga dentro» al pensiero amoroso di Laura, interpretando erroneamente «dentro» come riferito agli occhi, mentre indica il cuore; altri intendono «dentro» correttamente ma lo riferiscono al cuore di Laura (come tutti i commentatori antichi tranne Silvano da Venafro e come, tra i moderni, Santagata) e non a quello del poeta-amante (come propone invece, con Gesualdo, Bettarini), facendo comunque un uso più sensato della fonte pliniana nell’identificare gli occhi come «indicia animi», come segni e «fenestre» dell’animo, proprio come nelle parole che Dolce attribuisce ad Aretino.19 Più avanti nel secolo, l’associazione tra il verso «Ma spesso ne la fronte il cor si legge» e Plinio viene riproposta dal bresciano Bartolomeo Arnigio in una Lettura (1565) dedicata a Rvf 222, quasi certamente sulla scorta di Gesualdo:
Il volto (dice Plinio) è imagine et libro del cuor nostro, et massime gli occhi, ne’ quali come in lucidissimi specchi si rappresentan’ i nostri affetti et passioni; et massime in quelli che hanno l’anime sincere, pure, candide, et non simulatrici, com’era quella di Laura.20
È probabile che, insieme a Rvf 76, 11 («e ’l cor negli occhi et ne la fronte ò scritto»), 147, 5-6 («trova chi le paure et gli ardimenti/ del cor profondo ne la fronte legge») e 331, 52 («ne la fronte a madonna avrei ben lecto»), uno dei «diece» luoghi petrarcheschi cui Gesualdo allude sia il sonetto Solo et pensoso, nel quale il poeta-amante rifugge ogni presenza umana, in quanto i suoi «atti d’alegrezza spenti» ne rivelano all’esterno la sofferenza amorosa; per Rvf 35, 8, il commentatore propone infatti il già visto confronto con Triumphus Cupidinis III, 120:
[Rvf 76, 11] E ’l cor ne GLI OCCHI, che sono fenestre, onde appare la passione del cuore, e nella FRONTE, ch’è specchio di lui [i.e. del cuore] [...].
[Rvf 147, 5-6] Truova CHI, Madonna Laura, che ne la FRONTE, specchio d’humani affetti, LEGGE e vede apertamente le paure e li ardimenti del profondo cuore [...].
[Rvf 331, 52] Ne la FRONTE, come specchio del cuore [...].
[Rvf 35, 8] Di FUOR, nel volto si LEGGE, si vede, come se scritto vi fosse, com’egli avvampi et ame, DENTRO nel cuore, perché nella fronte si mostra dipinto qual sia la passione de l’anima, sì come egli in più luoghi dimostra, e spetialmente ove dice, A chi sa legger nella fronte il mostro.21
Per lo stesso luogo, Sebastiano Fausto da Longiano annota «Perché ogn’occolto suo pensiero era tirato in mezzo la fronte [...]», con implicito rinvio a Rvf 264, 97-98 («ch’ogni occulto pensero / tira in mezzo la fronte, ov’altri ’l vede»), mentre Daniello evidenzia la vicinanza del verso a Rvf 129, 12-13 («Di fuor si legge come dentro avampi, simile a quello: Tal ch’à la vista huom di tal vita esperto Diria: Questi arde»), isolando la chiusura di una strofa dedicata alle mutevoli manifestazioni delle passioni sul volto dell’amante.22
Precisamente Rvf 35, 8 sarà citato da Giovanni Andrea Gilio nel Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’ pittori circa l’istorie (1564), in un contesto molto vicino a quello del nostro dialogo: «Dianzi fu discorso che l’uomo dimostra ai segni esteriori gli affetti interiori; uno che è addolorato, lo dimostra come disse il Petrarca: Di fuor si legge come dentro avampi».23 Gilio riprende alcuni sintagmi del testo dolciano e al tempo stesso sceglie un verso che comprende il verbo «leggere» ma anche, verbatim, la contra-pposizione tra «dentro» e «fuori» sviluppata da Varchi e evocata dallo stesso Dolce, in un passo che precede immediatamente quello da cui siamo partiti.
Alla luce dei commenti, il passo di Dolce chiarisce un primo aspetto, internamente contraddittorio, del ruolo di Petrarca nelle riflessioni rinascimentali sull’arte, dove i riferimenti alla sua poesia si associano innanzitutto alla questione della possibilità di rappresentare l’interio- rità in forme visibili, estroflesse. Con un produttivo paradosso, per affermare la possibilità di mostrare l’anima dipingendo il corpo si ricorre all’autorità di chi per eccellenza ha affidato alla parola poetica l’espressione degli affetti amorosi e delle passioni fondamentali, e lo si fa richiamando un gruppo di testi petrarcheschi che, in diversi modi, descrivono il manifestarsi degli affetti all’esterno, sul volto. Coerentemente, per esemplificare, a beneficio dei pittori, i modi in cui la poesia rappresenta gli stati d’animo, non si citano versi lirici, che danno voce agli affetti del poeta-amante, ma ottave o parti di ottave tratte da poemi epico-narrativi, che mostrano gli affetti dei personaggi attraverso «atti» e gesti. Ad esempio, nelle sezioni del Trattato (1584) dedicate ai «moti» e agli «affetti», Lomazzo ricorda il «subito gaudio» di cui Isabella «si scolora» all’apparire di Zerbino, il pallore di Bradamante e la «mesticia» di Angelica che Ariosto «dipinge» nel canto VIII, e nel Libro Quinto, aggiunto alla traduzione del Della simmetria (1591) di Albrecht Dürer, Giovan Paolo Gallucci cita Ariosto e Tasso per illustrare come si debba raffigurare un uomo «iracondo et irato» oppure «una donna disperata» come Olimpia e Armida.24 Per la stessa ragione, le descrizioni di pose e sguardi di fanciulle e cavalieri sono preferite ai loro soliloqui, luoghi di interferenza tra lirica ed epica; così, Lomazzo non riporta il famoso lamento di Sacripante ma ne cita il «capo basso», insieme agli «occhi molli» e al «viso basso» per cui «si mostrava adolorato e lasso».25 Non sorprende allora che, nel lungo regesto di citazioni poetiche che chiude il libro degli affetti, Petrarca sia presente solo tre volte, due a proposito dell’«amore», con le quartine di Quel vago impallidir che ’l dolce riso (Rvf 123, 1-8) e l’incontro tra gli occhi sdegnosi dell’amata e quelli umili dell’amante in Rvf 179, 5-8; una terza, meno prevedibilmente, in merito alla «sollecitudine»: isolati a forza dall’intero di Rvf 33, i versi «levata era a filar la vecchiarella / discinta et scalza, e desto avea ’l carbone» (5-6) assumono l’aspetto di un frammento descrittivo-narrativo, senza alcuna memoria del suo originario contesto lirico.26
«Concetti d’amore» e «paesi»
Oltre a un aspetto tematico relativo all’oggetto dell’imitazione (gli «affetti»), la lirica in quanto poesia d’amore ha anche implicazioni strutturali, stilistiche e morali, che a loro volta contribuiscono a farne un paradigma fondamentale ma non dominante per la pittura. Come è noto, uno dei temi sui quali L’Aretino è costruito è l’opposizione tra la «leggiadria» e «grazia» di Raffaello e la «terribilità» di Michelangelo, cui sono associate rispettivamente la poesia di Petrarca e di Dante. Uno dei commentatori con i quali Dolce polemizza a questo proposito è certamente il fiorentino Giovan Battista Gelli, con il quale si era già scontrato in merito al giudizio di Bembo su Dante.27 Nelle sue lezioni dantesche tenute all’Accademia Fiorentina (1553-1562), Gelli accostava la rinascita della poesia per merito dei due toscani alla rinascita della pittura per mano di Giotto, ma sosteneva la superiorità di Dante su Petrarca, in aperta polemica con le posizioni di Bembo, ricorrendo a questo scopo anche al parallelo Dante-Michelangelo.28
In un passo del Dialogo della pittura in cui Michelangelo viene contrapposto a Raffaello attraverso Dante e Petrarca, Dolce rinvia proprio a una formula ricorrente in queste discussioni, tra Padova, Venezia e Firenze:
ARET. [...]. chi vede una sola figura di Michelagnolo, le vede tutte. Ma è da avertire che Michelagnolo ha preso del nudo la forma più terribile e ricercata, e Rafaello la più piacevole e graziosa; onde alcuni hanno comparato Michelagnolo a Dante e Rafaello al Petrarca.
FAB. Non m’andate inviluppando con sì fatte comparazioni, benché elle facciano in mio favore: perché in Dante ci è sugo e dottrina, e nel Petrarca solo leggiadrezza di stilo et ornamenti poetici. Onde mi ricorda che un frate minoritano, che predicò molti anni sono a Vinegia, allegando alle volte questi due poeti, soleva chiamar Dante Messer Settembre e il Petrarca Messer Maggio, alludendo alle stagioni, l’una piena di frutti e l’altra di fiori.29
L’argomentazione che contrappone i «frutti» e la «dottrina» di Dante ai «fiori» e alla «leggiadrezza di stilo» di Petrarca si presenta in termini molto simili nella Difesa della lingua fiorentina et di Dante (1556) di Carlo Lenzoni, che a sua volta ricorre al confronto tra Raffaello e Michelangelo nel rispondere ai Ragionamenti della lingua toscana (1545) di Bernardino Tomitano, citandolo alla lettera per rovesciarne le conclusioni in chiave antibembiana: «l’uno [Dante] di gravissimi concetti ricchissimo, sì come l’altro [Petrarca] di purissime parole abbondevole; questi di fiori si vede vagamente dipinto, quelli di frutti gustevoli et gratiosi si trova copioso».30 Questa costellazione di testi si regge su due gruppi di nozioni oppositive, che discendono dalla distinzione tra res e verba, tra inventio ed elocutio: «concetti»-«frutti»-«copioso» (Dante) e «parole»-«fiori»- «vagamente dipinto» (Petrarca). La stessa coppia di immagini è presente in Gelli, che però da un lato identifica Dante come il mese di settembre, che porta «molti, varii e ottimi frutti»,31 dall’altro rileva la superficialità del paragone tra Petrarca e il mese di maggio, riconoscendo alla sua poesia una dimensione di utilità morale, per altro già rivendicata da commentatori come Gesualdo e Daniello:
[...] a me par che s’ingannino di gran lunga coloro i quali hanno assimi- gliato il poema suo al maggio, dicendo che in quello non si trova altro che fronde e fiori a similitudine del mese di maggio; conciossiacosa che il mancamento proceda da loro stessi, i quali non hanno saputo trovare i preziosissimi frutti che sono ascosi sotto tali fronde, e mescolati con i suoi vaghi e bellissimi fiori.32
La specificità della posizione di Gelli è dimostrata da un altro luogo delle sue lezioni in cui l’accostamento Dante-Michelangelo viene sviluppato in modi che, a loro volta, illuminano l’ut poesis pictura attivo nella contrapposizione dolciana tra Dante e Petrarca. Il passo in questione, che fa parte della seconda lezione della terza Lettura dantesca, pronunciata e stampata nel 1556, non era sfuggito all’acribia di Paola Barocchi, ma ha finora ricevuto un’attenzione critica piuttosto limitata e raramente è stato letto alla luce degli scritti di poetica che lo precedono e lo seguono:33
Onde voi sarete finalmente forzati a confessare, che in questo Poeta [Dante] sia, oltre a la dottrina e alla grandezza de’ concetti, tanto grande l’arte nel sapere esprimergli, che questi ai quali piacciono più quegli altri poeti (che cercando molto più dilettare che giovare, scrivon con più leggiadria e più eleganza ch’ei sanno concetti e pensieri dolci d’amore) che non piace Dante, si possono assomigliare a quegli a’ quali piacciono più, per la vaghezza de’ colori e per la varietà de’ paesi che sono in quelle, le pitture fiandresche (per darvi uno esempio nella pittura, la quale è tanto simile alla poesia, che le pitture si chiamano poesie che non parlano, e le poesie pitture che parlano), che non farebbe un quadro di Michelagnolo, ove fussero in un campo scuro, e d’un color solo, che figure si volessero, che mostrassero, come egli è solito fare, e con le attitudini e con gli scorci, che l’arte, se ella potesse dare alle cose ch’ella fa la vita e il moto, come fa la natura, ella non arebbe da vergognarsi punto da lei; senza considerare, oltre a di questo, quanto ei sia maggiore arte il fare uno uomo, ch’è una delle più belle cose che facesse mai la natura, che stia bene e secondo il naturale, che non è il fare un paese o un arbore o un prato fiorito. Né sia alcuno che si maravigli che io abbia così detto di Michelagnolo più tosto che d’uno altro; ché io l’ho fatto per parermi ch’ei tenga quel luogo fra i pittori, che tiene Dante fra i poeti. E giudicando che sia detto ormai a bastanza in defensione di questa voce bufera, che non pare ad alcuni così leggiadra come ei vorreb- bono, torneremo al testo.34
All’interno del commento a Inferno V, 31-33, questa digressione nasce dall’intento di difendere l’uso dantesco della parola «bufera», che alcuni hanno considerato poco «leggiadra». Sempre in polemica con le posizioni di Bembo, Gelli intende dimostrare la superiorità di Dante non solo sul piano dei contenuti («la dottrina» e «la grandezza de’ concetti») ma dal punto di vista dello stile («l’arte nel sapere esprimergli»). Per farlo qui si affida a un doppio salto logico di grande efficacia retorica, rovesciando improvvisamente la prospettiva dalla poesia alla sua ricezione («tanto grande l’arte [...] che questi ai quali piacciono più [...]») e stabilendo un aggressivo paragone tra alcuni lettori e un certo tipo di spettatori davanti alla pittura («quegli a ’ quali»), e insieme tra Dante e certi «altri poeti». È importante sottolineare che l’attacco sembra diretto agli svenevoli imitatori di Petrarca più che al loro modello.35 In termini generali, Gelli sostiene che coloro che preferiscono tali poeti a Dante siano come quelli che, apprezzando la pittura dei fiamminghi più di Michelangelo, di fatto rovesciano una gerarchia data come evidente e indiscutibile, cioè quella affermata da Vasari, di cui Gelli riecheggia lo sprezzante giudizio sui «paesi tedeschi» indirizzato a Varchi a proposito del paragone tra pittura e scultura:
[...] et i paesi coi monti e coi fiumi, per via di prospettiva figurandoli, a tanta delettazione reca gli occhi di quegli che si dilettano e non si dilettano, che non è casa di ciavattino che paesi tedeschi non siano, tirati dalla vaghezza e prospettiva di quegli: [...].36
L’aspetto dell’arte di Michelangelo che viene isolato da Gelli è la rappresentazione del corpo umano «con le attitudini e con gli scorci», già centrale in Vasari e poi ripresa, in funzione critica, da Dolce (il nudo nella sua «forma più terribile e ricercata»). Gli «altri» poeti hanno per fine il diletto più che l’utile e pertanto privilegiano contenuti e forme che rispondano a questo scopo, cioè «concetti e pensieri dolci d’amore» (implicitamente contrapposti alla «dottrina» e ai grandi «concetti» di Dante) e una scrittura quanto più possibile leggiadra ed elegante. Secondo la logica della similitudine pittorica, «esempio» che Gelli legittima attraverso l’ut pictura poesis, queste caratteristiche della loro poesia trovano corrispondenza, in pittura, nella «vaghezza de’ colori» e nella «varietà de’ paesi» delle «pitture fiandresche». Se la «vaghezza» è un aspetto fondamentalmente stilistico, che fa il paio con la «leggiadria» e con l’«eleganza» perseguite da questi poeti e si può accostare all’idea di «piacevolezza» (iucunditas) tradizionalmente associata alla poesia lirica, la «varietà de’ paesi» sembra riguardare sia il «soggetto» di questi dipinti (paesaggi e elementi naturali) sia il modo in cui viene raffigurato; lo chiarisce il seguito del discorso, in cui la «maggiore arte» necessaria per saper rappresentare una figura umana viene contrapposta alla facilità di eseguire «un paese o un arbore o un prato fiorito». Su entrambi i piani, la «varietà de’ paesi» corrisponde ai contenuti prevalentemente amorosi della poesia di derivazione petrarchesca («concetti e pensieri dolci d’amore»), che stanno ai paesaggi fiamminghi come i grandi concetti della Commedia stanno alle figure umane in movi- mento di Michelangelo: proprio la «varietà», intesa in senso tanto tematico quanto stilistico e metrico, è infatti un tratto identificato come proprio della poesia lirica fin dall’antichità e ancora nel Rinascimento, come ha mostrato Marco Grimaldi, secondo il quale proprio la «varietà» di «affetti» teorizzata da Pomponio Torelli e altri trattatisti del Cinquecento medierebbe il passaggio dalla definizione antica della lirica come poesia accompagnata dalla lira a quella moderna della lirica come genere della soggettività.37
Attraverso il paragone con i «paesi» dipinti, i metaforici «fiori» tradi- zionalmente contrapposti ai «frutti» di Dante diventano allora anche fiori letterali, elementi inanimati resi oggetto di imitazione poetica e pittorica, sfumando il confine tra res e verba. Per il modo in cui stabilisce un parallelo tra i contenuti della poesia d’amore e i «paesi», contrapposti al grande viaggio epico della Commedia e alle figure umane di Michelangelo,38 il passo di Gelli si potrebbe confrontare con diversi luoghi delle discussioni tardo-cinquecentesche in materia di poesia lirica, ma in questa sede devo limitarmi a un solo esempio, di circa un decennio più tardo delle lezioni di Gelli ma sempre legato all’ambito delle accademie fiorentine. L’idea di maggiore piacevolezza e facilità associata ai paesaggi e alla poesia d’amore, in opposizione alla più impegnativa imitazione di azioni umane, si ritrova in una lettera di Filippo Sassetti, indirizzata a Giovan Battista Strozzi il Giovane il 19 novembre 1574; Sassetti intende suggerire a Strozzi, «maestro» del madrigale, una definizione di questa forma poetica che gli permetta di difenderla dagli attacchi di coloro che la criticavano su basi aristoteliche:
Sono di molte settimane che io vedeva che la diffinizione del madrigale era per travagliare la vostra Lezione[ovverola Lettione di Strozzi Sopra i madrigali, recitata all’Accademia Fiorentina nello stesso anno], avendo posto amore a quella imitazione, come quello che vorreste che questo poema, del quale voi sete il maestro, comparisse tra la tragedia, epopeia e commedia [...].39
Da subito, la lettera individua le difficoltà teoriche che Strozzi aveva incontrato nel tentativo di definire una forma che, come poeta, dominava, e le riconduce alla centralità da lui assegnata all’imitazione. Un altro membro dell’Accademia Fiorentina, Antonio degli Albizzi, aveva infatti sostenuto che la poesia lirica, di cui il madrigale è una specie, non avesse per soggetto esclusivamente le azioni umane, come le «vere poesie», ma al contrario le imitasse molto di rado, concentrandosi piuttosto su «ogne sorte di concetto»:
Voi mi diceste già [...] che messer Antonio degli Albizzi ancora egli era di parere che la poesia lirica, di cui è una spezie il madrigale, s’occupasse intorno ad ogni sorte di concetto, e non avesse le azioni umane solamente per suggetto, come hanno le vere poesie, tutto che circa queste ella si adoperasse, e talvolta imitandole [...]; ma io mi stimo che e’ [cioè i madrigali che imitano azioni umane] saranno una piccola cosa; talché tanto verrebbe a montare il dire che i madrigali fussono una imitazione d’azione, quanto il dire che la vernata fusse calda, perché un giorno fosse bel tempo.40
In prima istanza, Sassetti sembra legittimare la posizione di Albizzi e rafforzarla paragonando l’idea che i madrigali siano «imitazione d’azione» all’assurdità di concludere che un inverno sia caldo da un’unica giornata di sole. A suo parere, piuttosto che ostinarsi vanamente a provare che i madrigali imitano azioni, sarebbe più appropriato descriverli come imitazione di «concetti»:
Ora se per questa ragione [cioè pochissimi madrigali imitano azioni], perché per lo più e’ [i madrigali] contengono concetti di chi li compone, nati da avvenimenti amorosi, o da qualunque altra che stata ne sia la cagione, o una descrizione di tempo e di paese, che pur sono concetti che noi abbiamo nell’animo di quella tal cosa, veggiamo se noi possiamo chiamargli imitazione di concetto [...].41
Più avanti Sassetti raccomanda di sostituire la parola «imitazione» con «espressione», in quanto i madrigali spesso non imitano discorsi o azioni, ma esprimono «i concetti di chi li compone», cioè le immagini mentali di tali cose, come vengono definite, ad esempio, nei Discorsi dell’arte poetica (1587) di Tasso («imagini delle cose che nell’animo nostro ci formiamo variamente»).42
Implicitamente, Sassetti sembra identificare la natura non diegetica delle descrizioni «di tempo e di paese», ovvero di condizioni atmosferiche (o stagioni o ore del giorno) e di paesaggi e elementi naturali, per opposizione rispetto alla componente narrativa della rappresentazione di eventi («avvenimenti», amorosi o meno). La questione viene affrontata in maniera esplicita nella lezione Sopra i madrigali, recitata da Strozzi nel 1574 ma a stampa solo nel 1635:
Il madrigale è imitatione d’attione gentile picciola, fatta per via di narratione con versi in rima, non sottoposti a numero, né a maniera di rimare. [...] Ma perché in tutti i madrigali non è attione humana, bisogna ricordarsi di quello che si disse di sopra, dove e’ si mostrò che e’ conveniva al poeta dare attione a tutte le cose; e così non si verranno a escludere quegli altri, che contengono operatione humana e sono nondimeno poesie molto vaghe, sì come sono alcuni che altro non fanno che descrivere l’apparire dell’Aurora, percioché la vaghezza loro in questo consiste, che e’ non ne parlano in quella guisa che farebbe uno astronomo o un filosofante, ma dicono che ella apre con la sua mano argentata la porta d’Oriente, e che ella spiega lassù un velo vermiglio e sparge su l’herba delle perle di rugiada, e mille altre attioni sì fatte attribuendo le vanno. Imitisi dunque attione humana o no, poiché e’ vi è sempre il componimento e la fintione di alcuna cosa operante, ne risulterà che in tutti sia qualche favola, non essendo la favola altro che questo.43
Questo ragionamento, insieme a molti altri passi della lezione, risolve l’apparente contraddizione tra descrizione «di tempo e di paese» e imitazione, in quanto le descrizioni poetiche di condizioni atmosferiche, di fenomeni naturali e di paesaggi possono essere filtrate attraverso travestimenti metaforici che attribuiscono «attioni» ad elementi naturali: la presenza strutturata di tali processi («il componimento e la fintione di alcuna cosa operante») fa sì che anche in questi testi poetici sia possibile identificare una «favola» in senso latamente aristotelico, per quanto essa non coinvolga «attione humana». Strozzi sembra qui ris- pondere a un argomento proposto nelle Annotationi nel libro della Poetica di Alessandro Piccolomini, stampate nel 1575 ma scritte alcuni anni prima, dove il legame tra la poesia lirica e la descrizione di elementi naturali non accompagnata da altre forme di imitazione viene sottolineato per provare che i sonetti e simili testi poetici non imitano in senso proprio:
[...] qualunque imitasse o descrivesse nel suo parlare un farsi notte, un farsi giorno, o una inondatione d’un fiume, o la venuta della primavera, o altra cosa naturale; o veramente imitasse et descrivesse un palazzo, una città, un tempio o altra artifitiosa cosa, et in così fatte imitationi si finisse, et si terminasse, [...] non potrebber questi [sic] imitationi propriamente et legittimamente attribuir a sé il vero nome di poesia, ma solo impropriamente, com’accade in alcuni epigrammi alle volte, o in alcuni sonetti [...].44
Nel discorso sviluppato da Strozzi e da Sassetti da un lato si tende a distinguere la descrizione-imitazione «di tempo e di paese» dall’imitazione di azioni, dall’altro si tenta di ricondurre anche tali descrizioni nell’alveo della nozione di «favola», a questa altezza già ampiamente applicata anche alla lirica e a singoli componimenti, tanto in commenti e lezioni su Petrarca quanto in scritti di poetica (si pensi, tra gli altri, a Daniello e Castelvetro).
Il passo di Gelli, e più in generale l’idea di poesia che emerge dalle sue lezioni dedicate a Dante e a Petrarca, sta invece a monte di questa concezione, fondandosi non sul tentativo di conciliare «favola» e lirica ma piuttosto sull’enfatizzazione del loro contrasto, nella forma di una contrapposizione tra Dante e i poeti d’amore, tra poesia epico-narrativa e poesia lirica, tra unità e frammentazione, tra imitazione di azioni e imitazione di affetti amorosi, tra grandezza e piccolezza di «concetti», a netto favore del primo polo. Il suo riconoscimento della «dottrina» e dell’utilità della poesia di Petrarca riguarda infatti il piano morale e conoscitivo e non quello strutturale e narrativo. In questo senso, quando ricorre all’ut pictura poesis per screditare i «concetti d’amore» dei petrarchisti, il suo modo di intendere i «paesi» sembra debitore, attraverso Vasari, di una tradizione che risale a Plinio e sarà riecheggiata anche in Gilio a proposito della licenza poetica e pittorica, il cui limite, orazianamente, coincide con la convenienza e verosimiglianza:
Non manca in che possa aver la libertà sua il pennello ne le cose poetiche e finte, come abbiamo detto di sopra dei paesi, dei quali Ludio pittore, che fu al tempo d’Augusto, ne fu inventore. Primamente egli dipinse il mare con le navi; ne le ville, chi arava la terra, chi caminava, chi sedeva, chi stava, chi dormiva. Dipinse ancora le città, i palazzi, le ville, l’amenità de’ paesi; il che vagamente ora fanno i Fiammenghi. In queste cose sarà la licenza del pittore: se vorrà anche dipingere il giorno, la notte, il cielo sereno o pieno di nuoli, il sole, la luna, le stelle, il mare, i fiumi, i laghi, i fonti, chi peschi, chi nuoti ne l’acqua, chi faccia una cosa e chi un’altra. Apelle fu il primo che dipinse le pioggie, le tempeste, i folgori, i tuoni, le grandini e le nevi.45
A sua volta, Borghini muove da questi passi di Gilio e dalla sua distinzione tra pittore «poetico», «istorico» e «misto» per osservare che, quando l’invenzione pittorica non deriva dalla poesia o dalla storia, l’artista è più libero: se il pittore «finge paesi o altre cose che né da poesia né da istoria dipendono, onde acquista il nome di misto, può alquanto più allargarsi», pur nel rispetto della verosimiglianza di luoghi e condizioni.46 Poco più avanti, Borghini propone un esempio che ribadisce precisamente la natura digressiva e accessoria di descrizioni come quelle che abbiamo visto discusse da Piccolomini e da Strozzi:
Sono ancora alcuni poeti che, avendo ritrovato qualche bella descrizzione dell’arco celeste o dell’Aurora, parendo loro aver fatto una bella cosa, in ogni scritto, come che poco a proposito vi faccia, la pongono; sì come alcuni pittori che, dipignendo bene un arcipresso o un cane o altra cosa, in ogni pittura che fanno, avvengaché punto non vi si confaccia, vogliono che si vegga [...].47
Attraverso il paragone con queste descrizioni poetiche, alla pittura di «paesi», elementi naturali e condizioni atmosferiche viene associata un’idea di estemporaneità e fungibilità che ne rafforza la dimensione di piacevolezza varia e superficiale; tale dimensione, nel ragionamento di Gelli, è coerente con la nozione di lirica come poesia facile, discontinua e non strutturata intorno a una favola unitaria:
[...] tutti gli altri poeti volgari [che non sono Dante] [...] o eglino scrivono concetti amorosi in canzoni, sonetti, madrigali e altri poemi simili, i quali oltre al non essere obligati alla continuazione (con ciò sia cosa ch’ei possino dire quando ch’erano lieti, e quando ch’erano mesti, e quando lodarsi e quando dolersi di amore, secondo che aggrada più loro e ch’ei veggon di poter dir più leggiadramente), ei possono finire ove ei vogliono le loro opere, ch’elle son sempre perfette, e se eglino hanno fatto per grazia di esempio cento sonetti, mandarne a luce solamente quei tanti che piaccion più loro, o ch’ei giudicon che sian più belli e migliori [...].48
La varietà, la vaghezza e la facilità accomunano «concetti amorosi» e «paesi», disegnando un fronte lirico definito per opposizione rispetto alla gravità di concetti e all’unità strutturale dell’epica, che rappresenta azioni e figure umane.
Tornando al Dialogo della pittura, è allora possibile aggiungere qualche tratto alla «forma piacevole e graziosa» che per Dolce, sulla scorta di Castiglione, accomuna Raffaello e Petrarca:
[...] ricercando più tosto nome di leggiadro che di terribile, e ne acquistò insieme un altro, ché fu chiamato grazioso; percioché, oltre la invenzione, oltre al disegno, oltre alla varietà, oltre che le sue cose tutte movono sommamente, si trova in loro quella parte che avevano, come scrive Plinio, le figure di Apelle: e questa è la venustà, che è quel non so che, che tanto suole aggradire, così ne’ pittori come ne’ poeti, in guisa che empie l’animo altrui d’infinito diletto, non sapendo da qual parte esca quello che a noi tanto piace. La qual parte, considerata dal Petrarca, mirabile e gentil pittore delle bellezze e delle virtù di Madonna Laura, lo mosse a così cantare:
E un non so che negli occhi, che in un punto
Pò far chiara la notte, oscuro il die,
E ’l mele amaro, et addolcir l’ascenzio.
FAB. Questa, che voi dite venustà, è detta da’ Greci charis, che io esporrei sempre per «grazia».
ARET. [...] Il che è segno di grandissima perfezzione, come anco negli scrittori, che i migliori sono i più facili: come, appresso voi dotti, Virgilio, Cicerone, et appresso noi il Petrarca e l’Ariosto.49
La «grazia» attribuita a Raffaello è una qualità che si trova tanto nei pittori che nei poeti e viene identificata essenzialmente attraverso il «diletto» che provoca nei lettori-spettatori; la sua natura sfuggente e indefinibile («quel non so che») viene espressa proprio citando l’ultima terzina di un sonetto-elogio di Laura, In nobil sangue vita humile et queta (Rvf 215, 12-14). La pur convenzionale designazione di Petrarca come «pittore» delle qualità esteriori e interiori dell’amata non appare generica in questo contesto, in quanto permette a Dolce sia di rafforzare l’ut pictura poesis, affiancando un modello esemplare per la descriptio pulchritudinis a quello offerto dall’Alcina del poeta- pittore Ariosto, sia di rievocare indirettamente la nozione di imitazione selettiva.50 Nella prospettiva di Dolce, la «vaghezza» e la facilità che Gelli attribuiva alla poesia d’amore e ai «paesi» diventano qualità di segno positivo, con un aspetto specificamente stilistico che è debitore dei trattati di poetica, come sarà più evidente in Gilio e in Comanini. L’identificazione di Petrarca con la «facilità» e con la «vaghezza» è dimostrata, e contrario, dall’anomala difficoltà di Mai non vo’ più cantar com’io soleva (Rvf 105), portata come controesempio da Gilio:
Sono alcuni che gli pare d’aver rinovato il fonte pegaseo, quando hanno fatto qualche sonetto o altro che non s’intende, non considerando che il Petrarca, se in lui non fussero state l’altre vaghezze per le quali s’è fatto immortale, per la canzone che fece ‘Mai non vo’ più cantar’ sarebbe stato compagno di frate Baldassarre Olimpio; perché, se non voleva essere inteso, non cadeva far quella canzone.51
Pur attraverso valutazioni di segno opposto, uno stesso paradigma critico sembra dunque unire la «vaghezza» dei paesaggi fiamminghi ai poeti d’amore (in Gelli) e la «grazia» di Raffaello a Petrarca (in Dolce); a sua volta, tale carattere della poesia petrarchesca e post- petrarchesca è affine alla «vaghezza» che Strozzi attribuisce al madrigale, e per estensione alla poesia lirica. Pur riconoscendo piena dignità al madrigale, per questa forma Strozzi sconsigliava la gravità e l’oscurità delle allegorie, a meno che non si accompagnassero alla grazia di cui Petrarca era stato capace nel madrigale Perch’al viso d’Amor portava insegna (Rvf 54):
Fuggiamo adunque noi un così fatto modo [cioè oscuro], se vogliamo che altri c’intenda, il che noi agevolmente otterremo, se principalmente schiferemo l’allegorie, che sogliono havere del grave e dello scuro. È ben vero che il Petrarca ne’ suoi ne ha usata qualcuna, e spetialmente in quello:
Perche al viso d’Amor portava insegna.
Ma quivi ha una di quelle che portano seco gentilezza e perciò nello stile gratioso sono ammesse da’ maestri in rettorica.52
Il legame tra varietà e stile grazioso è confermato indirettamente dai tratti attribuiti alla personificazione del «Poema Lirico» nella descrizione, dovuta a Bastiano de’ Rossi, dell’apparato allestito in occasione delle nozze di Ferdinando de’ Medici e Cristina di Lorena (1589), per il quale Strozzi aveva ideato le figure da collocare nelle nicchie dell’ultimo gradone della cavea del teatro mediceo degli Uffizi:53
Il Poema Lirico [...] una giovane donna con lira in mano, abito vario, ma grazioso, attillato e stretto, a manifestare che sotto una sola più cose vi si contengono [...].54
L’idea di lirica che ne emerge è affine a quella attiva nella lezione sui madrigali e implica una rivalutazione della varietà e della vaghezza che Gelli contrapponeva alla grandezza di Dante e Michelangelo e insieme il riconoscimento dei molti soggetti e significati che si possono affidare alle forme liriche.
Come spero di aver suggerito con queste riflessioni ispirate dal Dialogo della pittura, la presenza di Petrarca nei trattati d’arte non è numericamente imponente ma riguarda due aree fondamentali del confronto tra pittori e poeti, oltre alla nozione di bellezza ideale, cui i Fragmenta contribuiscono attraverso il canone della descriptio e il tema di Laura come capolavoro della natura: da una parte, la questione della resa pittorica degli affetti, in merito alla quale Petrarca non è richiamato come modello lirico da imitare per rappresentare le passioni ma piuttosto citato come auctoritas su cui fondare il ricorso ai «moti» dei personaggi di Ariosto e Tasso – fonti poetiche che, di fatto, da Petrarca derivano, ma attraverso interferenze tra lirica ed epica che fanno il gioco della pittura; dall’altra parte, la definizione di un modello stilistico «lirico» che, nell’investire insieme aspetti dell’inventio e dell’elocutio, legittima e rivendica la difficile facilità di «concetti d’amore» e «paesi», negoziando uno spazio non epico e non diegetico per la pittura e per la poesia all’interno delle poetiche normative.
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1 Giovanni Paolo Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scoltura e architettura [1584], in Roberto Paolo Ciardi (a cura di), Scritti sulle arti, Firenze, Marchi e Bertolli, 1973, II, p. 420 («[...] come disse il Petrarca, “pingon cantando, chiari e veraci” [...]»). Nello stesso ambito metaforico, sia Varchi sia Dolce rinviano a Triumphus Fame, III.15, che citano rispettivamente nella forma «primo pintor delle memorie antiche» (Benedetto Varchi, Lezione della maggioranza delle arti, in Paola Barocchi (a cura di), Trattati d’arte del Cinquecento tra Manierismo e Controriforma, Bari, Laterza, 1960-62, I, pp. 1-82, p. 53) e «Saggio pittor delle memorie antiche» (Lodovico Dolce, Dialogo della pittura, intitolato l’Aretino, in Trattati d’arte, cit., I, pp. 141-206, p. 155), ma solo Dolce esplicita il riferimento a Omero. Tutte le citazioni dai Rerum vulgarium fragmenta saranno tratte da Francesco Petrarca, Canzoniere, M. Santagata (a cura di), Milano, Mondadori, 1996 [Rvf] e quelle dai Triumphi de id., Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, V. Pacca e L. Paolino (a cura di), Milano, Mondadori, 1996.
2 B. Varchi, cit., p. 40.
3 Cfr. Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, P. Barocchi et al. (a cura di), III [1568], p. 439 (per Giovanni Bellini) e II, p. 192 (per Simone Martini). Nella versione torrentiniana (1550) della Vita dei Bellini si trova solo il riferimento a Bembo. Sulla fortuna dell’elogio poetico del ritratto mi permetto di rinviare a Federica Pich, I poeti davanti al ritratto. Da Petrarca a Marino, Lucca, Pacini Fazzi, 2010.
4 Oltre al fondamentale Michael Baxandall, Giotto and the Orators: Humanist Observers of Painting in Italy and the Discovery of Pictorial Composition, 1350-1450, Oxford, Oxford University Press, 1971, ricordo i numerosi riferimenti alla Poetica (1536) di Bernardino Daniello presenti nelle note di P. Barocchi alla sua edizione di L. Dolce, cit., e, per l’influenza della Poetica aristotelica, Marco Sgarbi, Ludovico Dolce e la nascita della critica d’arte. Un momento della ricezione della poetica aristotelica nel Rinascimento, «Rivista di estetica», 59 (2015), pp. 163-182 consultato il 16 luglio 2018. http://journals.openedition.org/estetica/350; DOI: 10.4000/estetica.350 (ultima consultazione 13 luglio 2019).
5 Cfr. Guglielmo Frezza, Sul concetto di ‘lirica’ nelle teorie aristoteliche e platoniche del Cinquecento, «Lettere italiane», 53 (2001), pp. 278-294.
6 L. Dolce, cit., pp. 152-153 (corsivi miei). Cfr. Mark W. Roskill, Dolce’s Aretino and Venetian Art Theory of the Cinquecento, New York, College Art Association, 1968.
7 B. Varchi, cit., p. 55: «Bene è vero che, come i poeti discrivono ancora il di fuori, così i pittori mostrano quanto più possono il di dentro, cioè gli affetti [...]».
8 Sulla specificità della natura dialogica dell’Aretino si è soffermata Valeska von Rosen, Multiperspektivität und Pluralität der Meinungen im Dialog: zu einer vernachlässig- ten kunsttheoretischen Gattung, in Valeska von Rosen et al. (Hrsg.), Der stumme Diskurs der Bilder: Reflexionsformen des Ästhetischen in der italienischen Kunst der Frühen Neuzeit, München / Berlin, Deutscher Kunstverlag, 2003, pp. 317-336, mentre gli aspetti derivati dalla retorica epidittica sono stati messi in rilievo da Carl Goldstein, Rhetoric and Art History in the Italian Renaissance and the Baroque, «Art Bulletin», 73, 4 (1991), pp. 641-652.
9 Leon Battista Alberti, De pictura (II, 41) in id., Cecil Grayson (a cura di), Opere volgari, Roma-Bari, Laterza, 1973, III, p. 71; Paolo Pino, Dialogo di pittura, in Trattati d’arte, cit., p. 107.
10 Cfr. Mario Andrea Rigoni, Una finestra aperta sul cuore, «Lettere italiane», XXVI (1974), pp. 434-458, Lina Bolzoni, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino, Einaudi, 1995, pp. 154-164, Maria Pia Ellero, Narciso e i Sileni: il ritratto mentale nella lirica da Lorenzo a Tasso, «Italianistica», XXXVIII, 2 (2009), pp. 271-283, specie p. 279.
11 Per un uso a parte subiecti e a parte obiecti dell’immagine degli occhi come «fenestre dell’animo» cfr. Massimiliano Rossi, Un metodo per le passioni negli scritti d’arte del tardo Cinquecento, in Alessandro Pontremoli (a cura di), Il volto e gli affetti. Fisiognomica ed espressione nelle arti del Rinascimento, Atti del Convegno di studi (Torino, 28-29 novembre 2001), Firenze, Olschki, 2003, pp. 83-102, rispettivamente p. 87, dove si cita dalla lettera di dedica di Giovan Paolo Gallucci premessa a Albrecht Dürer, Della simmetria dei corpi humani libri quattro [...] et accresciuti del quinto libro [...], Venetia, Presso Domenico Nicolini, 1591, c. 2r («[...] per li occhi, che in noi rapresentano quei divini lumi, che per natura immortali sono, come per fenestre dell’animo nostro, mentre elli sta rinchiuso in questa prigione [...]») e p. 94, dal suo Libro quinto, ibid., cc. 140v-141v («Gli occhi, che fenestre dell’animo sono detti, haveno tanta forza nel movere i riguardanti, che in quelli pare che sia posta la somma di questo negocio di spiegare gli affetti dell’animo per mezzo di quelle cose che cascano sotto a i sensi»).
12 I riferimenti sono segnalati da Barocchi in Trattati d’arte, cit. 1, p. 445.
13 Nel trascrivere dai commenti cinquecenteschi ho seguito criteri moderatamente conservativi, limitandomi a distinguere u da v, a sciogliere le abbreviazioni e a separare le parole secondo l’uso moderno, al quale ho adeguato anche le maiuscole (tranne nel caso di parole interamente evidenziate dal maiuscolo nei commenti), la punteggiatura e i segni diacritici. Alessandro Vellutello, Le volgari opere del Petrarcha con la espositione di Alessandro Vellutello da Lucca, Venezia, Giovanniantonio [Nicolini] e fratelli da Sabbio, 1525, c. 93v: «[...] imitando Ovidio nella XI elegia ove dice, Aspicias oculos mando frontemque legentis, Et tanto [sic] vultu scire futura licet, che nel partir da lei, per lo oscurar della sua alta bellezza et per i suoi occhi, li quali tutti rugiadosi, cioè lagrimosi haveano veduti fare, comprendevano ella esserne trista et di mala voglia restata». Bernardino Daniello, Sonetti, Canzoni e Triomphi di Messer Francesco Petrarcha con la spositione di Bernardino Daniello da Lucca, Venezia, Giovanniantonio de Nicolini da Sabio, 1541, c. 136v:«Ovidio: Aspicias oculos mando, frontemque legentis, ex tacito vultu scire futura licet. E per questi segni, che furono, oscurar l’alta bellezza e tutti rugiadosi gli occhi suoi, cioè pieni di lagrime, dimostrano ch’ella contra sua voglia e non volontariamente a casa si rimanesse».
14 Giovanni Andrea Gesualdo, Il Petrarcha colla spositione di Misser Giovanni Andrea Gesualdo, Venezia, Giovanni Antonio di Nicolini e fratelli da Sabbio, 1533, c. CCLXXIIIIv; cfr. il commento di Gesualdo a Triumphus Cupidinis III, 120.
15 Ibid., c. CCLXXVIv.
16 Plinio, Naturalis Historia, XI. 54, 145: «[...] neque ulla ex parte maiora animi indici cunctis animalibus, sed homini maxime, id est moderationis, clementiae, misericordiae, odii, amoris, tristitiae, laetitiae. contuitu quoque multiformes, truces, torvi, flagrantes, graves, transversi, limi, summissi, blandi: profecto in oculis animus habitat. ardent, intenduntur, umectant, conivent [...]» (cfr. Pliny, Natural History, Harris Rackham (a cura di), London, Heinemann-Cambridge, MA, Harvard University Press, 1938-1963, III, p. 522).
17 G. A. Gesualdo, cit., c. XCVIIIv, corsivi miei.
18 «[...] dice che l’amoroso pensiero che alberga et sta in loro occhi, ad imitatione di Plinio al XXVII capitolo del secondo libro della sua historia naturale, ove dice Profecto animus in oculis inhabitat» (A. Vellutello, cit., c. 34r).
19 È significativo che B. Daniello, cit., c. 106r, menzioni Rvf 71, 91-92 a proposito di Rvf 151, 13-14: «[...] a parte a parte entr’ a’ begli occhi leggo quant’io parlo d’amore, e quant’io scrivo, simile a quello: L’amoroso pensiero, ch’alberga dentro in voi mi si discopre».
20 Bartolomeo Arnigio, Lettura di Bartolomeo Arnigio letta publicamente sopra ’l sonetto Liete, pensose, accompagnate, e sole, ove si fa breve discorso intorno alla invidia, all’ira, et alla gelosia, Brescia, [Francesco & Pietro Maria Marchetti], 1565, c. [I4].
21 G. A. Gesualdo, cit., rispettivamente c. CIXv, c. CCIIIIv, c. CCCLIIIIr e c. LIIv (corsivi miei). Tra le «molte belle e affigurate forme di dire usate dal Petrarca» elencate da Dolce nella relativa Tavola presente in alcune delle sue numerose edizioni di Petrarca, segnalo le formule «legger gli ardimenti del cor nella fronte» e «legger ne gli occhi, quanto si scrive» (Il Petrarca nuovamente revisto, e ricorretto da messer Lodovico Dolce con alcuni dottissimi auertimenti di messer Giulio Camillo, Venezia, Gabriele Giolito, 1557, Seconda parte, con frontespizio separato, c. 33v).
22 Sebastiano Fausto da Longiano, Il Petrarcha col commento di M. Sebastiano Fausto da Longiano, con rimario et epiteti in ordine d’alphabeto, Venezia, Francesco di Alessandro Bindoni e Mapheo Pasini, 1532, c. 16v e B. Daniello, cit., c. 29v.
23 Giovanni Andrea Gilio, Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’ pittori circa l’istorie, in Trattati d’arte, II, p. 75.
24 G. P. Lomazzo, cit., pp. 421, 425 e 116 (per altri esempi da Ariosto e da altri poeti, con analoga funzione, cfr. ibid., pp. 421-458) e cfr. il Libro quinto, aggiunto da Gallucci in Dürer, cit., c. 129r-v e c. 133r.
25 G. P. Lomazzo, cit., p. 114.
26 Ibid., p. 455 e p. 448, ma cito i versi da Petrarca, Canzoniere, cit.
27 Cfr. Simon Gilson, Reading Dante in Renaissance Italy. Florence, Venice and the ‘Divine Poet’, Cambridge, Cambridge University Press, 2018, p. 148 e p. 316, nota 19.
28 Giovan Battista Gelli, Letture edite e inedite di Giovan Battista Gelli sopra la Commedia di Dante, Carlo Negroni (a cura di), Firenze, Bocca, 1887, I, p. 289.
29 L. Dolce, cit., pp. 193-194 (corsivi miei).
30 Bernardino Tomitano, Ragionamenti della lingua toscana dove si parla del perfetto oratore, et poeta volgari [...], Venezia, Giovanni de Farri et Fratelli, 1545, p. 233, ripreso in Carlo Lenzoni, In difesa della lingua fiorentina et di Dante [...], Firenze, [Lorenzo Torrentino], 1556; cfr. ibid., p. 10 («Et così come il Petrarca imparò da Dante et non lo superò, se ben fece divinamente; così Rafaello non ha superato Michelagnolo, se bene paion fatte in Paradiso le sue pitture»). Per questi testi rinvio alla ricostruzione di S. Gilson, cit., passim.
31 G. B. Gelli, cit., I, 17. Sul parallelo Dante-Settembre, Petrarca-Maggio, cfr. Teresa Chevrolet, L’idée de fable: theories de la fiction poétique à la Renaissance, Genève, Droz, 2017, p. 430, e S. Gilson, cit., p. 148 e p. 316, nota 19. In B. Tomitano, Ragionamenti, cit., p. 239, Speroni definisce Petrarca «il fiorito Aprile».
32 G. B. Gelli, Lezioni petrarchesche, Carlo Negroni (a cura di), Bologna, Romagnoli, 1884, p. 292.
33 Cfr. David Summers, Michelangelo and the Language of Art, Princeton, Princeton University Press, 1981, pp. 332-334 e soprattutto Laura Camille Agoston, Male/Female, Italy/Flanders, Michelangelo/Vittoria Colonna, «Renaissance Quarterly», 58, 4 (2005), pp. 1175-1219 (pp. 1198-1199), che riflette su un celebre passo del secondo libro del Da pintura antigua (ca. 1541-1548) di Francisco de Holanda nel quale tra i vari oggetti dipinti dai fiamminghi si elencano l’erba verde dei prati, l’ombra degli alberi e i paesaggi.
34 G. B., Letture, cit., I, pp. 330-331 (su Inferno V, 31-33).
35 Su questo aspetto mi permetto di rinviare a F. Pich, Dante and Petrarch in Giovan Battista Gelli’s lectures at the Florentine Academy, in Lorenzo Pericolo et al. (a cura di), Remembering the Middle Ages in Early Modern Italy, Turnhout, Brepols, 2015, pp. 169-191.
36 La lettera di Giorgio Vasari si legge in B. Varchi, cit., pp. 59-63 (p. 61).
37 Marco Grimaldi, Petrarca, il «vario stile» e l’idea di lirica, «Carte Romanze», 2 (2014), pp. 151-210; per la ricezione cinquentesca del «vario stile» cfr. Luca Marcozzi, Il «vario stile» di Petrarca nei commenti del Cinquecento al canzoniere, «Scaffale Aperto», I (2010), pp. 55-90.
38 C. Lenzoni, cit., p. 46, evoca Michelangelo scultore nel sostenere la conformità ante litteram del poema dantesco ai precetti di Aristotele «per la Epopeia, cioè per la Poesia Eroica»: l’«ordine» del poema è «tanto perfetto et manifesto» che alterarlo significherebbe guastare «quella bellezza et grazia, che da la sua perfetta et universale proporzione, quasi da la notte o da’l Mosè di Michelagnolo, a gli occhi dell’intelletto nostro si rappresenta» (ibid., p. 47); aggiungere o togliere qualcosa alle descrizioni dantesche sarebbe «come se altri aggiugnesse o levasse a qual si voglia parte della Pietà et di qualunche altra statua si sia del divinissimo Buonarroto» (ibid., p. 48).
39 Filippo Sassetti, Lettere edite e inedite, Ettore Marcucci (a cura di), Firenze, Le Monnier, 1855, pp. 63-67, in particolare pp. 63-64 (ms. Magliab. Cl. VIII, n. 1399).
40 Ibid., pp. 64-65.
41 Ibid., p. 65.
42 Torquato Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, Luigi Poma (a cura di), Bari, Laterza, 1964, p. 50.
43 Giovan Battista Strozzi, Sopra i madrigali, in id., Orazioni et altre prose [...], In Roma, nella stampa di Lodovico Grignani, 1635, pp. 172-173 (corsivi miei). Cfr. Francesco Rossini, «Strozzi, con dubbia palma in te contende / di Pallade il saper, di Febo l’arte»: i giovanili madrigali per musica di Giovan Battista Strozzi il Cieco tra poesia e riflessione letteraria, in Lorenzo Battistini et al., (a cura di), Roma, Adi editore, 2018, http://www.italianisti.it/upload/user-files/files/panel%20napoli%202016%202%20%28rossini%29.pdf, consultato il 18 luglio 2018, cui rinvio anche per la bibliografia pregressa sulla lezione.
44 Alessandro Piccolomini, Annotationi di M. Alessandro Piccolomini nel libro della Poetica d’Aristotele; con la traduttione del medesimo libro, in lingua volgare, Venezia, Giovanni Guarisco, & Compagni, 1575, Il Proemio, carte non numerate [†† 5r]
45 G. A. Gilio, cit., p. 22 (corsivi miei). Cfr. Plinio, Naturalis Historia, XXXV,116 e B. Varchi, cit., p. 37.
46 Raffaello Borghini, Il Riposo (1584), cfr. Paola Barocchi (a cura di), Scritti d’arte del Cinquecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1971-1977, III, p. 340.
47 Ibid., p. 346 (corsivi miei).
48 G. B. Gelli, cit., I, 327.
49 L. Dolce, cit., pp. 195-196 (corsivi miei).
50 Ibid., pp. 172-174, dove le ottave ariostesche vengono citate subito dopo il riferimento all’aneddoto di Zeusi. A proposito dell’«idea», non mi addentro nella dibattuta questione della lettera di Raffaello a Castiglione, per la quale rinvio a un intervento di Uberto Motta, di prossima pubblicazione negli Atti del convegno Petrarca e le arti figurative (Basilea, 10-12 ottobre 2018), A. M. Terzoli e S. Schütze (a cura di), Berlin, De Gruyter, in corso di stampa. Il motivo di tutte le bellezze riunite in un solo corpo, affine e spesso contiguo al paradigma dell’electio, viene illustrato da Gallucci proprio con un testo petrarchesco, Rvf 350 (Libro Quinto, in Dürer, cit., c. 125).
51 G. A. Gilio, cit., p. 99.
52 G. B. Strozzi, cit., p. 183.
53 Massimiliano Rossi, Per l’unità delle arti: la poetica «figurativa» di Giovambattista Strozzi il Giovane, «I Tatti Studies», 6 (1995), pp. 169-213.
54 Bastiano de’ Rossi, Descrizione dell’apparato e degl’intermedi. Fatti per la commedia Rappresentata in Firenze. Nelle nozze de’ Serenissimi Don Ferdinando Medici, e Madama Cristina di Lorena, Gran Duchi di Toscana, in Firenze, Per Anton Padovani, 1589, p. 14.