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Introduzione
La vastità di implicazioni sociali, politiche e confessionali insite nel dibattito religioso europeo della prima età moderna ha segnato anche la cultura letteraria della penisola italiana, lasciando delle tracce profonde negli scritti in versi e in prosa del tempo. In un momento in cui la questione dell’accesso diretto al testo biblico nelle lingue vernacolari finisce rapidamente per trasformarsi in una sorta di discrimine (quando non in una vera e propria trincea) tra eterodossia e ortodossia – e ciò nonostante l’ampia e capillare circolazione di traduzioni bibliche e “riscritture” sacre –, la produzione letteraria sembra offrire ancora un margine di manovra a quanti si cimentino nella scrittura a sfondo religioso. Non mancano tuttavia allusioni, espliciti rinvii e digressioni sul dibattito religioso in atto anche in testi poetici illustri, come nel Furioso, in cui l’aspetto confessionale figura in secondo piano, talvolta quasi in modo accidentale, e che sembrerebbero aver poco a che spartire con delle raccolte che si iscrivono volontariamente in una dinamica spiritualistica, mistica o di catechesi.
Gli studi su poesia e religione che proponiamo in questo numero di Italique intendono appunto indagare tanto una serie di questioni generali quanto dei generi o delle opere specifiche che, tra Quattrocento e Cinquecento, testimoniano della moltitudine di spunti retorici, tematici e confessionali che permeano il discorso religioso. Si son voluti privilegiare approcci critici diversi, che talvolta si situano alla frontiera tra discipline o che mettono in rilievo raccolte poco note o del tutto sconosciute. Dal confronto dei generi e delle analisi critiche di storici, linguisti e filologi emerge un panorama poetico estremamente variegato, ma si rileva anche un quadro interpretativo diversificato, quando non divergente, nell’interpretazione di fenomeni poetici simili. Sono in tal modo emersi nodi problematici significativi che susciteranno, come auspichiamo, ulteriori approfondimenti. Di certo, una più attenta comprensione dell’apporto dell’umanesimo fiorentino non solo alla filologia biblica quattro e cinquecentesca, ma anche alla produzione di liriche in latino e in volgare ispirate ai testi sacri permetterà di apprezzare meglio la contiguità di quella tradizione con i repertori propri alle sacre rappresentazioni, alla produzione laudistica e all’esempio – sia esso reale o presunto – del Dante interprete di testi biblici. D’altronde, la parabola contraddittoria dello stesso Brucioli, che sul finire degli anni ’40 del Cinquecento diffonde una raccolta di canzoni, ballate e madrigali confluite nell’inedito Dello amore divino cristiano, appare come emblematica di una cultura letteraria, sulla quale sarebbe necessario continuare ad interrogarsi, che prende le mosse dagli studi scritturali e filologici, mette mano all’imponente cantiere delle traduzioni bibliche, e approda infine ad una scrittura poetica in cui forme e contenuti sembrano entrare in collisione, pur innestandosi saldamente nella tradizione lirica fiorentina pregressa. La veste tradizionale dei metri adottati, che si sostituiscono alle ancor più arcaiche laudi assai diffuse al tempo della giovinezza dell’autore, entra in risonanza con l’intensa invocazione dell’ “amore divino”, con l’adorazione non mediata del “solo Iddio”, con la serena agnizione dell’eletto di fronte al creatore. In uno stretto giro di anni, a Ginevra, veniva pubblicato da Jean Crespin la prima traduzione del salterio ad uso della chiesa della nazione italiana, ma che il titolo sembra destinare anche ad un pubblico più ampio. Fortemente ispirata dalla versione francese approntata da quel raffinatissimo poeta dell’anima che fu Clément Marot, coadiuvato dal teologo (e poeta) Théodore de Bèze, la versione italiana dei salmi si situa nel punto d’incontro di tradizioni poetiche, strategie retoriche e necessità dottrinali proprie delle comunità in esilio. Se una forte componente anti-profana permea il testo francese e finisce per rifluire nel dettato in italiano, in quest’ultimo si assiste all’omnipresenza della cifra petrarchesca, in netta opposizione con una propensione all’anti-bembismo linguistico ancora largamento diffuso nella penisola.
Di fatto, la varietà formale e stilistica dei metri di questa e di altre opere prese in esame nel volume – tra cui spiccano le antologie di poesie spirituali diffuse in ambito veneziano nella seconda metà del Cinquecento, così come le rime di sapore riformato di esuli quali Luigi Alamanni e Antonio Caracciolo – si innestano su altrettante culture storico-letterarie che rispondono ad esigenze specifiche. Da un lato, si intende far fronte alla domanda crescente di un pubblico che sembra apprezzare sempre più la fruizione individuale e/o domestica dei contenuti religiosi senza peraltro rinunciare a liturgie collettive e devozioni tradizionali; dall’altro, emerge evidente la volontà degli autori di diffondere una spiritualità più intima, incardinata sulla sola fede e sui suoi effetti, quando non si tenda a veicolare esplicitamente dei contenuti eterodossi. Il linguaggio poetico diviene così il luogo in cui la materia biblica, la dottrina, lo spiritualismo e persino l’ispirazione visionaria e apocalittica vengono declinati, rimodellati, volgarizzati e riproposti al lettore sotto forme antiche e nuove. Se la metafora, l’analogia, l’evocazione sembrano estendere lo spazio di quel che è lecito in versi e censurabile (o censurato) in prosa, la poesia religiosa fu un potente mezzo di espressione dell’indicibile – seppure in forme e modi differenti –, nelle opere del dissenso evangelico, in ambito riformato, e non solo. In epoca post-tridentina essa permetterà di avvicinare larghe fasce di lettori e – più spesso – di lettrici cattoliche a dei contenuti biblici che nessuna traduzione poteva più veicolare, se non sotto forma iconografica, nelle rappresentazioni devozionali, o attraverso simbologie liturgiche e prediche immaginifiche.