Revue Italique

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Ariosto apocalittico

Davide Dalmas

Un poema epico-religioso caratterizzato da una fortissima tensione alla conclusione, che si realizza in una somma di finali, destinati a celebrare prima la vittoria dei cristiani contro i pagani (culminata in un eccezionale triplice duello vinto dalla coppia da chanson de geste sacra Roland e Olivier cui si aggiunge un convertito eccellente al cristianesimo); e poi il matrimonio che darà origine alla famiglia del dedicatario, possibile soltanto dopo la conversione di uno dei protagonisti principali dell’opera. E un poema che fa tutto questo attraverso una struttura narrativa vertiginosamente complessa ma nel profondo teleologica e che viene rivelata come strettamente dipendente dalla volontà divina; e nel frattempo più volte insegna virtù morali e condanna l’indegnità di uomini di chiesa falsi e ipocriti, contrapposti a modelli positivi di vita cristiana.

Chi riconoscerebbe l’Orlando furioso in questa descrizione? Il poema del sorriso disincantato, il romanzo sempre digressivo, l’opera del canto regolarmente interruptus,1 come può essere riassunta in questo modo? Eppure non è necessario attivare antiche esegesi, da quella «in chiave fortemente spirituale, come itinerarium a Dio»,2 di Teofilo Folengo nella prefazione all’Umanità del figliuolo di Dio alle più allegorizzanti tra le Diskrepante Lektüren studiate da Klaus Hempfer,3 oppure ricostruire in chiave di «rituale iniziatico» le fabulae dei singoli eroi del Furioso e ritrovare che tutti «espiano e purgano nel viaggio interiore le colpe pregresse e arrivano in prossimità di una conversione religiosa»,4 per leggere anche in questo modo l’insieme dell’opera di Ariosto. Perché se si annullassero gli elementi che suggeriscono questa lettura, in nome ad esempio del desiderio frustrato e inappagabile come legge unica e costante dell’opera, si sfigurerebbe il suo carattere, che è complesso e composito – al limite paradossale – anche dal punto di vista del discorso religioso e della costruzione della fine (e quindi del fine). È vero che nessuno riesce a conseguire ciò che desidera, a lungo, nel poema,5 ma alla fine Ruggiero si converte davvero, e davvero sposa Bradamante, proprio come il cielo «eternamente aveva voluto» (XLV 102),6 Astolfo trova il senno di Orlando, la battaglia di Lipadusa è vinta, Angelica trova l’amore, Rinaldo approda alla «saggezza» e così via.

Il poema ha avuto una navigazione difficile, l’essere l’autore «quasi» folle per amore come Orlando, come dichiara fin dall’inizio e conferma all’inizio del canto XXXV, ha rischiato di condurre la barca poetica al naufragio ma alla fine il porto è trionfalmente raggiunto.

E il dominio sulla totalità dell’opera da parte del poeta, più volte evidenziato con famose metafore tessili o musicali, e realizzato anche in modo più nascosto, come ad esempio mantenendo rigorosamente al centro del poema lo scatenarsi dell’evento che gli dà il titolo nonostante i grandi cambiamenti che conducono dalla prima alla terza edizione, è fortemente ricondotto, in alcuni momenti decisivi al dominio di Dio sulla totalità del mondo. Come ha messo in luce efficacemente Marina Beer: «il motivo religioso e scritturale» può non essere tra quelli predominanti nel Furioso, ma

se ne riscontra tuttavia la presenza innanzitutto nei momenti-chiave strutturanti della narrazione, quelli nei quali i nessi generali della fabula, cioè il progetto salvifico e provvidenziale che la sorregge e i suoi snodi allegorici e narrativi, vengono narrati e illustrati.7

In modo particolare questo legame è dichiarato – e, come sempre, in parte dissimulato – in una delle sequenze più note dell’intero Furioso, tra i canti XXXIV e XXXV (che corrispondono ai canti XXXI e XXXII delle prime due edizioni, senza rilevanti cambiamenti dal punto di vista qui seguito).

In questo senso di rivelazione, di svelamento del dominio di Dio sulla storia parlo di Ariosto «apocalittico», cercando di dare risalto a una componente fondamentale della complessità, ambiguità, inafferrabilità del suo poema, proprio in uno dei suoi punti più celebrati, dal commento quasi inesauribile.

Al di là dei possibili riferimenti puntuali a testi apocalittici del canone biblico o alla ricca e complessa letteratura apocalittica tra Quattro e Cinquecento,8 è il discorso strutturale di questa sequenza che funziona secondo le logiche del genere descritte dai più autorevoli tentativi nove-centeschi di inquadramento. Faccio riferimento, in particolare, alla influente definizione di genere proposta da John J. Collins nel 1979: «Apocalisse» è

a genre of revelatory literature with a narrative framework, in which a revelation is mediated by an otherworldly being to a human recipient, disclosing a transcendent reality which is both temporal, insofar as it envisages eschatological salvation, and spatial insofar as it involves another, supernatural world.9

Tra i canti XXXIV e XXXV il poema di Ariosto, pur evitando la visione di un nuovo eone, i simboli più vistosi dell’apocalittica cristiana (i candelabri, la spada a due tagli, il rotolo coi sigilli, le trombe, i calici, i quattro cavalieri, il drago e le bestie mostruose, l’agnello e così via) e l’insistenza numerologica, gioca proprio la carta della letteratura di rivelazione in una cornice narrativa: compare infatti un essere umano di cui si evidenzia il carattere eccezionale, sovrannaturale (è stato assunto in cielo, prima del tempo ultimo e senza passare attraverso la morte), ossia l’evangelista Giovanni, inoltre accompagnato da altri due garanti di questa realtà sovrumana come Elia e Enoc, il quale media ad un destinatario umano in precedenza del tutto inconsapevole, il paladino Astolfo, la conoscenza della volontà divina che guida il tempo e la storia in modo non evidente ma saldo, attraverso un percorso spaziale in un mondo al di sopra di quello terreno.

An otherworldly being, ovvero: perché Giovanni?10

Di Giovanni, apostolo, evangelista e autore dell’ultimo libro della Scrittura, Ariosto sceglie di sottolineare qui proprio la natura sovra-mondana, perfino spendendosi in una polemica a distanza con l’interpretazione di Dante, che – come vedremo – è il punto di riferimento costante di tutta questa sezione.

Viene sottolineata l’età avanzata, con particolari che ricordano il Catone di Dante (rimando purgatoriale che si aggiunge ad altri elementi che vanno nella stessa direzione), e la complessiva impressione di santità, subito evidente (XXXIV 54):

Nel lucente vestibolo di quella
felice casa un vecchio al duca occorre,
che ’l manto ha rosso, e bianca la gonnella,
che l’un può al latte, e l’altro al minio opporre.
I crini ha bianchi, e bianca la mascella
di folta barba ch’al petto discorre;
et è sì venerabile nel viso,
ch’un degli eletti par del paradiso.

E immediatamente, fin dalle prime parole, questo vecchio venerabile, ancora non nominato, istituisce la reciproca posizione, dal maestro all’allievo, o meglio dall’essere che possiede una conoscenza superiore a quella umana al destinatario di questo messaggio (XXXIV 55):

O baron, che per voler divino
sei nel terrestre paradiso asceso
[...]
pur credi che non senza alto misterio
venuto sei da l’artico emisperio.

Subito è dichiarato che Astolfo è giunto nel Paradiso terrestre per un motivo ancora ignoto ma certamente rispondente a un disegno divino. Questa guida di Astolfo in tutto il suo percorso ultraterreno, che lo ispirerà anche dopo il ritorno sulla terra, è appunto l’evangelista Giovanni; e Ariosto fa riferimento alla conclusione del quarto Vangelo, al capitolo 21. Siamo quindi nel momento successivo alla risurrezione, quando Gesù risorto appare ai discepoli (viene narrata la pesca miracolosa e una Cena con i pesci), dove è in gioco probabilmente una questione dibattuta nelle prime comunità cristiane, sull’autorità e il prestigio di diverse figure, in particolare Pietro e appunto Giovanni. In questo ultimo capitolo si istituisce un possibile legame tra il discepolo che Gesù amava e l’autore del Vangelo stesso. Si riferisce la possibilità, secondo l’interpretazione dei discepoli, che Giovanni rimanga in vita con il suo corpo, senza conoscere quindi la morte naturale, fino alla Parusia, al ritorno definitivo di Cristo. A precisa domanda di Pietro, nel testo evangelico, il risorto risponde in modo criptico: «Se voglio che rimanga finché io venga, che t’importa? Tu, seguimi» («dicit ei Iesus si sic eum volo manere donec veniam quid ad te tu me sequere», Io 21, 22).11

Qui Ariosto

accoglie proprio la interpretazione della frase di Gesù che ne avevano dato gli altri discepoli, e che era stata poi largamente accolta nel Medioevo, anche se respinta risolutamente da S. Tommaso d’Aquino e da Dante,12

ossia che il discepolo prediletto non sarebbe morto: «exivit ergo sermo iste in fratres quia discipulus ille non moritur» (Io 21, 23). Anche se il testo evangelico ribadisce l’impossibilità di chiudere l’interpretazione e ripropone le parole ambigue: «et non dixit ei Iesus non moritur sed si sic eum volo manere donec venio quid ad te» (Io 21, 23). Ciò che è fondamentale per Ariosto – disponibile per questo anche ad opporsi esplicitamente all’autorità di Dante – è investire la figura di Giovanni del massimo carattere ultraterreno, della massima prossimità al Dio di cui sta per rivelare la volontà. Pertanto il testo biblico di riferimento deve essere privato di qualsiasi sfumatura ambigua e devono essere date per certe l’identità tra il personaggio del Vangelo («il discipul da Dio tanto diletto», XXXIV 61; che parafrasa Io 21, 20: «illum discipulum quem diligebat Iesus»), l’autore del Vangelo stesso e l’autore dell’Apocalisse (Ariosto conferisce quindi un aspetto apocalittico alla figura di Giovanni anche in quanto autore del quarto vangelo, anche se la critica biblica moderna tende a separare le due cose);13 e deve essere altrettanto certo che si è trattato di un’assunzione in cielo prima della morte.

Questa autorevolezza ultraterrena, spirituale e profetica, si rafforza subito con l’aggiunta di Enoc e Elia, gli esempi veterotestamentari disponibili per una simile vicenda eccezionale di esclusione della morte naturale e assunzione con il corpo al di sopra della realtà terrena, in attesa dei tempi ultimi (XXXIV 59):

Quivi fu assunto, e trovò compagnia,
che prima Enoch, il gran patriarca, v’era
eravi insieme il gran profeta Elia,
che non han visto ancor l’ultima sera;
e fuor de l’aria pestilente e ria
si goderan l’eterna primavera,
fin che dian segno l’angeliche tube,
che torni Cristo in su la bianca nube.

La vicenda di Enoc è narrata nella Genesi (Gn 5, 22-24):

et ambulavit Enoch cum Deo postquam genuit Mathusalam trecentis annis et genuit filios et filias et facti sunt omnes dies Enoch trecenti sexaginta quinque anni ambulavitque cum Deo et non apparuit quia tulit eum Deus.

Poi ripresa e interpretata con sottolineatura dell’importanza della fede nell’Epistola agli Ebrei (Hbr 11, 5):

fide Enoch translatus est ne videret mortem et non inveniebatur quia transtulit illum Deus ante translationem enim testimonium habebat placuisse Deo.

Siamo nell’epoca dei patriarchi, prima di Noè; e di nuovo posti di fronte ad un’espressione non esplicita, ma il «camminare con Dio» di Enoc nella tradizione ebraica è connesso a «un’iniziazione privilegiata ai misteri di Dio», tanto che Enoc divenne in seguito «una figura chiave delle tradizioni apocalittiche» e a lui sono intitolati voluminosi libri apocrifi, «che narrano i segreti escatologici rivelatigli».14 Anche la scomparsa di Enoc, perché «Dio lo prese», è interpretata come qualcosa di eccezionale, di diverso dal normale corso della vita umana che si conclude con la morte. Elia, il grande profeta, importante anche per Dante, viene assunto in cielo, portato da un carro di fuoco trainato da cavalli di fuoco nei libri dei Re (IV Rg 2, 11-12):

cumque pergerent et incedentes sermocinarentur ecce currus igneus et equi ignei diviserunt utrumque et ascendit Helias per turbinem in caelum Heliseus autem videbat et clamabat pater mi pater mi currus Israhel et auriga eius et non vidit eum amplius.

Anche a lui, in virtù di questa esperienza eccezionale, sono stati attribuiti testi apocalittici, sia in copto sia in ebraico;15 e nel Nuovo Testamento ha una notevole importanza, comparendo ad esempio tra le possibili risposte che la gente dà all’identità di Gesù: i discepoli, a precisa domanda, rispondono che alcuni sostengono che si tratti di Elia ritornato («et in via interrogabat discipulos suos dicens eis quem me dicunt esse homines qui responderunt illi dicentes Iohannem Baptistam alii Heliam alii vero quasi unum de prophetis» Mc 8, 27-28); e appare, inoltre, con Mosè, nel momento della Trasfigurazione («et transfiguratus est ante eos et resplenduit facies eius sicut sol vestimenta autem eius facta sunt alba sicut nix et ecce apparuit illis Moses et Helias cum eo loquentes» Mt 17, 2-3). La sua presenza è quindi particolarmente adatta al momento di svelamento, per l’idea vulgata della sorte eccezionale, e per la vicinanza ai momenti di domanda e di rivelazione sulla natura profonda di Cristo.

La tradizione che colloca Enoc e Elia insieme nel Paradiso terrestre

è assai antica, e comune così ad ebrei come a cristiani: essa aveva una sua ragion naturale nel pensiero che chi scampava per divina grazia alla morte dovesse rientrar nel luogo ove la morte non poteva aver potestà, ov’era l’albero della vita.16

Anche nella tradizione cavalleresca, quindi, come vedremo meglio in seguito, la coppia era già presente in questo luogo, ma è significativo che Ariosto riesca, in un modo a un tempo profondo e scherzoso, a raggruppare un numero impressionante di figure, temi e questioni teologiche, che erano già importanti in precedenza ma che nel corso dei decenni successivi all’edizione delle sue opere saranno al centro delle vicende più travagliate della storia religiosa del Cinquecento europeo.

La coppia Enoc-Elia, a fine Quattrocento, era usata come immagine dei predicatori giusti contrapposti a quelli malvagi, come mostra ad esempio una vignetta xilografica di Michael Wolgemut che illustra il Liber Chronicarum di Hartman Schedel stampato a Norimberga nel 1493 da Anton Koberger: sul pulpito del lato destro predicano appunto i due profeti e la loro omelia è chiaramente contrapposta a quella che si svolge sul lato sinistro, dove un predicatore malvagio riceve suggerimenti all’orecchio da un diavolo e si rivolge ad una folla numerosa ed animata.17 Pochissimi anni dopo la terza edizione del Furioso, poi, avrà luogo un’attualizzazione ancora più tragica e rivoluzionaria durante l’esperienza della «Gerusalemme celeste» anabattista di Münster. Alle idee apocalittiche darà una radicale concretezza il fornaio Jan Matthijs, personalità di spicco dell’anabattismo olandese, che nel 1534 inizia la costruzione del regno millenaristico, rivestendo proprio i panni del profeta Enoc, in un clima di esaltazione religiosa, tra epurazioni e riti di purificazione, battesimi di massa e roghi di libri,18 prima di essere ucciso dalle truppe del vescovo e di Filippo d’Assia.

Già in questa prima parte dell’incontro con Giovanni non mancano elementi scherzosi, ma fondamentale rimane per Ariosto addensare una serie di componenti che spingono fortemente nella direzione di un contatto privilegiato con la divinità, con possibili rimandi ad un sapere esoterico, riservato a figure eccezionali, che non vivono un’esperienza naturale comune, dalla nascita alla morte. E infatti con un ultimo segno di eccezionalità di Giovanni, simile al san Pietro del XXVII del Paradiso di Dante, si chiuderà, nel canto successivo, questa lunga sequenza, segnando scherzosamente lo stacco nettissimo tra il cielo e la terra e tornando a Bradamante, cioè a una protagonista mossa da passioni pienamente umane ma anch’essa predestinata a raggiungere, col matrimonio, la conclusione voluta da Dio (XXXV 31; ottava modificata in C, per collegarla alle vicende della «giunta» di Ullania):

Resti con lo scrittor de l’evangelo
Astolfo ormai, ch’io voglio far un salto,
quanto sia in terra a venir fin dal cielo;
ch’io non posso più star su l’ali in alto.
Torno alla donna a cui con grave telo
mosso avea gelosia crudele assalto.
Io la lasciai ch’avea con breve guerra
tre re gittati, un dopo l’altro, in terra.

A human recipient, ovvero: perché Astolfo?

Prima di salire nel luogo ultraterreno ed essere ricevuto da Giovanni, Astolfo compie un condensato del percorso della Commedia di Dante ed è inoltre un nuovo Ugo d’Alvernia:19 conosce il regno del Prete Gianni, il favoloso monarca cristiano che regna in Africa o in Asia, secondo una tradizione diffusa fin dal secolo XII (ne parla Ottone di Frisinga nella sua cronaca), «e in particolare protagonista del cantare La gran Magnificenzia del prete Ianni di Giuliano Dati, fiorito tra la fine del sec. XV e l’inizio del XVI»,20 presente anche nel Guerrin Meschino di Andrea da Barberino; poi visita brevemente l’inferno e raggiunge il Paradiso terrestre.

Questa serie di investimenti religiosi e letterari sulla figura di Astolfo segnano probabilmente, in tutti i sensi, il più notevole innalzamento della sorte del personaggio. Presente, senza caratteristiche particolarmente eminenti, già nelle chansons de geste, Estout-Estultus (dal gagliardo antroponimo germanico Aistulf, che significa lupo combattivo) attraverso la tradizione franco-veneta (Entrée d’Espagne in particolare) e la letteratura cavalleresca italiana del Quattrocento, acquista sempre più un carattere che tende al comico. Oltre a diventare, da francese, inglese, Astolfo è ora il cavaliere spaccone che al momento buono si dimostra vigliacco o deve far ricorso al valore del cugino Rinaldo, o è sconfitto in duello dopo le sue vanterie. Quindi risulta sempre più contrapposto a Orlando: «Face à Roland, qui incarne à lui seul prouesse et sagesse, fortitudo et sapientia, Estout, à la fois proche et différent, vaillant et déraisonnable, unit, prédestiné par son nom, fortitudo et stultitia».21 Perfezionando lo stravolgimento delle attese tradizionali rispetto al personaggio già operate da Boiardo, che si divertiva a mettergli in mano la lancia magica che abbatte tutti i nemici rendendolo quindi inaspettatamente invincibile, Ariosto arriva al completo ribaltamento, facendo in modo che sia proprio lo «stolto» Astolfo a recuperare il senno del «savio» Orlando.

Il percorso di Astolfo è ulteriormente rafforzato in questo senso nella terza edizione del poema. Già nel canto XV,22 infatti, all’inizio del suo viaggio, viene presentato come il destinatario privilegiato di un sapere non comune, ed è quindi lungamente intrattenuto da una guida sovrannaturale. Si tratta di una importante aggiunta di C, leggibile naturalmente come uno dei principali elementi di riequilibrio politico rispetto allo sbilanciamento filo-francese del primo Furioso (si lodano le scoperte ispaniche del nuovo mondo, l’Impero e i capitani di Carlo V), ma anche come un rafforzamento della lettura morale (e predestinata) del viaggio di Astolfo. Con l’aggiunta delle ottave 18-36, Astolfo diventa il destinatario dell’insegnamento da parte di Andronica, personificazione della Fortezza (la fortitudo; in greco ἀνδρεία, da cui probabilmente il nome), quindi della costanza, della fermezza nel mantenere la via del bene, contro le tentazioni. La curiosità geografica di Astolfo («Scorrendo il duca il mar con sì fedele | e sì sicura scorta, intender vuole,|e ne domanda Andronica, se de le | parti c’han nome dal cader del sole, | mai legno alcun che vada a remi e a vele, | nel mare orientale apparir suole; | e s’andar può senza toccar mai terra, | chi d’India scioglia, in Francia o in Inghilterra» XV 18) è soddisfatta dalla sua guida, che lo ammaestra con il tono dovuto («Tu dei sapere – Andronica risponde | che» XV 19), annunciando – qui sì proprio con la forma della visione – le scoperte che avverranno nel XV secolo e che porteranno quindi all’espansione mondiale dell’Impero di Carlo V e soprattutto del cristianesimo (XV 23):

Veggio la santa croce, e veggio i segni
imperial nel verde lito eretti:
veggio altri a guardia dei battuti legni,
altri all’acquisto del paese eletti:
veggio da dieci cacciar mille, e i regni
di là da l’India ad Aragon suggetti;
e veggio i capitan di Carlo quinto,
dovunque vanno, aver per tutto vinto.

Ed è, anche qui, per una precisa e dichiarata volontà divina che questa scoperta avviene proprio in un preciso momento storico, quello segnato dalla presenza dell’imperatore più saggio fin dai tempi di Augusto, in una dialettica di nascondimento per un certo tempo e poi rivelazione al momento opportuno secondo le vie divine, che anticipa le rivelazioni di Giovanni nei canti XXXIV e XXXV (XV 24):

Dio vuol ch’ascosa antiquamente questa
strada sia stata, e ancora gran tempo stia;
né che prima si sappia, che la sesta
e la settima età passata sia:
e serba a farla al tempo manifesta,
che vorrà porre il mondo a monarchia,
sotto il più saggio imperatore e giusto,
che sia stato o sarà mai dopo Augusto.

E ancora (XV 26):

Per questi merti la Bontà suprema
non solamente di quel grande impero
ha disegnato ch’abbia diadema
ch’ebbe Augusto, Traian, Marco e Severo;
ma d’ogni terra e quinci e quindi estrema,
che mai né al sol né all’anno apre il sentiero:
e vuol che sotto a questo imperatore
solo un ovile sia, solo un pastore.

A supernatural world: ovvero dall’Inferno alla Luna

È importante anche osservare il momento in cui avviene l’incontro tra Astolfo e Giovanni; in particolare, in quale punto si colloca nel percorso del cavaliere. Per diversi aspetti, come anticipato, il canto XXXIV del Furioso sembra un’inserzione dantesca dentro il mondo cavalleresco, in cui Astolfo vive una sorta di condensato del viaggio della Commedia. Raggiunto l’inferno per ricacciarvi dentro le arpie che affliggevano il Senapo, «Astolfo si pensò d’entrarvi dentro, | e veder quei c’hanno perduto il giorno, | e penetrar la terra fin al centro,|e le bolgie infernal cercare intorno» (XXXIV 5). In realtà la perlustrazione si limiterà all’incontro con un solo personaggio, Lidia,23 ma le descrizioni, la forma dell’incontro e i modi del colloquio, col dannato che parla anche di altri famosi puniti con la stessa pena, tendono a modellarsi su movenze tipiche di Dante, fino a riprendere l’uso del «se» ottativo. Poi il paladino è cacciato dalla «caligine alta» ed è quindi costretto ad uscire; e dopo aver sigillato l’ingresso per impedire l’uscita delle arpie, si appresta ad una rapida purificazione purgatoriale (XXXIV 47):

Il negro fumo de la scura pece,
mentre egli fu ne la caverna tetra,
non macchiò sol quel ch’apparia, et infece,
ma sotto i panni ancora entra e penetra;
sì che per trovare acqua andar lo fece
cercando un pezzo; e al fin fuor d’una pietra
vide una fonte uscir ne la foresta,
ne la qual si lavò dal piè alla testa.

Uno dei più importanti tra i commentatori cinquecenteschi, Simone Fornari, la leggeva proprio come un’abluzione che è purificazione dal «veleno del peccato».24 Soltanto dopo queste tappe inizia la salita al monte del Paradiso terrestre; e di lì Astolfo verrà condotto al cielo della Luna. È naturalmente un Dante «non finito»: «la visita di Astolfo all’inferno si riduce all’incontro con Lidia (una specie di anti-Didone) [...]; quanto ai cieli, non raggiunge che il primo, quello della luna, da cui subito discende sulla terra»;25 ma gli elementi purgatoriali proseguono anche nel Paradiso terrestre, descritto con riferimenti a pietre preziose, grande intensità coloristica, e una nuova serie di riferimenti a Dante (sia al canto XXX del Purgatorio, sia alla valletta dei principi del canto VI). Infine, anche per il meraviglioso palazzo che sorge in questo nuovo locus amoenus, sono enfatizzate soprattutto le caratteristiche ultraterrene: è splendente «fuor d’ogni mortal costume» (XXXIV 51), è tutto fatto «d’una gemma» e le sue mura sono lucide «più che carbonchio» (XXXIV 53); tanto che il narratore intima il silenzio a chi osi paragonarlo anche al grado massimo della bellezza terrena, cioè quello delle sette meraviglie: «Taccia qualunque le mirabil sette | moli del mondo in tanta gloria mette» (XXXIV 53).26

A Revelation: altresì noto come Tre svelamenti (paradossali)

Al termine di tutta questa esibizione di eccezionalità e di autorevolezza sovrumana, quello che viene rivelato è il senso di quanto accaduto fin qui nel poema e insieme l’annuncio di quanto succederà a breve, che deve condurre alla fine (e al fine) le vicende dell’opera. Ma le rivelazioni di Giovanni vanno oltre: «lo scrittor dell’oscura apocalisse» rivela a Astolfo non soltanto 1) il senso del suo viaggio, e quindi il significato della vicenda di Orlando, e quindi una delle storie portanti dell’intera opera (il senno recuperato da Astolfo ha come conseguenza il ritorno in pieno di Orlando nell’orizzonte epico, e quindi la distruzione della capitale nemica Biserta e la vittoria nel duello che pone fine alla guerra, a Lipadusa);27 ma, più generalmente, 2) il senso del mondo umano, tramite il suo «negativo» nel vallone lunare; e 3) il senso della poesia (nel canto XXXV).

Il secondo e il terzo svelamento, però, minano e destabilizzano il primo: Astolfo stesso recupera il senno ma viene annunciato che tornerà a perderlo, e lo stesso rinsavimento di Orlando non è privo di ombre.28 Ma soprattutto il processo di rivelazione operato da Giovanni arriva a ribaltare lo statuto di veridicità della poesia.

1) Possiamo ora leggere per intero il discorso iniziale di Giovanni, annunciato prima (XXXIV 55-56):

Costui con lieta faccia al paladino,
che riverente era d’arcion disceso,
disse: «O baron, che per voler divino
sei nel terrestre paradiso asceso;
come che né la causa del camino,
né il fin del tuo desir da te sia inteso,
pur credi che non senza alto misterio
venuto sei da l’artico emisperio.

Per imparar come soccorrer dei
Carlo, e la santa fé tor di periglio,
venuto meco a consigliar ti sei
per così lunga via, senza consiglio.
Né a tuo saper, né a tua virtù vorrei
ch’esser qui giunto attribuissi, o figlio;
che né il tuo corno, né il cavallo alato
ti valea, se da Dio non t’era dato.

Nessun sapere o valore umano, e neppure gli oggetti magici e gli animali meravigliosi, possono condurre a ricevere questa rivelazione. Il senso del viaggio di Astolfo sull’ippogrifo, iniziato con leggerezza oltre dieci canti prima, con l’intento ludico e curioso di «cercar» il paese «dei pennati» (XXIII 12), dischiude ora una finalità completamente diversa. Giovanni afferma che il singolo essere umano non può conoscere la causa e la motivazione profonda, finalisticamente determinata, non solo della propria azione («la causa del camino») ma nemmeno del proprio desiderio («il fin del tuo desir»). In questo discorso di Giovanni la legge «divagante» del desiderio, che agita e muove, interiormente ed esternamente, tutti i personaggi, quella regola di funzionamento delle trame che aveva trovato il suo celebrato centro di incontro e di svelamento del meccanismo comune nella continua ripetizione delle inchieste senza frutto nel «nuovo e disusato incanto» (XII 21) del palazzo di Atlante, si svela essere tutt’altra. È il desiderio che spinge all’azione tutti i personaggi, ma il fine di questo desiderio è loro ignoto, e si rivela ora in accordo con un recondito volere divino.29

Il movimento più libero e spensierato dell’aereo Astolfo («senza consiglio») era invece proprio finalizzato all’incontro con Giovanni («meco a consigliar»), che deve, sempre in questa logica di svelamento dell’«alto misterio», informarlo del vero significato della pazzia di Orlando, quindi della vicenda centrale che dà il titolo all’opera. Non si tratta di un semplice evento naturale, della conseguenza di un amore non ricambiato, che nella gelosia e nella certezza di quello che è vissuto come un tradimento rispetto a una indiscussa lealtà, si trasforma in furore. È invece una punizione divina, perché il campione della «santa fede» si è allontanato dal «camin dritto» con il suo amore peccaminoso per «una pagana», che l’ha allontanato dal suo dovere di difensore della fede (in vista del quale era stato reso invulnerabile, come Sansone per il popolo d’Israele: «Il vostro Orlando, a cui nascendo diede | somma possanza Dio con sommo ardire, | e fuor de l’uman uso gli concede | che ferro alcun non lo può mai ferire; | perché a difesa di sua santa fede | così voluto l’ha constituire, | come Sansone incontra a’ Filistei | constituì a difesa degli Ebrei», XXXIV 63), fino a spingerlo a combattere con suo cugino Rinaldo («avea già sofferto | due volte e più venire empio e crudele, | per dar la morte al suo cugin fedele», XXXIV 64). Continuano quindi i riferimenti biblici, frequentissimi in questa sezione: la punizione è simile, ma più breve, di quella del grande re di Babilonia Nabucodonosor in Daniele 4, 33: una follia vissuta come imbestiamento (e Astolfo, che a sua volta aveva perso l’umanità diventando addirittura una pianta, non è certo estraneo al discorso):

Egli fu scacciato di mezzo agli uomini, mangiò l’erba come i buoi, il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, i capelli gli crebbero come le penne delle aquile e le sue unghie diventarono come quelle degli uccelli.

È proprio la volontà divina, non un eccesso di sentimento umano, che conduce alla distruttiva follia di Orlando (XXXIV 65):

E Dio per questo fa ch’egli va folle,
e mostra nudo il ventre, il petto e il fianco;
e l’intelletto sì gli offusca e tolle,
che non può altrui conoscere, e sé manco.

Quindi Giovanni comunica a Astolfo lo scopo del suo viaggio: è stato portato lassù per volontà del Redentore: «Né ad altro effetto per tanto camino | salir qua su t’ha il Redentor concesso, | se non perché da noi modo tu apprenda, | come ad Orlando il suo senno si renda» (XXXIV 66), e sarà per questo condotto «nel cerchio della luna» per recuperare il senno del paladino; con ancora un’ulteriore, vistosa tessera dantesca: «Gli è ver che ti bisogna altro viaggio | far meco, e tutta abbandonar la terra» (XXXIV 67). Partono quindi di notte con il carro di Elia: altra presenza biblica (cfr. IV Reg. 2, 11) che lega ancora le vicende eccezionali dell’evangelista e del profeta (XXXIV 68-69):

[...]
Ma poi che ’l sol, s’ebbe nel mar rinchiuso,
e sopra lor levò la luna il corno,
un carro apparecchiossi, ch’era ad uso
d’andar scorrendo per quei cieli intorno:
quel già ne le montagne di Giudea
da’ mortali occhi Elia levato avea.

Quattro destrier via più che fiamma rossi
al giogo il santo evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando il carro, per l’aria levossi,
e tosto in mezzo il fuoco eterno
giunse; che ’l vecchio fe’ miracolosamente,
che, mentre lo passar, non era ardente.

Può essere significativo segnalare che sullo stesso carro di fuoco di origine biblica viaggerà, una decina di anni dopo la terza edizione del Furioso, anche Pasquino per scoprire le nefandezze del cielo «papistico» in uno dei più famosi testi «ereticali» del Cinquecento italiano, il Pasquino in estasi di Celio Secondo Curione.30

2) Non è necessario sottolineare particolarmente i caratteri della seconda rivelazione, che avviene in alcuni passi che sono tra i più conosciuti dell’intero poema, anche nel rapporto con le fonti (dopo la scoperta del Somnium di Alberti). Giovanni e Astolfo varcano la sfera del fuoco e arrivano al mondo della luna, di nuovo presentato in chiave di alterità rispetto al mondo terreno:

In un fascio di suggestioni che risalgono indietro fino alla Storia vera e all’Icaromenippo di Luciano, il viaggio lunare conduce a riconoscere la relatività dei punti di vista umani, fa scoprire la presenza di un mondo «altro», di uno spazio che nello stesso tempo riproduce quello della terra e ne rappresenta il rovescio.31

Le cose perdute, in una sorta di «enumerazione caotica» secondo la categoria proposta a suo tempo da Leo Spitzer, sono da Ariosto trasformate in immagini, come una lunga serie di stravaganti emblemi o imprese, che in larga parte possono essere fatte rientrare nella categoria degli «oggetti desueti».32 «L’apocalittica [...] ha proprio questo in comune con il genere letterario parabolico: la capacità di chiarire mediante un’analogia».33

Tra queste immagini della follia umana non mancano spunti satirici notevoli,34 che toccano argomenti che saranno tra i bersagli polemici dei riformati. Per fare un solo esempio: in un’unica ottava troviamo prima le elemosine con valore espiatorio (XXXIV 70):

Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
«L’elemosina è» dice «che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte».

E, subito dopo, la donazione di Costantino:

Di varii fiori ad un gran monte passa,
ch’ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Constantino al buon Silvestro fece.

Quassù sulla luna c’è quindi tutto quanto si perde sulla terra, trasformato in immagini apparentemente non esplicite, via via rivelate da Giovanni: «Passando il paladin per quelle biche, | or di questo or di quel chiede alla guida» (XXXIV 76), «che se non era interprete con lui, | non discernea le forme lor diverse» (XXXIV 82); quindi compare – mostrata in immagini e interpretata – tutta la natura terrena trasformata, tranne un solo elemento, la pazzia, «che sta qua giù, né se ne parte mai» (XXXIV 81). Ancora una volta, Ariosto non riprende gli elementi più vistosi dell’apocalittica: le visioni e il rimando a un tempo futuro di giudizio, più o meno imminente, ma apocalittica è proprio la manifestazione del significato reale del mondo, «dal punto di vista di Dio», attraverso una serie di immagini accompagnate dalla loro interpretazione per mezzo dell’essere sovrannaturale.

3) A cavallo tra canto XXXIV e XXXV si sviluppa poi una sottosezione ancora più apertamente allegorica. Astolfo e Giovanni vedono un vecchio che butta nel ume Lete i nomi che caricava nella dimora delle Parche, dal ume corvi, avvoltoi e vari altri uccelli cercano di estrarre quei tesori ma li portano poco lontano, soltanto due cigni (bianchi come l’«insegna» di Ippolito) riescono a salvare alcuni nomi e li portano in un tempio sopra il colle, dedicato all’Immortalità. È un’ampia, elaborata visione allegorica: il vecchio è il Tempo, che conduce all’oblio la stragrande maggioranza dei nomi dei mortali, i cigni sono i poeti che li sottraggono a questa sorte, mentre corvi e avvoltoi sono (XXXV 20-21):

ruffiani, adulatori,
buffon, cinedi, accusatori, e quelli
che viveno alle corti e che vi sono
più grati assai che ’l virtuoso e ’l buono,

e son chiamati cortigian gentili,
perché sanno imitar l’asino e il ciacco.

Ed è di nuovo «l’uomo di Dio», Giovanni, che rivela non solo il significato della visione ma anche, più in generale, la legge che regola il rapporto tra basso e alto, tra terra e luna, che è appunto una legge di corrispondenza con variazione: «Ogni effetto convien che corrisponda | in terra e in ciel, ma con diversa faccia» (XXXV 18).

I veri poeti, come i cigni, sono rari, anche per colpa dell’avarizia dei signori, dei possibili mecenati, che potrebbero acquistarsi l’immortalità se si tenessero buoni i poeti. Anche le materie dei grandi poemi classici: l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide sono menzogne: molti furono più pietosi di Enea o più forti di Achille, ma i loro discendenti hanno pagato «l’onorate man degli scrittori», (XXXV 27):

Omero Agamennon vittorioso,
e fe’ i Troian parer vili et inerti;
e che Penelopea fida al suo sposo
dai Prochi mille oltraggi avea sofferti.
E se tu vuoi che ’l ver non ti sia ascoso,
tutta al contrario l’istoria converti:
che i Greci rotti, e che Troia vittrice,
e che Penelopea fu meretrice.

E lo stesso vale per i grandi eventi della storia: normalmente si pensa che Augusto sia stato più buono di Nerone, ma è solo perché aveva buon gusto in poesia e si è tenuto buono Virgilio (XXXV 26):35

Non fu sì santo né benigno Augusto
come la tuba di Virgilio suona.
L’aver avuto in poesia buon gusto
la proscrizion iniqua gli perdona.
Nessun sapria se Neron fosse ingiusto,
né sua fama saria forse men buona,
avesse avuto e terra e ciel nimici,
se gli scrittor sapea tenersi amici.

La demistificazione arriva a toccare quindi persino Augusto, il paradigma dell’imperatore giusto, l’anticipo di quel Carlo V che nel canto XV era indicato come oggetto privilegiato dell’attenta preparazione divina dell’intera storia umana.

Insomma, in queste ottave straordinarie si sviluppa appieno la concezione complessa e problematica della poesia di Ariosto:

in cui alla idea umanistica dell’arte come strumento di civiltà, e in particolare come attività che seleziona e tramanda ai posteri le azioni e i nomi degli uomini meritevoli di essere assunti quali esempi, si accompagna la coscienza spregiudicata della difficoltà che essa incontra nell’esplicare tale funzione, sia per la scarsità delle persone veramente degne di lode e di memoria, sia perché i poeti medesimi sono sottoposti essi pure alle tentazioni e imperfezioni proprie degli altri uomini, e quindi costretti a scendere spesso a compromessi con la propria coscienza.36

In questo quadro allegorico «si insinua una sorta di critica ironica alla stessa prospettiva encomiastica ed epica del poema»,37 proprio subito dopo aver celebrato ancora una volta, iperbolicamente e «in chiave di predestinazione», il cardinale Ippolito d’Este. Infatti Giovanni, prima di parlare della poesia, presenta una breve visione profetica del futuro di Ferrara, che passerà da «piccolo borgo» paludoso alla «più adorna | di tutte le città d’Italia», ricca «d’arti, studi e di costumi egregi», proprio per diventare il luogo predisposto nel modo migliore per la nascita del grande Ippolito secondo il «disegno» dell’«eterna mente» (XXXV 3-9). Poco dopo, come detto, si presenta la necessità di ribaltare le verità della poesia:

se è infatti possibile che siano riusciti ad imporre la loro fama coloro che hanno avuto il favore dei migliori poeti, che hanno saputo pagare convenientemente i più abili costruttori di fictio, ciò significa comunque che si può legittimamente dubitare (proprio in ragione di tale finalità encomiastica) delle verità delle storie che la poesia racconta. Forse i poeti non fanno altro che tessere menzogne, occultando le verità della storia; forse la fama degli eroi è basata solo sulle menzogne dei poeti che l’hanno tramandata; e tutta la storia va probabilmente letta al contrario.38

Ma Giovanni prosegue ancora, affermando di non aver parlato in questo modo per cattiva disposizione nei confronti dei poeti, anzi: «Gli scrittori amo, e fo il debito mio | ch’al vostro mondo fui scrittore anch’io» (XXXV 28). Condotto alle estreme conseguenze, questo discorso («punto cruciale» per «la potenziale eterodossia» del Furioso)39 getta una luce ambigua non solo sulla storia umana e sulla poesia che la tramanda nel tempo, ma sulla stessa verità scritta per eccellenza, sul Vangelo e sulla stessa Apocalisse, che sono appunto le opere dello «scrittore» Giovanni. Ma, dall’altro lato, sembra negare queste conseguenze la natura del mecenate di Giovanni, ossia Gesù Cristo, totalmente imparagonabile ai signori mondani; e il discorso di Giovanni si conclude con un’ulteriore, breve «rivendicazione del valore dei veri scrittori e della forza civilizzatrice della poesia».40

È significativo che le conseguenze più corrosive di tutto questo passo non siano per nulla elaborate dai primi commentatori e in generale non abbiano un ruolo rilevante nel dibattito cinquecentesco. Ad esempio Fornari chiosava annullando il carattere potenzialmente eversivo del passo, come se la difesa di Ariosto fosse necessaria per la descrizione di un Giovanni un po’ troppo arrabbiato e personalmente coinvolto, non adeguato al decorum proprio di un santo:

Per non parere che l’Ariosto havesse poste alla bocca di Giovanni parole non osservanti il decoro della persona Apostolica, fa ch’egli medesimo si difenda, et renda ragione, dicendo che non è da meravigliarsene se si acramente tolto s’habbia à difendere i scrittori, quando che egli è stato similmente scrittore, et a provare come fu scrittore, mostra il premio, che di cio ricogliesse, ilquale è che ne per morte, ne per tempo puo essere di vita tolto. Ilche Christo gli donò, perche nel Vangelo fu dallui vivamente lodato. Mostra anchora d’haver gia ricevuto il merto della sua fatica, per cancellare il sospetto, che la passion d’esserne fraduato non gli facesse dir queste parole.41

Secondo Hempfer, l’unica eccezione a questa tendenza ad annullare il potenziale distruttivo è il commento di Lavezuola del 1584, secondo il quale Ariosto, facendo dire queste cose a Giovanni, «pare che tolga a se medesimo» e agli altri che sostengono l’origine degli Estensi dai troiani «totalmente la credenza, et che ciò sia un mero sogno, et bugia, o chimera fabricata da lui». In questo modo, insomma, Ariosto disfà

tutta la sua trama ordita, et per mostrarsi troppo intendente dell’historie, par che non s’avvegga dell’inconveniente in ch’egli cade, et contra la sua principale intentione, ch’era di ritrovare alla detta serenissima casa antichissimi Principi [...]. Questo è un volere a guisa di Penelope guastare tutto il lavoro fatto il giorno.42

La terza rivelazione, detta all’interno di un’opera di poesia, e da chi dice «fui scrittore anch’io», rischia dunque di «guastare» tutto l’ampio episodio apocalittico del Furioso, ponendolo in questa dimensione paradossale, irrisolvibile dal punto di vista logico.43 Tanto più che – come detto – questo svelamento della poesia avviene subito dopo l’alto elogio, inserito in un quadro di controllo divino della storia, rivolto ad Ippolito. Traendo le logiche conseguenze verrebbe annullato l’intero impianto encomiastico del poema, ma Ariosto non arriva mai alle estreme conseguenze.

Già all’inizio dell’esperienza apocalittica, i tre uomini eccezionali (Enoch, Elia e Giovanni) accoglievano Astolfo rifocillandolo con frutti del Paradiso terrestre, i quali sembrano al paladino così buoni da rendere scusabili Adamo ed Eva (XXXIV 60):

Con accoglienza grata il cavalliero
fu dai santi alloggiato in una stanza;
fu provisto in un’altra al suo destriero
di buona biada, che gli fu a bastanza.
De’ frutti a lui del paradiso diero,
di tal sapor, ch’a suo giudicio, sanza
scusa non sono i duo primi parenti,
se per quei fur sì poco ubbidienti.

Le componenti più ambigue di questo discorso religioso di rivelazione erano quindi già accese fin dall’inizio. Tutta questa insistenza apocalittica si unisce a una grande libertà di allusione al testo biblico e al sapere comune cristiano: se i genitori primordiali, Adamo ed Eva, sono scusabili vista la bontà di questi frutti, portando alle estreme conseguenze il discorso, si annullerebbe il significato stesso del peccato originale.

Così come, illustrando le implicazioni dello svelamento della follia come punizione divina, bisognerebbe indicare in Dio stesso il primo motore degli assassini, devastazioni, rapine e grottesche violenze compiute da Orlando, al quale è stata tolta, per punizione, l’intelligenza ma non la forza sovrumana e l’indistruttibilità, che gli permettono di compiere stragi o di colpire con un calcio un asino «con quella forza che tutte altre eccede; | et alto il leva sì, ch’uno augelletto | che voli in aria, sembra a chi lo vede» (XXIX 53).

Non a caso, quindi, proprio la mescolanza di aspetti scherzosi e implicazioni serie colpì il censore che, durante il pontificato di Gregorio XIII (1572-1585), fu incaricato dalla congregazione dell’Indice di vagliare l’Orlando Furioso e le Rime di Ariosto, nell’ipotesi di condannarli.44 Dopo aver definito Ariosto «vanissimus et spurcissimus homo, Petrarcam magistrum suum sectatus in suo Furioso, in quo sua furia multa obscoena ac vana scribit et sacris prophania miscet»,45 si soffermava in modo particolare sul canto XXXIV, dove «Joannem Evangelistam in paradiso terrestri cum Enoc et Helia esse dicit»; ed era infastidito soprattutto proprio per questo tono scherzoso, per la mescolanza di serio e giocoso, di sacro e profano:

eumque Astolfo omnia paradisi loca ostendisse et delacrasse nugatur, eique paradisi fructus ad edendum dedisse, qui tantae inquit suavitatis erant, ut merito primi parentes excusentur quod Dei praecepto non obedierint, quasi Deus iniuste eos punierit, nesciens miser et temerarius, quod Deus ibi angelum custodemi misit. Ibi silvas et nymphas bellua venantes quas elemosinas esse mentitur, quae pro aliorum salute post mortem offerentur, quare suffragia pro defunctis irridet. Item tantum apostolum dixisse nugatur.46

Anche l’Ariosto apocalittico lavora quindi come l’Ariosto moralista o l’Ariosto politico (le aggiunte filo-imperiali dell’edizione 1532 riequilibrano ma lasciano inalterate le parti «filofrancesi» del primo Furioso). L’alternanza di toni, le ripetizioni con variazioni, le aggiunte progressive, le apologie e le contro-ritrattazioni minano e destabilizzano quanto affermato in un primo momento, ma non lo cancellano. Ariosto complica e rende più ambiguo, e al limite paradossale, ma non procede mai con correzioni che annullano «l’errore» precedente.

Tipico di Ariosto, uno dei caratteri principali della sua grandezza, anche in questo punto così importante, è usare saldamente il pattern apocalittico – facendone anzi balenare la possibilità che governi l’intelaiatura di tutto il suo gigantesco lavoro – e contemporaneamente animarlo di giocosa e profonda ironia, di satira e di paradosso. Rendendoci così impossibile credere fino in fondo alle rivelazioni, ma anche altrettanto impossibile rimuoverle senza che – per dirla con celeberrime parole di un Tasso ben aristotelico – «il tutto ruini». Non a caso l’avventura singolare di Astolfo, che produce tutte queste contrastate rivelazioni, è narrata in modo continuato in una lunga campata, senza entrelacement (e, in modo eccezionale, un intero canto, il XXXIV, è totalmente senza intreccio), lasciando immobili per un periodo molto lungo tutte le altre vicende aperte della narrazione. Ed è proprio qui che i «fili cominciano a riunirsi» e si va «verso la conclusione».47

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1 Cfr. Daniel Javitch, «Cantus Interruptus» in the «Orlando furioso», «Modern Language Notes», XCV (1980), pp. 66-80.

2 Gigliola Fragnito, Intorno alla «religione» dell’Ariosto: i dubbi del Bembo e le credenze ereticali del fratello Galasso, «Lettere italiane», XLIV (1992), pp. 233-239; poi in Ead., Cinquecento italiano. Religione, cultura e potere dal Rinascimento alla Controriforma, a cura di Elena Bonora e Miguel Gotor, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 289-323,a p. 323.

3 Cfr. Klaus W. Hempfer, Diskrepante Lektüren: Die Orlando-Furioso-Rezeption im Cinquecento. Historische Rezeptionsforschung als Heuristik der Interpretation, Stuttgart, Steiner, 1987: Letture discrepanti. La ricezione dell’«Orlando furioso» nel Cinquecento. Lo studio della ricezione storica come euristica dell’interpretazione, traduzione di Hans Honnacker, Modena, Panini, 2004. In particolare il cap. VI, Il postulato di un signicato «più profondo»: procedimenti e funzioni dell’esegesi allegorica, pp. 231-255.

4 Franco Picchio, Ariosto e Bacco due. Apocalisse e nuova religione nel «Furioso», Cosenza, Pellegrini, 2007, p. 8; in precedenza: Id., Ariosto e Bacco. I codici del sacro nell’«Orlando furioso», Torino, Paravia, 1999.

5 Un’eicace formulazione del rapporto tra grande complicazione delle trame e meccanismo narrativo «semplicissimo», governato dall’«inseguimento dell’ oggetto amato», ricerca che non può compiersi «perché viene continuamente interrotta da una ventura, che dipende da un nuovo incontro» in Stefano Jossa, Ariosto, Bologna, il Mulino, 2009, p. 37.

6 Tutte le citazioni del poema sono tratte da L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di Cristina Zampese, Milano, Rizzoli, 2012, che ha riproposto il prezioso commento di Emilio Bigi (d’ora in poi citato solo con il cognome e la pagina).

7 Marina Beer, Osservazioni sull’«Orlando furioso» e le Sacre Scritture, in François Roudaut (ed.), Religion et littérature à la Renaissance. Mélanges en l’honneur de Franco Giacone, Paris, Classiques Garnier, 2012, pp. 457-472, a p. 461.

8 Tra i testi di maggiore diusione, ad esempio, l’Apocalypsis nova attribuita «al beato spagnolo Amedeo Menezes da Sylva morto nel 1482, ma con ogni probabilità redatto o largamente interpolato da altri personaggi [...] in età borgiana» (Ottavia Niccoli, Rinascimento anticlericale. Infamia, propaganda e satira in Italia tra Quattro e Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 10), e basata su tradizioni precedenti come il gioachimismo che annuncia l’avvento di un Pastore angelico. Cfr. Anna Morisi, Apocalypsis nova. Ricerche sull’origine e la formazione del testo dello pseudo-Amadeo, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1970; Marjorie Reeves (ed.), Prophetic Rome in the High Renaissance Period, Oxford, Clarendon, 1992. Poco prima della prima edizione dell’Orlando furioso, nel 1513, il Concilio Laterano vietava la predicazione sull’Apocalisse; e nello stesso 1516 la bolla Supremae Maiestatis di Leone X condannava i predicatori che dal pulpito annunciano eventi futuri, dichiarando di conoscerli per rivelazione divina; oltre a coloro che attaccano scandalosamente i comportamenti di vescovi e prelati, soprattutto se dichiarano pubblicamente il nome di chi considerano malfattore.

9 John Joseph Collins, Introduction: Towards the Morphology of a Genre, in Id. (ed.), Apocalypse: The Morphology of a Genre, «Semeia. An experimental Journal for biblical criticism», XIV (1979), p. 9. L’autore è tornato a discutere la questione, tenendo conto del dibattito successivo, in What is Apocalyptic Literature, in The Oxford Handbook of Apocalyptic Literature, Oxford, Oxford University Press, 2014, pp. 1-16.

10 «Meriterebbe di essere approfondita la scelta di Giovanni Evangelista al ruolo che svolge come interprete e guida in questa parte del poema. [...] È certo che Ariosto non era il solo, nei primi decenni del suo secolo, a riprendere quel mito e quel personaggio. In alcune Stanze attribuite (ma forse erroneamente) ad Egidio da Viterbo, proprio dal monte del Paradiso terrestre e da “sante parole”, “saggio consiglio” di Giovanni Evangelista prende le mosse la narrazione di una missione simbolica di tre campioni di Pudicizia (Ippolito, Giuseppe e Spurinna) nel mondo degli uomini» (Gennaro Savarese, Lo spazio dell’«impostura»: il «Furioso» e la luna, in Id., Il «Furioso» e la cultura del Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 71-89, alle pp. 88-89n). La citazione è da Il quinto libro delle Rime di diversi eccellenti autori. Nuovamente raccolte et mandate in luce con un discorso di Girolamo Ruscelli, Venezia, 1553, cc. 265 r. e v.

11 Tutte le citazioni bibliche sono tratte da Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, recensuit et brevi apparatu critico instruxit R. Weber, Stuttgart, Deutsche Bibelgesellschaft, 1994.

12 Bigi, p. 1128. Cfr. Par. XXV 122-125: «Perché t’abbagli / per veder cosa che qui non ha loco? / In terra è terra il mio corpo, e saragli / tanto con li altri, che ’l numero nostro / con l’etterno proposito s’agguagli». «Si noti come l’Ariosto faccia della esegesi biblica in tono tra il serio e il faceto» (R. Ceserani, commento in Ludovico Ariosto, Orlando furioso e Cinque canti, a cura di Remo Ceserani e Sergio Zatti, Torino, Utet, 1997, p. 1207).

13 «Il Vangelo di Giovanni e il “discepolo che Gesù amava” che ne è il garante [...] rappresenta un orientamento escatologico che è all’opposto della prospettiva apocalittica (salvo pochissimi passi che generalmente sono considerati interpolazioni editoriali)» (Bruno Corsani, L’Apocalisse e l’apocalittica del Nuovo Testamento, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1996, p. 12). Corsani ricorda inoltre che già nell’antichità si dubitava dell’identità degli autori dei due libri, visto che già nel III secolo Dionigi d’Alessandria «escludeva che l’Apocalisse potesse esser stata scritta dall’autore del quarto Vangelo per le troppe dierenze di lingua, di stile e di pensiero» (p. 134).

14 Walter Brueggemann, Genesi (1982), edizione italiana a cura di T. Franzosi, Torino, Claudiana, 2002, p. 93. Sul Libro di Enoch, cfr. Jacques Le Go, La nascita del Purgatorio, Torino, Einaudi, pp. 38-40.

15 Cfr. The Old Testament Pseudoepigrapha, vol. I, Apocalyptic Literature and Testaments, London, Darton, Longman and Todd, 1983.

16 Arturo Graf, Miti, leggende e superstizioni del medio evo (1892-1893), a cura di Clara Allasia e Walter Meliga, introduzione di Marzio Guglielminetti, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p. 66.

17 Cfr. Roberto Rusconi, Immagini dei predicatori e della predicazione in Italia alla ne del Medioevo, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2016.

18 Cfr. Mario Biagioni, Lucia Felici, La Riforma radicale nell’Europa del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 45.

19 Cfr. La discesa di Ugo d’Alvernia allo inferno secondo il codice franco-italiano della Nazionale di Torino (1883), per cura di Rodolfo Renier, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1968; Ilaria Tufano, L’aldilà di Andrea da Barberino. Dall’«Ugone d’Avernia» al «Guerrin Meschino», «Critica del testo», XIX (2016), pp. 101-119. «“Ben è vero che per la prima volta, per quanto io sappia, vediamo l’Evangelista mostrarsi ai visitatori mortali, ricacciando in seconda linea Enoc ed Elia..., i quali fino allora avevano sempre fatto da soli gli onori di casa” (Rajna). E infatti Ugo d’Alvernia, nel romanzo cavalleresco omonimo, incontra i due profeti nel Paradiso terrestre e riceve anche lui da essi dei frutti.» (Ceserani, commento cit., p. 1207). Per gli eroi della letteratura cavalleresca (Baldovino da Sebourg e Polivan, Uggeri il Danese, Ugo d’Alvernia, Guerrin Meschino, fino all’Astolfo ariostesco) che raggiungono il Paradiso terrestre, cfr. Graf, Miti, leggende e superstizioni del medio evo, cit., pp. 111-116.

20 Bigi, p. 1102, che fa riferimento a Giovanni Battista Bronzini, Tradizione di stile aedico dai cantari al «Furioso», Firenze, Olschki, 1966, p. 55. Cfr. anche Marzio Guglielminetti, Lettera del Prete Gianni a papa Martino v (1426): testo e commento, in Studi politici in onore di Luigi Firpo, a cura di Silvia Rota Ghibaudi e Franco Barcia, i, Ricerche sui secoli xiv-xvi, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 87-108; La lettera del Prete Gianni, a cura di Gioia Zaganelli, 2000; Marco Giardini, Figure del regno nascosto. Le leggende del Prete Gianni e delle dieci tribù perdute d’Israele tra Medioevo e prima età moderna, Firenze, Olschki, 2017.

21 Jean-Claude Vallecalle, «Fortitudo» et «stultitia». Remarques sur le personnage d’Estout dans les chansons de geste, in Miscellanea Mediaevalia. Mélanges offerts à Philippe Ménard, études réunies par Jean-Claude Faucon, Alain Labbé et Danielle Quéruel, Paris, Champion, 1998, vol. II, pp. 1421-1434, a p. 1434. Sul percorso di Astolfo dalle chansons de geste al Furioso, cfr. anche Giuseppe Guidi Ferrero, Astolfo (storia di un personaggio), «Convivium», V (1961), pp. 513-530; Luigi Sampietro, L’Astolfo di Matteo Maria Boiardo, «Forum italicum», XIV (1980), pp. 143-161; Mario Santoro, L’Astolfo ariostesco: «homo fortunatus», in Id., Ariosto e il Rinascimento, Napoli, Liguori, 1989, pp. 185-236.

22 Quindi in C il canto aumenta ulteriormente il suo carico di riferimenti al presente, controbilanciando l’esordio, che rimane immutato (Ariosto non corregge togliendo ma aggiungendo).

23 Ancora una constatazione «della irrimediabile irrazionalità connessa al rapporto amoroso, e più particolarmente della ingratitudine o della crudeltà con cui spesso è compensato anche l’aetto più nobile e fedele e, per quanto riguarda Alceste, del cieco attaccamento con cui, chi ama, rimane, nonostante tutto, legato alla persona amata» (Bigi, op. cit., p. 1114).

24 Hempfer, Letture discrepanti, cit., p. 243, riporta anche esempi simili nelle edizioni Valvassori 1556: «Che Astolfo Bruttato nel fumo, tutto si lava, & poi sale sù ’l monte del Paradiso terrestre; s’insegna che, che l’huomo si dee purgar della bruttura de’ vitij, poi darsi alla contemplatione, onde si perviene alla tranquillità dell’animo»; e Guerra 1570: «In Astolfo ch’uscito dall’infernal buca, prima che s’alzi alla cima del monte, si lava tutto dal piè alla testa in una fonte; siamo avisati, che niuno Christiano può alzarsi da questo centro pieno di vitij & di peccati à quella cima dell’eterna beatitudine, se prima non si monda l’anima d’ogni concupiscentia terrena co’ Sacramenti della Chiesa, confessandosi, communicandosi & del tutto nettandosi d’ogni macchia, & bruttezza, che in questa valle di miseria ci infetta, & contamina tutti». Per Ceserani invece «è la lavanda, molto più alla buona e senza alcun signicato ritualistico, che compì Dante aiutato da Virgilio (cfr. Purg., I, 121 ss.)» (p. 1203). Il passaggio di Astolfo dall’Inferno al locus amoenus del Paradiso terrestre può richiamare un processo di redenzione, cristiano, ma anche «la rinascita simbolica del neota nei misteri di Eleusi e in particolare l’accesso al “luogo di luce” che nella liturgia misterica descritta da Plutarco, dopo i riti notturni, preludeva alla “visione” e alla “rivelazione”» (F. Picchio, Ariosto e Bacco, cit., p. 31), secondo l’ipotesi «eleusina» di Franco Picchio, che qui però non parla di Astolfo: il primo libro propone lettura misterica dei percorsi di altri personaggi (Orlando, Rinaldo, Angelica, Ruggiero e Bradamante). In Ariosto e Bacco due, cit., lo stesso modello morfologico dei riti di passaggio è ritrovato nelle fabulae di Astolfo, Mandricardo, Rodomonte, Olimpia e Isabella; per Astolfo, cfr. in particolare pp. 17-35, e pp. 85-86.

25 Cesare Segre, Da uno specchio all’altro: la luna e la terra nell’«Orlando furioso», «Schifanoia», III (1988), pp. 9-16; poi in Id., Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino, Einaudi, 1990, pp. 103-114, a p. 104. È signicativo che, in questa importante lettura, Segre enfatizzi «la concezione terrestre e laica» di Ariosto, senza nemmeno ricordare la presenza di Giovanni, Enoc e Elia; per saltare subito dalla punizione di Lidia al «mito pagano delle Parche» che «non prevede la Grazia cristiana» e al «tempio dell’Immortalità» che «ha l’aria di premiare solo le virtù della buona società» (p. 104).

26 Di nuovo, Fornari ne fa un’«esegesi in chiave di storia della salvazione» (Hempfer, Letture discrepanti, cit., p. 246): poiché, nell’Apocalisse, Gerusalemme sta per la Chiesa, «perno il palazzo rappresenta la Chiesa»; e ha un muro «d’una sola gemma, et non di molte, o varie» perché «disegnar vuole l’unità, che nella santa chiesa esser deve».

27 Anche la vicenda dell’altro protagonista del poema, quella di Ruggiero, prevede la svolta denitiva dell’innito rimandare la conversione in nome di doveri d’onore, tramite l’intervento diretto di Dio, che interviene reindirizzando i progetti dei personaggi, attraverso il naufragio che conduce Ruggiero presso l’eremita che lo battezzerà: «Nel solitario scoglio uscì Ruggiero / come all’alta Bontà divina piacque» (XLI, 51), nché incontra, come Astolfo, un venerabile vecchio: «vide d’anni e d’astinenzie alitto / uom ch’avea d’eremita abito e segno, / di molta riverenzia e d’onor degno» (XLI, 52), che lo accoglie con le parole più eloquenti del racconto della conversione di Paolo negli Atti degli apostoli: «che, come gli fu presso: Saulo, Saulo, / gridò – perché perseguiti la mia fede? / come allor il Signor disse a san Paulo, / che ’l colpo salutifero gli diede. / Passar credesti il mar, né pagar naulo, / e defraudare altrui de la mercede. / Vedi che Dio, c’ha lunga man, ti giunge / quando tu pensasti esser più lunge. -» (XLI, 53).

28 Cfr. Sabrina Stroppa, L’ira di Orlando. «Orlando Furioso» XLI 95-XLII 10, «Per leggere», VI (2006), pp. 49-72.

29 Opportunamente Bigi richiama ancora alcuni luoghi danteschi: «L’espressione si richiama ad un modulo dantesco: cfr. Inf., VII, 10 [“Non è sanza cagion l’andare al cupo”]; Purg., III, 98 [“non sanza virtù che da ciel venga”]», oltre all’ancora più vicino, formalmente, Morgante di Pulci: «XXVII, 152, 7-8: “non sanza alto misterio gridasti / ‘Elì, Elì”’» (Bigi, p. 1127).

30 L’angelo che guida Pasquino gli rivela che esistono due cieli «in uno de quali è asceso Christo, partendosi dal mondo, dal quale discenderà accompagnato da gli Angeli, a giudicare il mondo», mentre «l’altro è stato dipoi fabricato per man de Papi, e d’huomini, che havevano poca architettura», e si trova ovviamente agli antipodi del precedente. Cfr. Davide Dalmas, Forme della riscrittura nel «Pasquino in estasi», in Pasquin, Lord of Satire, and his Disciples in 16th-Century Struggles for Religious and Political Reform / Pasquino, signore della satira, e la lotta dei suoi discepoli per la riforma religiosa e politica nel Cinquecento, a cura di Chrysa Damianaki e Angelo Romano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014, pp. 61-83.

31 Giulio Ferroni, Ariosto, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 361-362. «La luna del Furioso, oltre che i connotati di un fantastico di tipo lucianèo, presenta tratti inconfondibili di una cosmologia poetico-losoca installata nel vivo della cultura del Rinascimento» (Savarese, Lo spazio dell’«impostura», cit., p. 85).

32 Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993. Secondo Nicola Gardini, proprio in virtù, innanzi tutto, di questo canto XXIV, l’Orlando furioso è «libro maggiore del Rinascimento, summa di un secolo e più di cultura umanistica» (Nicola Gardini, Rinascimento, Torino, Einaudi, 2010, p. 83), perché sostanza principale del Rinascimento, secondo questo appassionato libro, è «l’amore per le tracce del tempo andato» (p. XI), e quindi l’«amore per l’antico e per la storia» ma anche il «pensiero del finito, dell’irrevocabile, dell’irrimediabile» (p. XI); la contemplazione del divenire e lo sforzo di comprenderlo.

33 Corsani, L’Apocalisse e l’apocalittica del Nuovo Testamento, cit., p. 68.

34 Per una lettura «satirica» del poema, tenere conto delle osservazioni di Bruscagli: «una tematica “satirica”, per dir così, ha luogo [...] nel poema, e con modi, accenti, inessioni di stile aini al dettato posteriore delle Satire, che in qualche modo anticipa – ma dislocata su quel piano ulteriore della narrazione ariostesca che sono le novelle in romanzo –. [...] non alla morale dei proemi, ma a quella delle novelle appartiene la materia più aine alla tematica più caratteristicamente amorosa della Satire. Come a dire che esiste certamente la strada che dal poema porta alla scrittura satirica: ma con interruzioni, deviazioni e discontinuità, in un giuoco di corrispondenze, ma anche di asimmetrie che rendono la persona dell’Ariosto morale assai più sfumata e cangiante di quanto la sola stagione del 1517-1525 possa dimostrare» (Riccardo Bruscagli, Ariosto morale dal «Furioso» del ’16 alle «Satire», in Id., Studi cavallereschi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003, pp. 102-117).

35 Cfr. anche Valentina Prosperi, Omero scontto. Ricerche sul mito di Troia dall’Antichità al Rinascimento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013, sulle versioni alternative della guerra di Troia, diuse nel Rinascimento: Diario della guerra di Troia di Ditti Cretese, Storia della caduta di Troia di Darete Frigio.

36 Bigi, p. 1146.

37 Ferroni, Ariosto, cit., p. 365

38 Ibid., p. 367.

39 Hempfer, Letture discrepanti, cit., p. 221.

40 Ferroni, Ariosto, cit., p. 367.

41 Cit. da Hempfer, Letture discrepanti, cit., p. 222.

42 Ibid., p. 181.

43 «Per questa nozione così smaliziata e paradossale della scrittura si può rinviare alla lezione dei vari classici del paradosso, come Luciano, o più direttamente ad una pagina del De varietate fortunae di Poggio Bracciolini sulla falsicazione della storia; e può essere interessante un confronto con il modo in cui Folengo, nella conclusione del Baldus, mette in scena la menzogna della poesia» (Ferroni, Ariosto, cit., p. 368).

44 Cfr. Fragnito, Intorno alla «religione» dell’Ariosto, cit., che aggiunge in nota: «Il parere sull’Orlando Furioso, esaminato insieme con le Rime e con i Trion del Petrarca, alla Divina Commedia di Dante e al De partu Virginis del Sannazaro, è conservato in BAV, Vat. lat. 6149, . 141r-146v e 148r-150r». Maria Antonietta Passarelli, Petrarca «scelestus auctor» in una censura (non più anonima) di Gabriele Barri (ms. Vat. lat. 6149, . 142r-150v), «Critica del testo», VI (2003), pp. 177-220 attribuisce le censure a Gabriele Barri, autore di un trattato Pro lingua latina che già nel 1554 chiedeva una rigorosa censura della poesia volgare. Cfr. ora anche Jennifer Helm, Poetry and Censorship in Counter-Reformation Italy, Leiden, Brill, 2015.

45 Fragnito, Intorno alla «religione» dell’Ariosto, cit., p. 318.

46 Ibid., p. 319n.

47 Marco Praloran, Temporalità e tecniche narrative, in Id., Tempo e azione nell’«Orlando furioso», Firenze, Olschki, 1999, pp. 1-55, a p. 51.